"Prendere o lasciare": l'uomo secondo Valeria Rossi
Gli ombrelloni delle nostre estati sembrano quanto di più
lontano ci possa essere da un luogo di riflessione. Quella
sensazione di disimpegno che si respira fra radioline, cellulari
e urla di bambini fra le onde concilia tutt'al più la
riflessione d'accaniti giocatori di carte.
Non è tuttavia inutile tenere le orecchie bene aperte per
cogliere i fermenti del momento fra i più strapopolari,
uniformanti e spontanei della nostra epoca: una rilassante
vacanza ai bagni dei nostri mari.
A differenza di molte spiagge europee, dove ci si può illudere
di vivere un momento di odissiaca - silenziosa - solitudine, i
nostri litorali hanno una colonna sonora che fin da bambini ci
rimane scolpita nel ricordo: la voce arabeggiante di un venditore
di cocco, i colpi di un pallone, il ticchettio indolente delle
racchette da spiaggia, il frusciare accomodante di un giornale
sfogliato... Ma sempre presente è l'immancabile musica da
spiaggia, allegra, ritmata, senza un velo di malinconia e solare
come le belle giornate che scorrono senza fine sulle sdraio ed i
lettini.
Misteriosamente, congiura diabolica o felice casualità, delle
migliaia di canzoni, motivetti, melodie che affollano il panorama
musicale alcune cominciano ad essere suonate con una frequenza
sempre maggiore tanto da raggiungere il parossismo, nonché l'isteria
di alcuni verso la fine d'agosto, quasi fossero il sigillo da
imprimere ad un periodo, le cime montuose spartiacque fra lo
svago e la seria monotonia quotidiana. Sono i "tormentoni",
che fanno sbuffare i genitori e i nonni e canticchiare i bimbi
con la paletta in mano; e talvolta si cristallizzano nella
memoria con i nostri ricordi più belli.
Al massimo un piacevole sottofondo, quindi, di cui il più delle
volte sfuggono le parole, la strofa, il cantante. Canzoni non
destinate all'Olimpo della memoria, impolverate già in settembre,
destinate a polverose soffitte d'inverno.
Ma anche che se così transitorie, così fragili, non è detto
che siano tanto sciocche e tanto "da spiaggia" da non
meritare una riflessione.
E tanto più merita una riflessione la canzone che dal calderone
della musica estiva è emersa quasi senza sforzo: tre parole di
Valeria Rossi.
Innanzitutto la facies, il modo di presentarsi di questo singolo.
Tutto è basato su un immagine semplice, diretta, molto marketing
agreable. Una cantante con un viso comune, un sorriso
rassicurante presenta al suo pubblico una canzone altrettanto
semplice. E soprattutto utilizzando una vieta rima sole, cuore,
amore, abusata da generazioni di parolieri a corto d'idee.
Molto spesso la vulgata riduce questo "fenomeno"
musicale, come di frequente si sente ripetere, a questa
disarmante semplicità. La Bmg senza azzardare investimenti
stratosferici, decide di incidere la canzone in soli 350
esemplari, che fornisce alle principali radio e nel giro di una
settimana il passaparola fa vendere più di cinquecento dischi al
giorno. E Valeria Rossi, ventisettenne, carina e simpatica ma fin
troppo in buona compagnia nello showbusiness degli esordienti,
sembrerebbe l'ennesima Cenerentola baciata dalla fortuna.
Da stornellatrice su un autobus della periferia romana, il caso
la porta alle selezioni del tempio della canzone di cassetta, la
musica più commerciale del commerciale, lo strapaesano "Festivalbar"
vi rientra poi trionfalmente quasi a furor di popolo.
C'è naturalmente qualcosa di più, e questo qualcosa traspare
dal "personaggio" Valeria Rossi, emerge con più
chiarezza nella musica, ma rifulge nel video e nel "book"
che accompagna questo singolo anomalo.
