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Cairo (24 agosto 1556), la carovana diretta alla Mecca e il Mahmal nel reportage di Pellegrino Brocardo. Elementi dell’esercito ottomano e loro schieramenti nelle fonti del XVI secolo*

 

 

Gianluca  Masi,

Università degli Studi di Firenze

 

1. Pellegrino Brocardo e il suo viaggio in Egitto

Il pittore e musico Pellegrino Brocardo, originario della cittadina ligure di Pigna[1], negli anni Cinquanta del XVI secolo scriveva da Alessandria d’Egitto una relazione di viaggio sotto forma di lettera ad Antonio Giganti da Fossombrone, segretario del Vescovo di Ragusa Ludovico Beccadelli[2]. A “ms. Antonio” il Brocardo, partendo per l’Egitto dal porto della Dalmazia il 12 aprile 1556, aveva promesso di “dare nuova di tutte le cose notabili”, compresa dunque la descrizione della carovana in armi che dal Cairo, anche quell’anno, si indirizzava in pellegrinaggio alla Mecca[3]. La

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descrizione del Brocardo, almeno a mia conoscenza e se si escludono i semplici accenni di altri viaggiatori occidentali (come Ludovico de Vartema, il Menavino, Nicolas de Nicolay) e il resoconto di Caterino Zeno, assai meno circostanziato e riguardante comunque la carovana di Damasco, rappresenta un unicum per l’accuratezza dei particolari con cui il pittore enumera per accumulazione le diverse componenti della carovana; inoltre è la prima testimonianza, nel mondo occidentale, della tradizione del Mahmal egiziano per l’epoca ottomana dell’Egitto, a qualche decennio di distanza dal Thenaud, che per primo menziona quella tradizione in epoca moderna, poco prima della caduta dei Mamelucchi, dedicandole però poche parole e riferendo notizie spesso infondate[4]. E per avere un’altra menzione del Mahmal egiziano si dovrà attendere il XVII secolo inoltrato. Ma di questo tratteremo nelle pagine successive, mentre adesso svolgeremo una breve presentazione del nostro pittore ligure.

Per raggiungere Ragusa, oggi Dubrovnik[5], Pellegrino Brocardo era salpato da Ancona, il 2 novembre 1555, insieme con la piccola corte di mons. Ludovico Beccadelli, cui papa Paolo IV aveva concesso l’episcopato della città dalmata, e che più volte

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menziona il Brocardo nelle sue lettere[6]. Pochi giorni prima dell’imbarco per la Croazia, il pittore ligure compare per la prima volta nell’epistolario del suo mecenate, in una lettera del 26 ottobre 1555 indirizzata a Filippo Gerio, in cui il Beccadelli scrive: “Ho don Pellegrino pittore et musico”. Ma la notizia per noi più interessante apre la lettera che il prelato scrisse da Ragusa il 1 aprile 1556, cioè undici giorni prima che il Brocardo s’imbarcasse per l’Egitto. Nella lettera, indirizzata a Pietro Lando, Arcivescovo di Candia, il Beccadelli menziona una nave fiorentina diretta ad Alessandria d’Egitto con scalo a Creta, su cui è imbarcato il latore della lettera stessa: “don Pellegrino Brocardo persona virtuosa et massime nelle cose della pittura, il quale passò in queste bande meco, et hora vago di vedere paesi novi, se ne va con questa nave in Alessandria […]”[7].

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Al ritorno dal viaggio in Egitto[8], il Brocardo ricevette dal Beccadelli l’incarico di affrescare la residenza del vescovo che a quell’epoca era situata a Giuppana, oggi Šipan, isola dell’arcipelago delle Elafiti a circa diciotto miglia marine da Dubrovnik. Il pittore ligure in quell’occasione realizzò un ciclo di affreschi in cui, secondo un uso allora frequente, ritraendo uomini illustri dell’Antichità e dell’età moderna si rappresentava un’ideale Accademia, così come è descritto in una lettera del Beccadelli, datata 26 ottobre 1559 e indirizzata a Carlo Gualteruzzi, nella quale il prelato descrive sotto metafora: “una compagnia mirabile che v’ha condotto un mio buon prete pittore, d’Antichi et de moderni, et fra gli altri vi sono li nostri […] Contarino et Bembo et Fra’ Castoro et Sannazzaro et Navaiero, con Vinetia appresso, fra i quali il nostro m. Michelangelo è vivo et quasi ragiona […]”[9].

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Fra il 1565 e il 1590, anno della morte, Pellegrino Brocardo fu canonico a Genova, come risulta da una lapide visibile nella chiesa di S. Lorenzo, cattedrale della città. Comunque, il 24 agosto 1556[10], trovandosi ancora in Egitto, il Brocardo ebbe modo di assistere, in compagnia di altri europei innominati, al passaggio della carovana che dal Cairo, raggruppando migliaia di fedeli e cavalieri in armi, si indirizzava ogni anno alla Mecca. Ma ascoltiamo le parole precise, per così dire, dal nostro inviato sul posto: “Alli 24 del detto passò la Carovana per la Meccha, in processione per mezo la Città, la più superba et meglio ordinata che mai fusse, per esserne il Cieco Alarbo, huomo di gran iuditio et signor degl’Alarbi, capo et conduttieri. Per poterla meglio veder pigliammo ad affitto una casa da un moro per mezo quel giorno su la strada maestra, vicina alle due gran Moschee: le quali Sultan Selin [sc. Selim I, 1512-1520], dopo la presa di detta Città [1517], fece magnificamente fabricar alla moresca, di ricchi lavori, ma più dentro che fuor’, il che per strada passando, dalle ferriate si scorge. Sono tre portichi intorno al Claustro scoperto, le volte de’ quali sono ornate, con le mura che ricingono il tutto, con lettere Arabesche d’oro et d’azurro oltramarino, et lavoro alla gimina con numero di lampade grandissimo et sempre [accese] [11]. Miglior ragguaglio non ve ne posso dar già che a franchi non pur d’entrarci, ma né ancho di fermarsi a mirarle, dai mori non è concesso. Entrati adunque nella detta stanza per una porta segreta, acciò da’ Mori non fussimo impediti, ché di veder tanta pompa stimano noi indegni, affacciandoci a certe fenestrelle con sportelli a modo di gelosie, non solo le strade, ma ogni bottega, fenestra et terrazzo che sono in cima le case, erano pieni d’infinita brigata. Passeggiavano innanzi et indietro squadroni di cavalieri mori et turchi ricchissimamente vestiti sopra bellissimi cavalli: et era già giunta l’hora di terza quando passò l’antiguardia, ch’era partita dalla gran piazza che è sotto il Castello ove tutta la Carovana era radunata, presso a quella gran Moschea, che fu refugio alle reliquie de Mammalucchi, al tempo che dal detto Sultan Selin furono rotti, simile di grandezza al Duomo di Milano […]”. Con queste indicazioni topografiche il Brocardo allude certamente alla piazza Rumayla, situata fra la Cittadella di Salah ad-Din e la gran

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moschea-madrasa del Sultano Hasan. Probabilmente il gruppo degli europei prese posizione, per assistere alla sfilata, nei pressi della moschea al-Azhar, su quella strada maestra che congiunge la Cittadella alla porta meridionale (Bâb-Zowayla) di al-Qahira, la città fatimida (969-1169), e continua fino al sobborgo di al-Husseinieh[12].

L’antiguardia descritta dal Brocardo è composta da sei falconetti, ovvero piccoli cannoni, che sono posti sopra carretti e tirati da cavalli e cammelli carichi di munizioni. Seguono trentasei “corsieri imbardati d’arme bianche alla franzese”, quindi trentasei cammelli tutti ricoperti fino a terra di velluto screziato, e sei altri cammelli su quattro dei quali siedono e suonano tamburini, mentre gli ultimi due recano enormi stendardi. Ancora di seguito il Brocardo vede sopraggiungere alcuni cavalli con bardature di seta e d’oro lavorati, su cui cavalcano i Saccomanni, ovvero gli addetti alle salmerie e a vari servizi, che recano celate e corsaletti dorati, mentre l’ultimo porta uno stendardo. Dopo un breve intervallo giungono sotto gli occhi dei viaggiatori europei ventiquattro mori a cavallo e ventiquattro a piedi, che tirano a mano ciascuno un cavallo, “con selle vote ma bellissime, lavorate all’arabescha, et di molte gioie adorne, con le staffe et briglia d’oro et d’argento puro, con fiocchi d’oro et di seta”. E commenta il Brocardo: “Credo che né più belli né più leggiadri veder si possano. Et dopo questi era portata un’ombrella di broccato simile a quella del Duce di Venetia[13]. Dopo un ennesimo intervallo gli spettatori vedono sopraggiungere cinque cammelli carichi di vettovaglie, seguiti da altri due che trasportano la lettiga riservata al Capitano e da due mori che cantano cavalcando. Passano quindi diciotto cammelli con basti bellissimi ma vuoti, e quarantotto altri cammelli carichi di munizioni, trentasei che recano otri colmi d’acqua e ventidue che tirano lettighe riservate a chi, durante il viaggio, abbia la sfortuna di ammalarsi. Finalmente, in mezzo ad un gruppo di animali carichi di acqua, legna, riso, vettovaglie varie, paioli e masserizie per cucinare, ecco giungere “una cavalleria di Chiaussi, spachi et mori insieme, che in tutto erano 107, ma fra loro cavalcava un cavaliero d’arme bianche vestito, portando una gran lance […] Venivano appresso 70 cavalli armati alla leggiera […] Poi di lì a poco venne una parte della Cavalleria del Bassà ch’arrivavano al numero di 102, et dopo loro 26 giannizeri a cavallo con bellissimi et ricchissimi cerchiolli con pennacchi bianchi in capo. Et di più un’altra Cavalleria di Chiaussi et spachi, fra i quali cavalcavano molti giannizeri, con detti cerchiolli et pennacchi in capo, erano fra tutti 236”.

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2. Le fonti

Per comprendere meglio in che cosa consistesse lo spettacolo cui il Brocardo e gli altri europei si trovarono ad assistere, ricorriamo adesso all’aiuto di fonti più o meno coeve al nostro pittore, ossia ai resoconti di altri occidentali che in quel periodo trattarono degli usi e dei costumi dell’Impero ottomano, cercando comunque, per l’argomento che ci riguarda, di dare un panorama abbastanza preciso per tutto il XVI secolo (fra l’età di Bâyezîd II e quella di Mehmet III). E non ci proponiamo certamente di fornire un elenco esaustivo delle fonti del periodo, ma solamente di quelle che possano gettare luce sull’episodio che il Brocardo descrive e sul modo in cui un occidentale poteva render testimonianza di fatti consimili. Perciò citiamo Le Voyage d’Outremer di Jean Thenaud[14], nel quale l’autore parla proprio della carovana che dal Cairo si reca alla Mecca (ma vedremo anche il contributo delle opere di Ludovico de Varthema[15], Giovanni Antonio Menavino[16] e Nicolas de Nicolay[17]); quindi il Viaggio de li pelegrini

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che vanno alla Mecca scritto dal veneziano Caterino Zeno nel 1550[18], ovvero sei anni prima del Brocardo; ma anche l’opera più tarda, e tuttavia preziosa, di Joseph Pitton de Tournefort[19] la quale, fra l’altro, tratta delle carovane di pellegrini che si indirizzano alla Mecca provenendo da diversi luoghi di raccolta, fra cui il Cairo, ma anche della composizione dell’esercito turco. E a quest’ultimo proposito, oltre che al Tournefort, fra le altre fonti che citeremo di volta in volta, ricorreremo senz’altro e con maggior frutto agli scritti di Teodoro Spandugino, appartenente alla nobile famiglia greca dei

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Cantacuzeno[20], al libro del Giovio[21], a quello di Luigi Bassano[22] e alle relazioni dei baili e segretari veneziani a Costantinopoli raccolte da Eugenio Albèri, che coprono tutto l’arco del XVI secolo, e fra queste quelle contemporanee di Bernardo Navagero (bailo dal 21 settembre 1549 al 22 novembre 1551) e Domenico Trevisano (22 novembre 1551 – 30 novembre 1553), la Relazione anonima della Guerra di Persia dell’anno 1553… e quella di Antonio Barbarigo (15 febbraio 1556-25 novembre 1557)[23]. E vedremo,

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relativamente alla carovana del Cairo e al Mahmal, se alcune delle notizie riferite dalle fonti occidentali sono confermate da quelle musulmane cui ci è dato attingere[24].

 

3. Le carovane del pellegrinaggio nelle fonti occidentali

Dal Tournefort[25] apprendiamo che quattro sono, nell’Impero ottomano, i luoghi di rendez-vous dei pellegrini, ossia Damasco, il Cairo, Babilonia e Zebir[26]. I sudditi del Gran Signore che si trovano in Europa si recano via mare ad Alessandria d’Egitto, e da questo porto si raccolgono poi al Cairo insieme ai fedeli africani; i Turchi d’Asia hanno come punto di raccolta Damasco; i Persiani e gli Indiani si ritrovano a Babilonia, mentre gli Arabi e gli abitanti delle isole si dirigono a Zebir. Tutte queste carovane si raccolgono poi sulla collina dell’Arafagd, ad un giorno di viaggio dalla Mecca, dove l’angelo apparve per la prima volta a Maometto e dove è situato un celebre santuario[27]. Il Gran Signore, tramite un Intendant des caravanes, invia cinquecento zecchini e un Corano ricoperto d’oro, numerosi ricchi tappeti e drappi neri, destinati, secondo il Tournefort, alle moschee della Mecca. Le compagnie di pellegrini che si riuniscono in queste carovane formano convogli assai numerosi in cui, insieme al capitano che ordina la marcia, si trovano truppe formate da uomini diversamente armati e destinati alla difesa dei pellegrini. Il Capitano della carovana[28] indica anche l’ora della preghiera e la conduce in prima persona.

Il veneziano Caterino Zeno, dal canto suo, tratta della carovana che si origina a Damasco[29], iniziando così la sua relazione: “In Damasco si giongono tutti quelli turchi che vogliono andar in pelegrinaggio alla Meca et etiam si giungono nel Cairo. Quelli che si giongono in Damasco seguitano questo ordine in ditto viaggio”. E quindi lo Zeno descrive le varie tappe che i pellegrini compiono fra Damasco e la Mecca. Il Capitano

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della carovana ha nome Menesaggi (detto nel prosieguo anche Minasagi)[30], e assume il titolo di Pascià. La carovana è aperta da seicento cavalieri, tutti schiavi del Gran Signore, riccamente vestiti. Quindi, dietro ad altri centosessantacinque schiavi a cavallo del Pascià di Damasco, altrettanto riccamente vestiti, di cui “cento con pennacchi ricchi sopra de le zocche […] e li 65 con scuffie d’oro e cinte d’argento d’un palmo de larghezza e più ricchi pennacchi, vestiti e cavalli che gli altri”, giunge il Checcaia, che è detto maestro di casa e tesoriere del Pascià[31]. Questi è seguito da sei carri, ciascuno tirato da due cavalli e caricato di un passavolante in bronzo (ovvero un tipo di bombarda), quindi vengono cinque cammelli con suonatori di tamburi e flauti. A questa avanguardia seguono mille giannizzeri a piedi provvisti di archibugi, a tre a tre come i cavalieri che li precedono, fra cui dodici giannizzeri a cavallo, con bardature rosse e gialle, seguiti a loro volta dall’Agà e da altri duecento giannizzeri. In coda, dopo il Carnesagi[32] ed un cammello “tutto

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coperto di broccato fino con l’Alcorano che è il suo libro della legge e di sopra un paviglione ricchissimo lavorato tutto a ricamo d’oro […]”, migliaia di pellegrini che, in un censimento del 1546, ammontavano ad almeno trentasettemila[33]. Da Damasco le tappe della Carovana sono specificate fino a Medina e quindi alla Mecca e oltre, fino al monte Gibel, dove secondo la tradizione risiedette Adamo. Qui sale l’imam, il quale svolge le sue funzioni di fronte a settantamila pellegrini fra quelli che giungono da tutti i luoghi di raccolta[34].

Più pertinente, anche se generico, il resoconto del padre Jean Thenaud, riguardante proprio la carovana che si diparte dal Cairo. Appena giunto nella città egiziana il Thenaud vede sopraggiungere la carovana diretta alla Mecca, composta da più di centomila cammelli e guidata da un gran Mirquebir[35], cugino germano del

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Sultano, con duecento Mamelucchi ed una grandissima quantità di spezie, droghe e pietre preziose[36]. Il passaggio dell’intera carovana prende, al tempo del Thenaud, quattro o cinque giorni[37]. Dal Cairo alla Mecca, poi, il Thenaud conta un viaggio pericolosissimo di almeno cinquanta giorni attraverso il deserto, senz’acqua e con sabbie battute dai venti, che muovono dune simili a onde marine ed alte come montagne. Allo stesso tempo le carovane sono assalite nel deserto da predoni arabi che ascendono anche al numero di due o trecentomila; ma, commenta il Thenaud, cento Mamelucchi sono in grado di tener testa a diecimila arabi, a causa dell’armamento leggero di questi ultimi, provvisti semplicemente di giavellotti ed archi. Quando la carovana del Cairo va alla Mecca il Sultano invia in dono drappi d’oro che, secondo il Thenaud, sono destinati alla tomba di Maometto. Inoltre sia il Sultano che i cadì della Mecca destinano a questo scopo un Corano e una certa quantità d’acqua destinata ad usi rituali, l’uno e l’altra trasportati da un cammello che in seguito verrà ucciso e mangiato dal Sultano e dai suoi amici[38].

Ma se è vero che alcuni particolari riferiti dal Thenaud, almeno quelli riguardanti il percorso complessivo fino alla Mecca, fanno sospettare una dipendenza diretta dall’Itinerario di Ludovico de Vartema[39], che infatti si profonde nella descrizione dei luoghi e delle tappe del viaggio, ma è assai parco nel registrare notizie precise sulle carovane, è anche vero che taluni elementi ritornano, forse con meno evidenza, anche

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nel Trattato di Giovanni Antonio Menavino, che maggiormente si sofferma sulla carovana del Cairo, senza però dilungarsi troppo[40]. Questi, dopo aver sommariamente parlato dell’importanza del pellegrinaggio alla Mecca nella religione musulmana, almeno per quanto riguarda questo contesto, fornisce notizie che verosimilmente risalgono al tempo in cui l’Egitto si trovava ancora in mano dei Mamelucchi, ossia all’epoca di Bâyezîd II (1481-1512), o comunque agli anni precedenti la caduta sotto Selim I. E trattando in generale del pellegrinaggio, l’autore accenna alle grandi compagnie che si compongono “et vanno per terra insino al Cairo, là dove essi trovano una congregatione di Mori, che sono quivi aspettandogli apparecchiati; et ivi il Soldano per via di Hospitali fa fare loro le spese per tre giorni; et poscia manda il suo Armiraglio[41]; et seco gran quantità di Mamalucchi con bandiere e tamburi […]”. E si trovano così spiegati, in questa usanza dettata da esigenze logistiche, valide in ogni tempo, i tre giorni di cui parla lo Zeno. Il Sultano invia la scorta perché i pellegrini non siano aggrediti per strada dalle bande dei predoni, i quali si nascondono sotto la sabbia perché in quei luoghi non vi sono boschi, ma “il paese quivi per un pezzo è piano et molto arenoso, in tal modo ch’el vento fa in un punto et disfa montagne altissime […] Anchora vi si porta gran disagio d’acqua, che vanno alle volte tre giorni senza trovare in alcun luogo. Per il che il Soldano provede loro sopra Cameli gran copia di carriaggi: et sonovi molti acquaroli […]”. La sete, i pericoli, le necessità del viaggio e della condizione umana, che governano i destini di chi si inoltra nel deserto, fanno sì che, nei resoconti di uomini come il Menavino e il Brocardo, a qualche decennio di distanza, ma pur sempre in un’epoca che predilige anche nel pellegrinaggio gli aspetti umani, sia ovviamente testimoniata la medesima e sensibile curiosità del viaggiatore per elementi

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come i carri delle vettovaglie, gli acquaioli, le migliaia di cammelli che trasportano di tutto, e dominano soprattutto la descrizione del nostro pittore. Al termine del viaggio, conclude il Menavino, i pellegrini giungono a Medina, che dista tre giorni di viaggio dalla Mecca, e qui convengono altre genti con altre carovane, mercanti Persiani, Indiani e di tutte le regioni del mondo musulmano, fino ad un numero di sessantamila. Infine, “tutti vanno in una montagna, quivi non guari lungi, chiamata Arafetagi […]”, l’Arafagd del Tournefort[42].

Il medesimo schema del Menavino è seguito da Nicolas de Nicolay, il quale talvolta sembra ricalcare alcuni passaggi del genovese[43]. Ambedue, naturalmente, trattano prima del significato del pellegrinaggio in generale, per passare poi alle congregazioni di pellegrini. Ma il De Nicolay con la carovana del Cairo menziona anche quella di Damasco, e dice che ciascuna di esse è composta da almeno quarantamila pellegrini, detti Hagislari (evidentemente da hajj, “pellegrinaggio”) e scortati da un gran numero di Giannizzeri. Questi ultimi sono deputati alla difesa delle carovane, nei confronti di quegli Arabi “i quali giorno et notte sono ne gli aguati ne’ Boschi”, che pare un fraintendimento del corrispondente passo del Menavino, “Et oltre a ciò, avendo la carovana a passare tanti deserti et luoghi arenosi, aridi, sterili, et privi di tutte le cose necessarie all’humana vita, si dà ordine di caricare molti cammeli di gran provisione di vettovaglie, d’acqua, et d’ogni altra cosa necessaria […]”, poiché in quei luoghi non si trova “gocciola d’acqua se non di tre in tre giornate”. A questo punto, dopo aver citato la città di Medina, che si trova a tre giorni dalla Mecca, il De Nicolay accenna a quella tradizione ripresa più tardi dal Tournefot, secondo cui al termine del pellegrinaggio viene posto un Corano sul sepolcro di Maometto, quindi i pellegrini si ritirano sul monte detto Arafetagi. Il capitolo successivo è dedicato dal De Nicolay agli acquaioli, detti Saccasi, che accompagnano le carovane dei pellegrini e che di solito vanno per le strade, le piazze e i villaggi con un “Otricolo di cuoio pieno d’acqua di fontana o di cisterna, che portano pendente al collo, coperto d’un bel panno di colore ricamato, et con fogliami all’intorno, […] et in mano portano una coppa di fino ottone corinto dorata, alla damaschina […]”, nella quale, attingendo dall’otre, distribuiscono l’acqua “con gran charità” a chi ne vuole. Inoltre, per rendere l’acqua più chiara ed allettante, collocano sul fondo della coppa alcune pietre “di Calcedonia, di Iaspe, et di lapis Azuli [sic]” e portano nella stessa mano uno specchio che pongono davanti agli occhi dell’avventore, esortandolo a rammentarsi della morte.

