Parole scritte sull'erba

 


Marcello Menni


Visione


Sorge la luna rossastra
sul mare velato di scuro;
nel bosco s'allungano grigi
i rami di querce frondose;
sospira la casa socchiusa:
un'ultima luce scintilla,
un letto di stelle accoglie
quell'unico occhio che brilla.

Nel letto di bianco crinito
Non riesce a prendere sonno:
una voce lo scuote, nel vento,
socchiusa fra labbra frementi
d'un giardino che cala dal colle
sui palazzi del porto dormienti.
Un brivido solo, una mano
Bianchissima passa piano.

Il fiume di Democrito


Le partenze seguono partenze,
all'arrivo si aggiunge l'arrivo
e l'uomo si volta trascinato.
La corrente è più forte anche oggi
e le deboli braccia turbinano
a vuoto nei gorghi del non essere.
Appigli fugaci non fanno
che lacerare profondo lo strappo
imminente: un volto
da una finestra e musiche del tempo
che fu
accompagnano la caduta.
Fuge quaereret


Il tuo occhi si allungò
Coperto da teneri trucchi:
ma che è un occhio
visto un giorno?
Un giorno, e la carne
cade marcia la suo
Destino di macello.
Il tuo occhio socchiuso,
ormai sazio di sole…
Io dimentico di che sei fatta
E guardo che fuggi:
ma di che colore è il tuo occhio?
La fine del millennio


Il nostro petto
si schiaccia sotto,
sotto un'afa soffocante:
è la fine del secolo che muore.
E con lui i suoi
sepolti miti, le sue
folli illusioni.
Il vuoto nulla riempie
le menti di noi, che
non sappiamo né
vogliamo sapere la strada.
Sicuri non si sarà mai:
le tenui illusioni del
mondo non rendono
la fossa che più incomprensibile.

 


Culax



Le zanzare ronzano
Nervose nell'aria
Salmastra di uno strano
Settembre. Divorano
Quel poco d'aria
che ci è rimasta
girando vorticose.
E tutto si ripete
Perché ogni cosa è
sempre la stessa.
E tutto si disintegra
in un banchetto
di sangue
che non ha termine.

 


Il papiro di Alessandria I



Amico Orazio, di Roma
anima. Leggero, flebile,
turgido ed elegante.
La collina verdastra
Nasconde la torre
Delle tue umili feste,
le feste dell'anima.
Il Soratte è bianco
E il fuoco si arde,
e nel frattempo si
spegne l'ardore
di una giovinezza
inutile. Meglio
assai affogare nel
vino di una mensa
allegra al suono
lontano
di una nenia di eroi e
regine.
Meglio assai
che uccidere
la fantasia e l'ardore
in lotte senza confini
di cieli e terre.
Il nemico non è a Farsalo
Ma a Roma; più vicino,
nel vecchio podere di
Mecenate. Ed è pronto
a rompere quella pace
rubata da un uomo
senza padre. Chi si
controlla è una corda
di cetra, suona il
suo canto sublime
ma è pronto a spezzarsi
in un canto di rabbia
che soffoca il mondo.
E fiuta la calma
ed il guastatore
è la mano sinistra
nemica della destra
amica dell'arte.
La notte cala
E le fronde si
scuotono al vento
d'autunno. E il
mare comincia
a infrangersi
sulle scogliere:
questa volta i mantelli
ed il Mareotico
e la legna del fuoco
non ci eviteranno
gli spruzzi e
i gorghi senza
fondo:
Ma l'alba è
vicina e
un'ultima
rosa sboccia
fra le foglie cadute.
Dimentichiamo,
non dilaniamoci
prima del supplizio.

 


Il papiro di Alessandria II




In Bitinia siamo
giunti: e L'Asia
ci si apre di fronte.
La solitudine
di Roma non è nulla
se mai si esce dai
suoi colli fioriti.
Le matrone si irrigidiscono
in queste province e
ridiventano come
le sorelle di Catone.
E la dolcezza dei baci dei portici si
spegne in notti
lunari piene di pensieri.
Portate le vostre
amanti a Sirmione
ed esse fuggiranno
come sono fuggite da me
quando hanno visto
nei miei occhi
le tempeste del mio
lago, i monti
nevosi delle mie
sponde, la solitudine
dei miei villaggi.
Perché non si
sciolgono i ghiacci
del mio Nord?
Perché il caldo
della Libia, secco,
come di un'oasi
non riscalda
il mio cuore e
riempie le mie
labbra del riso
incontenibile
che conquista il mondo
e le vesti ricamate?
La risposta sta
in quell'Arianna
abbandonata a
Nasso. Il mio amore
traditore l'amica mia
da cui sogno
miliardi di baci
si siede nel banchetto
di fronte a me ed è
lontana più degli Etiopi.
L'ara di Giunone è
la sua vita e il fuso
della Roma dei potenti
fila come Aracne:
gioisci, mia
carnefice, gioisci
o sei triste come
l'occhio tuo denuncia?

