(Tratto dal secondo Capitolo). Le antiche fonti letterarie sono concordi nel porre in rilievo il contribuito dei Frigi alla cultura classica dell’occidente nei campi della musica e della religione. Cibele è la Demetra frigia e Strabone, che era nato in Anatolia in epoca romana, ci testimonia l’assorbimento del suo culto da parte dei Paflagoni. Il paesaggio dell’altopiano anatolico è coperto di colli ondulati che vanno ad occupare l’orizzonte imprimendo la forte presenza dell’elemento terra, ove la dolcezza e la rotondità dei profili collinosi non può non evocare l’espressione femminea del divino. Il culto di Cibele aveva fama in effetti di contenere pratiche orgiastiche; non c’è però nessuna prova circa l’uso del sesso nei suoi rituali, anche se al tempo dei Paflagoni evidentemente le forze della generazione detenevano il primato sugli altri valori.

Dea creatrice che ha dato origine all’intero universo senza bisogno di intervento maschile, vergine inviolata e tuttavia madre degli dei. La grande dea anatolica si manifestava nella dura sostanza della roccia e si riteneva fosse caduta dal cielo sotto forma di una Pietra nera. Cibele esigeva s’incidesse il marmo con svariati fregi e solchi quale atto per ridestare l’insita sua presenza. Santuari imponenti le venivano dedicati in posti inaccessibili, ricavandoli nelle pareti a picco mille metri sul mare. Il suo misterioso culto ctonio era praticato nelle fenditure della montagna, entro nicchie e gallerie. Talora l’apertura era un lontano punto visibile su un dirupo, tal altra corrispondeva al punto più alto di un’acropoli: era l’ingresso a tunnels scavati interamente nella roccia con gradinate discendenti nelle viscere della montagna, ad andamento elicoidale e senza sbocco.

Ieratica in trono, Cibele riceve gli omaggi delle processioni che avanzano al ritmo frenetico di timpani, cembali, flauti e tamburi. Porta sul capo un ornamento cilindrico (polos), di solito a forma turrita; è coperta da un velo o da un mantello, regge uno specchio nella mano e, sette volte su dieci, possiede una melagrana. Come Demetra, impugna le spighe d’orzo la cui Claviceps purpurea forniva la bevanda allucinogena.

Il leone è il veicolo Cibele ed immancabilmente lo troviamo ai suoi piedi. Anche nei bassorilievi della corrispondente dea ittita (Kubaba) compare un leone ai piedi del trono. Non solo in Anatolia: nel 1200 a.C. l’iconografia di una donna nuda in equilibrio sulla schiena del leone era presente in una vasta area del bacino mediterraneo orientale che interessava Assiri (Ishtar), Fenici (Astarte) ed Egiziani (Quadesh). La criniera del leone e le sue fauci spalancate sono l’emblema del pube femminile. Solo più tardi, quando le società patriarcali hanno sviluppato concezioni misogine, nel pelo leonino è stata proiettata l’immagine raggiata della corona solare. Non deve stupirci la banalità dell’attribuzione sessuale, l’idea dell’antro genitale femminile è insita nel nome stesso di Cibele (cubela), che significa grotta. Bisogna considerare che in Cibele c’è la continuità con le semplici concezioni religiose dell’uomo del neolitico e che in Anatolia, già nel 6.000 a. C., la grande dea veniva rappresentata seduta in trono fra due leonesse.

La riscoperta del significato originario ci consente di spiegare, senza ironia, l’effetto ipnotico ed il segreto potere di seduzione che ebbe il vessillo marciano nel trascinare le folle dei popolani veneti (i nobili avevano invece per emblema i loro blasoni). ENTRA