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Per quanto riguarda invece le fonti musulmane relative al pellegrinaggio[44], che naturalmente correggono, integrano e meglio precisano le notizie fornite dai nostri autori occidentali, vedremo in seguito; per il momento esaminiamo, in particolar modo, quella cavalleria che il Brocardo, nella sua relazione, dice composta da Chiaussi, Spachi e Giannizzeri.

 

4. Alcuni elementi dell’esercito ottomano e loro schieramenti in guerra nel XVI secolo

Seguendo l’ordine della parata descritta dal nostro pittore ligure, iniziamo dal Chiaus (dall’arabo Chiawus, in turco Çavuº). Çavuº era detto chi svolgeva varie funzioni fra cui la principale era quella di corriere, per cui esistevano sia messaggeri del Divano che ambasciatori del Sultano. I Beilerbey della Grecia e dell’Anatolia potevano disporre di cinquanta Çavuº ciascuno, attraverso i quali ricevevano gli ordini dal sultano e a loro volta inviavano al sovrano notizie sull’andamento della guerra[45]. Çavuº baºi era chiamato un funzionario dell’amministrazione centrale, addetto ai servizi esterni (Bîrûn), che comandava gli ambasciatori del Palazzo, circa duecento nella prima metà del XVI secolo, mentre il Bach çavuº era un ufficiale di fanteria a capo delle staffette e dei portaordini appartenenti alla V compagnia dei Giannizzeri[46]. Alla fine del secolo il numero di questi funzionari aumentò di molto, oltre i duemila, poiché in molti per godere dei benefici del titolo lo compravano a palazzo, ma in proporzione, con la crescita del loro numero, diminuiva la stima che in essi era riposta in passato, e si dilatava l’ambito dei compiti loro affidati. Impiegati in ogni sorta di servizi, tanto umili quanto onorevoli, essi venivano inviati a destituire o a confermare un voivoda, assicuravano l’esecuzione di sentenze capitali, traevano di prigione i graziati o addirittura si trasformavano in sicari, e comunque alcuni dei loro compiti restavano legati ad un ambito di guerra[47]. Fu il Chiaus Kubad che, il 20 marzo 1570, “pallido e preoccupato

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recò al doge Pietro Loredan[48] e al Senato di Venezia l’ultimatum del sultano Selim II per la cessione dell’Isola di Cipro; e negli anni precedenti si era recato in Transilvania (1561) e nella stessa Venezia (ottobre 1567-marzo 1568), dove aveva alloggiato sull’Isola della Giudecca in un appartamento ammobiliato alla turca, ascoltando concerti di arpicordo e violino. Nel 1574 l’ungherese Mustafà, çavuº e dragomanno, fu inviato in Transilvania e a Venezia per recare la notizia dell’intronizzazione di Murad III, mentre l’anno prima un tale Ahmet aveva portato a Bathory le insegne del potere. Ma il compito dell’ambasciatore, com’è naturale, non andava esente da pericoli, anche estremi, e l’uccisione di un inviato diplomatico era intesa dai sultani come equivalente ad una dichiarazione di guerra. Così era accaduto a Vlad l’Impalatore, alla fine del XV secolo, e così accadde al principe moldavo Giovanni il Terribile nel 1574, quando la sua testa finì inchiodata alle mura del palazzo di Iassi, dopo che per suo ordine quelle degli ambasciatori turchi avevano fatto una fine analoga[49].

Per quei cavalieri che il Brocardo chiama Spachi, ricorriamo ancora una volta all’aiuto del Tournefort, utile, pur con le sue imprecisioni, per quelle notizie che non si trovano in altre fonti e che son valide nella loro schematicità anche per l’epoca di cui ci stiamo occupando[50]. La cavalleria turca, stando a questo autore, era composta da due gruppi separati ma conosciuti entrambi col nome di Spachis, col quale naturalmente il Tournefort allude ai Sipahi[51]. Una parte di essi, infatti, era direttamente assoldata dal Gran Signore, l’altra no. Quella al soldo del Gran Signore era reclutata dai corpi speciali dei cosiddetti Icoglan e Azancoglan[52], e a sua volta si divideva in diversi squadroni, di

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cui i più importanti recavano le insegne gialla e rossa. Ma i cavalieri più celebri erano i Mutafaraca, secondo la dicitura del Tournefort, anch’essi del corpo dei Sipahi, i quali però rispondevano direttamente, come loro comandante, al Gran Signore in persona e ne costituivano la guardia personale nel numero di cinquecento. Si tratta dei Müteferrika, ma le notizie che qui li riguardano sono alquanto imprecise e probabilmente il Tournefort confonde questi cavalieri con un corpo di Sipahi (i Sipahi Oğlan), di cui parleremo a breve[53]. Passando poi a quel gruppo di Sipahi che non erano al soldo del Gran Signore, il Tournefort li divide ancora in due categorie, che chiama Zaims e Timariots, cui il Gran Signore assegnava a vita alcuni feudi, detti Timar, a patto che ciascuno di essi fornisse un certo numero di cavalieri; e proprio il Solimano[54] aveva regolato la disciplina e stabilito il numero dei cavalieri che i vari feudi dovevano fornire all’esercito. Gli Zaim e i Timarioti non differivano in alcun modo fra loro se non per quanto riguardava la rendita: più ricchi gli Zaim, mentre i Timarioti, a causa della rendita inferiore, erano nell’equipaggiamento senz’altro più dimessi[55]. Secondo il Tournefort

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questi cavalieri, che costituivano la nobiltà dell’Impero e seguivano un percorso di formazione di gran lunga superiore a chiunque altro, erano più disciplinati dei Sipahi al soldo del sultano, per quanto questi ultimi fossero reclutati fra i cavalieri più prestanti e fisicamente vigorosi. Circa l’armamento, il Tournefort riferisce che i Sipahi erano forniti di lance e scimitarre e che alcuni, soprattutto in Anatolia, recavano in più arco e frecce, adoperati con grande maestria. Alla fine del XVII secolo questi cavalieri si servivano ormai anche del fucile, come già al tempo del Brocardo, che infatti parla di archibugi. Fin qui il Tournefort, ma torneremo nelle pagine successive anche sui Timarioti.

Tornando poi a quegli squadroni appartenenti al primo gruppo di Sipahi, ossia quelli al soldo della Porta, che erano reclutati col sistema del devºirme e di cui il Tournefort non riferisce i nomi, ci soccorre fra le altre fonti il Cantacuzeno, che all’inizio del XVI secolo ne menziona i vari corpi, vale a dire Sipahi Oğlan, Silictâr, Ulûfedji e Çarkadji (o Garip), questi ultimi due divisi a loro volta fra ala sinistra e ala destra[56]. Di questi cavalieri Martino Segono[57] aveva già menzionato Charippi, Spachioglani e Soluphtarii. I primi, “milites electi solum in militiam et obsequium principis ex omni genere mortalium, maxime ex Scithis et Persis”, ammontavano a circa ottocento; i secondi e i terzi, che “nuncupantur pueri regi eo quod nutriti a teneris annis in Sarraio palatio principis […] et in exercitu latera ipsius principis dextra atque sinistra ambiunt”, erano circa mille e trecento. Il Cantacuzeno, dal canto suo, dà già un resoconto preciso di tutti i Sipahi della Porta. Egli infatti, enumerando i vari Agà, giunge a quello dei cavalieri

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Spacoglani: “Questi nel tempo delli altri imperatori non erano tanti, ma sultan Selim li ha accresciuti et sonno fino al numero di duamila cinquecento; Suleiman imperator li ha accresciuti a 3000 [58]. Alcuni di questi cavalieri, e non i Müteferrika, sono destinati alla guardia del sultano: “et se piove o nevica, sono deputadi et tenuti cinquecento Spacoglani dormire armati atorno atorno del padiglione del signore”. Vi sono poi i Silictarii, anch’essi accresciuti fino al numero di duemila cinquecento da Selim e fino a tremila dal Solimano, con un comandante detto Silictarbassi; gli Allophanzi, con un Allophanzibassi, e infine i Cariboglani, circa mille, con il loro Agà. E ognuna di queste categorie di cavalieri ha un proprio scrivano, un proprio Checcaia e un proprio Bulubassi, su cui ritorneremo[59]. Paolo Giovio nel suo libro[60], ripetendo un giudizio del Segono, ritiene gli Spachioglani i cavalieri “più honorati […] quali sono allevati e nodriti nel Serraglio et sono stati ammaestrati in littere, et in arme si chiamano come figliuoli del Signore […] a questi si maritano le donne del Serraglio et le figliole, et sorelle del Signore, et in somma sono li più nobili, et li più favoriti, hanno li più eccellenti cavalli, le più preciose fodre di veste, li più ricchi fornimenti de cavalli […] et questa tanta pompa è causata per le spoglie di Persia, et del Cairo perché al tempo di Soltan Mahometto [sc. Mehmet II, 1444-1481] non haveano pelle di valuta, né gioie, et

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lavori d’oro, né molti drapi di seta […]”; in mille, per il Giovio, stanno alla destra del sultano quand’egli va in guerra e mille Sulastari alla sua sinistra, “di medesima creanza, et nobilità”. Seguono mille Ulufagi, da Giannizzeri divenuti cavalieri a seguito di un’azione valorosa, e mille Caripici, cui l’autore dà l’appellativo di “lance spezzate” che invece, come vedremo, spetta ai Müteferrika. Il Menavino[61], dal canto suo, enumerando i vari squadroni di Sipahi, ci fornisce il loro preciso schieramento nell’esercito quando il sultano è in marcia. E anche in questo caso, se guardiamo ai numeri riportati da questa fonte, dobbiamo ritenere che il genovese riporti notizie dei primi anni del regno di Selim I, o comunque di poco precedenti l’accrescimento voluto da questo sultano e testimoniato dal Cantacuzeno. Il Menavino, infatti, parla di mille Spai comandati da uno Spaioglandargasi, che procedono alla destra del sultano, e di mille cinquecento Suluphtar che marciano all’ala sinistra sotto il comando di un Suluphtar bascià. I primi e i secondi sono “Cristiani renegati[62] che formano, notte e giorno, la guardia del sultano quand’egli dorme fuori Costantinopoli, ed ambedue gli squadroni sono seguiti, a destra, da cinquecento Ulufegi comandati da un Ulufegi bascià, e a sinistra da quattrocento Ulufegi guidati da un Sulbulugi [sic]. Chiudono lo schieramento settecento Caripitiglier, provenienti da vari paesi e capitanati da un Charipitigleragasi, “Capitano dei poveri huomini”, i quali con gli Ulufegi costituiscono anch’essi, notte e giorno, la guardia del sultano nell’esercito in marcia. Quanto al Navagero[63], pare che, sul numero di ciascuna categoria di cavalieri, indichi quello dei cavalieri effettivamente al seguito del sultano e non il loro numero complessivo (come del resto il Giovio). Il Navagero infatti ci fornisce, alla metà del XVI secolo, una bella descrizione dell’esercito del Solimano in marcia, di cui però ci avvarremo in seguito. Per il momento basti dire che il bailo veneziano cita l’Agà dei cavalieri Spai-oglani, che vuol dir capo de’ cavalieri giovani”, i quali in passato erano duemila, ma al suo tempo “se arrivano a cinquecento è assai […]”, affermazione con la quale il Navagero dimostra di attribuire erroneamente a tutti questi cavalieri il numero dei cinquecento che fornivano la guardia al sultano. Gli Spai-oglani, conferma il Navagero, dopo il Menavino e il Giovio, quando il Solimano marcia con l’esercito cavalcano alla sua destra, dietro lo stendardo rosso, portando ciascuno una bandierina dello stesso colore in cima alla lancia. All’ala sinistra, innanzi allo stendardo giallo, cavalca l’Agà dei duemila cavalieri detti Silictarii, anch’essi con la bandierina gialla sulle aste. E il numero di duemila Silictari corrisponde a quello indicato nella Relazione anonima della Guerra di Persia dell’anno 1553…, che descrive lo schieramento dell’esercito proprio in occasione dell’entrata del Solimano nella città di

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Aleppo[64]. Sempre nel Navagero, vengono appresso agli Spai-oglani l’Agà e lo stendardo verde dei duemila Ulufegì dell’ala destra, alla lettera i cavalieri soldati, tutti con la bandierina verde in cima alle lance, e insieme con questi, alla sinistra, si trovano l’Agà e lo stendardo bianco-rosso dei Solbuluc-ulufegì, ossia i cavalieri soldati dell’ala sinistra, con le loro bandiere. Tutti questi Agà, sia per il Navagero che per il Giovio, sono cristiani rinnegati usciti dal serraglio, sia figli di altri comandanti, sia Giannizzeri avanzati in carriera per il loro valore. Ancora, all’ala destra, dietro ai verdi, segue l’Agà dei cavalieri detti Ciarcagì, ossia poveri cavalieri giovani (“ex Scithis et Persis” come scrive il Segono), con lo stendardo bianco e le bandierine sulle aste, mentre i Solboluc-Ciarcagì, cioè poveri cavalieri giovani dell’ala sinistra, inalberano uno stendardo verde e bianco. Tutti i cavalieri “cercano di comparire sopra buoni cavalli e benissimo armati, li quali tutti si stendono in modo d’ala[65].

Se poi prendiamo in considerazione il corpo dei Giannizzeri[66], questa fanteria, fino alla fine del XVII secolo, fu reclutata come i Sipahi della Porta col sistema del devºirme[67]; e a questo proposito è illuminante la testimonianza del bailo veneziano

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Bernardo Navagero, il quale compiva la sua missione pochi anni prima che il nostro Brocardo intraprendesse il suo viaggio. Secondo il Navagero per vedere “quanto può la disciplina e la esercitazione; e perché in essi [sc. Giannizzeri] è reputato consistere gran parte della forza del turco […]” è bene intendere “il modo che s’usa nell’eleggerli, e che fatiche essi hanno prima che arrivino a questo grado, e l’autorità che hanno acquistata […]”, parole che già lasciano trasparire il ruolo fondamentale e controverso che questa milizia sempre aveva svolto, fin dal momento della sua fondazione. Per il reclutamento di questi soldati, il Sultano all’occorrenza, ossia per integrare gli effettivi venuti a mancare per diverse ragioni, inviava da Costantinopoli nelle province deputate un Agà, accompagnato da uno scrivano, con ordini particolari circa il numero dei fanciulli da raccogliere[68]. Giunto sul luogo l’Agà si rivolgeva al Protogiro[69] per convocare tutti i capifamiglia dei cristiani, ai quali ordinava di presentargli i loro figli maschi, e fra questi egli, prediligendo la fascia di età della prima adolescenza, sceglieva quelli che per qualità fisiche gli sembravano più idonei allo scopo prefissato. I prescelti, vestiti tutti “d’una livrea di panni lunghi fino in terra, con una berretta lunga con un pennacchio in testa […]”, venivano chiamati Azam-oglani, cioè acemî oğlan, e condotti per lo più nella casa dell’Agà dei Giannizzeri, ma di essi alcuni, quelli che piacessero al Sultano, finivano nel suo serraglio[70]. Dalla casa dell’Agà i rimanenti venivano affidati a due “Agà di azam-

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oglani senza soldo” che li conducevano chi in Grecia, chi in Anatolia, e qui li destinavano come servi, uno o due, alle case dei notabili turchi, per svolgervi lavori di fatica e per impararvi lingua turca, legge e fede musulmana. Dopo alcuni anni di questo tirocinio, in base alle esigenze del governo di Costantinopoli, gli Azam-oglani subivano un’ennesima selezione, giacché i due Agà suddetti venivano inviati in Grecia e in Anatolia a scegliere quelli che, per educazione e disciplina, si distinguessero. Quelli selezionati, una volta condotti in Costantinopoli, finivano nuovamente di fronte all’Agà dei Giannizzeri e quindi affidati ad un “Agà di azam-oglani con soldo”, che li destinava ancora una volta a mansioni di fatica per conto del Sultano e dei notabili della città, “a portar calcina, legnami e tutte quelle cose che son necessarie alle fabbriche […]”. A gruppi di venticinque o trenta, questi giannizzerotti, dimoravano in camerate ed avevano come comandante un Buluc-bascì[71]. Altri servizi, svolti da questi giovani giannizzeri, erano quelli sui traghetti che da Costantinopoli si recavano in Anatolia, dove essi imparavano i segreti della marineria[72].

Quando poi viene a mancare qualcuno dei giannizzeri del cappel bianco, del numero dei dodici mila che sono sotto l’agà grande dei giannizzeri […] per tener compita la legione dei dodici mila prendono di questi azam-oglani sopradetti e li mettono nel numero di quelli morti o rimossi […]”[73]. E finalmente i giannizzerotti, giunti

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al momento dell’arruolamento, dopo tutte queste fatiche, come scrive il Navagero,

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dovevano far voto di obbedienza alla confraternita dei Bektâºi[74], quindi, divenuti Giannizzeri veri e propri, continuavano a risiedere a Costantinopoli in condizioni che non possono non rammentarci quelle comuni a tutti gli eserciti. Erano distribuiti, infatti, in tre grandi caserme[75]in guisa di monasteri, con sale lunghissime”. Le nuove leve avevano l’obbligo di servire i veterani della squadra cui erano assegnati, in silenzio e nella massima obbedienza, avendo tutti in comune la tavola e le spese. Qualora poi un giannizzero, privo di licenza, passasse la notte fuori della caserma, non dormendo in una delle grandi camerate che condivideva con gli altri, veniva punito mediante bastonatura (falaka) “senza odiare né chi gli dà, né il capo che lo fa castigare; anzi in contrario, finito che hanno di batterlo, se ne va a baciargli la mano”. Anche in guerra ogni squadra aveva in comune un padiglione e alcuni animali per il trasporto del bagaglio. Taluni Giannizzeri, prima a piedi, poi dal Solimano provvisti di cavalcature, servivano di scorta ad ambasciatori e baili (come accadde anche al gruppo del Brocardo) e spesso, al termine dell’incarico, erano innalzati ad un grado superiore[76]. In generale, per sembrare più crudeli e spaventosi, “non nutriscono la barba se non di sopra alle labbra, et lasciano crescere i loro mostacci molto lunghi, grossi et ricci, et fanno radere tutto il resto della loro barba, come ancora la testa, eccetto qualche ciocca, che lasciano in cima del capo, acciocché combattendo non siano presi da’ nemici per li capelli […]”[77]. I Giannizzeri inoltre si distinguevano portando “scuffie [dal turco uschiuf] tanto strette che appena vi può capire la testa, e bassissime, dalla parte interiore delle quali mettono una certa cosa di legno lunga più d’una quarta, coperta d’argento indorato e lavorato, e dalla parte di dietro dipende un feltro bianco […] in quella parte dinanzi, alcuni che hanno fatto qualche segnalata faccenda mettono qualche pennacchio […]”[78]; il

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medesimo “bonnet de cérémonie” dei Giannizzeri è descritto dal Tournefort in termini coloriti, in quanto è paragonato alla “manche d’une casaque”, in cui un’estremità copre la testa e l’altra pende loro sulle spalle, mentre sulla parte frontale vi è applicato in verticale “une espece de tuyau d’argent doré, long de demi pied, garni de fausses pierreries[79]. Si tratta della Zarcola, cosiddetta dal Bassano, su cui veniva posto un gran pennacchio da chi avesse compiuto in guerra un’azione degna di nota; questo copricapo era “di feltro bianco imbottito con la testiera alta una spanna e mezza. Dalla cui cima si rivolta per le spalle una riverscia [sic] lunga tre spanne e larga almeno uno palmo e mezzo, simile a quella becca che usano tra noi i frati Gesuatti, ovvero quella delle donne di Franza, la penna ch’era attaccata al cappello è di legno, et è larga quattro dita, et alta una spanna coverta con rame indorato o inargentato, con gioie false […]”. I capitani dei Giannizzeri e quelli fra la truppa che erano più ricchi rifinivano d’oro battuto tutta la testiera[80]. E la “cosa di legno”, applicata al berretto con un anello di metallo, era un cucchiaio che rimandava alla marmitta di bronzo (kalan), simbolo del reggimento, intorno alla quale tutti si riunivano per l’unico pasto giornaliero, alla maniera dei nomadi turchi dell’Asia centrale. Rovesciare la marmitta significava ribellione, rifugiarsi presso di essa l’impunità[81]. Circa gli ufficiali dei Giannizzeri, il Tournefort è assai vago, parlando in generale di Luogotenenti e Capitani, e poco serve a questo scopo, mentre il Cantacuzeno[82] elenca un “grande scrivano”, che cavalca con grande pompa e con più di cento soldati dietro di lui, e così un ufficiale detto Iaiabassi, con la bandiera, “che vuol dir capo”, poi il Protoghero, che ha il compito di accordare o punire, e infine il Bulubassi. Di quest’ultimo (Bölük-bas), e di come il Protoghero vada identificato col funzionario chiamato Checcaia dallo Zeno (Kâhya), abbiamo già detto, mentre lo Iaiabassi (Yaya-bas)[83] è probabile che, nella gerarchia, si ponesse al di sopra del Bölük-bas. Si comprendono così le parole del Cantacuzeno, quando, riferendo di chi doveva dirimere le dispute dei Giannizzeri elenca i medesimi funzionari in quest’ordine: Bulubassi, Chieaia (al posto del Protoghero), Jaiabassi, ossia tutta la catena gerarchica fino all’Agà, cui era demandata l’ultima parola. Inoltre questa ricostruzione bene si

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integra con ciò che scrive il Menavino[84], per cui sotto l’Agà vi sono dieci capitani (comandanti degli odjak), ciascuno dei quali è alla testa di mille Giannizzeri e comanda, a sua volta, ad altri dieci capitani. Ognuno di questi, dal canto suo, è seguito da cento uomini e da altri capi squadra, anch’essi con un certo numero di soldati alle dipendenze “secondo l’ordine della militia”. In questa catena di comando, normale e prevedibile, il Menavino non ci ha conservato i nomi dei vari ufficiali, ma possiamo ritenere con una certa verosimiglianza che fossero, in ordine crescente, Odah bas, Bölük bas e Yaya bas[85]. E ci conforta in questa ricostruzione la testimonianza del De Nicolay[86], quando sostiene che i Giannizzeri sono ripatiti, grosso modo, in decine, centinaia e migliaia. Come capo camera, che in guerra fa le funzioni di capo padiglione, essi hanno un Decano, detto Oda bassì (questi, anche per il Cantacuzeno, è quello che comanda a dieci uomini), vi è poi un Boluchi bassì, a capo delle centinaia (così anche per il Garzoni), e quindi il Checaia o Protoghero, che comanda alle migliaia. Notiamo dunque che il De Nicolay non nomina lo Yaya bas, che però è citato dal Cantacuzeno insieme al Kâhya e al Bölük bas. Riteniamo dunque che il Kâhya o Protoghero, anche tenendo di conto di tutte le testimonianze viste fino a questo punto, soprattutto quelle relative ai giardinieri e ai cuochi, avesse le funzioni di aiutante di campo dello Yaya bas, con compiti amministrativi e politici in senso lato. Dal che si comprende il motivo per cui il De Nicolay lo ponga a capo delle migliaia e lo indichi come Luogotenente generale. Ma è possibile anche che esistessero Kâhya, come anche Scrivani, a diversi livelli della gerarchia di comando, dall’Agà al Bölük bas, compreso lo Yeniçeri efendi, addetto all’amministrazione[87]: così troverebbero spiegazione le parole del Cantacuzeno quando sostiene che, ogni cento uomini, esistono uno Yaya bas, un Kâhya e un Bölük bas. Vale a dire la gerarchia di comando in senso decrescente fino all’ufficiale che comanda un’unità minima di cento uomini. In quest’ottica è possibile che l’Agà accompagnato dallo Scrivano, che il Navagero dice inviato a reclutare i Giannizzerotti, fosse uno Yaya bas, il quale si avvaleva anche di un Kâhya. E che anche l’Agà della carovana di Damasco, che lo Zeno dice accompagnato da mille e duecento Giannizzeri e da dodici uomini a cavallo, fosse uno Yaya bas, con dodici Bölük bas, che collaborava col Kâhya del Pascià. Infine, ciascun giannizzero era vestito due volte l’anno di panno turchino, come gli acemî oğlan, e riceveva dal caznà da due a otto aspri al giorno, paga che

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manteneva anche come pensione dopo il congedo, e tutti, compresi i numerosi ufficiali, erano pagati ogni tre mesi, come i Sipahi della Porta e i Müteferrika[88].