 


Il Papiro di Alessandria III




Vedevo dagli
spiragli della Biblioteca
la linea rossa del sole e del mare.
La città caotica mi soffocava
E io mi ritirai
Coi libri in
Un lavoro che i mille
secoli passati non sarebbero
riusciti a portare a termine.
Fra la polvere
svolgevo i papiri
e sognavo i porti
lontani richiamati
dal suono delle nude
parole. E di notte
gli dei mi concedevano
il sonno senza fantasmi
perché non c'erano paure
fra le dottrine degli uomini
Ma una notte che avevo
consumato con le parole
il mio Omero, caddi
in un sonno affannoso.
Ed Ermete mi disse
che un terribile rogo
era scoppiato
e la mia vita stava
sciogliendosi come
la cera delle api
al sole d'agosto.
Il sudore mi prese ma
l'unica luce su
Alessandria la spargeva
il grande faro sul porto.
Il mattino colorava i
papiri, tanti che non li avrei
mai potuti leggere,
di rosa ed essi mi
apparvero coi volumi
così terribile e fragili.
Fu allora
che cominciai
a viaggiare lontano
con la mente
e fra Omero e un Luciano
immaginavo
la vecchia Argo
risalpare
decrepita
dalla Grecia
e prendere il vento
verso la Colchide.
Giasone ed Eracle
Mi furono compagni,
e il Vello il letto
di morte.

Sogni Spaziali




Andromeda era
Vicina e la Stella
Polare occhieggiava
Da dietro la
Luna intagliata
Nel letto stellare.

Gli amanti abbracciati
Sussultarono sotto
Le coltri nuziali,
il cane ubriaco
ciondolò e cadde in
un delirio d'Arianna
la coronata.

Il carcerato da
Dietro le sbarre
Fuggì sulle ali
Di Pegaso e
La donna sotto
Il lampione fu
Raccolta dalle
Spire dell'Idra.

Tutte le luci della
Città, tutti i fuochi
Degli antri dei giganti
Del progresso, furono
Spenti, per un
Attimo.

E il mondo trattenne
Il respiro vedendo
Un passato in cui
Correre fra le stelle
Non era un mestiere
da cosmonauta
ma da uomo.
Gli dei dei tempi
Andati sfrecciarono
ancora per il cielo
e la pace degli
Olimpi azzittì
La natura: Marte
Rossastra e l'azzurro
Saturno.

IL silenzio
Inghiotte e così
Pure la Via
Lattea; ma
Il mondo si riaccende
E una luce
Senza fine inonda
La misteriosa oscurità
D'uno sfondo che
è di gemme
ubriaco.

E fra una notte
Che non è notte
E un giorno
Che non è giorno
Consumo la vita.
Presto la luna
Tramonterà ad Oriente
E Mercurio annuncerà
Un giorno grigio,
incantevole brillante
abbandono.
I cieli scoperti



L'occhio pulsante
Del cielo ha
Battuto le palpebre
Molte volte, sulla mia vita:
ed è stata notte
ed è stato giorno.

La primavera
Grigiastra e spenta
Ha accompagnato
L'angoscia nascente
Di una nuova vita:
e fu morte
ed ora è dolore.
La pioggia battente
Ha accecato
Coloro che aspettavano
Le eclissi e i
Chiaro di luna.

La terra gemeva
Trafitta dalla
Tenera erba, dal
Morbido grano
E gli alberi erano
Invasi dalla
Nausea di una
Linfa che dilatava
Gli antichi tronchi.

Poi l'estate
È venuta:
l'arido andare
e venire di giorni
identici e di
notti identiche,
affocate da un
sole polare e dalle
luci di una
città impazzita
per una vita che
non meritava.

