Un uomo per tutte le stagioni


È un pomeriggio d'estate come tanti: placido, senza vento. In un giardino sotto una quercia frondosa un gruppo d'uomini osserva scorrere il Tamigi. Fra di essi un uomo dallo sguardo profondo, i capelli candidi e il volto teso: sa che colui che sta aspettando farà per l'ennesima volta una richiesta e che non potrà essere accontentato; non può rifiutare, anche se così facendo rovinerà se stesso e la sua famiglia.
Questa è una delle scene più belle del film del regista statunitense Fred Zinnerman, "Un uomo per tutte le stagioni". L'estate è quella del 1532. Il nostro uomo è Thomas More che attende il re Enrico che gli chiederà di riconoscere l'invalidità del suo primo matrimonio come segno di fedeltà.
More non cederà e, come previsto, perderà onori, ricchezze e nel 1532, la vita. Che cosa ha oggi da insegnare quest'uomo del Cinquecento ancora digiuno da quel machiavellismo e da quel cerchibottismo (termine più in voga), virtù tanto decantate -e per molti "etiche"- nelle arene italiche?
Molto, moltissimo. Non a caso il "nostro" Cossiga al Congresso di Roma lo ha ricordato e invocato come protettore: Thomas More, santo della Chiesa Cattolica. Il giovane More ebbe una formazione giuridica: il padre avvocato lo voleva al "bar", a patrocinare e Thomas, ubbidiente, concluse sollecito gli studi. Nei ritagli di tempo, però, la sua segreta passione per i classici e per i rivoluzionari scrittori umanisti lo assorbiva completamente; così nacquero la sua famosa ironia e prontezza di parola e la sua grand'eloquenza ma più ancora il suo universalismo, che tanto ce lo fece amare.
La sua grande preparazione gli fece scalare le gerarchie della politica e della burocrazia. Ma More aveva qualcosa in più: era un uomo integerrimo ed incorruttibile -qualità tanto più apprezzata in periodo in cui la faceva da padrone il Cardinal Wolsey, probabilmente l'uomo più corrotto della storia - ed era di una scaltrezza impareggiabile - per questo soprannominato "l'uomo per tutte le stagioni".
Poco più che quarantenne assurse alla carica più prestigiosa del regno di Inghilterra: Lord Cancelliere (una specie di Primo Ministro- giudice supremo).
Tanto Disse e tanto fece che non solo conquistò la fiducia e l'amicizia del diffidente Enrico VIII, ma governò il regno con tanta saggezza da renderlo uno dei più prosperosi e potenti dell'epoca senza sparare neanche un colpo di cannone.
Ma non tutto More poteva controllare.
Il fatto di voler divorziare dalla sua prima moglie Caterina d'Aragona (la prima di una lunga serie) nonostante l'opposizione papale diede al re il pretesto per affermare attraverso lo scisma l'assoluta indipendenza della Corona da ogni altro potere. Fu l'inizio di una deriva autoritaria che condusse nel XVII secolo alla sanguinosa rivoluzione Puritana. Un "Parigi val bene una messa" al contrari , insomma.
More si oppose e per dimostrarlo si rifiutò di riconoscere il divorzio e la nuova regina Anna Bolena. Non avrebbe mai potuto riconoscere il bieco volere di un principe, pronto a tutto, come guida morale. Serenamente affrontò il carcere, il processo farsa, il boia; con la stessa serenità aveva scritto "Uthopia", il meraviglioso, libro di satira dei costumi corrotti di questo mondo contrapposti all'armonia di un'isola immaginaria: il suo testamento politico.
E con serenità aveva affrontato il suo servizio in politica, senza mai perdere lo slancio ideale e intellettuale della giovinezza. Insomma: un vero modello da seguire. Ma pensandoci bene: studi giuridici, carriera politica, onestà, grande ironia ed eloquio, modo nuovo di fare politica, picconate contro le vecchie istituzioni, lotta contro il potere egemonizzante. Ma non, non può essere che una coincidenza. O no?

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