I Giannizzeri, inoltre, si erano acquistati un’autorità sulla quale tutte le nostre fonti sono concordi. Bisogna riconoscere, infatti, che questa fanteria scelta, con la sua disciplina, il suo addestramento e lo spirito di corpo (“Si chiamano tutti fratelli tra loro, e se uno è offeso, tutti reputano esser offesi e l’aiutano[89]), fu certamente tra gli strumenti principali dell’ascesa ed espansione degli ottomani, e difatti il Cantacuzeno scrive, nei primi decenni del secolo: “In questi Janizari consiste la forza dello esercito dello imperator de Turchi, qual ha più speranza in questi che in tutto il resto della Turchia[90] e il Bernardo conferma nel 1592: “da questa banda d’uomini valorosi sempre sono state ridotte a fine le più importanti imprese che siano state fatte sotto l’impero Ottomano[91]. Essi sono il “nervo principale et più potente dello esercito del Gran Signore. Perciò che con l’aiuto loro Amurato et quelli che tennero lo Imperio doppo lui hanno superato et vinte infinite battaglie”, scrive il De Nicolay[92]. Ma nei secoli i Giannizzeri andarono incontro ad una inesorabile degenerazione in fatto di arte militare e disciplina, divenendo al contempo, come i Pretoriani nell’Impero romano, un soggetto politico potente, capace di influenzare l’elezione dei sultani e la vita della corte. E si domanda il Ramberti “Se dodici millia Giannizzeri soli in tutto lo imperio di questo Signore fanno alle volte tremare gli grandi et lui temere della propria vita, che poco tempo fa si sollevarono [sc. deponendo Bâyezîd II, …] che fariano poi cento o ducento mille?[93]. Anche dalla

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popolazione essi erano talmente temuti e rispettati che di solito, in tempo di pace,

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andavano in giro senz’armi, se si eccettuano un bastone lungo e flessibile, col quale battevano sul ventre o sotto i piedi chiunque volessero punire, e un coltello per tagliare il pane, anch’esso assai lungo, che il Giovio chiama biciach[94]. In guerra portavano diverse armi: scimitarre, archi, accette sul retro della cintura, ma “da tempo in qua hanno imparato trar di schioppo, et tranno benissimo […]”[95]. Tuttavia “il più di loro usano Scopietti di canna lunga et sonno destrissimi in maneggiarli alchuni, ma però pochi, a comparation di quello soleva esser avanti Soltan Selim […]”, ovviamente quando usavano armi a loro più congeniali[96]. Ciò vuol dire che col nuovo secolo i Giannizzeri, così come i cavalieri, si erano dotati dell’archibugio (tüfenk), e naturalmente il fatto che l’esercito nel suo complesso si fosse dotato di un’artiglieria aveva determinato la nascita di un corpo speciale di cannonieri (topçî) e la fabbricazione di apposite bardature difensive, così come risulta anche dalla descrizione del nostro Brocardo che nota, nell’antiguardia, le carrette con i falconetti, le celate e i corsaletti. Assai calzante risulta ciò che riferisce il Cantacuzeno[97], quando scrive che i Turchi “per altri tempi non haveano carrette per la artiglieria, ma la conducevano con la maggior fatica del mondo, et le più volte la spezzavano, et così in pezzi la portavano […] ma da un tempo in qua li Marrani sbanditi et expulsi dala Spagna hanno portato a Costantinopoli il modo delle carrette, et cannoni, secondo che re Carlo [sc. Carlo VIII, re di Francia] mostrò in Italia”; e molti dei cannonieri erano cristiani, poiché il sultano Selim I pagava molto bene. E il ruolo fondamentale svolto da Selim I nella creazione di un corpo di artiglieria efficiente è confermato da Andrea Cambini[98], quando scrive che questo sultano “rivolse tutto l’animo suo ad aumentar il numero dei Giannizzeri […] et sapendo che il nimico per le artiglierie non poteva essere pari a lui si rivoltò ad riordinare l’artiglieria che aveva lasciata il padre volendola ridurre espedita […] fece diffare tutte le bombarde grosse, et ridurle in cannoni, mezzani, et falconetti et passavolanti et fatto fabricare uno numero grandissimo di carrette per portarle, per havere chi le maneggiassi procurò col

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costituire grosse provisioni di cavare della Magna Ungheria et di Francia numero grande di bombardieri”, e poiché i cavalli si spaventavano al rombo dei cannoni, provvide a mescolare, con i vecchi, mille nuovi cavalieri, con cavalli addestrati, e aggiunse numerosi fanti forniti di armi da fuoco. Capo dei cannonieri era un Topizibassi, alle cui dipendenze erano inizialmente un centinaio di uomini, poi aumentati per le esigenze della guerra fino a circa un migliaio al tempo del Solimano[99]. Infine appartenevano al corpo dei Giannizzeri i cosiddetti Solak, di cui riparleremo, “gli staffieri dello imperatore” che ammontavano al tempo di Selim I a duecento e che il Solimano aveva portato a duecento sedici, “et la unità di quelli sono destri che vanno a man destra et l’altra metà mancini che vanno dalla manca. Hanno dui Agà, dui Chiechaia et quattro Bulubassi, et tutti questi portano li sarchula bianchi et dritti con frisi d’oro[100]; e questa descrizione del loro copricapo coincide con quella fornita dal Bassano[101], quando dice che i Solacchi portano una Zarcola simile a quella degli altri Giannizzeri, che differisce però nella “riverscia”, la quale ai Giannizzeri “tocca le spalle, a questi [sc. Solak] non tocca niente […] et in cima vi portano tutti la penna”.

Ricapitolando dunque, come risulta dalle parole di Antonio Barbarigo[102], che fu bailo a Costantinopoli proprio nei mesi del viaggio intrapreso dal Brocardo, l’esercito turco di terra al tempo del Solimano, quando questi partecipava alla marcia, prevedeva nel suo complesso dodicimila Giannizzeri, “tutta bellissima gente, buoni soldati, e bene

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armati di scimitarra e d’archibugio”, e 300.000 cavalieri, fra cui 7.000 Tartari, 40.000 “cavalli venturieri, che sono come fra noi le cernede” e “non sono così buona gente come gli altri”, 20.000 Valacchi e 15.000 Moldavi. E per meglio intendere lo schizzo della carovana realizzato dal Brocardo nella sua lettera, può essere utile ricorrere ancora al Navagero e a quelle pagine, di cui abbiamo già parlato, che così iniziano “[…] resta ora da udire il modo che tiene il Gran Signore in disponer la sua gente in ordinanza e in battaglia, quando ci va la sua persona […]”. Qui il veneziano fornisce una dettagliata descrizione dell’esercito turco nei primi anni Cinquanta del secolo XVI[103]. Ma prima di continuare col Navagero, riepiloghiamo alcune notizie riguardanti l’esercito turco, precisando che le truppe del Sultano erano divise grosso modo in due gruppi: i Sipahi e i Kapi kullari. I primi, soggetti al sistema del timar, facevano parte dell’amministrazione provinciale (Eyâlet) e fornivano la parte più numerosa all’esercito (Timarioti e Zaim, ossia il secondo gruppo del Tournefort, quello dei cavalieri che non erano al soldo del sultano); i Kapi kullari, invece, schiavi della Porta e dunque in buona parte reclutati col sistema del devºirme, erano costituiti dalla fanteria dei Giannizzeri e dalla cavalleria leggera dei Sipahi della Porta (il primo gruppo del Tournefort, “Spahis […] à la solde de l’Empereur”), e pertanto erano inquadrati nel Bîrûn dell’amministrazione centrale[104]. I Kapi kullari erano provvisti tradizionalmente di archi, frecce e lance, ma, come abbiamo visto, all’inizio del XVI secolo avevano incluso nel proprio armamento i tüfenk, conservati dai Topçi e notati anche dal Brocardo.

Come nella carovana descritta dal nostro pittore, carovana che riproduce evidentemente la medesima dottrina militare, così anche nell’esercito del Solimano, “quando vuole Sua Maestà andare con tutto l’esercito in luogo alcuno, manda innanzi artiglierie, munizioni, vettovaglie […]”[105]. Dunque, scrive il Navagero, e sembra di udire le parole del nostro pittore ligure: “Si vedono andare innanzi a tutti da seicento bombardieri [sc. Topçi] insieme con l’artiglieria sopra alcune carrette non grandi, perché il Gran Signore non mena artiglieria molto grossa”, come i sei falconetti che il Brocardo vide al Cairo, alla testa della processione, e i sei passavolanti citati dallo Zeno, gli uni e gli altri fra i pezzi di artiglieria che il Cambini dice introdotti da Selim I. Dopo l’artiglieria e un’antiguardia di alabardieri, nell’armata in marcia ai tempi del Solimano, seguivano i vari reggimenti di Giannizzeri (odjak), che assommavano a dodicimila, compresi gli ufficiali e i comandanti, ossia in ordine i capi squadra (Odah-bas), i luogotenenti (Bölük-bas) e i capitani (Yaya-bas), che andavano a cavallo, mentre la

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truppa procedeva a piedi, e “questa ordinanza non è, come si usa tra i cristiani, tanti per fila, ma vanno scompagnati, chi qua chi là […]”[106], e fra essi marciava anche la LXIV Compagnia, composta di fanti e cavalieri. Dopo questi reggimenti, venivano altre quattro compagnie di Giannizzeri (dalla LX alla LXIII), schierate a difesa del Gran Signore, che infatti cavalcava in mezzo a loro[107]. Questi Giannizzeri erano i cosiddetti Solak[108], che il Menavino descrive in marcia col sultano, “et quando il Re cavalca, vanno a due a due a piedi avanti la sua persona, et si dividono, che ducento di loro ne vanno sempre avanti et cento drieto et li sessanta si dividono trenta della banda destra quali sono tutti mancini, et trenta dalla banda sinistra che sonno dritti […]”[109], i quali, a detta del Navagero, si presentavano così: “con scuffie d’oro in testa, e certi pennacchi grandi ed onorevoli, tutti a piedi con i loro capitani che son quattro […] In mezzo di loro sta la persona del Gran Signore, ed essi come staffieri gli stanno intorno armati di scimitarra, arco e frecce, e sono forse dugento”. E sembrerebbero questi quelli che vide il Brocardo nella carovana, quando dice: “Et di più un’altra Cavalleria di Chiaussi et spachi, fra i quali cavalcavano molti giannizeri, con detti cerchielli et pennacchi in capo [...]”. Ma vedremo se è possibile formulare un’altra ipotesi.

Dopo i Giannizzeri era prevista la marcia di sei divisioni (altî bölük) di cavalieri Sipahi i quali, scrive Gianfrancesco Morosini, “sì come li gianizzeri servono per

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antiguardia alla persona del Gran Signore, così questi altri servono per retroguardia della sua medesima persona [110]. Inoltre i Sipahi della Porta, duemila per squadrone[111], si dispiegavano in battaglia sui fianchi dell’armata a difesa della fanteria[112]. Quindi,

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continua il Navagero, seguiva “[…] dalla parte destra, appresso i poveri cavalieri giovani, il maggior pascià, detto vezir-alem, con una bandiera di due colori, secondo che gli par di farla […]”, e insomma dopo i 4.500 schiavi dei quattro Visir, venivano trecento cavalieri Mütefèrrika dei quali conosciamo l’origine dalla nobiltà turca, a differenza dei Sipahi della Porta. Questi cavalieri, scrive il Trevisano che ne conta duecentocinquanta, hanno una paga “d’aspri quaranta fino a sessanta al giorno e non hanno alcun capo particolare, ma obbediscono a sua maestà sola […] e parmi che stiano a quella condizione che stanno le lancie spezzate in Italia”. Ossia si comportavano come quei cavalieri che anche in Europa, in caso di perdita del cavallo, spezzavano il manico della lancia per meglio combattere a piedi, e si ponevano alla testa delle fanterie[113]. Chiudevano la marcia dell’armata del Solimano i due Beylerbey, quello della Grecia e quello dell’Anatolia, l’uno con otto Sanjaq e quarantamila “persone, tutte brave, ben a cavallo e ben armate”, e l’altro con dieci Sanjaq e sessantamila “persone a cavallo, ma non sì buone come quelle della Grecia”, per un totale di centomila cavalieri

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Timarioti[114]. Ma se si attacca battaglia, secondo il Trevisano[115], si assume uno schieramento che ci sembra assomigli molto a quello della carovana descritta da Caterino Zeno, per cui sono i Beilerbey ad entrare subito in combattimento. E se ci domandiamo perché la carovana di Damasco assumesse lo schieramento tipico dell’esercito al momento di entrare in battaglia, è probabile che ciò fosse dovuto al fatto che, uscendo dalla città, il pericolo di incontrare i predoni del deserto fosse imminente, o comunque più alto di quello corso dalla carovana del Cairo, che procedeva abbastanza tranquilla fino a Suez. E ciò è dimostrato anche dall’alto numero di uomini impiegati nella scorta della carovana di Damasco rispetto a quelli che accompagnavano la carovana del Cairo[116]. Secondo il Trevisano, dunque, il Beylerbey della Grecia si schiera

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alla sinistra del sultano (il posto più onorevole per i Turchi) se si combatte in Europa, altrimenti in Asia quella posizione tocca al Beylerbey dell’Anatolia. Il Navagero apparentemente inverte queste posizioni, ma è probabile che, rispetto al Trevisano, tratti dell’esercito considerandolo dal punto di vista contrario[117]. Ambedue i Beylerbey, poi, gettano immediatamente nella mischia i cavalieri detti Aghiar, che conosciamo anche come Aghiari, Acanzii, Alcanzi, Acangi, Agansi, Arcangi, Accingi e Anchisi, o comunque detti venturieri, cernede, oppure dal Segono fatales. Seguono le sei divisioni di Sipahi, e quindi i Giannizzeri, con al centro l’Agà e in coda l’Emiralem, circondato dai Müteferrika. Dopo i grandi della Porta ed i Pascià, sta il Sultano in mezzo a Solak e Çavuº, “con scuffie d’oro e con pennacchi grandi ed onorevoli in testa”, armati di scimitarre, archi e frecce. Insieme col Sultano i suoi tre favoriti: Silictar, Scarabdar e Scodradar, seguiti dal Capigilèr-chietcudasci, il cui compito è quello di “introdurre a sua maestà quelli che le vogliono baciar la mano per viaggio”. Nelle ultime file sono i carriaggi e gli animali, mentre l’artiglieria ha grande numero di pezzi da campagna, ossia medio-piccoli, ed è divisa in tre parti, due con i Beylerbey e una con i Giannizzeri[118]. Ma lo stesso schieramento descritto dallo Zeno per la carovana di Damasco è testimoniato dalla relazione anonima della campagna di Persia, che abbiamo più volte citato[119], in occasione dell’entrata del Solimano nella città di Aleppo, il 5 novembre 1553, “partendo la mattina che ancora non erano comparsi i raggi del sole”. Anche in questo caso precedono i Sipahi della Porta (duemila Silictari, senz’ordine, di cui abbiamo già riportato la descrizione), quindi vengono quattrocentocinquanta “schiavi delli signori pascià-visiri”, rivestiti di drappi di seta e oro, con un elmo “assai simile a quello dei giannizzeri, coperto di feltro rosso […] e dalla parte dove si mette in testa fin dove principia a far la cima è un tondo tutto di fil d’oro tirato e lavorato in modo e congiunto l’un filo con l’altro, che altro che oro non si vede, ed è onestamente grosso. In fronte hanno una pennacchiera d’argento indorata, che come il cappello è lunga, nella quale

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portano un pennacchio […]” e sono armati di scimitarra, di cangiar, ricoperto d’argento come la cintura, e d’una lancia di legno, in cima alla quale sventola una banderuola rossa e gialla. Dietro costoro procedono quattrocento Buluc-bascì dei Giannizzeri, ufficiali di cui abbiamo già parlato, tutti a cavallo, armati di scimitarra e cangiar e con la lancia in mano, anch’essa provvista di banderuola rossa e gialla. Come copricapo quello dei Giannizzeri, ma a forma di cono, con un pennacchio bianco della lunghezza di un braccio e il frontale dorato come quello degli schiavi dei Pascià. Dopo cinque Sanjaq con i loro schiavi, marciano il Beylerbey di Caramania (con sessanta schiavi) e quello di Aleppo[120] (con trecento cavalieri). Quindi vengono ottomila Giannizzeri a piedi, senz’ordine alcuno, preceduti da alcuni Solac-bascì e armati di spiedi, alabarde, ronche, spuntoni, scimitarre, fucili e cangiar. Gli ultimi trecento, quelli provvisti di grandi pennacchi in testa per aver compiuto azioni eroiche in battaglia, accompagnano l’Agà e il figlio del Solimano Gengir[121]. A questo punto dello schieramento sono posti cinquanta “staffieri del Gran Signore”, evidentemente Solak, con indosso “una veste di seta corta dalla parte dinanzi sì che va poco più sotto della cintura, e di dietro fino al ginocchio, e sotto una camicia di seta divisata di più colori, che giunge sotto il ginocchio, e in gamba hanno calze di panno, ed in testa una berretta lunga un terzo di braccio, fatta di lama d’argento a martello e tutta indorata, con una pennacchiera nella quale portano un pennacchio bianco”, e sono armati di scimitarre, cangiar, mannaie, archi e frecce. Con questi procedono anche quaranta cacciatori del Gran Signore con i cani (della divisione Sekbân?) e quattrocento uomini che l’anonimo dice Silictari, ma che descrive sempre a piedi, con un copricapo simile a quello dei Solak e sempre al seguito del sultano. In mezzo ai Solak si trovano quattro cavalieri “che portavano un’asta per uno in mano con una coda di cavallo appiccata, e di dietro a questi erano altri quattro che portavano una mazza d’ombrella, overo baldacchino, tutto d’oro, coperto di panno rosso. Venivano poi dodici a cavallo, quali conducevano un cavallo per uno in destra, tutti forniti di gioie e di perle molto riccamente”. Un segmento del corteo che ricorda molto quella parte della carovana descritta dal Brocardo in cui si trovano i quarantotto Mori, con l’ombrella di broccato simile a quella del Doge di Venezia. Continua l’anonimo: alle due ali dello schieramento centotrenta Ciaus a cavallo, vestiti di seta, oro e pelle, con mazze ferrate e d’argento, come le selle e i finimenti. Quindi Ibrahim Pascià, con quattro Capigi-bascì e il Miriacuba (evidentemente il Mîrahûr, maestro di stalla), seguiti da Achmet Pascià[122] e dal Solimano. Il sultano cavalca un morello guarnito di gioie e perle, “che valeva un tesoro, ed era vestito di raso cremisino e d’oro, con un piccolo berretto in testa, ed un fazzoletto bianco al collo”, mentre lo scortano quattro Solak rivestiti d’oro. Dietro al

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Solimano, i tre paggi, anch’essi rivestiti d’oro, che recano la spada, le vesti e la coppa del sultano, e sono seguiti a loro volta dagli stendardi e dai suonatori (nacchere, tamburini, piastre e trombe). In fondo al corteo giungono i Muteferica, con tre eunuchi (Capì agà, Caznadar-bascì e Odà-bascì[123]), duecento giovani del Serraglio e venti falconieri, “con quali finì l’ordine di questa entrata”. Risulta indubitabile da queste descrizioni la preminenza numerica nell’esercito turco, e di conseguenza nello schieramento visto dal Brocardo al Cairo, dei cavalieri sui fanti. Nel complesso, infatti, il Gran Signore può contare su centomila cavalieri in Asia e su circa cinquanta o sessantamila in Europa, oltre ai ventimila della Porta, ai Tartari, ai Valacchi e ai Moldavi. E se fra tanti cavalieri, scrive il Navagero, il sultano “ha solamente una banda di dodici mila giannizzeri[124], ciò rende le armate più adatte ad ingaggiar battaglia in luoghi spaziosi e non accidentati, dove non vi siano molti fiumi e passi da attraversare o fortezze da espugnare. I turchi dunque possono disporre di una cavalleria leggera, in genere facile alle manovre repentine e ben disciplinata, la quale risulta altrimenti adattabile, almeno nel nostro caso, ai particolari scopi e necessità di quelle carovane che, sotto gli attacchi dei predoni arabi e per migliaia di chilometri in regioni aperte e inospitali, ogni anno si dirigono in pellegrinaggio alla Mecca.