Poi nulla più:
il vento prima
caldo poi gelido
come le vette e
le profondità
ha divorato l'arsura
in una guerra
di rami impazziti,
in uno slancio
di vita e di sibili,
fra le grondaie
e i prati soffici
degli effluvi
d'autunno.
Fra le fronde,
Sovrabbondanti,
D'un anno
Passato il sole
Fa capolino,
discreto all'imbrunire,
gli ultimi frutti.
E i cieli si fanno
Scarlatti e
Velati di macramè
Celesti, e crochi e
Viole ed amarillidi
Vi si accumulano
Formando fiumi di
Fuoco, mura invalicabili
Ed orizzonti fallaci.

Tutto finirà e
Le pareti di una
Stanza e il suo soffitto inespressivo
Saranno tutt'uno con
Il cielo
D'inverno
Che è piombo
Sempre.
L'ombra cala




Forse è meglio non resistere
E lasciarsi cullare
Nel mare di nebbie.
Una piatta campagna
E un tramonto incorniciato
Non fanno che acuire
Il vuoto e la colpa.
E lo scampo non viene,
e non viene la mano
tanto attesa.
E la vita continua
Trascinandomi nel
Nel suo fiume irto di pietre
Aguzze….
Si vouz plait (sic)


La vestaglia rossa mi sbircia
Dalla parete;
sempre meglio di un volto,
dalla finestra.
Il malessere non cessa
E l'orologio
Arranca nel battere
Il tempo.

Ora basta! E la voce
Non esce.
Forse è meglio così,
il silenzio.
Rien



La carta si sciupa:
e per colpa mia
una Amazzonia muore.
Le mie pagine scendono
Da Manaus e attraversano
L'Atlantico tempestoso
Per poi appollaiarsi
Sul mio letto dove
le imbratto.
Lo faccio per non
esplodere, regolatezza
e mancanza di genio.
Lacrime di inchiostro
Più copiose di quelle del
Vecchio amico, coccodrillo
di Zenone.
La pagina si riempie
Ed è subito sotterrata:
felice destino per i posteri
un piatto agrodolce per me.

Imbarazzante, come il
Baule di Pessoa, il mio scatolone
Azzurro - niente da nascondere
Per carità, da bravo figliolo!-
Ma una vita inspiegabile, multipla
Ed unica, sorretta da
una sola moltitudine di sofferenza.
Spero che il punto venga in fretta,
senza danno.
Questo è tutto



Il sapor di melagrana
Sulle labbra secche
D'un infinito inverno,
aspro s'insinua, nelle
fibre stravolte di ricordi.
Sanguina l'anima come
Un chicco spremuto.
Ora si è infranta
la placida scorza
d'autunno dipinto
d'illusioni. E una
chiostra purpurea
ci ricorda che
la carne si corrompe
se la risposta non
viene, se qualcuno
che oggi c'è ma è lontano
non chiama, con la
sua voce che non ha voce.
Intanto i rami secchi
Dell'alto cespuglio
Si agitano. Il vento
Caldo ci regala
Il brivido di una
Primavera, impossibile.
Il grande Olmo



I

Ho abbracciato
L'olmo in un
Oceano di stelle.
Il decrepito olmo
Steso immobile
Nelle ombre della sera.
Mi sussurrava
Qualcosa la sua
Corteccia muschiata:
mi suggeriva
qualcosa la sua
edera cadente.
E la brina scendeva,
infida amica
sui suoi rami
e io la sentivo
incresparsi in
cristalli brillanti
alla luce di Sirio.

II

I suoi rami spogli
Rabbrividirono,
ma fu solo un
momento. Un
cuculo si posò
sulla cresta indomita
dai venti e cantò
una ballata alla
notte alta e
oscura.
Un fruscio d'ali
E l'abbraccio
Si fece più stretto:
un momento
e la vita
fugge il vivente
addormentato.

III

Un sole bocciolo d'oro
L'olmo intravede e
Le sue cime vestite
Dal ghiaccio notturno
Sorridono all'alba
Malinconica.
Sbuffi di crine
Purpureo fra i
Lacci di nubi
Orientali e
L'abbraccio più caldo;
più calda l'ombra sul prato.
Lontano fra i cieli
Inondati d'azzurro
I monti si affacciano
Con gli artigli di
roccia, sulla pianura.