Valeria è una ragazza di ottima famiglia romana e nelle
interviste, nella sua presentazione
Insiste su una normalità voluta, cercata, eppure non scontata. E'
una normalità fatta di esperienze composite, non certo da
piccola borghese. E' un artista globalizzata, nata a Tripoli, che
si è fatta le ossa in Francia e che non disdegna lo stile molto
melting pot tanto in voga a Londra, fatto di una strizzatina d'occhio
al lontano oriente e di caldi abbracci alla moda beat made in Usa
anni '70.
Le sonorità del disco racchiudono quest'eterogenesi di
ispirazioni, suggestioni, messaggi subliminali. Da una base
semplice, banale, quasi da karaoke fa da contrappunto una voce
limpida vagamente nasale ed un po' "nera", un po' jazz.
Un basso molto anni settanta, gli dei "suoi" Samuel e
Garfunken, si accompagna all'arraggiamento con una tromba che ci
ricorda le sonorità ipertrofiche degli anni ottanta. Nel
contempo ricami vocali ci riportano ad orientalismi pucciniani di
seconda mano e a battute vagamente "country".
Questo terreno di ispirazioni magmatiche e mondalizzate non si
accompagna, però, nostalgia di orizzonti o tempi lontani. Nel
compact, acconto alla canzone, alla base ed ad un'insignificante
canzone, molto di maniera, gli utilizzatori di PC troveranno un
mirror di presentazione molto semplice (ideato dalla cantante),
ma molto efficace. Un volto ridente, su un caleidoscopio colorato,
con tinte psichedeliche introduce alle cartelle.
Le fotografie sottolineano il carattere "global" dell'artista,
che si presenta fra canne di bambù con un abito a taglio kimono,
rosa con fiorami rossi, ma con una pettinatura assolutamente
occidentale e muscoli di rigore molto unisex.
Ma ancora più interessante è sondare il video, tre minuti molto
interessanti, registrati su un software di ultima generazione. Un
backstage su cui operatori video, truccatrici, fonici fanno
continuamente capolino. Un caos fatto di infomalità, di non
scelta, apparente di uno stile se non quello di un bel volto
sorridente e due braccia che accennano passi che potrebbero fare
giovani di ogni parte del mondo. E un personaggio assolutamente
assurdo. Uno spilungone vestito con un ridicolo abito da ape,
elemento disturbatore e di movimento di tutta la clip.
Appeso ad un filo a mezz'aria, con una telecamera digitale in
mano, a dare d'anca alla cantante. Personaggio del tutto
incongruo (dovrebbe fungere da sfondo su un tappeto di fiori
proiettati?) è accompagnato di sfuggita di un robot e da un
gigantesco maggiolino. Forse è la prima avvisaglia, o un tributo,
ad un'intera generazione cresciuta davanti ai cartoni animati
giapponesi, fra un'Ape Maya assassina ed un Mazinga Zeta tenerone,
fenomeno di colonizzazione culturale e globalizzazione sotto
traccia ben precedente all'era di internet e del WTO.
Da ciò questo quadro, tecnologico e mondializzato, ma con radici
nel passato; apparentemente semplice, ma fin troppo curato;
scioccante per la sua ingenuità ed in realtà che sfiora radici
nascoste e profonde.
Se analizziamo, dopo queste considerazioni, il testo possiamo
renderci conto ancor di più di come sia "contemporanea"
questa canzone.
Non vi sono concetti astrusi, il testo è diretto: una giovane
innamorata parla al suo ragazzo, topos della musica di ogni tempo.
E fra la musica vacanziera, il sorriso della cantante, il video
spiritoso quasi non ci si accorge dell'ombra che emerge da queste
parole.