Il Navagero, comunque, termina con questo giudizio: se l’esercito turco, con tanti uomini e cavalli da nutrire, si trovasse lontano da casa in penuria di viveri, potrebbe essere sbaragliato facilmente facendogli terra bruciata intorno. E si sente in queste parole l’esperienza delle vicende che avevano condotto i Turchi all’assedio di Vienna, pur con i grandi successi di Belgrado (1521) e Mohács (1526), ma che, soprattutto nella campagna condotta in Austria dal Solimano, al di là dei problemi con la Persia avevano messo in evidenza le difficoltà dovute alla lontananza delle basi e all’insufficienza dei rifornimenti. E se il Navagero, nel febbraio del 1553, pronuncia queste parole, il Solimano un mese dopo entrerà in Aleppo con l’esercito, per condurre una campagna nella quale “le genti dell’esercito ogni giorno più mancavano e vedendo il Turco che già di vettovaglie, e d’ogni cosa era venuta una grandissima carestia, nel tempo ch’egli non aveva trovato cosa alcuna in quelle due città [Nakvan e Erivan] da potere rinfrescare l’esercito, sì come egli aveva pensato, e che l’invernata già si faceva vicina, fece deliberazione di ritornare nel suo paese”. E queste notizie si risapevano, poi, anche in Occidente[125]. Continua il Navagero, giacché cavalieri e fanti marciano senz’ordine, se si trovassero ad incontrare truppe ordinate come quelle tedesche, spagnole o anche la gran parte delle italiane, potrebbero ricavarne una sonora sconfitta “perché si vede chiaramente nelle antiche e moderne istorie, che chi ha confidato troppo nel numero e quantità degli eserciti e non nella qualità, è capitato sempre male. E se chi ha più

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danari, più stato, e più gente, dovesse esser sempre più grande degli altri, non si sarebbono mai vedute tante mutazioni al mondo quante si son vedute, mentre in ogni tempo sempre si è trovato qualche principe, o re più grande di tutti gli altri, il quale è stato estinto poi da altri di molto minor forza, ma di maggior unità; e ne son tanti e così chiari gli esempi che […] mi contenterò di questo solo della casa Ottomana, che in termine di dugento o poco più anni […] con la virtù de’ suoi è fatta ora padrona di quasi due parti del mondo”. Un monito per i veneziani e per gli stessi Turchi ad imparare dalla propria storia[126]. Ed un’eco di questo giudizio torna nelle relazioni dei baili successivi, le quali, a partire da quelle dei primi del secolo, tracciano un percorso di conoscenza del turco e del suo esercito che tende ad approfondirsi, evitando nella maggior parte dei casi ripetizioni inessenziali[127] ed esibendo una certa precisione nei numeri e nella terminologia. Abbiamo così una fonte di grande valore, figlia della diplomazia veneziana, in cui è segnato un progresso rispetto ad altre fonti che furono scritte, inizialmente, sull’onda dello sgomento per i ripetuti successi militari dei Turchi, dalla caduta di Tessalonica (1430) a quella di Costantinopoli (maggio 1453). Tuttavia le relazioni degli ultimi decenni del XVI secolo furono lette, questa volta, sull’onda del successo riportato dalle proprie armate. In esse si sente che il potenziale bellico del nemico fa meno paura e i difetti dell’esercito turco, che predilige il numero e l’obbedienza rispetto alla qualità e all’addestramento dei combattenti, vengono ripetuti e sottolineati, così come, e lo abbiamo visto, viene ribadita ed evidenziata la “degenerazione” dei Giannizzeri, “il fiore e nervo[128] di quell’esercito. Così il Morosini, nel 1585, per il quale i soldati turchi nell’obbedienza superano di gran lunga quelli cristiani, ma per bravura sono assai inferiori, “onde […] con certa speranza di vittoria potriano 10.000 cristiani affrontare 30.000 turchi, se bene per reggerli e governarli crederei che più facilmente si potessero tener in freno 100.000 turchi che 2.000 cristiani, e molto peggio se fossero italiani[129]. Secondo Matteo Zane, tutto l’esercito turco adotta sempre lo stesso modo di combattere, evidentemente quello descritto dal Trevisano e dall’anonimo narratore della campagna di Persia del 1553; inoltre la cavalleria usa

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sempre l’arco, la scimitarra, la mazza ferrata ed una lancia, piccola e debole “come zagaglia”, mentre la fanteria si serve dell’archibugio, ma le prove fatte dall’esercito turco nell’uso di queste armi, per quanto numerosi vi siano i cavalli e i soldati, non sembra che siano sufficienti perché esso possa degnamente stare a pari ad uno cristiano[130].

Tutti questi giudizi sembrano cambiare radicalmente la sostanza di quello celebre espresso dal Giovio al termine del suo trattatello[131], secondo il quale la disciplina militare regna sovrana fra i Turchi e i loro soldati sono superiori a quelli dell’Europa occidentale per tre ragioni “prima per la obbedientia […] la seconda perché nel combatter si va alla manifesta morte con una pazza persuasione ch’ognuno habbi scritto in fronte come et quando habbia da morir, la terza perché vivono senza pane et senza vino ei il più delle volte gli basta riso, et acqua, et spesso la passano anchora senza carne salata, qual portano in un piccol sacchettino, et con acqua calda la distemperano, et si nodriscono con essa, spesse volte sogliono nella necessità della fame sanguinar il cavallo, et con quel sangue sostentar la vita et mangiano la carne de cavalli molto allegramente, et sopportano ogni disaggio assai meglio che li nostri soldati […]”. Queste le conclusioni del Giovio: un consiglio all’imperatore Carlo V su come affrontare le armate del Solimano. Poiché la maggior difficoltà, negli eserciti cristiani, è proprio quella del trasporto delle vettovaglie, per rendere più agile la manovra e rimediare al numero e alla speditezza dei cavalieri ottomani, bisognerà ridurre il numero dei carri e la quantità del carico, affidando a ciascun fante, come nell’antica Roma, il necessario per sopravvivere, dotandosi al contempo di un’artiglieria più “espedita”, il termine usato dal Cambini (op. cit., l. IV, pp. 58-59), pochi anni prima, per indicare l’artiglieria turca dopo la riforma attuata da Selim I. Quindi si avrà certa e grande vittoria “conducendo fortissimi battaglioni di fanterie alemane per sostener et rebuttar li cavalli finché si possa penetrar alle lor fanterie, quali siano valenti come esser voglia, ma non potrano esser pari alli Pecchieri alemani aiutati dalle Archibusarie Boeme, Spagnole et Italiane, et rompendosi li Giannizzari si guadagnerebbe l’artiglieria e tutte le bagage […] poiché per viva esperientia li Giannizzari sono il vero nervo delle forze Turchesche […]”[132]. Una tattica, quella consigliata dal Giovio, che conferma lo schieramento da battaglia indicato dal Trevisano e usato dal Solimano nella campagna di Persia del 1553. Sulla stessa linea del Giovio è Benedetto Ramberti, segretario del Senato veneziano nella prima metà del XVI secolo, quando scrive: “Il mancamento delle fanterie fa, che oltra che hanno artiglierie non molto bone, non hanno il modo di poterle guidare alle imprese

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loro con securitate […]”, poiché forse i mutamenti operati da Selim I erano stati insufficienti[133]. Tuttavia più che di una svolta improvvisa[134], nei giudizi di un Morosini o di uno Zane, parrebbe giusto parlare di uno sviluppo di elementi già insiti nelle analisi effettuate durante l’età di Carlo V[135], per cui i giudizi del Giovio e del Navagero, più pragmatico il primo, più letterario il secondo (e comunque ambedue nel solco della tradizione per cui la storia è magistra vitae), segnano un momento di moderazione ed equilibrio, in cui si ricercano i motivi dell’espansione ottomana, ma che in qualche modo lasciano spazio ad un ragionato ottimismo, mentre, in definitiva dopo Lepanto, che affretta quell’evoluzione, e dopo la crisi dell’esercito turco causata dalla guerra contro la Persia[136], gli “analisti militari” a Venezia, sottolineata la decadenza e i difetti della parte avversa, guardano in ispecial modo ai meriti delle fanterie cristiane e sono assai fiduciosi, a certe condizioni e qualora se ne presenti l’occasione, di poter ottenere anche su terra una vittoria consimile[137]. Ed infatti, in quest’ottica, il Giovio e il Navagero fanno

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scuola e si ricalcano quasi fossero un modello letterario: così proprio quel Lorenzo Bernardo[138] che, al volgere del secolo, esorta in questo modo il doge ed il Senato: “L’impero e potenza turchesca è tanto grande […] e tanto con molta ragione deve essere sospetta a questa serenissima repubblica, che né il parlarne più d’una volta superfluo, né l’ascoltare deve esser reputato noioso. Anzi si deve con ogni studio procurar di penetrare ogni giorno più, con buona intelligenza e con frequenti relazioni, le azioni e i disegni di un tanto signore”, quel Bernardo che invita ad una frequentazione assidua del Turco per prevenirne le mire, fa ciò che altri aveva evitato in passato e si pone a ripetere ciò che il Giovio e il Navagero avevano già detto. Dal Giovio il Bernardo trae, riducendola a sistema, la teoria dei tre fondamenti su cui poggiava in passato la supremazia dell’esercito turco, ossia: “Li fondamenti poi sopra li quali han potuto li Turchi far così segnalate imprese e così mirabili progressi in poco tempo sono stati tre: la religione, la parsimonia e la obbedienza. La religione da principio li faceva arditi, la parsimonia pazienti e la obbedienza pronti ad ogni ardua impresa”, e non è chi non senta l’eco delle parole scritte dall’Arcivescovo di Nocera; però “da quel tempo in qua si conosce qualche alterazione, dalla quale si possa sperare col tempo che quell’imperio abbia da temer qualche principio di declinazione, perché questa è cosa certa, che ogni cosa mortale, come si vede esser l’imperj e regni, hanno principio, mezzo e fine, augumento, stato e declinazione”, un luogo comune che, come tale, potrebbe dirsi condiviso col Navagero e che a lui ci riconduce. Il Bernardo però non si limita a ricalcare un motivo letterario, bensì imputa alla guerra contro la Persia la crisi dell’esercito turco: “Avanti la guerra di Persia tratteneva il Gran Signore manco giannizzeri e manco spaì, e la paga di tutta la milizia era assai minore […] de poi furono accresciuti li giannizzeri e li spaì per metter guarnigioni insolite in venti e più fortezze acquistate e fabbricate alli confini di Persia”; e in ciò non si discosta da chi lo aveva preceduto, come Paolo Contarini, che abbiamo già citato e che già aveva testimoniato la decadenza dei Sipahi, “per il passato gente floridissima […]ma ora è essa ancora ridotta in povertà e miseria per esser stata mandata alla guerra di Persia […]”; come Maffeo Venier, anch’esso già citato a questo proposito, oppure come il Moro, per il quale i vari corpi dell’esercito turco erano quasi raddoppiati dopo la guerra di Persia. Ma alla qualità dei combattenti si era preferita la quantità. E quindi il Bernardo elenca gli episodi che hanno intaccato i fondamenti della supremazia turca, ossia quelle rivolte che hanno visto protagonisti, oltre agli Ulema: i Sipahi, quando si son sollevati contro il Beylerbey della Grecia, e specialmente i Giannizzeri, quando hanno appiccato il fuoco alla città di Costantinopoli e preso vendetta di un funzionario di nome Ibraim, che aveva fatto giustiziare due loro compagni[139]. Ma al termine del suo ragionamento il Bernardo ripete a suggello le parole

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precise del Navagero, termina infatti: “E se chi ha più danari, più stato o più gente dovesse sempre esser più grande degli altri, non si sariano noi vedute tante mutazioni al mondo, quante si son vedute di popoli restati estinti da molto minori forze, ma da maggior virtù”; un omaggio al Navagero il cui giudizio, quasi oracolo che si avvera, si ritorce nelle parole del Bernardo contro lo stesso Impero ottomano, cioè contro l’entità che, nel precedente bailo, era al tempo stesso l’esempio di tanta ascesa e la promessa di un futuro declino.

 

5. Breve storia del Mahmal

Alla fine di questa lunga digressione, dobbiamo ricordarci che abbiamo lasciato il nostro Pellegrino Brocardo dietro una finestrella alla moresca, ben occultato nell’ombra di gelosie socchiuse e in attenta contemplazione di fronte al passaggio di centinaia di Spachi e Giannizeri, questi ultimi coi loro alti pennacchi, svettanti sui caschi che brillano al sole d’agosto. Torniamo pertanto al Cairo dove il nostro pittore, alla fine della lunga schiera di cavalieri, fra urla festanti di popolo e il rumore sordo degli zoccoli, ci segnala l’arrivo degli elementi di punta di tutta la parata. Mentre infatti si allontanano gli ultimi cavalieri Chiaussi, Spachi e Giannizeri, accompagnati da una fanteria leggera di centoventi fra arcieri arabi e archibugieri turchi, ecco sopraggiungere il Capitano della carovana che il Brocardo chiama Cieco Alarbo[140]. Questo condottiero, in groppa ad uno splendido cavallo, è accompagnato dalla sua corte e da venti cavalieri armati di lunghe lance, così come da arcieri a piedi e a dorso di cammello, e da cammelli carichi di vettovaglie e masserizie da cucina[141]. Quindi, “passati costoro, stette buon pezzo che non si vide altro e volendoci già partir ecco che sentimmo un gran rumore, et affacciatici di nuovo alle finestre vedemmo da lunge un smisurato Cammello, tutto d’oro et di velluto nero coperto, sopra del quale era una arca, credo di legname, ma etiam di velluto nero tutta adorna, fregiata intorno di lettere Arabesche d’oro molto grandi, et havea quasi forma Piramidale”. L’arca piramidale vista dal Brocardo è proprio il Mahmal egiziano recante le offerte per la Mecca, vale a dire i drappi di seta ricamati e destinati a ricoprire la Ka‛ba[142]. E anche di questi drappi il Brocardo reca testimonianza, in questo modo: “Non solamente da quei di strada ma dalle finestre e terrazzi anchora, erano calati fazzoli et diverse cose per toccar detta archa, come sacrosancta. Questo è il

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dono et l’offerta, che portano al lor propheta Macone, con più di 200 palii d’oro, di raso et velluto, grandi circa sei braccia per lato i quali nove giorni prima vedemmo passar per detto Bazarro, spiegati a guisa di processione, cosa vaga a vedere”. Intorno all’arca, poi, danzano non meno di cinquanta “santoni nudi, dice il Brocardo, come li fece la mamma, con capelli ammollati et lunghi sino alle spalle et dibattevano il capo sul petto con tanta velocità che ne facevano maravigliar, con urli et voci spaventevoli, et parevano veramente baccanali”. A questo proposito ci può essere utile l’opera di Nicolas de Nicolay, il quale, trattando “delle quattro religioni diverse de’ Turchi, il modo loro di vivere, i ritratti de’ Religiosi, et prima de’ Geomaileri [sic]”, che poi vengono chiamati Gromalieri, li dice giovani di buona famiglia, desiderosi di andare pellegrini in luoghi diversi dell’impero, “come nella Barberia, nello Egitto, nell’Arabia, nella Persia, nell’India […]”. Fra essi vi sono artigiani e letterati che descrivono per iscritto i loro viaggi, i quali non vestono altro che “un picciol farsetto senza maniche di color di porpora […] tanto corto che non passa loro le ginocchia, cinti d’una cintura larga et longa […] negli estremi della quale sono attaccati certi sonagli d’argento […]”, che essi portano, sei o sette per ciascuno, anche legati sotto il ginocchio, ma “nel retro sono tutte l’altre parti del corpo ignude, eccetto che agli orecchi pendono anella d’argento o d’altro metallo”; ai piedi portano sandali di corda, “all’Apostolica”, e “per mostrarsi più difformi, et sfoggiati, et parer più santi, lasciano crescere le chiome molto longhe, portandole sparse sopra le spalle, come fanno le spose di Francia o di Fiandra, et per far crescere i capelli, et parer più longhi, usano continuamente della trementina o vernice, applicando tal volta per aggrandirli pelo di capra […]”, descrizione che non lascia dubbi circa la loro identificazione con i “santoni nudi” del Brocardo. Questi, continua il De Nicolay, quando si trovano insieme in gran numero, cantano facendo risuonare i loro sonagli, mentre uno solo di loro fa il “Tenore” accompagnandosi coi cembali, e tutti emettono un’armonia tale da dare gran diletto a chi li ascolta[143].

Lasciando dunque i Gromalieri al loro destino, la descrizione del Brocardo continua con la turba infinita di popolo e pellegrini, a piedi e su cammelli (“Et per esser tanti, gl’occhi si stancavano a mirarli […]”), che il pittore fa ammontare a circa 14.000 persone. Tutti si dirigono fuori della città nel luogo di raccolta, allora distante dal Cairo circa otto miglia, da dove otto giorni più tardi tutta la carovana prenderà il via per il suo lungo viaggio. L’intera processione durò, quel 24 agosto del 1556, dall’ora terza all’ora ventesima, cioè dalle prime ore dalla mattina fino a notte inoltrata[144].

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Così si conclude il resoconto del pittore ligure Pellegrino Brocardo, il quale ripartirà dal Cairo il 12 settembre dello stesso anno per fare ritorno ad Alessandria d’Egitto, dove avrà tempo e modo di scrivere ad Antonio Giganti, segretario del Beccadelli, la lettera di cui stiamo parlando. Ma quando il Brocardo giunse al Cairo, già da tre anni aveva concluso il suo ufficio, più che trentennale, il segretario addetto in Egitto all’organizzazione del pellegrinaggio, ossia quel Jazari che ci ha lasciato in particolare un resoconto sulla carovana del Cairo e sul Mahmal. Dall’opera di Jazari e da altre fonti musulmane, sulle quali si basa il saggio del Jomier che abbiamo già citato in precedenza, veniamo a sapere che il Mahmal, vale a dire il baldacchino piramidale che recava i drappi (Kiswa) per la Ka‛ba, viene menzionato per la prima volta nel 1266, e collegato al nome del sultano Zahir Rukn Eddin Baybars (1223-1277 circa)[145]. Jazari ci informa che, sotto il Pascià del Cairo Dâud (1538-1549)[146], la fodera del Mahmal fu

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arricchita con largo impiego d’argento e maggior cura nel lavoro, soprattutto per quegli ornamenti (ar-rosâfiyât) che in passato erano di rame e che furono rimpiazzati con argento dorato. L’esistenza dei drappi è attestata a partire dal 1320, anno in cui vi fu anche un Mahmal iracheno e il drappo egiziano era di seta gialla ricamata in oro. Sul colore delle stoffe, soprattutto nelle fonti occidentali dei secoli XVII-XIX, vi è molta confusione. Tuttavia, poiché con i Mamelucchi prima e con i Sultani ottomani poi, la carovana servì ad affermare nel mondo musulmano un primato politico ed il Mahmal era un simbolo potente di questa affermazione, le variazioni di colore delle stoffe possono essere spiegate in quest’ottica. Il giallo era il colore ufficiale dei Mamelucchi (e perciò il Thenaud parla di drappi d’oro), sostituito forse dal rosso in epoca ottomana, ma la testimonianza di Pellegrino Brocardo, che parla di stoffe nere, ci fa apprezzare la prudenza del Jomier su questo punto. Quanto poi alla testimonianza dello Zeno, sembra di poter affermare che l’usanza di ricamare versetti del Corano sul Mahmal non sia recente, come afferma il Jomier, ma possa risalire già alla metà del XVI secolo, e che anzi proprio da questo si origini la tradizione, nata in ambito occidentale, secondo la quale i musulmani recavano in dono alla Mecca, oltre alle stoffe, anche un Corano, che addirittura il Tournefort dice d’oro[147]. Comunque, negli anni precedenti l’insediamento

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del Pascià Dâud, con cui si ebbe l’arricchimento del Mahmal egiziano, il Solimano aveva già abbellito la sede della Ka‛ba, facendo costruire vari edifici per il culto; ma soprattutto, per supplire alla mancanza d’acqua, che mieteva molte vittime fra i pellegrini, il sultano aveva ordinato la ricostruzione degli acquedotti di Bedr Honein e di Arafat, e aveva fatto allargare i due bacini che si trovavano fra Safa e le tombe degli Sceriffi, l’uno per i pellegrini della Siria, l’altro per quelli dell’Egitto[148].

Sulle origini del Mahmal non abbiamo notizie sicure. Esistono ipotesi alquanto deboli che lo fanno risalire alle usanze di guerra dei beduini, così come alle tende o al parasole regali, né sappiamo quando sfilò per la prima volta al Cairo. Tuttavia, quando la tradizione fu ben radicata, ogni anno si svolgevano in quella città tre feste distinte.

1. La prima era quella del mese di cha‛bân, in cui il Mahmal e l’Âmir al-hajj, una volta usciti dalla Cittadella con la scorta, i portatori d’acqua, quattro qâdi, il luogotenente di polizia (al-mohtasib) e alcuni notabili, compivano il giro (dawarân) del Cairo, per ricordare che il tempo del pellegrinaggio si approssimava. Tale festa, all’inizio del XV secolo, si svolgeva di lunedì o di giovedì e veniva annunciata tre giorni prima dai banditori pubblici. Al termine si svolgevano tornei di cavalieri Mamelucchi, tra fuochi d’artificio e musiche, che continuarono fino all’inizio del XVI secolo, con incidenti anche gravi causati dai lancieri, con i saccheggi della popolazione e le relative punizioni che determinarono, talvolta, la soppressione della festa. Nel 1508 la cosiddetta festa del rajab fu definitivamente sostituita dall’ostensione dei drappi destinati alla Ka‛ba (Kiswa), da svolgersi nella prima quindicina del mese di chawwâl, tradizione alla quale si atterrà anche Selim I dopo la conquista dell’Egitto.

