La prima volta che ho incontrato Tatiano erano le 3 del mattino, e stavo
come al solito servendo al bancone di quella squallida pasticceria in cui
passavo tristemente la mia esistenza monotona e abulica. In quel momento
mi provavo a dormire in piedi, con la fronte appoggiata al muro, giacché,
se mi fossi seduta anche un solo istante, Roby, l’orribile botolo nascosto
sotto la bacheca delle babettes, avrebbe incominciato ad abbaiare
e dopo poco sarebbe sceso il padrone armato di impudenza e ferocia e mi
avrebbe punito per la mia fiacca. In quell’atroce dormiveglia sentii una
macchina fermarsi morbidamente, e poi una ragazzetta tutta paonazza e scarmigliata
che apriva la sudicia porta a vetri, ed ecco che entra. Non fu tanto il
suo abbigliamento a colpirmi – babbucce in fibra d’oro con zaffìri
incastonati, pigiama di seta cinese con fantasie illustranti babbuini guerrieri
che smestolano due eremiti, vestaglia di cachemire color sangue
di bue ed un foulard di bisso celestino attorno al collo – no, non
fu tanto quello quanto il suo sguardo: iniettato di sangue, assonnatissimo,
assente, in una parola assassino. Non guardava nulla di preciso, eppure
tutta la miserabile botteguccia sembrava eccitarsi ed anelare ad essere
toccata dai raggi promananti da quelle pupille sovrumane; e quando indicò
sgarbatamente il ripiano delle brioches, mi precipitai seduta stante
a servirgliene tre, sfoggiando anche il mio più seducente sorriso.
Ancora non avevo intuito quanto Tatiano avrebbe cambiato la mia vita, però
cominciai ad averne il sentore quando Lui sussurrò seccato e sprezzante:
“Tutto il ripiano e anche quelle in magazzino.” Vinsi lo stupore in un
attimo, e gli andai a porre su un tavolino l'intero rifornimento di paste
per il giorno dopo: saranno stati dieci chili. La ragazzetta che gli aveva
aperto la porta se ne stava intanto immobile in un angolo, con gli occhi
stillanti lagrime di felicità e le mani giunte in un gesto di orgoglio
e speranza. Lui si avvicinò al cumulo, afferrò lentamente
e svogliatamente un croissant, lo sbocconcellò appena con
espressione di rassegnazione e disgusto stampata sul volto, poi ribaltò
il tavolo e disse alla Sua accompagnatrice: “Paga.” Indi se ne uscì
senza rispondere al mio saluto e si riposizionò in macchina dal
lato del passeggero. “Quanto viene tutto, tavolo compreso?” “Sono seicentotrentamilalire…”
“Cambiali ne prendete?” “Certo, firmi qua… ma, senta, in confidenza… chi
è quel manzo imperiale?” Un sospiro. Poi, con voce tenera e sommessa:
“Ma… non lo conosci? E’ Tatiano, il leader dei Maracaibo!”
Con la vita da reclusa che conducevo, erano anni ormai che non guardavo
più la televisione o ascoltavo la radio. A leggere, poi, non avevo
mai imparato: ancora non conoscevo il detto di Tatiano secondo cui una
donna istruita è simile a un cane che va in bicicletta, ma un elementare
istinto di sopravvivenza (nonché il richiamo ineludibile della cometa
Cocotte) mi aveva sempre stornato dall’imparare persino a leggere e scrivere,
ad apprendere quelle arti con le quali i genitori ci asserviscono ed instillano
in noi il germe della corruzione per il quale un giorno ci trasformeremo
in matrone. Fin dalla prima elementare avevo sempre fatto forca, persino
nei giorni di vacanza; arrivata a 17 anni in seconda media (in seguito
ad atti vergognosi di corruzione e nepotismo perpetrati dai miei), mi ero
poi decisa a fuggire di casa e ad impiegarmi presso la pasticceria, consapevole
che anche le angherie del padrone e gli spregi di Roby erano migliori di
quei falsi valori che mi volevano inculcare a dispetto della mia più
intima natura.