IV

Un bocciolo, verde
Si offre al passante
Nei rami più bassi.
E l'abbraccio si
Schiude. Le vesti
Odorose di boschi
Scomparsi, di anni
Passati, di ricordi
Sepolti sotto una
Spanna di muschio
Dorato. E il vento
Tiepido del Nord
Spazza ogni cosa
Sul brullo prato
Dove l'olmo
Stanco della notte
Riposa.
Crepuscolo



L'ombra si spande
E scende nell'anima.
Gli occhi spalancati,
le pupille dilatate
al crepitio di un suono
- immaginato?-
che si diffonde nel
vuoto. Si è solo
perché la solitudine
è pensare veramente
e soffrire con dignità.
Il mestiere di vivere
Si fa più duro
E l'ombra non si
Scioglie come il
Latte nel nero
Caffè della pausa.
Ancora un attimo




La città è un mostro
Addormentato, sempre
Lì, incuneato fra le sue
Incrostazioni di
cemento ed asfalto,
sferragliante, fumante.
Non si risveglierà
Perché il suo sonno
È l'incubo delle
sue pulci, abitanti
voraci ed inconsapevoli.
L'incubo ella fretta,
che sbatte, che urla,
che suona, che trilla,
che scintilla, che lampeggia,
che strappa, che insulta.
L'incubo della fame
Che supplica, che chiede,
che ruba, che si vende,
che insulta, che è ignorata,
che siede ad un angolo sola,
che scende nelle viscere,
che scanna nell'indifferenza.
L'incubo del dolore
Che singhiozza, che geme,
che si stende per terra
e lì si lascia dilaniare,
che non trova consolazione
e accende milioni di ceri
e consuma le ginocchia
e le orecchie di chi non
può ascoltare.

La città, re nero,
sogno sognato,
incubo realizzato,
mattino soleggiato
incupito da tempeste.
Sera primaverile
soffocata dall'eclisse.
Notte serena
Funestata dalla canicola.
La città, gigante turrito,
dalla chiostra lurida di
speranze maciullate,
dalle unghie incrinate
per l'incuria,
dai capelli unti e brillanti
come la triste notte senza fine.
La città, cane senza museruola,
zanne voraci, occhi assetati
di morte e di nutrimento.

Assassina di vite,
generatrice di comodi
automi che non si sentono
e non si guardano.
Immensa semisfera
Giallastra, stella ed
alba mancata ma
tramonto riuscito.
Dormire già



E ritorno al prato
Umido di nebbia,
canticchiando all'ombra
delle stelle.
Non ha senso
Chiedere spiegazione,
perché non capimmo.

E io ritorno all'albero
Imbrunito nel vento
della notte.
Che importa? Sogno e
Realtà sono stupidi
Entrambi.

Ed io ritorno a ciò
Che non sono mai
Stato, che non ho avuto,
mai ottenuto.
Forse il sonno
mi concederà un istante,
prima del risveglio:
ed io crederò di essere
un altro, anche se non
è così facile essere qualcuno,
che camminando
in un bosco si preoccuperà
soltanto del suo libro
in bozza sul tavolo di noce.
E dimenticando
Il reale anestetizzerà -forse-
L'orrore che scorre
Nelle vene.

Ed io ritorno:
tramonti ed albe
non valgono
un minuto della
luce dall'oblò
del sonno.



Le Colonne d'Ercole




Solitudine di un ciglio
D'un fiume;
Solitudine di un ciliegio
Fiorito;
Solitudine di un binario
Che scorre.
E le urla del silenzio
Di una maschera truccata
E consumata dal nulla.
E l'amarezza di un bicchiere
Lasciato pieno di lacrime.
Dal passato sorgono i Lari,
i ricordi sottili e falsi
ma dolci e segreti.
Ci salvano come cuscini
dalle morbide piume
di sogno.
La zattera di Medusa




Lo sciabordio del mare
Si confuse col lamento,
e la sete dei compagni
acuì la mia.
Le vele spigate furono strappate,
le vele che io tesi furono divorate
dall'Oceano che
non ha nome.
E i nostri nomi cominciammo
A scordare, perché a che vale
Ricordare il nome di un morto
Per chi lo è quasi.