2. Una seconda cerimonia era quella del mese di chawwâl, per la partenza stessa della carovana, che fu vista dal Brocardo, nel 1556, quando venne a coincidere con il nostro mese di agosto. Il Mahmal, dalla moschea al-Hâkim dov’era riposto, raggiungeva la Cittadella e da qui, attraverso al-Mahgar, Darb-al-ahmar, Bâb-Zowayla e an-Nahhâssîn, veniva condotto fino alla porta Bâb-an-Nasr[149], da cui lasciava la città per

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raggiungere ar-Raydâniya, luogo in cui la carovana poneva il campo. Come anche testimonia il Brocardo, che dà un termine cronologico di otto giorni a questa prima sosta.

3. La terza festa era quella del mese di moharram, per il ritorno dei pellegrini[150].

Inoltre, come sappiamo anche dal Tournefort, esistevano quattro carovane e quindi le fonti musulmane, a partire dal periodo dei Mamelucchi, parlano di quattro Mahmal. Oltre al Mahmal egiziano, di cui le fonti non ricordano interruzioni, esistevano: un Mahmal yemenita, apparso per la prima volta nel 1297 e segnalato ancora all’inizio del XIV secolo, ma non più menzionato fino al 1379, quando riapparve nonostante l’ostilità degli egiziani; un Mahmal iracheno, le cui apparizioni, assai sporadiche a causa delle invasioni e delle turbolenze politiche, iniziano nel 1321 e si fanno più frequenti durante il secolo XV, causando una forte ostilità dell’Egitto; e un Mahmal siriano, visto da Caterino Zeno a Damasco nel 1550 e testimoniato per la prima volta nel 1293. In tempi normali l’esistenza dei due Mahmal, siriano ed egiziano, non era causa di discordia, poiché essi dipendevano da una medesima autorità, tuttavia quello siriano cessò per un breve intervallo, fra il 1507 e il 1511[151]. I due Mahmal, inoltre, come sappiamo da Ludovico de Vartema, percorrevano nella penisola arabica due strade

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diverse: quello egiziano, giunto ad Aqaba passando per Suez, seguiva la costa del Mar Rosso, mentre quello siriano prendeva la strada interna, parallela a quella costiera.

Ma risulta di grande interesse per noi il fatto che Jazari, nel suo resoconto, descriva la carovana del Cairo, accompagnata dal Mahmal, così come si svolgeva negli anni in cui egli fu un funzionario di primo piano nell’ufficio che organizzava il pellegrinaggio, ossia fra il 1517 e il 1553, ma soprattutto a partire dal 1521, anno in cui il Solimano decise di aggiungere una scorta di Kapi kullari alla carovana. Questa, fin dai primordi, ebbe a capo un Âmir al-hajj (Emiro del pellegrinaggio, l’Armiraglio del Menavino, detto “Amiralium a maris praefectura [?]” dal Lonicer, e il Minasagi dello Zeno). Con la conquista dell’Egitto da parte di Selim I, Jazari ci informa del fatto che l’organizzazione del pellegrinaggio subì una radicale riforma. Mentre infatti, sotto i Mamelucchi, è menzionato dalle fonti un altro funzionario, l’ar-rakb al-awwal (distinto dall’emiro del rakb al-mahmal), esso, a partire dal 1517, fu abolito dalla nuova autorità ottomana, la quale decise che l’Âmir al-hajj, a differenza dell’epoca precedente, in cui annualmente veniva sostituito, fosse confermato in carica per più anni. Alla fine dell’epoca dei Mamelucchi, l’Emiro del pellegrinaggio riceveva 11.000 dinari (achrafi) per far fronte alle spese del viaggio, che comprendevano cammelli, equipaggiamento vario, vettovaglie e acqua per i viaggiatori, i quali, soprattutto quando il pellegrinaggio cadeva nei mesi estivi, morivano a migliaia lungo la strada[152]. È naturale, poi, che questi funzionari, per i pericoli che il pellegrinaggio comportava, avessero anche competenze militari, quindi l’Âmir al-hajj, secondo Jazari, da un lato doveva avere buona disposizione militare per fronteggiare gli attacchi dei beduini del deserto, e a questo proposito vengono enumerati dalla nostra fonte tutti i luoghi del tragitto adatti alle imboscate, dall’altro doveva avere doti di grande organizzatore nell’assegnare gli incarichi alle persone giuste e nel sorvegliare che tali incarichi venissero bene espletati. L’Emiro del pellegrinaggio, inoltre, chiamava alla preghiera (e viene così confermato questo ruolo menzionato dal Tournefort), sceglieva l’itinerario da seguire, badava a risolvere ogni problema che si presentasse lungo il cammino e comandava alle forze armate, stabilendo i turni di guardia e i posti di blocco provvisori per assicurare il normale transito dei pellegrini nei luoghi di maggior pericolo. Infine la missione più nobile era quella misericordiosa di prendersi cura dei poveri e di proteggerli. Considerate dunque le qualità di cui doveva dar prova l’Emiro nell’affrontare i pericoli e le necessità del viaggio, pare veramente improbabile che Pellegrino Brocardo, chiamando Cieco Alarbo il condottiero della carovana del Cairo, lo ritenesse realmente cieco, ed è assai più verosimile che il Brocardo abbia storpiato il titolo di Shaykh al-‛arab, vale a dire Sciecco dei beduini arabi, che l’amministrazione ottomana aveva conservato, anche dopo la

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caduta dei Mamelucchi, con funzioni fiscali. Come gli altri funzionari, esso riceveva la nomina dal sultano, anche se spesso era candidato dal Pascià. Naturalmente vi erano più Sceicchi per le diverse province dell’Egitto e talvolta qualcuno di loro, soprattutto nell’Alto Egitto, poteva raggiungere il titolo di Sanjaqbey, comandando così ai reparti di turchi e Mamelucchi, compresi circa 50 o 60 Giannizzeri. La posizione più ragguardevole occupata da uno sceicco arabo fu, nel corso del XVI secolo, quella di governatore della provincia di Buhayra. Ma soprattutto, negli anni 1555 e 1556, fu Âmir al-hajj lo sceicco degli arabi ‛Awna di Buhayra, ‛Isa ibn Isma‛il ibn ‛Amir. Costui è certamente il Cieco Alarbo del nostro pittore ligure, che avrà avuto alle sue dipendenze un distaccamento composto da più di 50 Giannizzeri e vari corpi di cavalieri turchi e Mamelucchi (forse i 70 archibugieri e i 20 cavalieri con lunghe lance che lo seguono nella carovana descritta dal Brocardo, oltre agli arcieri arabi a piedi e su cammello). Questo sceicco ricoprì la carica di Emiro del pellegrinaggio anche successivamente, negli anni 1562-1563 e 1564-1565, e così suo figlio ‛Umar, negli anni 1590-1592, 1593-1594 e 1594-1595[153].

Stando dunque alla descrizione di Jazari, la carovana del pellegrinaggio procedeva dal Cairo e dalla valle del Nilo fino ai pozzi di ‛Ajroud (20 chilometri a nord-ovest di Suez). In testa venivano alcuni cammelli carichi di vettovaglie, quindi il personale al servizio diretto dell’Âmir al-hajj: in primo luogo gli inservienti addetti al trasporto delle tende (farrâchoun), poi i cucinieri, con i cammelli carichi di otri d’acqua e i portatori che procedevano su due file. Particolare non notato dal Brocardo, che pare come inebriato dalla massa di uomini e animali che vede sfilare. Questa antiguardia apriva la strada ai capi militari e alle autorità che partecipavano al pellegrinaggio, con al seguito il bagaglio trasportato da cammelli, anch’essi su due file. Gli oggetti preziosi con la scorta militare formavano la terza parte del corteggio ed erano seguiti dalla banda musicale egiziana, con tamburini, flauti e trombe, dai cammelli provenienti dall’arsenale del sultano (zardkhâne) e da alcune carrozze (‛arabât), la cui cura spettava all’Arabaci baºi[154]. Il tesoro consisteva nel denaro affidato all’Emiro per il mantenimento dei pellegrini (tohfat ar-rokkâb) e nelle somme da distribuire in Arabia (sorar); erano compresi inoltre i proventi delle pie fondazioni egiziane e turche, di cui una parte serviva al vettovagliamento. Queste casse venivano trasportate da tre cammelli ed erano ricoperte di seta gialla e rossa. Seguiva poi il tesoro del distaccamento militare scortato da lancieri scelti (sanjaq), forse i venti cavalieri con lunghe lance che invece, nella carovana del Brocardo, tengono dietro al Cieco Alarbo. Fin qui dunque, con quest’ultima eccezione, anche l’antiguardia descritta dal nostro pittore, in cui sono presenti in testa, dopo l’artiglieria, i cammelli con le vettovaglie, gli equipaggiamenti e i 48 mori, di cui 24 a cavallo e 24 con cavalli alla mano, nei quali possiamo identificare le cavalcature delle autorità civili e militari. Ed ovviamente il Brocardo non poteva sapere che in alcune casse, fra quante gliene scorrevano sotto gli occhi, era contenuto un tesoro

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di tale portata che, come sappiamo dalle fonti, era affidato al Caznadar, mentre il Mîrahûr doveva occuparsi del suo trasporto e il Kâhya, fra le altre incombenze, ne aveva alcune di natura finanziaria. A questo punto, sia nel Brocardo che in Jazari, arriva la scorta militare. Secondo Jazari i militari dipendevano finanziariamente da due autorità: alcuni erano alle dipendenze dello stesso Emiro (probabilmente le truppe di stanza in Egitto: i 107 Chiaussi, Spachi e Mori e i 102 schiavi del Pascià visti dal Brocardo), mentre gli altri, evidentemente i Kapi kullari, erano al soldo diretto del sultano. Al seguito dell’Âmir al-hajj erano compresi alcuni Mamelucchi (normalmente comandati da un Emiro dei Circassi), che erano 60 nel 1553, di cui venti delle guardie di Aqaba e Azlem, e che probabilmente sono da identificare con i 70 cavalieri armati alla leggera nella carovana del Brocardo. Invece le truppe regolari del sultano, inviate solo a partire dal 1521, ammontavano il primo anno a 350 uomini distribuiti in quattro compagnie (bolokât), ma nel 1535 i soldati si erano già ridotti a 240, mantenendosi all’incirca dello stesso numero negli anni successivi. E forse sono i 236 uomini di cui parla il Brocardo, quando cita la cavalleria di Chiaussi, Spachi e Giannizzeri.

Per integrare la parte destinata da Jazari alla scorta militare, bisogna dire che in questo periodo era di stanza in Egitto una guarnigione composta da sette odjak. I Giannizzeri (circa 1.400) controllavano soprattutto il Cairo e la Cittadella, per cui prendevano il nome di Mustahfizan (Guardiani). La fanteria degli Azapi, invece, era minoritaria (circa 700 uomini) e si distribuiva su tutto il territorio. Müteferrika e Çavuº (questi ultimi almeno 450) erano unità di cavalleria destinate alla scorta del Pascià, i primi a partire dal 1524, i secondi dal 1554. Erano previsti anche tre corpi di Sipahi, detti Gonulluyan (Volontari) e Tufenkjiyan (archibugieri). I Mamelucchi erano inquadrati in un corpo separato, il Cherakise odjak (corpo dei Circassi), mentre le fortezze disseminate sul territorio, e dunque anche quelle poste lungo il percorso del pellegrinaggio, erano presidiate da cannonieri e armieri (topçi e cebeci). La paga dei soldati, a seconda dei corpi di appartenenza, andava dai sei ai dodici aspri. I meglio pagati erano Müteferrika e Çavuº, mentre gli Azapi ricevevano la paga più bassa[155].

Tornando ora alla descrizione di Jazari, dopo i soldati della scorta, fra i quali un drappello pattugliava il deserto tenendo la carovana fra sé e la costa del Mar Rosso, veniva quella turba infinita di pellegrini e cammelli che il Brocardo non si sofferma a descrivere, per la sazietà dello spettacolo offerto dai cavalieri, e che Jazari dice composta in primo luogo dalle portantine, destinate alle donne e coperte per nascondere il loro carico, da altre vettovaglie e dall’equipaggiamento che il Solimano destinava su cento cammelli ai poveri, ossia tende, tappeti, vesti, viveri e acqua. Anche questa schiera procedeva su due file parallele con in testa due cammelli più robusti degli altri, ricoperti di stoffe rosse, e in coda la folla dei pellegrini. Quanto al Mahmal, non sempre si trovava nello stesso punto della carovana, ma, a partire dal 1553, si fece marciare in mezzo alle truppe insieme con l’Emiro e i suoi funzionari, così come poté vedere il Brocardo[156].

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Fra i funzionari subalterni all’Emiro, Jazari menziona: il Segretario dell’Emiro (dawâdâr), il principale dei suoi collaboratori. Il Qâdi del Mahmal, un magistrato che veniva scelto, prima, dal Pascià del Cairo o dall’Emiro del pellegrinaggio, poi dal gran Qâdi di Costantipoli, perché di fronte ad esso si firmassero tutti i contratti fra pellegrini e cammellieri (il Kâhya?). Due Testimoni del Mahmal. Il Segretario addetto all’ufficio del pellegrinaggio (kâtib diwân al-hajj), carica che fu ricoperta da Jazari e da suo padre prima di lui. Il Maestro di stalla (âmir akhôr), probabilmente il Mirquebir del Thenaud, l’Imbroorbascià del Menavino e il Morocorbassi del Cantacuzeno, ossia il Mîrahûr, che forse talvolta faceva le veci di Âmir al-hajj, oppure fu confuso dal Thenaud col capo della carovana: la sorveglianza degli animali, infatti, spettava a tutta la gerarchia dei funzionari che, per questo aspetto, prendevano ordini dal Mîrahûr; inoltre abbiamo visto, dal Menavino, come il Mîrahûr e il suo luogotenente dovessero occuparsi del trasporto del tesoro e dell’artiglieria del sultano quand’egli era in marcia. L’Intendente alle provvisioni (châdd as-sanîh, glossato per khâzin-al qout), probabilmente il Carnesagi dello Zeno e l’Intendant des caravanes del Tournefort, vale a dire il Caznadar. Il Contabile (al-qabbâni). Il Capo dei cucinieri (istaddâr as-sahba). L’Intendente dei portatori d’acqua (châdd as-saqqâ’în), con 1600 otri e 220 cammelli. L’Intendente del Mahmal (châdd al-mahmal). Il Capo dei portatori di torce (moqaddim ad-dawîya). Il Capo del personale addetto ai cammelli di razza e al trasporto di grano e cereali (moqaddim al-hajjâna e cha‛-‛âra). I Capi degli inviati particolari (moqaddimou-l-qawwâsa) per i rapporti con i beduini. Mîqâti e Muezzin, di cui il primo indicava l’ora della preghiera e la direzione della Mecca, non sempre facile da individuare nel deserto. L’Addetto ai recipienti di rame (at-tichtkhâne), che doveva fornire l’acqua per le abluzioni. Vi erano poi, oltre ai musici e a due poeti, gli inservienti addetti ai cammelli della corte dell’Emiro, quelli che si occupavano delle tende (al-farrâchoun), il personale preposto alla cura delle armi e delle munizioni (probabilmente topçi e cebeci), compreso un artificiere per le quattro occasioni in cui erano previsti fuochi artificiali, gli infermieri e i cucinieri (mo‛allim)[157]. E da questo lungo elenco possiamo solo immaginare quale immane fatica costasse, ad uomini come Jazari, coordinare l’organizzazione della carovana e il lavoro di decine e decine di persone, la cui esistenza il Brocardo non poté neppure sospettare nel momento in cui si vide sfilare sotto gli occhi la corte dell’Emiro insieme col Mahmal, oppure i cavalli “con selle vote ma bellissime, lavorate all’arabescha, et di molte gioie adorne, con le staffe et briglia d’oro et d’argento puro, con fiochi d’oro e di seta […] Et dopo questi era portata una ombrella di broccato simile a quella del Duce di Venetia”, simbolo del comando, e quindi le autorità con cui il pittore venne in contatto senza lasciarcene testimonianza diretta.

 

6. Pellegrino Brocardo e le autorità del Cairo

All’inizio del nostro lavoro abbiamo detto come il Brocardo, in realtà, faccia parte di un’ambasceria cui egli allude nella lettera in modo generico, non specificandone

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mai i componenti. Tale ambasceria, e lo sappiamo dalla commissione già citata e conservata nell’Archivio di Dubrovnik, aveva ricevuto l’incarico dai governanti della città dalmata (ma non possiamo escludere neppure la presenza di inviati veneziani[158] e forse di altri stati) di prendere contatto direttamente con il Pascià del Cairo, per motivi sicuramente commerciali, ma probabilmente anche politici in senso lato che noi possiamo solo supporre. Quando il Brocardo giunse ad Alessandria, al governo dell’Egitto si era succeduta, da circa un quarantennio, una serie di Pascià ottomani. Il Pascià del Cairo, detto anche Misir beylerbey (“Beylerbey dell’Egitto”, oppure in lingua persiana Mirmiran) restava in carica per un anno, quindi il suo ufficio veniva rinnovato di volta in volta, in media, per tre o quattro anni circa, ma vi furono governatori che restarono in carica anche per più di dieci anni, come il Dâud menzionato da Jazari. Alcuni di questi funzionari avevano il titolo di hadim (“servitore”), un eufemismo per eunuco, ed erano scelti proprio perché non avevano né moglie né figli. Provenivano spesso dalla carica di Tefterdâr o Caznadar, oppure erano stati governatori dei distretti di Erzurum e Diyarbakhr, dello Yemen, dell’Isola di Cipro o della città di Baghdad. Per svolgere le sue funzioni amministrative il Pascià del Cairo, che percepiva uno stipendio annuo di circa venti milioni di aspri, si avvaleva di un Diwan, modellato su quello di Costantinopoli, che riuniva quattro volte alla settimana. Fra i funzionari suoi sottoposti vi erano i Sanjaqbey (detti anche Muhafara bey, o in lingua persiana Mirliva), i quali, non essendo in vigore in Egitto il sistema del Timar, non erano legati ad un territorio preciso; il Tefterdâr (soprintendente alle finanze); l’Âmir al-hajj (Emiro del pellegrinaggio); l’Âmir khazna (Emiro del tesoro); i capitani dei porti; i governatori delle province rurali; i sirdars (comandanti dei drappelli destinati a combattere i beduini) e gli Agà dei vari corpi militari. Tutti avevano il titolo di bey e ricevevano un salario di circa due milioni di aspri all’anno, e chi aveva particolari incarichi, come l’Emiro del pellegrinaggio, riceveva più del doppio[159].

Inoltre abbiamo visto come, a partire dal marzo 1553, fosse Pascià del Cairo Mehmet, ex Beylerbey di Aleppo, scelto in sostituzione di Semiz Alì Pascià, che era divenuto terzo Visir della Porta e fu poi primo Visir. Il Solimano, infatti, nel mese di

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marzo del 1553, entrato col proprio esercito in Aleppo e raggiunta la sua residenza, andò a sedere e “subito che egli fu, fece dichiarazione di Mehemet beilerbei di Aleppo per beilerbei del Cairo, in cambio di Aly pascià che era in quel luogo, il quale era eletto per suo pascià-visir alla Porta. Di subito uno dei suoi schiavi portò questa nomina al beilerbei di Aleppo, il quale gli diede in dono cinquecento scudi d’oro[160]. Secondo la relazione recitata da Daniele Barbarigo nel 1564[161], che pur ne tace il nome, al “pascià del Cairo, successore del magnifico Aly”, e dunque al nostro Mehmet, giunsero lettere da Costantinopoli, da parte del primo Visir Achmed Pascià, evidentemente Kara Ahmet Pascià (che abbiamo già menzionato per l’entrata del Solimano in Aleppo), nelle quali si richiedeva molto oro e collaborazione “per far entrar sua magnificenza [ossia il suddetto Semiz Alì, terzo Visir] in disgrazia del Gran Signore, dicendo che avea rubato assai al Cairo”. Queste lettere finirono nelle mani di Alì, il quale le mostrò allo stesso Ahmet nel Divano. A seguito dello scompiglio sorto, il sultano, che orecchiava da dietro la grata, volle vedere queste lettere e quindi, fatti allontanare tutti i presenti, fece strangolare Ahmet sul posto. Qui termina il racconto del Barbarigo, il quale, a grandi linee, ripete la versione ufficiale dell’esecuzione del Gran Visir, dando conto di una vicenda che oggi è possibile ricostruire con maggiori particolari. Ahmet infatti, una volta raggiunta la dignità di Gran Visir, volle per Pascià del Cairo un suo parente, ossia un tal Dukagjin Mehmet di origine albanese, proprio quel Mehmet che il Solimano, poco dopo essere entrato in Aleppo, nel marzo 1553, destinò in effetti all’Egitto. A questo Mehmet, il nuovo Gran Visir raccomandava per lettera di aumentare di molto i proventi egiziani da inviare a Costantinopoli, da un lato perché intendeva eguagliare i risultati lusinghieri del rivale e predecessore Rustem, che aveva di molto ingrossato il tesoro del sultano, dall’altra perché voleva mettere in cattiva luce l’amministrazione del precedente governatore dell’Egitto, Semiz Alì, assai potente a corte. Alì, richiesto di spiegare l’incremento dei ricavi egiziani rispetto ai tempi della sua amministrazione, rispose al Solimano che, per non vessare l’Egitto, aveva preferito governarlo secondo le vecchie consuetudini. Il Solimano, da parte sua, ordinò un’inchiesta sull’operato di Alì, e questi, come sappiamo, riuscì ad evitarla intercettando le lettere di Ahmet. Ma soprattutto, come era successo con Ibrahim Pascià (1523-1536), dietro alla morte di Ahmet stavano Roxellana e il suo desiderio di vedere, nelle funzioni di Gran Visir, il genero Rustem (marito della figlia Mihruma), che aveva già avuto questa carica dal 1544 al 1553 e che adesso la ottenne per la seconda volta (1555-1561)[162]. Abbiamo visto quale fine facesse Kara Ahmed, ma anche il suo parente era scontato che non dovesse sfuggire per molto al castigo del sultano. Dukagjin Mehmet, infatti, fu richiamato a Costantinopoli nel 1556 e fatto giustiziare, ufficialmente per aver violato la Sharia, ma noi sappiamo per quale motivo[163]. Gli subentrò, dal 1556 al 1559, Iskander Pascià, forse d’origine balcanica o