Rimasi a bocca aperta. “Maracaibo? Che roba sono?” “Il gruppo musicale
del momento!” “Ma cioè suonano?” “Ma che domande, sciocchina, certo
che no! Sono belli ed emettono Amore, ecco quello che fanno!” “E come posso
fare per incontrarlo di nuovo?” Aveva appena cominciato a rispondermi quando
la porta si riaprì ed entrò Tatiano, che, scuro in volto,
sibilò alla sua accompagnatrice: “Chiamami una limousine
col tuo cellulare, torno con quella.” Immediatamente la poverina si riempì
di tristezza. “Tat… Tatiano… perché non torni con me?” “Mentre te
tu eri impegnata a far salottino con la sguattera, nella tua stolida insipienza,
le brioches mi hanno gaudiosamente sciolto il corpo e non ho avuto
altro scelta che evacuarti in macchina. Naturalmente c’è un sito
non ci si sta. Sbrigati a chiamare la limousine sennò guai
a te.” E così dicendo, contemporaneamente, m’uscì dal negozio
e m’entrò nel cuore.
Passò un mese febbrile, nel quale sperperai i miei miseri risparmi
facendo incetta di Cioè, Top Girl, Ragazzina Oggi
ed Eva 3000. Guardando le figure di quei libri riuscii a focalizzare
meglio l’essenza di Tatiano e dei suoi sodali. Lui era ovviamente un evergeta,
un essere stellare venuto per infrangere le catene di noi ragazzine e sbeffeggiare
i vecchi e i genitori; e poi c’era Guapo, con il quale aveva comunanza
d’intenti e acido ribonucleico, e doveva essere quello che consentiva ad
entrambi di fare miracoli e guarire l’anima. Poi c’erano gli altri, autentici
paladini burberi e scostanti come Santiago e Cucurrucho, menestrelli sensibili
e appassionati come Mezcal, poi il sublime ballerino, Borracho, contemplando
una foto del quale improvvisai mi trovai a conoscere il teorema di Pitagora,
Vidal nella sua pignoleria conturbante, Ramiro con i suoi giochi di prestigio
e l’abilità nell’idraulica, Loco infine che solo per non contare
un cece si meritava tutto il mio affetto. Quante notti ho passato uggiolando
sdraiata sul megaposter di Tatiano allegato a ciascun numero di Top
Girl! Quante ore nuda davanti allo specchio, domandandomi trepida:
“Sarò abbastanza bella per Guapo?” E quante mattinate passate a
far giochi cretini con l’acqua, allagando il bagno ed intasando il bidet,
per poi contemplare tutto con inquietudine pensando: “Ramiro sarebbe fiero
di me?” Quando mi fui preparata per bene, cominciai anche ad ascoltare
la radio, inebriandomi nei suoni celesti di “Nàcchere dentro di
te” ed iniziandomi alla poesia proprio tramite la meditazione del suo testo.
Arrivò infine il gran giorno: radio Subasio metteva in palio un
biglietto per il concerto dei Maracaibo in programma a Cireglio Marittima,
se uno rispondeva bene a una domanda sulla dottrina del gruppo. Il padrone
non voleva che io usassi il telefono, pertanto dovetti ammorbidire il rigore
di Roby tramite accorte manipolazioni, talché, quando infine crollò
addormentato, ebbi finalmente campo libero. Riuscii a prendere la linea…
mi domandarono il tetrafarmaco di Tatiano. Respirai profondamente, chiusi
gli occhi e ripetei devotamente:
Avevo detto bene? Mi ero ricordata tutto? “Complimenti! Il biglietto
è tuo!” Completamente pazza di gioia, rimasi per ore a fissare la
parete inebetita, insensibile anche agli spregi di Roby che si era ripreso
e pretendeva la seconda razione. Tatiano, stavo arrivando!
Mi ero informata bene. Già mezz’ora prima della fine del concerto
ero uscita con circospezione dal PalaGattinoni, piazzandomi davanti alla
porticina seminascosta per la quale poco dopo le fans sarebbero state ammesse
alla Conoscenza dei Membri del Gruppo. Finì l’ultima canzone (“Nàcchere
dentro di te” ripetuta per la decima volta in quella sera), sentii il silenzio
che accompagnava il mimo di Borracho e poi lo scoppio di applausi isterici,
infine Tatiano in persona dichiarò chiusa la liturgia della parola
e proclamò l’inizio delle gallate. Sentii un fracasso tremendo,
come una mandria di bufali lanciati al galoppo nella prateria, e difatti
una torma di ragazzine mi si accodò, strepitando e cercando di soverchiarsi
a vicenda con gomitate, calci e graffi. Era una bellissima serata, ma all’improvviso,
proprio sullo spiazzo dov’eravamo radunate, si mise a piovere a dirotto.