Un Addio




Qualcosa si ruppe,
era scritto fra le foglie
di un autunno ventoso;
e l'anello che obnubila
i cuori si è incrinato.
L'illusione di cui
Ci si è nutriti per troppo
Tempo ha lasciato posto
Al solo grigio cielo
Della mia terra.
Ora aspetto che anche
Il resto delle zolle della
Mia vita si secchi.
E' solo una grande
Amarezza: cercare,
lottare, per poi vedersi
sfuggire ogni cosa.
Come noi




Vorrei parlare di un ibisco
Che fiorisce, scarlatto, in una
Piazza piastrellata di specchi.
E di un luogo tranquillo
Dove i santi riposano e le
Candele si consumano
nella fresca terra.
Vorrei parlare di un giardino
In cui giocano i fantasmi
Di un impero della ragione decapitato.
E di una Gorgone
di pietra,
che ancora oggi paralizza
i miei sogni.
Vorrei, ma Milano
Incombe sulla nostra vita,
contraddizione fra contraddizioni,
come noi.


E i fiori di pesco
Abbandonarono la
Scura pelle per riversarsi
Sul selciato: una
Fuga senza significato.


E la finestra sul
Pontile segnò i miei
Anni e le mie cose,
teso nell'acqua
cangiante e rotta
come l'anima.
Dalla calda villa dell'agave
All'infinita mutevolezza
Dell'ignoto arcobaleno.


L'acero




Meglio aspettare che
L'acero
Germogli. E gli uccelli
Del cielo ritornino a
Cantare nell'antico
Giardino settentrionale.
Forse un giorno la brina
Che increspa la tenue
Erba si ritirerà sotto
L'ombra di un sole
Invitto. O la pioggia
Di una tempesta ne laverà
il pallore senza
speranza.
Meglio aspettare e attendere
La fine che è l'inizio
E sperare ciò che è senza speranza.
Le visioni dell'eclissi



I

La terra tutta attende
Il responso degli astri.
Freme il cuore dell'uomo
Fra gli abissi di perdizione
E di meraviglia.
Si culla nelle speranze e i
Tremori della fine del
Rosario degli anni insanguinati.
Nemmeno più sogna
Il terzo e più terribile.
L'amaro calice
È bastato all'umanità
Impenitente.

II

Abbandonati i volti per le
Immagini elettroniche,
anch'io ho cominciato
a cercare la mia impossibile
chimera nella rete senza maglie.

Ho scritto lettere
Senza mittente.
Ho scritto parole
di cui mi sono stupito.
Si può imparare ad amare
Attraverso la parola?
E attraverso la scritta
Rapida su uno schermo di vetro?

III

Come i deliranti millenaristi
Mi sono trovato in un alto
Convento vestito di boschi,
calmo di compiete e mattutini,
biancamente risuonanti come
le vesti dei frati, barbuti.
Ho sentito la gioia,
comunione sorgente,
parole senza confine
di luogo. E volti
umani fra uomini che
non si voltano fra le strette
strade della Toscana.

IV

Ho guidato a lungo
per le strade senza
fine, per giungere dove
non sono giunto, nelle
campagne più strane.
Nevrosi grondanti sui tergicristalli
Dei nostri discorsi.
E ho evitato incidenti
Su per le basse colline
Di una estate che
Mi sembra una vita.

IVB

E siamo infine giunti
Al sorgere della luna,
calda con la sua rete
di erbe falciate e
splendori di vomeri.
Su di un dolce colle
Di cipressi sormontati
Dal dito umile di
Un campanile:
il bosco luminoso
di spettri e di
coppie di amanti
si apriva nello
sbadiglio di un
casale
di pietre
e finestre, severe.
Giovani mi accolsero
Scostanti, ospite di
Una partita a carte,
e mi trascinarono
in gorghi di cucine
e disordini senza
disordine.
Poi vidi lei,
avvolta di spugna,
armata dei suoi corti
capelli bagnati,
sorridere attraverso
le porte socchiuse.
La lunga tavola
Apparecchiata
Sul serale nulla, infinito.

V

Mi sedetti cercando di
Assaporare quel balzo
Nel caldo azzurro
Della notte, ma nella
Luna sorgente lei, al
fondo del tavolo, vicina
al suo amante, gioiosa.
Mi finsi estraneo,
con discorsi di alta
diplomazia.
Finché lei venne a salutarmi
E capì che lei era la mia
quinta musa. La mia
irraggiungibile follia.