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dalmata, come molti di quei giannizzerotti che venivano reclutati fra i cristiani col sistema del devºirme e che in molti, spesso, giungevano a ricoprire le più alte cariche dello Stato, compresa quella di Gran Visir. Ad esempio erano di origine illirica tanti Agà dei Giannizzeri, Beylerbey, Pascià e Visir della Porta, come gli stessi Gran Visir Rustem (croato), Kara Ahmed (albanese), Semiz Alì (dalmata) e quel Sokullu Mehmet, nato a pochi chilometri da Dubrovnik, che subentrerà in questo ruolo dal 1564 al 1579[164]. E basta sfogliare le pagine della raccolta di Albèri per rendersi conto del fatto che la grandissima maggioranza dei Visir della Porta provenivano da quelle regioni. Ma soprattutto aveva queste origini, nel XVI secolo, la maggior parte dei Pascià del Cairo[165], ad esempio, negli anni Cinquanta, Semiz Alì e il suo successore Dukagjin Mehmet, or’ora citati. Si può spiegare, dunque, anche il viaggio della nave Raugea, forse comandata dal nobile Pandolfo de Pozza-Puciæ, con la quale il nostro pittore compì l’ultima traversata, dalla’Isola di Creta ad Alessandria d’Egitto. Questa nave, probabilmente, trasportava la delegazione di una città che doveva intrattenere buoni rapporti con i Pascià del Cairo, per diversi e ovvi motivi, e forse su quella nave erano presenti anche inviati di altre città, o forse più europei si trovarono in Egitto, come accadde alla fine del secolo ad Aquilante Rocchetta. Quella delegazione, che la città di Dubrovnik inviava, si può ipotizzare che dovesse prendere contatto, recandogli un dono ed omaggiandolo, con un Pascià del Cairo di recente nomina, il quale, per giunta, proveniva da regioni limitrofe alla città dalmata. Ed anzi, se si tiene conto del fatto che la commissione conservata nell’Archivio di Dubrovnik è datata al 15 febbraio 1556, è lecito supporre che la notizia della destituzione di Dukagjin Mehmet giungesse a Ragusa già nel gennaio dello stesso anno o ai primi di febbraio, ragionevolmente a quattro, cinque mesi dall’esecuzione di Kara Ahmet. Per queste ragioni è probabile che fosse Iskander, e non Dukagjin Mehmet, Pascià del Cairo in quei mesi del 1556 in cui Pellegrino Brocardo giunse in Egitto dalla città di Ragusa. Iskander Pascià è forse da identificare con quello Scander-agà che l’anonimo cronista della campagna di Persia del 1553 dice Beylerbey di Erzurum, all’avanguardia dell’esercito turco con 25.000 cavalieri armeni, ma che in realtà era governatore del vicino distretto di Diyarbakhr, donde provenivano molti Pascià del Cairo, mentre il Beylerbey di Erzurum era Ayas. E forse il nostro Iskander è il medesimo che fu promosso Agà dei Giannizzeri, tre settimane dopo la stipula del trattato di pace con la Persia (maggio-giugno 1555), nel numero di quelli che si erano ben portati durante la campagna, come ad esempio Sokullu Mehmet, che da Beylerbey della Romelia divenne terzo Visir[166]. Quindi è possibile che, dopo

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l’esecuzione di Kara Ahmet (settembre 1555)[167] e la destituzione di Dukagjin Mehmet da Pascià del Cairo (probabilmente nei mesi gennaio-febbraio 1556), fosse innalzato a questa carica proprio quell’Iskander Pascià che già era stato ritenuto degno di essere premiato per il suo comportamento in guerra. Ed ecco come il Brocardo, durante la festa detta Tagliata del Nilo, precisamente nei giorni fra il 5 e il 6 agosto 1556[168], menziona il Pascià del Cairo nella sua lettera: “[…] nel calar del sole navigammo ad una isoletta dirimpetto al Cairo Vecchio [sc. ar-Rauda]. In capo di essa è una gran fabrica in forma di theatro, dentro della quale è una Colonna compartita a picchi, che vuol dir braccia, et quando dal suo letto ordinario il fiume è cresciuto 22 o 24 picchi, alhora è il tempo di farlo sboccare [sc. il Nilometro]. Quivi il Bassà del Cairo con la sua corte cenò et dormì, la notte istessa, et fece sparar tanta artiglieria, che fu un stupore, et le Germe tutte s’approssimarono alla detta Fabrica le quali erano adorne di molte Lampade in varii modi ordinate […] La mattina seguente a due hore di sole il Bassà con i suoi favoriti in una Germa rossa col baldacchino et altri ornamenti di velluto et raso cremisino, vestiti del medesimo, vennero via a remi, et altre barche navigavano con vele quadre […] Fatta ala dall’uno et l’altro lato il Bassà passò per mezo, et venne a piè d’una gran Torre di sei faccie posta su la Ripa[169] […] Accostatisi dunque tutti gli altri, corsero a gara per esser i primi, et radunate ivi tutte le Germe et piene le ripe, torri et arbori d’infinita Ciurma, fatte tutte le ceremonie da esso Bassà […] fece buttar in fiume per allegrezza assai sporte piene di varii frutti, et quei mori per prenderle natando s’attuffavano, et l’un l’altro se le toglievano, et gl’erano dai Turchi tirati assai raggi di modo che molti nell’acqua si scottavano. Finita questa festa il Bassà tornò all’isola, ove per quei giardini tutto ‘l dì si stette a spasso” E lì il Brocardo lo lascerà definitivamente.

Essendo questo il retroscena nel quale si muoveva il gruppo degli occidentali, e poiché, anche da vari elementi contenuti nella lettera del pittore ligure, si deduce che alcuni membri di quell’ambasceria dovettero prendere contatto con il Pascià[170], ritengo

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che il Brocardo non abbia ben compreso il senso degli avvenimenti cui prendeva parte indirettamente, e che lo spettacolo della carovana diretta alla Mecca, lungi dall’essere interdetto ufficialmente agli infedeli, in realtà fosse volutamente mostrato agli ospiti stranieri dalle autorità del paese, per impressionarli col fasto delle bardature, con la ricchezza delle offerte e con la potenza delle armi. E questa supposizione diviene ancor più ragionevole se consideriamo che quegli stranieri erano sudditi di potenze che l’esercito turco, di lì a breve tempo, avrebbe potuto incontrare in battaglia, e di fatto incontrò. L’impressione di potenza che i membri dell’ambasceria avrebbero riportato in patria era un ottimo strumento d’intimidazione messo in opera dalla propaganda turca[171]. Del resto questi, per il regno di Solimano il Magnifico, sono anni cruciali. Abbiamo visto la recente conclusione della guerra di Persia e l’avvicendamento sanguinoso dei gran Visir, a corte, e in Egitto dei Pascià, pochi mesi prima della partenza del Brocardo. In Europa, con la pace di Augusta (1555) e l’abdicazione di Carlo V, terminava un’epoca. Tuttavia, a dispetto della pace raggiunta ad Amasia (nello stesso 1555), sia con lo Scià Tahmasp, che così bene aveva usato l’arma della terra bruciata, sia con gli inviati di

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Ferdinando, per i Turchi continuavano in Ungheria gli scontri con gli Asburgo[172], mentre questi ultimi erano in guerra con la Francia, che perciò favoriva l’aggressività ottomana, e mentre nei Balcani e sui confini orientali il Solimano doveva far fronte ai frequenti disordini interni, anche nei primi mesi del 1556.

Rimangono, a questo punto, due ultime questioni da dirimere. La prima, relativa alle parole del Brocardo quando scrive: “Entrati adunque nella detta stanza per una porta segreta acciò da Mori non fussimo impediti, che di veder tanta pompa stimano noi indegni, affacciandoci a certe fenestrelle con sportelli a modo di gelosie [...]”. Ci sembra che qui il Brocardo alluda ad un’usanza musulmana, riferita anche dal Bassano, il quale scrive che i Turchi non usano finestre, tuttavia se qualcuno ha “il muro nella strada, vi fa le finestre, ma alte di modo che chi è dentro non v’arriva, et le serrano con vetri che non si possono aprire, et seppur qualche nobile ha finestre [donde si evince che il Brocardo e il suo gruppo erano in casa di un notabile del Cairo], vi tiene una gelosia stretta, et spessa intanto, che non si vede nulla, né si può aprire, et tutto questo fanno per gelosia, c’hanno delle loro mogli, e donne[173]. Si tratta appunto di una usanza che impone il divieto di guardare dentro le case in cui possano vivere donne non riparate dal velo, e per questo motivo non esistono sulla strada finestre che non abbiamo sportelli a modo di gelosie, ma ne sono sprovviste solo quelle che si affacciano sui cortili. Tale divieto è imposto a chiunque sia di sesso maschile, e quindi non solo ai cosiddetti Franchi.

La seconda e ultima questione è quella riguardante il passo in cui il Brocardo scrive: “Poi di lì a poco venne una parte della Cavalleria del Bassà ch’arrivavano al numero di 102, et dopo loro 26 giannizeri a cavallo con bellissimi et ricchissimi cerchiolli con pennacchi bianchi in capo. Et di più un’altra Cavalleria di Chiaussi et spachi, fra i quali cavalcavano molti giannizeri, con detti cerchielli et pennacchi in capo, erano fra tutti 236”. Abbiamo detto come si possa essere indotti a ritenere che quei cavalieri fossero Solak, e in realtà la descrizione del Brocardo, confrontata con quelle riguardanti il copricapo di vari elementi dell’esercito, ad esempio del Bassano e dell’anonimo cronista della campagna di Persia del 1553, pare rinviare a quegli elementi del corpo dei Giannizzeri. Ma se si tiene conto del fatto che i Giannizzeri erano una milizia di fanti[174] e che i Solak erano guardie del corpo del sultano, le quali comunque erano dotate in casi eccezionali di cavallo, bisogna ritenere che il Brocardo abbia erroneamente chiamato Giannizzeri quei cavalieri. Ma non pensiamo ad un errore quale fece il Barbarigo, che disse Giannizzeri i Sipahi, probabilmente indotto a ciò dal sistema di reclutamento comune ai due corpi (anche se è probabile che, nel gruppo dei 236 cavalieri della carovana del Cairo, vi fossero Giannizzeri a cavallo), bensì teniamo

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presenti, da un lato, le parole riservate agli schiavi dei Visir, nella descrizione dell’entrata del Solimano in Aleppo, i quali recano un elmo “assai simile a quello dei giannizzeri, coperto di feltro rosso […] e dalla parte dove si mette in testa fin dove principia a far la cima è un tondo tutto di fil d’oro tirato e lavorato in modo e congiunto l’un filo con l’altro, che altro che oro non si vede, ed è onestamente grosso. In fronte hanno una pennacchiera d’argento indorata, che come il cappello è lunga, nella quale portano un pennacchio […]” e, d’altro canto, riportiamo le parole del Bassano quando, parlando dei Solak, passa a trattare dei cavalieri detti Deli dai Turchi, e Zataznici nella loro lingua. Scrive il Bassano: “Li solacchi portano similmente una Zarcola come i Gegnizeri […] et è come un Cartoccio et in cima vi portano tutti la penna: con queste scuffie d’oro sono alcuni scuffignazzi detti a cavallo segnalati: questi stanno in Bosna […] sono oggi chiamati Serviani, e Cheruat et Illyri […]”[175]. Si tratta, come sappiamo anche dal De Nicolay, di cavalieri che seguono l’esercito come venturieri, anch’essi al soldo di Pascià, Beylerbey e Sanjaqbey, ma dimostrandosi assai più valorosi e motivati, come conferma il Cantacuzeno quando scrive: “non è signor o capitano in Turchia che non habbi qualcuno di questi Deli per pompa sua in compagnia”. Dunque una sorta di guardia del corpo a cavallo, di tali funzionari, sul modello di quella del sultano. Ora, se consideriamo che, nella descrizione del Brocardo, i ventisei cavalieri piumati vengono dopo i centodue schiavi del Pascià, e che molti Pascià erano di origine Illirica[176], possiamo ritenere che Iskander, quell’agosto del 1556, avesse incorporato nella scorta della carovana alcuni Deli o Zataznici, come del resto facevano già altri Pascià, Beylerbey e Sanjaqbey, dotandoli però di un’uniforme meno “barbara”.

Propongo infine qui di seguito, in quattro organigrammi separati e articolati, una comparazione fra l’esercito turco in marcia ai tempi del Solimano (1520-1566, cioè in epoca contemporanea ai fatti narrati da Pellegrino Brocardo e Caterino Zeno)[177] e lo sviluppo della carovana diretta alla Mecca secondo le descrizioni fornite al Cairo da Jazari, segretario addetto all’organizzazione del pellegrinaggio negli anni 1517-1553, e dal nostro pittore ligure, aggiungendo la descrizione della carovana di Damasco desunta dagli scritti dello Zeno, pur con le differenze che la contraddistinguono. Viene esclusa la descrizione del Thenaud perché precedente l’ascesa al trono da parte del Solimano e perché inutilizzabile ai nostri fini a causa della sua genericità, almeno per la parte riguardante il passaggio della carovana dalla città del Cairo.

 

p. 286

L’armata del Solimano il Magnifico in marcia nella descrizione dei baili veneziani e di altre fonti coeve (anni Quaranta e Cinquanta del XVI secolo)

 

Avanguardia: circa 600 Topçî (che trasportano su carri l’artiglieria da campagna: il Kethüdâ, luogotenente del Mîrahûr, si occupa degli animali da trasporto).

 

Fanteria: 12.000 Giannizzeri (armati di archibugi detti tüfenk. Le divisioni, Cemaat, Bölük, Seymen o Sekbân, e i reggimenti, odjak, sono comandati dall’Agà, a capo della seguente gerarchica di comando, in ordine crescente: Odah bas, Bölük-bas, Yaya-bas, dei seguenti aiutanti: Scrivano e Kâhya, o Protoghero, e dei seguenti comandanti: Sekbân bas, comandante di 34 compagnie o sekbân, e Kethüdâ bey, suo luogotenente; Zagardjî bas, comandante della LXIV compagnia di fanti e cavalieri; Bach çavuº, comandante della V compagnia di portaordini; Muhzir ağa, comandante della compagnia addetta alle trasmissioni fra il Divano e l’Agà; Yeniçeri efendi, addetto all’amministrazione; 2 Cadis asker, consiglieri del Sultano relativamente alla legge coranica, Sharia; 2 o 3 Tefterdâr, tesorieri).

 

Giannizzeri detti Solak (con elmi dorati e alti pennacchi. Compagnie LX-LXIII di arcieri, 360 secondo il Menavino, che marciano a due a due, 200 davanti al sultano, 100 dietro, 30 a sinistra, mancini, e 30 a destra):

 

200

30 – SULTANO – 30

100

 

(il Solimano a cavallo è seguito da 3 paggi: Silicdâr, Scarabdâr, Scodradâr; da Kapigi kethüdâ e 2 kapigi, cerimonieri e guardiani delle porte; e dall’Emiralem, portainsegna).

 

Sipahi (sei altî bölük: le prime due divisioni, in marcia, di 2.000 cavalieri ciascuna, ma per un numero complessivo di circa 3.000 cavalieri, le restanti di circa 1.000-1.500, ognuna comandata da un Agà, per un totale di circa 8-000-10.000 cavalieri in marcia e 12.000 nel complesso; 500 Sipahi Oglan montano la guardia alla tenda del Sultano; Gli Ulûfedji sorvegliano il tesoro del Sultano, ma, stando al Menavino, è probabile che anche Silictâr e Çarkadji si alternino in questi compiti):

Silictâr (giallo)                               Sipahi Oğlan (rosso)

Solbölük-Ulûfedji (bianco-rosso)    Ulûfedji (verde)

Solbölük-Çarkadji (verde-bianco)    Çarkadji (bianco)

 

4.500 schiavi a cavallo dei quattro Visir;

p. 287

circa 300 Müteferrika (lance spezzate);

 

Beylerbey della Grecia (in Europa)              Beylerbey dell’Anatolia

8 Sanjaq-40.000 Timarioti–50 Çavuº                    10 Sanjaq-60.000 Timarioti-50 Çavuº

(tutti i cavalieeri ammontano nel 1558, secondo Antonio Barbarigo, a circa 300.000, di cui 20.000 Valacchi, 15.000 Moldavi, 7.000 Tartari e 40.000 “venturieri”).

 

 

 

Schieramento assunto dall’esercito quando entra in battaglia, secondo il Trevisano e l’anonima relazione della campagna di Persia (1553-1554)

 

Beylerbey dell’Anatolia (in Asia)                 Beylerbey della Grecia

Cavalieri dell’Asia e artiglieria                     Cavalieri dell’Europa e artiglieria

(Prima entrano in battaglia i cavalieri detti Aghiar o venturieri, ad es. Scander-aga con 25.000 cavalieri armeni).

 

S                   Sei divisioni di Sipahi           S

 

I                   Artiglieria medio-piccola                 I

Giannizzeri, con al centro l’Agà e il Caznà

P                                                            P

Emiralem, circondato dai Müteferrika

A                  Grandi della Porta e Pascià              A

Solimano in mezzo a Solak e Çavuº

H        Paggi: Silictar, Scarabdar e Scodradar                  H

Capigilèr-chietcudasci

I                                                            I

carriaggi e animali

 

 

 

Schieramento assunto dall’esercito durante l’entrata nella città di Aleppo (campagna di Persia del 1553)

 

2.000 Silictari

450 cavalieri, schiavi dei Visir

(elmo assai simile a quello dei Solak, dorato e con un alto pennacchio)

400 Bölük baºi dei Giannizzeri, a cavallo

5 Sanjaqbey con i loro schiavi

Beylerbey di Caramania, con 60 schiavi

Beylerbey di Aleppo (Dukagjin Mehmet), con 300 cavalieri

 

Solak baºi

8.000 Giannizzeri a piedi (gli ultimi 300 con grandi pennacchi in testa)

Agà dei Giannizzeri

 

Cihangir, figlio del Solimano

p. 288

50 Solak

(in mezzo 4 cavalieri con un’asta in mano per uno, 4 con l’ombrella e 12 uomini a piedi che conducono a mano un cavallo)

40 cacciatori del Gran Signore con i cani (della divisione Sekbân?)

400 uomini detti Silictari

(sempre a piedi, con un copricapo simile a quello dei Solak, e sempre insieme al sultano)

130 Çavuº a cavallo

Ibrahim Pascià, con 4 Capigi baºi

Mîrahûr, maestro di stalla

Kara Ahmet Pascià e Solimano a cavallo

(scortato da 4 Solak e seguito dai tre paggi, dagli stendardi e dai suonatori)

 

Müteferrika con i tre eunuchi

200 giovani del Serraglio

20 falconieri

 

 

 

La carovana diretta alla Mecca nella descrizione di ‘Abd Al-Qâdir Al-Ansâri Al Jazari (Segretario nell’Ufficio del pellegrinaggio, al Cairo, fra il 1517 e il 1553)

 

Cammelli carichi di vettovaglie e personale incaricato. Addetti alle tende (farrâchoun) e alle cucine (i cammelli carichi di otri con i portatori procedono su due file parallele).

 

Capi militari e notabili (con i bagagli e i cammelli, su due file parallele).

Scorta militare (il Solimano invia una propria scorta a partire dal 1521. Nel 1553 tutta la scorta conta, fra l’altro, 60 Mamelucchi, di cui 20 della guardia di Aqaba e Azlem, e 240 schiavi del Sultano, divisi in 4 compagnie, bolokât. La scorta ammonta nel 1521 a circa 500 uomini, e a circa 350 nel 1553. Alcuni soldati pattugliano il deserto all’interno, sul lato opposto al mare. L’Amîr al-hâjj e la sua corte, con il Mahmal, occupano posizioni diverse, ma verso il 1553 procedono in mezzo alle truppe, come il Mahmal visto dal Brocardo).

 

Tesoro affidato all’Emiro (tohfat ar-rokkâb). Casse contenenti denaro da distribuire in Arabia (sorar). I ricavati delle pie fondazioni di Egitto e Turchia (tre cammelli per trasportare queste casse ricoperte di seta gialla e rossa).

Tesoro della scorta militare.

Cavalieri scelti armati di lance (sanjaq).

Banda musicale egiziana (tamburini, flauti e trombe).

Cammelli dell’arsenale del Sultano (zardkhâne) e carrozze (‘arabât).

Cavalieri scelti armati di lance.

 

Portantine delle donne. Cammelli con vettovaglie (su due file parallele: in testa due cammelli più robusti coperti di stoffe rosse). Equipaggiamento per i poveri (tende, tappeti, viveri, acqua e vesti, trasportate da cento cammelli).

Mercanti e Pellegrini.

 

p. 289

La carovana diretta alla Mecca nella descrizione di Pellegrino Brocardo

(Cairo, 24 agosto 1556)

 

(Lo schieramento è quello che l’esercito assume quando il sultano va in guerra e che è descritto dal Navagero, ma non quello assunto quando si attacca battaglia).

 

Avanguardia: 6 falconetti (piccoli cannoni su carri tirati da cavalli e cammelli carichi di munizioni; 36 corsieri carichi di armi bianche del tipo francese, tamburini e stendardi).

Saccomanni a cavallo (addetti alle salmerie e a vari servizi, forse con Topçî, che recano celate e corsaletti dorati).

24 Mori a cavallo e 24 a piedi con cavalli alla mano.

Ombrella di broccato simile a quella del Doge di Venezia (come per l’entrata del Solimano nella città di Aleppo durante la campagna di Persia del 1553).

Cammelli con l’equipaggiamento (vettovaglie, legna, masserizie, munizioni, otri d’acqua, lettighe per il Capitano e per gli ammalati).

 

Cavalleria di 107 Chiaussi, Spachi e Mori (probabilmente appartenenti alle truppe di stanza in Egitto).

70 cavalieri armati alla leggera (forse Mamelucchi. Il numero corrisponde più o meno a quello del 1553).

Cammelli carichi di vettovaglie, otri d’acqua, legna e lettighe.