Tutte gridammo subito al miracolo. Passò Cucurrucho a requisirci
gli abiti pesanti, senza motivare il gesto. Rimasi per mezz’ora sotto l’acqua,
inzuppata fino al midollo… e proprio perché ero vicinissima alla
porticina, ebbi il privilegio di sentire la voce soave di Guapo che strillava
queste parole arcane: “Mezcal, ora chiudilo l’idrante ché mézze
come sono si dovrebbe vedé bene come son fatte sotto!” E subito
la natura obbedì all’Incanto e la pioggia cessò. Si accese
un riflettore potentissimo, e Vidal, salito su un’impalcatura, si mise
a scrutarci con un binocolo lanciando ordini con un altoparlante: “Ecco,
la mora con la maglia a righe e quella accanto in minigonna... sì,
voi, levatevi pure di culo che non se n’ha bisogno… Anche la rossa con
la coda di cavallo e i tacchi a spillo veda di sciolare… Ma te con gli
occhiali e il caschetto marrone sei un fungo o una donna? Ma quanto sei
alta, un metro e trenta?! Vai a letto e copriti, vai, tegame!” Dopo un
quarto d’ora eravamo rimaste circa in cinquanta. Il riflettore si spense,
la porticina si aprì ed entrai, col cuore in gola e le mani sudate.
Nella stanza, totalmente spoglia, c’erano solo una scrivania, un telefono
e Santiago. Mi guardò con aria tra l’annoiato e il disgustato, esaminò
la mia patente, chiuse gli occhi. Li riaprì quasi subito, e notai
che in essi brillava come una fiamma nuova, un ovvio interesse nei miei
confronti. Mi fece cenno di stare zitta, e poi lentissimamente si alzò,
e cominciò ad avvicinarmisi in punta di piedi, cautissimo, sempre
accennandomi di tacere. Quando mi fu davanti si irrigidì un attimo,
fissò con lo sguardo qualcosa alle mie spalle e poi lasciò
partire un cinquale da quaranta chili che mi girò la testa dall’altra
parte. Poi ritornò trotterellando alla scrivania, mi sorrise e spiegò
che mi aveva salvata da un serpente velenoso che si stava calando dal soffitto.
Io, tra i singhiozzi, lì per lì non ebbi la forza di replicare
nulla. Allora il suo sorriso si smorzò un po’ e, con tono bonario
e paterno, mi ricordò che la buona creanza esigeva che lo ringraziassi
per il suo eroismo, “altrimenti – soggiunse – temo che di quel serpente
arriverà presto anche il fratello.” Feci come aveva detto e lui
mi allungò un bon-bon indicando alternativamente quello e
se stesso. Aveva un sapore strano. “Ti piace? E’ alla ribollita!” Me ne
dichiarai entusiasta (e lo ero). Poi mi dette una pacca sulla spalla e
fece per accompagnarmi alla porta. “Santiago, scusa… ma io…” “Oh, che distratto!
La gallata, è vero! Chi ti piace?” “Tatiano.” Prese il telefono
e si mise in contatto con lo stanzino del leader. “Dice che al momento
ce n’ha già tre che si sono insinuate dal palcoscenico… e Guapo
– soggiunse prevenendo la mia richiesta – ne deve finire due dell’altra
volta.” Si rivelarono già occupati, nell’ordine, anche Borracho,
Ramiro, Mezcal, Vidal e lo stesso Santiago, che – come si premurò
di farmi notare – aveva una ragazzina sotto la scrivania. “Ci sarebbe libero,
tanto per cambiare, Loco. Per di là e terzo stanzino a sinistra,
avvìati pure.” Abbracciai Santiago offrendogli il posteriore alla
palpata, e poi varcai la tenda che mi separava dal Paradiso.