VI

Dopo il caffè della
Partenza, affogato
Negli addii sonnolenti,
l'abbracciai come fra
fratelli si abbraccia,
naturalmente.
Anima mia…
Avrei voluto rimanere Lì,
ma lo stringere la mano
all'Altro mi rigettò nell'ansia
del viaggio e dell'ennesimo
distacco d'amore.
Erano quasi le nove,
e il lentisco odorava
fra i pini

VII

Amore all'ombra
Di una ragazza trovata,
per caso, troppo tardi.
Fu un gioco: se il mio
Cuore tremasse ancora,
se il mio pensiero potesse
impazzire!
Lei esile e bionda, come
La innamorata delle pièce
Di fine Ottocento.
Dolce come l'ingenuità
Dei suoi occhi buoni e
Gentili e decisi.
E giocai male
E così cominciai
a perdere i tesori
del mio petto fra
Baricco e un libro, regalato.
L'invitai: il teatro.
Aspettai io, aspettarono
Gli amici, sospesi
Delle promesse dei "mai più".
Non venne, mi telefonò,
"Per dimenticanza…".
Poi scoprì di lui, un
Uomo
Valente e tanto quanto più
Splendido quanto odioso,
ai miei occhi.
Persi la speranza.
E mi affogai nel vizio.
Poi la percezione
Dell'importanza
di un'ancora.
Vani appoggi, mistici
Attracchi, amica,
mi trascinasti dove
non vorrei mai più
mettere piede.

VIII

Sei morbida come
Il fiore di ibisco,
i tuoi occhi delle foglie
più brillanti,
i tuoi capelli degli enormi pistilli
ma più carichi d'oro.
Più fragile il tuo corpo dello stelo,
Il tuo seno acerbo più inebriante
Del suo profumo d'Oceania.
Il tuo collo più sfuggente e
Nobile delle donne di Gauguin
Che di esso si rivestivano.
Più trionfante il tuo
Sorriso delle mie piazze
Di Corfù dei suoi alti cespugli dilaganti.

Porgimi i tuoi occhiali
E riposiamo insieme
Nel sogno di una
Polinesia, lontano.

X

Non ti può cantare
Kavafis,
né Pindaro;
ma io che ti ho toccata
potrei raccontarti per la
vita.
Se il tempo non sarà oscurato
Dall'eclissi…

XI

Le mie palpebre sono sfiorite
Sotto i colpi della notte,
e il sudore ha lambito
le ciglia aggrottate.
E' duro abbandonare l'illusione:
È più facile farlo
Alla fine di una mite estate,
incalzata dai temporali
di settembre.

XII

Eppure lei è sempre lì
Come lo furono le
Altre, ancelle infedeli
della mia follia.

Amante anch'essa delle
Mie sofferenze, divoratrice
Del miele della passione
Insoddisfatta e pulsante.

E cerulee siete
E io caddi sempre
Nella rete, impenitente.

Voi foste la mia
Vita
E tu, mia bionda amica,
Il capitolo più dolce.

 

Sconforto



Una volta scrivevo fitto,
una volta!
Forse
Dovrei scrivere d'amore,
solo di quello, come
Mina nelle sue canzoni.

Ma l'amore è lontano dalle
mie dita, e lo spettro radioso
si allontana dalla mia carcassa
senz'occhi.

Vorrei che mi chiamasse,
che desiderasse la mia
presenza, discreta.
Vorrei che gli occhi mi
Cercassero, amici,
senz'altro.
Vorrei essere stretto
quando sto per cadere.

E invece come sempre solo,
con una agenda piena
di appuntamenti per cui
valgo meno di un biglietto,
usato, di un tram.

Aspettiamo
E leggiamo le
Linee avverse della
Mano, che non vediamo.

Risaliamo dagli abissi



E il vento soffia
Autunnale,
e non c'è più
turista o viaggiatore
ma mille foglie
pronte a cadere
nell'incertezza di
un momento.

Forse si annunciano
I terribili
Temporali della
Mia anima,
ma intanto
risaliamo
nella frescura
di un settembre
senza tempo.

 

E poi solo Proust




Penso che siamo
Arrivati al fondo
E sentiamo il
Profumo delle torbiere
E delle baie rocciose
Della fine della terra.
Eppure ho conosciuto questa
Ragazza, tanto triste e
Antica, tanto dolce
E spersa.

E mi chiedo se
la cicala trovata
nel letto e un augurio
di fortuna telematico,
potranno per me significare
per me un ricambio d'affetti.

Torna