102 cavalieri del Pascià.

26 Giannizeri a cavallo (con elmi dorati e alti pennacchi, forse Deli confusi con i Giannizzeri).

Cavalleria di 236 Chiaussi, Spachi e Giannizzeri (probabilmente Kapi kullari. Il numero corrisponde a quello del 1553).

50 arcieri arabi e 70 archibugieri turchi (probabilmente Giannizzeri armati di tüfenk, che erano agli ordini del Sanjaqbey).

 

Cieco Alarbo (a cavallo, osssia l’Âmir al-hajj. Negli anni 1555-1556 ricoprì questa carica ‛Isa ibn Isma‛il ibn ‛Amir, che era Sanjaqbey della provincia di Buhayra e Shaykh al-‛Arab, titolo storpiato dal Brocardo in Cieco Alarbo).

20 cavalieri con alte lance (forse Müteferrika o drappello del Sanjaq).

Arcieri a piedi e su cammello (probabilmente arabi).

 

Cammello rivestito di oro e raso nero (che reca un baldacchino piramidale: il Mahmal egiziano).

Intorno al cammello, 50 santoni nudi: i Gromalieri.

 

Mille cammelli e 14.000 pellegrini.

 

 

 

La carovana diretta alla Mecca nella descrizione di Caterino Zeno

(Damasco, 1550)

 

(il Menesaggi o Minasagi, cioè l’Âmir al-hajj, è assente poiché la carovana è quella che precede di tre giorni la partenza dalla città. Lo schieramento è simile a quello che l’esercito assume quando entra in battaglia, e che è descritto dal Trevisano e dall’anonimo cronista della campagna di Persia

p. 290

del 1553, ma soprattutto ricorda lo schieramento dell’esercito durante l’entrata nella città di Aleppo).

 

600 cavalieri, schiavi del Sultano (Kapi kullari);

165 cavalieri, schiavi del Pascià di Damasco (65 con “scuffie d’oro [...] e più ricchi pennacchi”, elmi assai simili a quelli dei Giannizzeri, come gli schiavi dei Visir nell’entrata dell’esercito in Aleppo, durante la campagna di Persia del 1553).

 

Checcaia (detto maestro di casa e tesoriere del Pascià. Il Kâhya, addetto a questioni militari e politiche).

 

6 passavolanti (su carri tirati ciascuno da due cavalli, e probabilmente accompagnati da Topçî).

2 tamburini e 3 flauti.

1.000 Gianizzari (armati di archibugi, tüfenk, e disposti a tre a tre come i cavalieri precedenti).

12 Gianizzari a cavallo in mezzo agli altri mille (ognuno reca a mano un cavallo ed è seguito da un cammello).

Agà con 200 Gianizzari (forse 12 Bölük bas e uno Yaya bas).

 

Carnesagi (a cavallo. Il Caznadar col Caznà al hajj?).

 

Cammello rivestito di broccato (che reca un padiglione ricamato in oro: il Mahmal siriano; intorno molti suonatori a piedi).

2 cavalieri (con due bandiere coperte una di seta rossa, l’altra di seta gialla, come nell’entrata dell’esercito in Aleppo, nel 1553). Suonatori su mule.

 

37.000 pellegrini (secondo un censimento del 1546).

 

 

 

Other articles published in our periodicals by Gianluca Masi:

 

La lettera di Antonio Pandolfi a Piero Machiavelli sulle vicende del principato di Moldavia negli anni 1547-1563 (cod. Pal. 815 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze)

 

Stefano il Grande e la Moldavia nei Commentari di Andrea Cambini e Theodoro Spandugino Cantacuzeno

 

 

 

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* Il presente lavoro prende spunto dalla mia partecipazione, nel marzo 2004, ad un ciclo di lezioni su La cavalleria nel Medioevo e nel Rinascimento (13 gennaio-30 marzo 2004), tenuto presso l’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere di Milano e organizzato dall’Istituto di Studi Umanistici “Francesco Petrarca” della medesima città, il cui Presidente, Prof.ssa Luisa Rotondi Secchi Tarugi, ringrazio cordialmente per l’invito.

[1] La patria del Brocardo, ritenuto in precedenza veneziano, risulta per la prima volta in Giacomo Lumbroso, Descrittori italiani dell’Egitto e di Alessandria. Memoria del socio corrispondente G. Lumbroso, letta nella seduta del 15 giugno 1879, in “Atti della R. Accademia dei Lincei”, anno 276, s. III, 1878-1879, Memorie della classe di scienze morali, storiche e filologiche, vol. III, Roma 1879, pp. 429-565, e si vedano in particolare le pp. 450-52. L’origine ligure del Brocardo è attestata da una grande carta prospettica della città del Cairo, disegnata dal Brocardo stesso e custodita attualmente nell’Archivio di Stato di Torino, Carte topografiche e fortificazioni, II vol., f. 10, col titolo: Nova et exacta Cayri Aegyptiorum Chorographia a Peregrino Brocardo ligure una cum Piramidibus anno Domini 1556. Augusti mense diligenter descripta, per cui si veda anche Roberto Almagià, Intorno al viaggiatore Pellegrino Brocardi, in “Rivista Geografica Italiana”, LXI, 1954, pp. 328-331; inoltre, sopravvive nella città di Ventimiglia una lapide nella quale Pellegrino Brocardo è detto originario di Pigna.

[2] Per il Giganti si veda Gigliola Fragnito, In museo e in villa, Venezia 1988, pp. 159-214. Mentre per il Beccadelli, oltre all’opera della Fragnito già citata, anche Idem, Memoria individuale e costruzione biografica. Beccadelli, Della Casa, Vettori, alle origini di un mito, Urbino 1978.

[3] La lettera del Brocardo fu pubblicata per la prima volta in Jacopo Morelli, Dissertazione intorno ad alcuni viaggiatori eruditi veneziani poco noti, Venezia 1803, pp. 31-49; e poi anche in Idem, Operette, vol. II, Venezia 1820, pp. 59-85. Il Morelli si basò esclusivamente sul Codice Marciano It. XI, 28 (6790), ff. 263-275, della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, intitolato Miscellanea di orazioni e lettere, l’unico che il celebre bibliotecario conosceva e che già era stato letto, nella prima metà del Settecento, dal doge Marco Foscarini. L’uno e l’altro ritenevano il Brocardo veneziano, anche se il Morelli escludeva che il viaggiatore appartenesse alla famiglia patrizia dei Brocardo, mentre il Foscarini aveva fatto ricordare il Brocardo nella seguente iscrizione: Peregrinus Brocardus […] pyramides ceterasque egiptiae et romanae antiquitatis reliquias graphice delineatas in patriam misit, posta fra l’Isola di Cipro e il delta del Nilo in una mappa ancor’oggi visibile nella Sala dello Scudo del Palazzo Ducale di Venezia, Cfr. Marco Foscarini, Della letteratura veneziana, Padova 1752, p. 377; Placido Zurla, Viaggi di Marco Polo, vol. II, Venezia 1819, p. 338. In realtà, a tutt’oggi siamo a conoscenza di almeno quattro testimoni manoscritti della relazione del Brocardo e cioè, oltre al Marciano, i Codici Palatino 1003 della Biblioteca Palatina di Parma e Vaticano Latino 6038, ff. 126-136 (in cui sono riportati nove disegni dei luoghi visitati dal Brocardo, che mancano negli altri testimoni e che sono a lui attribuibili), rimane quindi un ultimo manoscritto, anch’esso appartenente alla Biblioteca Apostolica Vaticana, ossia il Chigi N.II.42, ff. 132-141v. Quest’ultimo, sconosciuto a Gigliola Fragnito, Il viaggio in Egitto di Pellegrino Brocardo, in “Rivista Geografica Italiana”, no. 86, 1979, pp. 357-371, e Idem, In museo e in villa, pp. 109-158, è menzionato di sfuggita da Ludovico Micara, Il Cairo nella “Chorographia” di Pellegrino Brocardi (1556), in “Storia della Città”, no. 46, 1988, Il mondo islamico. Immagini e ricerche, pp. 7-18, in cui l’autore analizza esclusivamente il contributo recato alla conoscenza della città del Cairo dalla grande carta prospettica che il Brocardo disegnò nell’agosto 1556 e che oggi è conservata nell’Archivio di Stato di Torino. Il solo manoscritto Vat. Lat. 6038 riporta al termine della lettera la seguente indicazione: D’Alessandria alli XVII d’ottobre MDLVI, tutti gli altri testimoni recano la data generica del 1557.

[4] Del resto il Brocardo è uno dei rari viaggiatori occidentali, recatisi in Egitto nei secoli XIV-XVII, che redige a caldo il suo resoconto: la maggior parte, ad esempio Leone l’Africano, Filippo Pigafetta, Jean Thenaud ecc., scrive in media dieci anni dopo aver effettuato il viaggio, Cfr. Jeannine Guérin dalle Mese, Egypte, la mémoire et la rêve. Itinéraires d’un voyage, 1320-1601, Firenze 1991, pp. 35-36, la quale poi, alle pp. 218-227 in cui si occupa delle feste descritte dai viaggiatori, cita il solo Brocardo come testimone della carovana del Cairo, omettendo ad esempio il pur generico Thenaud, e nessun accenno riserva al Mahmal. Inoltre la Dalle Mese fa risalire la descrizione del Brocardo al 1557, poiché, basandosi sull’edizione del Morelli, non può conoscere la vera data del 1556 (riportata dal solo Cod. Vat. 6038 e confermata dalle lettere del Beccadelli), e così Stéphane Yerasimos, Les voyageurs dans l’Empire ottoman (XIVe-XVIe siècles), Ankara 1991, p. 247, che invece si basa sul solo Cod. Chigi; Cfr. anche Viaggiatori veneti alla scoperta dell’Egitto, a cura di Alberto Siliotti, Venezia 1985.

[5] Per i rapporti fra la città dalmata e i Turchi, si veda Bariša Krekiæ, Dubrovnik et le Levant au Moyen-Age, Parigi 1961, e Idem, Dubrovnik: a Mediterranean Urban Society, 1300-1600 (Variorum collected studies series 581), Aldershot (GB)–Brookfield (USA) 1997.

[6] L’epistolario del Beccadelli è attualmente conservato in alcuni manoscritti, non autografi, della Biblioteca Palatina di Parma. In particolare il Brocardo è nominato nei codici Pal. 1010 e Pal. 1013.

[7] Circa la nave ricordata in questa lettera è utile ricordare che, nell’Archivio Storico di Dubrovnik, in un volume intitolato: Lettere e Commissioni di Levante, 1555-1558, è conservata una commissione datata 15 febbraio 1556, nella quale il Rettore e il Consiglio di Ragusa, affidato a Pandolfo de Poza (della famiglia Puciæ) il comando di una nave, inviano il nobile ed altri mercanti a sbrigare un incarico di natura commerciale in Alessandria d’Egitto e quindi al Cairo, città quest’ultima in cui, dalla commissione, risulta che il gruppo deve prendere contatto con il Pascià. Questa testimonianza bene si integra con ciò che sappiamo dalla relazione del Brocardo il quale, nella sua permanenza al Cairo, dà per sottinteso un rapporto piuttosto stretto fra il gruppo di europei con cui si accompagna e le autorità del paese visitato. Ad ogni modo non sembra che il Brocardo abbia avuto rapporti diretti col Pascià del Cairo, col quale però è chiaro che alcuni membri della spedizione devono aver preso contatto. Queste circostanze potrebbero indurre a ritenere che la nave in oggetto nella suddetta commissione sia quella citata nella lettera del Beccadelli, ma se si considera che questi parla di una nave fiorentina e che il Brocardo prese più navi per raggiungere Alessandria, probabilmente la nave di Pandolfo de Poza è da identificare con quella Raugea sulla quale il Brocardo dice di essersi imbarcato a Creta per l’ultima tappa. Con tutto ciò bisogna aggiungere che, in una lettera dell’ottobre 1556, conservata nel medesimo volume succitato, è attestata la presenza stabile a Ragusa di un console della città di Firenze ed il passaggio, nel porto della città dalmata, di navi fiorentine fra cui quella del capitano Francesco Rustici. È questa, probabilmente, la nave che il Beccadelli dice ferma nel porto di Ragusa in quel mese di aprile del 1556, e che il Brocardo potrebbe aver usato per compiere la prima tappa fino all’Isola di Corfù. Ma per queste ed altre notizie riguardanti la vita del Brocardo e la sua relazione di viaggio, oltre alle opere della Fragnito già citate, Cfr. Ugo Tucci, in Dizionario Biografico degli italiani, vol. XIV, Roma 1972, s. v. “Brocardo, Pellegrino”, pp. 389-90 e Gianluca Masi, La relazione di viaggio dall’Egitto di Pellegrino Brocardo, pittore ligure, in “Atti del VII Congresso di Cultura Europea”, Pamplona, Università degli Studi della Navarra, 23-27 ottobre 2002, di prossima pubblicazione.

[8] Di seguito appongo uno schema delle tappe del viaggio compiuto dal Brocardo. Ricordiamo che i disegni sono tramandati dal solo Cod. Vat. Lat. 6038, ff. 126-136.

 12-25 aprile 1556, con una nave innominata (forse quella fiorentina di Francesco Rustici): RAGUSA–CORFÙ (disegno in scorcio della Fortezza. Qui il Brocardo, non trovando le galere grosse di Marco Soranzo, si ferma per circa un mese).

 10-29 maggio 1556, con la nave Riccia: CORFÙ–ZANTE (festa dell’Ascensa; due disegni: uno in scorcio della città e l’altro della lapide allora attribuita alla tomba di Cicerone), ZANTE–CRETA (disegno in scorcio del porto di Candia). Con la nave Raugea (con molta probabilità quella di Pandolfo de Poza–Puciæ): CRETA–ALESSANDRIA (due disegni: uno della Colonna di Pompeo e della Guglia, un altro in scorcio dei due porti, il Vecchio e il Nuovo).

 18 luglio-21 luglio 1556, lungo il Nilo: ALESSANDRIA–ROSCIETTO (ROSETTA o FORT RASHID) –SABBIONIBULACCO (BULAQ)–CAIRO (festa del Baiara).

 1 agosto 1556: MATHAREA (MATARYIA, a nord-est del Cairo, residenza della Sacra Famiglia in fuga da Erode).

 Notte fra il 5 e il 6 agosto 1556: CAIRO (festa detta Tagliata del Nilo).

 8 agosto 1556: MENFI (allora a diciotto miglia dal Cairo. Prima identificazione in assoluto, nell’età moderna, dell’antico sito archeologico della città di Menfi. Qui, alla metà del XIX secolo, l’egittologo francese A.F.F. Mariette, com’egli scrisse in una lettera a G. C. C. Maspero, scoprì il Serapeum avendo in mente Strabone, Geogr., XVII, I, 31-32).

 Notte fra l’8 e il 9 agosto 1556: PIRAMIDI (disegno della piramide di Cheope).

 24 agosto 1556: CAIRO (il Brocardo assiste alla processione annuale della carovana di pellegrini diretti alla Mecca).

 12-16 settembre 1556, lungo il Nilo (disegno del Navilio detto Germa): CAIRO–ALESSANDRIA (disegno in scorcio della città del Cairo; ma esiste anche, nell’Archivio di Stato di Torino, la grande carta prospettica che il Brocardo eseguì nel mese di agosto 1556, ritraendosi nell’atto di disegnare sulle propaggini del Jebel Moqattam).

 17 ottobre 1556: ALESSANDRIA D’EGITTO (il Brocardo, secondo la testimonianza del Cod. Vat. Lat. 6038, scrive la lettera al Giganti, in cui fra l’altro esprime la volontà di recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme, ma niente sappiamo circa questa parte del viaggio, se mai fu compiuta, né di quella relativa al ritorno a Ragusa, compresa la data).

[9] Nel mese di luglio 2002 ho visitato l’Isola di Šipan e i ruderi abbandonati dell’antico Vescovado, attualmente appartenenti ad un fondo privato con la funzione di ricovero per animali. Poiché non ho ottenuto dal proprietario l’autorizzazione a penetrare nella struttura, sono riuscito altrimenti ad entrare in possesso delle uniche fotografie esistenti di quegli affreschi, le quali probabilmente risalgono agli anni settanta del secolo scorso. Di quel ciclo sopravvivono, almeno in fotografia e già in cattivissimo stato, tre ritratti oltre alla firma dell’autore e alla data: […] intemelliensis pingebat MDLIX. In uno di questi ritratti, un personaggio vestito di toga e incoronato d’alloro è certamente da identificare con Virgilio. Infine, dell’attività del pittore ligure a Dubrovnik, rimangono nella Cattedrale della città un San Matteo Evangelista e nel Palazzo Djordjevic due grandi affreschi attribuibili, non senza qualche incertezza, al Brocardo, Cfr. anche Frano Kestercanek, Tragom jednog Michelangelovog djela u Dubrovniku, in “Prilozi povijesti umjetnosti u Dalmaciji”, no. 11, 1959, pp. 59-71, in particolare p. 61, n. 7 e Nada Grujic, Ljetnikovac Lodovica Beccadellija na Šipanu, in “Perištil”, 1969-1970, pp. 99-106. Per l’importanza che il resoconto del Brocardo assume nell’ambito della storia dell’egittologia prevedo, presso l’Istituto Papirologico “Girolamo Vitelli” di Firenze, una nuova edizione della lettera che tenga presenti tutti i testimoni manoscritti, almeno quelli a mia conoscenza, e che includa nel commento gli elementi di novità fin qui sorti, soprattutto quelli relativi all’attività del Brocardo a Dubrovnik, comprendendo altresì la parte più propriamente egittologica, che competerà alla Dott.sa Gloria Rosati del Dipartimento di Scienze dell’Antichità “Giorgio Pasquali” dell’Università degli Studi di Firenze.

[10] Cioè quattro giorni prima che Carlo V abdicasse e l’Impero fosse diviso fra Filippo II e Ferdinando I.

[11] Per le citazioni dalla lettera del Brocardo mi atterrò sempre, d’ora innanzi, al testo del Cod. Vat. Lat. 6038. Accese è lezione comune a tutti gli altri testimoni manoscritti. Mentre, per i termini in lingua araba e turca, conserverò la grafia adottata dagli studi che, di volta in volta, ho consultato.

[12] A questo proposito è utile consultare, oltre ad una carta dell’attuale città del Cairo, anche quella disegnata dal Brocardo e conservata nell’Archivio di Torino. I monumenti citati sono visibili anche nella Description de l’Egypte, Parigi 1809-1822, in cui sono raccolti i rilievi scientifici effettuati durante la campagna napoleonica; Cfr. inoltre Frederik L. Norden, Travels in Egypt and Nubia, Londra 1757; L. Micara, op. cit., in “Storia della Città” cit., passim.

[13] Andrea Gritti (doge dal 20 maggio 1523 al 28 dicembre 1538) aveva reintrodotto l’uso dell’ombrella cerimoniale, concessa da papa Alessandro III a Sebastiano Ziani, Cfr. Francesco Sansovino, Giustiniano Martinoni, Venetia città nobilissima et singolare, con aggiunta di tutte le cose notabili fatte et occorse dall’anno 1580 al presente 1663, Venezia 1663, pp. 363-364; Gina Fasoli, Liturgia e cerimoniale ducale, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, Firenze 1973; Antonio Foscari, Manfredo Tafuri, L’armonia e i conflitti, Torino 1985, pp. 24-25.

[14] Jean Thenaud, Le Voyage d’Outremer (Égypte, Mont Sinay, Palestine) de Jean Thenaud, suivi de La Relation de l’Ambassade de Domenico Trevisan auprès du Soudan d’Égypte, 1512, publié et annoté par Ch. Schefer, Parigi 1884, pp. 37-42, che riproduce l’edizione degli anni 1525-1530, senza data e senza il nome dello stampatore, col titolo: Le voyage et itinaire [sic] de oultre mer faict par frere Jehan Thenaud, maistre és ars, docteur en theologie et gardien des freres mineurs d’Angoulesme. Et premierement dudict lieu d’Angoulesme jusques au Cayre. On les vend à Parigi en la rue neufve Nostre Dame, à l’enseigne Sainct-Nicolas. L’opera del Thenaud, inoltre, è citata in La Bibliotèque du sieur de la Croix du Maine, Parigi 1584, p. 267, Cfr. l’Introduction a J. Thenaud, op. cit., p. LXXXIV. Forniscono notizie sull’autore J. Thenaud, Le Voyage d’Outremer, Ginevra 1971, riproduzione dell’edizione del 1884; e Idem, La Lignée de Saturne, ouvrage anonyme (B. N. Ms. fr. 1358). Suivi de La Lignée de Saturne ou le Traité de science poétique (B. N. Ms. fr. 2081), textes édités et présentés avec notes et commentaires par G. Mallary Masters, avec la collaboration d’Éliane Jasenas, (Travaux d’Humanisme et Renaissance, 130), Ginevra 1973.

[15] Per l’edizione romana di quest’opera: Itinerario de Ludovico de Varthema Bolognese, Roma 1510, in 4° (Cfr. ff. 14-21), ormai rarissima, si veda Francesco Barberi, Stefano Guillery e le sue edizioni romane, in Studi offerti a Roberto Ridolfi direttore de “La bibliofilia”, a cura di Berta Marocchi Bigiarelli e Dennis E. Rhodes, Biblioteca di Bibliografia Italiana 71, Firenze 1973, pp. 95-147 e Idem, Tipografi romani del Cinquecento. Guillery, Ginnasio Mediceo, Calvo, Dorico, Cartolari, (Biblioteconomia e bibliografia, Saggi e studi, 17), Firenze 1983. L’Itinerario fu poi variamente riedito, sia a Roma (1518), sia a Venezia (1526, 1535), sia a Milano (1511, 1519, 1523), e quindi incluso nei Viaggi di Giovanni Battista Ramusio. Il Vartema, nato probabilmente a Bologna intorno al 1465-1470, si era aggregato alla scorta della carovana partita da Damasco nel mese di aprile 1503, anno in cui le cerimonie del pellegrinaggio si ebbero negli ultimi giorni di maggio. Cfr. l’Introduction a J. Thenaud, op. cit., p. LXXI; si vedano inoltre Lodovico de Varthema, Viaggio di Varthema in Oriente, secolo XVI, Bologna 1884 (che contiene l’articolo di Ernesto Masi in “Rassegna settimanale di politica, lettere, scienze ed arti”, v. 2, n. 12, 1878); Itinerario di Ludovico de Varthema, a cura di Paolo Giudici, Milano 1928; Lodovico de Varthema, The travels of Lodovico de Varthema in Egypt, Syria, Arabia … A. D. 1503 to 1508, translated from the Italian edition of 1510, with pref. by John Winter Jones; and ed. with notes and an introd. by George Percy Badger, ristampa anastatica, New York 1963; Lodovico Varthema, Itinerario dallo Egypto alla India, a cura di Enrico Musacchio, Bologna 1991; Daniela Brandino, L’Itinerario di Ludovico de Vartema; un viaggio tra letteratura e antropologia, in “Levia Gravia. Quaderno annuale di letteratura italiana”, diretto da Mariarosa Masoero, II, 2000, pp. 189-217.