L'interlocutore è pieno di dubbi, di piccole psicosi, di
indecisioni, di "giri in tondo". Ma nella tradizione si
dovrebbe dirgli di non preoccuparsi, di affidarsi, allungando
magari "grandi braccia e grandi mani"; o urlagli di
riprendersi, di comportarsi con dignità. E invece con un
atteggiamento molto cool gli si chiede di "parlare a voce
bassa" e di spiegare quello che vuole. Ci si può quasi
figurare questa situazione: due giovani, seduti ad un tavolo di
un locale nella penombra, con la faccia seria ma distesa, parlano
di sistemi di vita e di problemi che li attanagliano nella vita,
davanti ad un bicchiere di vino. Naturalmente pronti ad alzarsi
il mattino dopo come se non nulla fosse.
Da una generazione di quarantenni reduci dalle grandi battaglie
ideologiche, dalle disillusioni di una vita carriera e lavoro, si
è passati ad una generazioni insoddisfatta ma con moderazione;
che, secondo le parole della breve autobiografia della Rossi
"imparato dal conflitto il senso delle proporzioni".
Fiorisce un minimalismo fedele specchio di sit-com, uguali in
tutto il mondo, dove i giorni sono appena increspati dai problemi,
dalle mortificazioni, dai rifiuti. Tutto è destinato
irrimediabilmente a risolversi.
Dopotutto non si vede perché non dovrebbe essere così: "Sei
nel tuo mondo", dice la canzone, non più un mondo di altri,
minacciato da forze oscure, o da complotti alla Oliver Stone.
Tutto quello che si chiede è una vita tranquilla illuminata da
qualche amico, sdraiato su un vecchio divano, e dalla luce
fosforescente di un PC. E se qualche insoddisfazione cresce
"una stanza vuota" dove ritrovare buddisticamente se
stessi nel vacuo silenzio è "la sola cura".
E questo giovane, magari colto e informato, che legge come
Valeria Proust e Hugo, ad un tocco di mouse dal resto del mondo,
ultimo erede del sogno umanistico dell'uomo al centro dell'universo,
diviene un "guaritore", demiurgo assai poco convincente
e convinto per il proprio futuro.
In questa notte ideologica e emozionale, dove tutte le vacche
sono nere, che ne è dei rapporti fuori dalla bambagia dei
rapporti coltivati ossessivamente per anni come un bonsai?
Forse sono lo "slacciarsi al maschera" della seconda
strofa. Esplosioni di vita al sole di un'estate, che rammenta le
piene giornate dell'adolescenza, dove tutto era semplice come la
rima "sole, cuore, amore". Il sole calmo di Cuba o di
un Club Med, magari. O nel buio della cocaina o della musica
assordante, verrebbe da aggiungere. Scosse elettriche soffocate
dal dramma di un'incomunicabilità profonda di "quel bacio
che non fa parlare", che viene chiesto, sogno di milioni di
adolescenti, una vicinanza "prendere o lasciare" che
ricorda le offerte speciali di una supermercato.
La semplicità sorridente e catalettica di questa signorina Rossi
fra i milioni che ne esistono del mondo dilaga e pone problemi
molto seri alla società di oggi. Che dovrà essere riorganizzata
in base le esigenze di un folto gruppo di persone che non si
sente cittadino, non ha particolari esigenze e richieste se non
una generica "democrazia" in cui sia permesso aggirarsi
senza troppi lacci e lacciuoli.
Ecco l'homo post-post moderno, ultima evoluzione del sapiens
sapiens.
E l'impotenza, seppur rabbiosa, umana, qualche volta fanatica,
che si respira dopo gli attentati dell'11 settembre non è
proprio di questo "core" già di per se smarrito ma
senza troppa preoccupazione?
Un Boeing è entrato nelle stanze di un'intera generazione. E ci
si è trovati tutti americani, come ha scritto Le Monde, visto
che sarebbe stato piuttosto difficile immaginarsi ruandesi o
indonesiani con un machete nella schiena. E quella generazione
dopo aver scagliato un paio di pietre di indignazione, si sederà
sulle macerie, con l'indifferenza di un bambino con la propria
paletta per la sabbia ."Perché il gioco continui".
Marcello Menni