[16] Giovanni Antonio Menavino, Trattato de costumi et vita de Turchi, composto per Giovan Antonio Menavino Genovese de Vultri, al Christianissimo Re di Francia, Firenze 1548. L’autore, un marinaio genovese catturato dagli Ottomani e condotto a Costantinopoli, dove rimase per circa dieci anni, una volta libero forse militò nell’esercito del re di Francia, al quale dedicò la sua opera. Esiste anche un’edizione del 1551, intitolata I costumi et la vita de Turchi di Gio. Antonio Menavino genovese da Vultri. Con una prophetia et altre cose Turchesche tradotte per M. Lodovico Domenichi, Firenze 1551, compresa La miseria così dei prigioni come anco de Cristiani che vivono sotto il tributo del Turco, insieme coi costumi et cerimonie di quella natione in casa et alla guerra tradotti per M. Lodovico Domenichi, in cui l’autore tratta, fra l’altro, del sistema di reclutamento dei cristiani destinati all’esercito turco. Anche l’opera del Domenichi, dedicata a Carlo V, era già stata stampata nel 1548.

[17] Nicolas de Nicolay, Le navigationi et viaggi fatti nella Turchia di Nicolò de’ Nicolai … Nuovamente tradotto di Francese in Italiano da Francesco Flori da Lilla, Venezia 1580. L’opera del De Nicolay (1517-1583) fu riedita più volte fra Anversa (1576, 1577) e Venezia (1580, 1583). Cfr. anche N. de Nicolay, Dans l’empire de Soliman le Magnifique, presenté et annoté par Marie Christine Gomez-Gèraud et Stéphane Yerasimos, Parigi 1989.

[18] Gli Scritti di Caterino Zeno il giovane sono pubblicati in Ennio Concina, Dell’arabico. A Venezia tra Rinascimento e Oriente, Venezia 1994, pp. 109-118; Cfr. anche Idem, Fra Oriente e Occidente: gli Zen, un palazzo e il mito di Trebisonda, in “Renovatio Urbis”. Venezia nell’età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di Manfredo Tafuri, Roma 1984, pp. 265-290. Caterino il giovane, senatore (morto nello stesso anno 1550), non va confuso con l’omonimo antenato detto il Cavaliere, che la Repubblica di Venezia inviò in Persia nel 1472, Cfr. Niccolò Zeno, De i commentarii del viaggio in Persia di M. Caterino Zeno …, Venezia 1558. Questo Niccolò (morto nel 1565), figlio di Caterino il giovane, scrisse nel 1557 l’opera intitolata Dell’arabico, anch’essa pubblicata in E. Concina, op. cit., pp. 118-135. Gli scritti di ambedue i nobili veneziani sono tramandati dal Ms. Misc. Correr LXX/2482-2508, della Biblioteca del Civico Museo Correr di Venezia, e in particolare le cc. 108-109v conservano il Viaggio de li pelegrini che vanno alla Mecca. La presenza di Caterino Zeno il giovane a Damasco è attestata anche dai Diarii di Marino Sanudo (Venezia 1879-1903, t. IV, col. 420), in cui è riportata una lettera del 18 agosto 1502 indirizzata da Caterino al padre Pietro, il quale si era imparentato con la famiglia dei Sanudo sposando, nel 1479, Onesta Sanudo. Pietro Zeno, nel 1512, è detto console di Damasco nella relazione dell’ambasciata di Domenico Trevisan, pubblicata in J. Thenaud, op. cit., p. 195.

[19] Joseph Pitton de Tournefort, Relation d’un Voyage du Levant … par M. Pitton de Tournefort, 2 voll., Parigi 1717, passim. L’opera del Tournefort (1656-1708), che venne inviato da re Luigi XIV a compiere un viaggio nel Levante e in Africa e che fu professore di botanica al Jardin des plantes di Parigi e membro dell’Accademia, uscì anche a Lione, sempre nel 1717, ad Amsterdam l’anno dopo e nuovamente a Lione nel 1727. L’autore presenta se stesso e il suo metodo classificatorio nelle seguenti opere: J. Pitton de Tournefort, Élémens de botanique, ou Méthode pour connoître les plantes, par M. Pitton Tournefort, 3 voll., Parigi 1694; Idem, Tournefortius contractus sub forma tabularum sistens. Institutiones rei herbariae juxta methodum modernorum, cum laboratorio Parigiiensi ejusdem autoris. Accedit Materia medica a Paulo Hermanno … redacta … Accurante Christophoro Bernhardo Valentini, Francoforte 1715; Idem, Institutiones rei herbariae. Editio tertia, 3 voll., Parigi 1719. Ma si veda anche Idem, Voyage d’un botaniste, introduction, notes et bibliographie de Stéphane Yerasimos, 2 voll., Parigi 1982.

[20] Vissuto con molta probabilità a cavallo fra il XV e il XVI secolo, questo scrittore compose un’opera volta a diffondere la conoscenza degli usi e costumi dei Turchi, ma soprattutto a spiegare le ragioni della loro ascesa e delle loro conquiste. Quest’opera ebbe diverse redazioni, manoscritte e a stampa. Una prima redazione consiste nella traduzione francese desunta da un originale italiano, perduto, ed è testimoniata da tre codici della Biblioteca Nazionale di Parigi (fonds français 5588, 5640 e 14681). Tale traduzione ebbe come autore, probabilmente nel 1519, il signor de Raconis e venne dedicata al re di Francia Luigi XII. Giunto in Italia dopo il 1509, il Cantacuzeno inviò una copia ciascuno della sua opera a papa Leone X e al futuro vescovo di Verona G. M. Giberti. Questa versione fornì la base alle due edizioni a stampa, quella di Lucca del 1550: Theodoro Spandugnino della casa regale de Cantacusini patritio constantinopolitano, Delle historie, et origine de Principi de Turchi, ordine della corte, loro rito, et costumi. Opera nuovamente stampata, né fin qui missa in luce, Lucca 1550, e quella di Firenze del 1551: I Commentari di Theodoro Spandugino Cantacuscino, Gentilhuomo Constantinopolitano, Dell’origine de Principi Turchi, et de’ costumi di quella natione, Firenze 1551. Ma esiste anche la versione pubblicata da Francesco Sansovino nella Historia Universale dell’origine, guerre, et imperio de Turchi, raccolta da M. Francesco Sansovino, Venezia 1554. La redazione finale in italiano è contenuta in un altro codice della Biblioteca Nazionale di Parigi (fonds italien 881) che, nel 1538, fu offerto dall’autore al futuro re di Francia Enrico II, Cfr. Constantin N. Sathas, Documents inédits relatifs à l’histoire de la Grèce au moyen âge, vol. IX, Parigi 1890, pp. 138-261 (ma si vedano in particolare le pp. XVIII-XX), che presenta la versione del 1538, recante il titolo: “Theodoro Spandugnino, Patritio Constantinopolitano, de la origine deli Imperatori Ottomani, ordini dela corte, forma del guerreggiare loro, religione, rito et costumi dela natione”; di recente questa versione è stata tradotta in inglese da Donald Mac Gillivray Nicol, On the origins of the Ottoman emperors. Theodore Spandounes, Cambridge–Melbourne 1997. Marie F. Viallon, Venise et la Porte Ottomane (1453-1566). Un siècle de relations vénéto-ottomanes de la prise de Constantinople à la mort de Soliman, Parigi 1995, p. 35, n. 4, che qui ringrazio per le proficue discussioni che accompagnano i miei studi in questo campo, cita anche il manoscritto italiano 389 della Biblioteca Universitaria di Montpellier, intitolato: Del origine de Principi de Turchi, ordine de la corte loro et costumi de la Natione. Io, da parte mia, ho consultato l’edizione di C. N. Sathas.

[21] Paolo Giovio, Commentario de le cose de Turchi di Paulo Iovio …, Venezia 1540, con dedica all’imperatore CarloV; opera che uscì in prima edizione, sempre a Venezia, nel 1531 e che fu tradotta in latino col titolo: De rebus gestis et vitis imperatorum Turcarum, Wittemberg 1537.

[22] Luigi Bassano, I costumi et i modi particolari de la vita de Turchi, descritti da M. Luigi Bassano da Zara, Roma 1545 (ristampa a cura di Franz Babinger, Monaco di Baviera 1963). L’autore, vissuto nella prima metà del Cinquecento, dedicò il suo libro al Cardinale Rodolfo Pio di Carpi. Poi anche quest’opera trovò posto nell’Historia Universale del Sansovino (di cui, oltre all’edizione del 1545 del Bassano, ho consultato le edizioni veneziane del 1600 e del 1654).

[23] Cfr. Eugenio Albèri, Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, serie III, voll. I-III, Firenze 1840, 1844, 1855, in particolare la Relazione dell’Impero Ottomano del clarissimo Bernardo Navagero …, letta in Senato nel febbraio 1553, vol. I, pp. 33-110; la Relazione dell’Impero Ottomano del clarissimo Domenico Trevisano tornato bailo da Costantinopoli sulla fine del 1554, vol. I, pp. 111-192; la Relazione anonima della Guerra di Persia dell’anno 1553 e di molti altri particolari relativi alle cose del Solimano in quell’epoca, vol. I, pp. 193-269, e il Sommario della relazione di Antonio Barbarigo …, letta in Senato nel 1558, vol. III, pp. 145-160.

[24] Cfr. Jacques Jomier, Le Mahmal et la caravane égyptienne des pélerins de la Mecque …, (publications de l’Institut français d’archéologie orientale. Recherches d’archéologie, de philologie et d’histoire publiées sous la direction de M. Charles Kuentz – Tome XX), Cairo 1953.

[25] Cfr. J. Tournefort, op. cit., vol. II, pp. 68-69, pp. 83-85 e p. 240.

[26] Probabilmente l’odierna cittadina di Zabīd in Yemen.

[27] Qui il Tournefort si riferisce alla località detta ‛Arafāt, in realtà una pianura, mentre la collina cui lo scrittore allude può essere quella detta Hirā’, dove il Profeta avrebbe ricevuto la prima rivelazione, oppure con maggior verosimiglianza quella chiamata variamente Alāl, Ilāl o Ğabal ar-rahma, ossia il “Monte della Misericordia”, sulla cui sommità sorgeva un piccolo edificio a cupola (qubba) abbattuto all’inizio del XIX secolo. Quest’ultimo sarà sicuramente il monte Gibel così detto da Caterino Zeno. Ma si veda Christian Snouck Hurgronje, Il pellegrinaggio alla Mecca, tr. it., Torino 1989, e in particolare le pp. 95-112. La carovana che si originava a Bagdad probabilmente venne meno con la fine del califfato Abbasside, mentre fu il governo mamelucco ad istituire le due carovane del Cairo e di Damasco: la prima raccoglieva i pellegrini dell’Africa settentrionale e occidentale, partiti con un anticipo di almeno sei o sette mesi, oltre a recare i doni e le disposizioni del Sultano per lo Sceriffo della Mecca; la seconda era meta dei pellegrini dell’Anatolia, della Mesopotamia e degli stessi africani, Cfr. Abdullah Ankawi, The Pilgrimage to Mecca in Mamluk Times, in “Arabian Studies”, I, 1974.

[28] Joseph Guillaume Grelot, Relation nouvelle d’un voyage de Constantinople …, Parigi 1653, p. 228, chiama questo capitano Caravanbachi, al quale anch’egli attribuisce il potere di guidare la preghiera.

[29] Per la città di Damasco nel XVI secolo, si veda André Raymond, Grandes villes arabes à l’époque ottomane, Parigi 1985.

[30] Probabile storpiatura del titolo assunto dal capo carovana, ossia l’Âmir al-hajj, di cui riparleremo spesso in seguito.

[31] Per il funzionario che lo Zeno chiama Checcaia, si veda C. N. Sathas, op. cit., p. 213, nelle pagine in cui il Cantacuzeno parla dei Giannizzeri, i quali: “[…] se hanno tra loro qualche differenza, li Jaiabassi, li Cheaia et li Bulubassi […] li judicano, ma la appellazione va al grande Aga”. E così accadeva, secondo il De Nicolay, op. cit., l. III, cap. XI, p. 96, nel caso del Chechaya che egli dice, come lo Zeno: “Maestro di casa, posto per vedere tutto quello che entra et esce dalle cucine et anco per accomodare le differenze et querele che fra cuochi potriano nascere […]”. Si tratta probabilmente del Kâhya, funzionario che si occupava in generale di questioni militari, politiche e amministrative, Cfr. Halil İnalcık, The Ottoman Empire. The Classical Age, 1300-1600, Londra 1973, Glossary, p. 222, s. v. Kâhya bey. Probabilmente esisteva una gerarchia di questi funzionari, che secondo le fonti erano inseriti in tutti i corpi dell’esercito e dell’amministrazione, compreso il Kâhya bey cui il Visir demandava alcuni compiti in materia militare e politica. Nel Serraglio, ad esempio (secondo L. Bassano, op. cit., cap. XIIII, p. 18), “Hannovi uno che governa tutta la casa, il quale chiamano Chechaia, et doppo il padrone egli è il primo, et tutti obbediscono a quanto egli ordina”.

[32] Potrebbe trattarsi di uno dei due funzionari che il Cantacuzeno dice una volta Casnatarbasi. (in C. N. Sathas, op. cit., p. 204): “Lo altro grande delli eunuchi ha un officio che si adimanda Casnatarbasi, che vuol dir capo del thesoro; questo è il thesoriero secreto di casa del signore; un altro thesoriero è di fuori, del qual diremo a suo loco […]”, e quindi Casnatharbassi (in C. N. Sathas, op. cit., p. 216): “Il Casnatharbassi di fuora è il gran thesoriero generale, questo ha quaranta altri thesorieri sottoposti a lui […] Questo officio era di molto più reputatione nelli passati tempi che al presente, perché al tempo di Sultan Selim in qua hanno dato più riputatione al thesoriero eunucho intimo […] et dicessi che da molti anni in qua questo Casnatharbassi […] è obbligato metter ogni giorno centomila aspri in deposito nel Casana, che è un luogo con certe torre in Constantinopoli ove si tiene il thesoro dello imperatore […]”. Da ciò si evince che, dei due funzionari addetti al tesoro, vale a dire i Caznadar, uno apparteneva all’Enderûn, ossia quello chiamato “eunucho intimo”, e l’altro detto “di fuora” al Bîrûn; ed è quindi probabile che il Carnesagi citato dallo Zeno (forse mutuato da un’espressione simile a Caznadar al-hajj, cioè Tesoriere del pellegrinaggio, oppure con Carnesagi lo Zeno voleva designare semplicemente il Caznà al hajj, tesoro del pellegrinaggio) vada identificato col secondo funzionario che, a detta del Cantacuzeno, pagava il soldo a tutti i Giannizzeri, oppure con un suo sottoposto. Al primo funzionario, cioè all’eunuco dell’Enderûn, allude Bernardo Navagero nella sua relazione (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 44): “Sono nel detto serraglio cinque case […] La quarta casa si domanda il caznà, ove abita il caznadar-bascì, che vuol dire gran tesoriere”; quindi (in E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 94-95), circa la stanza del tesoro, cita i Caznadar, che pesano e contano i ducati e gli aspri. Vicino, infatti, è una “casa grandissima chiamata caznà, ove si mettono tutte le scritture dell’entrate del Gran Signore, e pongansi in tante casse tutti li conti che son mandati da tutte le provincie, e in ogni cassa sono scritti di fuori, ed attaccati li millesimi d’anno in anno, e li conti dei vari luoghi, terre e provincie. In quel caznà si mettono pure li ducati, e danari […] Questo caznà si apre li quattro giorni del divano, che sono il sabato, la domenica, il lunedì e il martedì […] quando si vuole aprire va il ciaus-bascì, e leva in persona il bollo, e mostra quella cera al primo pascià, e così fa al caznadar del divano. Quando poi si vuol chiudere, va il ciaus-bascì a pigliare il bollo dal primo pascià […]”. Cfr. anche M. F. Viallon, op. cit., Glossaire turc, p. 265, s. vv. Caznà e Casnadar; H. İnalcık, op. cit., p. 82, lo schema in cui l’autore descrive l’amministrazione ottomana, articolata in amministrazione centrale (a sua volta divisa in Enderûn, servizi interni, che comprendeva fra l’altro la camera del tesoro, e Bîrûn, servizi esterni) e amministrazione provinciale (Eyâlet), con i relativi funzionari.

[33] Comunque la descrizione fornita dallo Zeno, diversamente da quella del Brocardo, oltre al fatto di riguardare la carovana di Damasco, si riferisce ad una parata che precede di tre giorni la partenza dalla città e che non prevede la presenza del Capitano (Menesaggi-Minasagi). Questi infatti, accompagnato dalla carovana, lascia Damasco tre giorni dopo gli avvenimenti descritti dallo Zeno e va ad alloggiare fuori della città, nella località detta Cuba, a due ore di cammino, quindi si dirige a Mezarib dove tutti attendono otto giorni, prima di partire per il viaggio. La carovana descritta al Cairo dal Brocardo, invece, registra la presenza del Capitano (il Cieco Alarbo) e si dirige immediatamente fuori della città nel luogo da cui, difatti, ripartirà otto giorni dopo.

[34] Per il monte Gibel, cui si è già accennato, e per i riti di ‛Arafāt, si veda Christian Snouck Hurgronje, op. cit., pp. 104-108; Jacques Jomier, La figure d’Abraham et le pèlerinage musulman de la Mekke, in Mélanges Eugéne Tisserant, vol. I, Città del Vaticano 1964, pp. 229-244.

[35] Questo funzionario potrebbe essere, in quel periodo, il corrispondente di quello che il Cantacuzeno chiama Morocorbassi (in C. N. Sathas, op. cit., p. 217): “El Morocorbassi è il gran maestro di stalla del signor; questo ha mille Janizarotti et schiavi deputati alle stalle di ditto signore, et trecento di quelli sonno in corte del Signore et li altri settecento sonno distribuiti a varii et diversi maestri di stalla dello imperatore […]”. Il Morocorbassi del Cantacuzeno è quello che il Menavino dice Imbroorbascià (op. cit., l. IV, pp. 148-150), ponendo alle sue dipendenze novecento uomini e aggiungendo che: “quando il Re va in campo sono obbligati caricare le robe del gran Turco e massime la cassa del thesoro, un’altra parte portare paviglioni del Signore, et della famiglia sopra li Cameli et un’altra parte biade per li cavalli, et l’altra per sellare et governare i cavalli […] et quando il Re va in campo li manda tutti a pigliare costui, et similmente li Cameli […]”. Proprio come accadeva nelle carovane che andavano alla Mecca (anche in assenza del sultano, che pure per le spese del viaggio inviava denaro dal suo tesoro e provvedeva alle vettovaglie e all’equipaggiamento insieme col Pascià). Si tratta del Mîrahûr (H. İnalcık, op. cit., p. 82, e Glossary, p. 223), appartenente al Bîrûn, il quale, per le sue mansioni specifiche, e come vedremo per il fatto di essere uno dei principali funzionari addetti all’organizzazione della carovana, è possibile che talvolta assumesse le funzioni di capo carovana, ovvero di Âmir al-hajj (Emiro del pellegrinaggio), il Minasagi dello Zeno, oppure semplicemente il Thenaud ne ha equivocato il ruolo all’interno della carovana. Secondo il Menavino esisteva anche un altro maestro di stalla, detto Cucchiucchi imbroorbascià, “cioè maestro di stalla piccolo” (probabilmente un luogotenente, Kethüdâ, del Mîrahûr), che comandava a cinquecento uomini ed aveva in custodia tutti i cavalli, i cammelli e i muli di poco prezzo destinati al trasporto dell’artiglieria, e che dunque avrà provveduto anche a quei falconetti visti dal Brocardo, oppure ai passavolanti dello Zeno.

[36] Il pellegrinaggio aveva grande importanza non solo religiosa, ma anche politica, civile e in particolare economica, poiché le carovane recavano numerosi e ricchi prodotti africani, del Medio oriente e dell’India, che venivano smerciati durante il viaggio. Sulla Mecca come mercato, si veda Carlo M. Cipolla, Guns and sails, Londra 1965 e Patricia Crone, Meccan trade and the rise of Islam, Princeton 1987.

[37] Vale a dire all’incirca dal 25 al 29 marzo 1512, ossia cinque anni prima che l’Egitto cadesse sotto il dominio di Selim I (1512-1520). Ma è possibile che il Thenaud computi, oltre al giorno in cui effettivamente la carovana abbandonava la città, come nel resoconto del Brocardo, anche i tre giorni precedenti cui allude lo Zeno nella sua descrizione della carovana di Damasco.

[38] I drappi di cui parlano le fonti consistono nelle Kiswa, ossia le stoffe di seta ricamata che i sultani inviavano in dono e che, a differenza di quanto dice il Thenaud, erano destinate a ricoprire la Ka‛ba, la celebre pietra nera della Mecca. Si tratta perciò del Mahmal, che il Brocardo vide al Cairo e di cui parleremo più avanti.

[39] Il Vartema, trattando del Cairo, nel II capitolo dell’edizione romana del 1510, non cita la carovana; quindi, nel capitolo VIII (Come da Damasco se va alla Mecha […]), esclude ogni descrizione aggiungendo soltanto: “[…] nel Mille Cinquecento e tre, adì VIII de Aprile metendose in ordine la Caroana per andare alla Mecha, et io essendo volonteroso de vedere varie cose, et non sapendo in che modo, pigliai grande amicitia con lo Capitaneo de dicti Mamaluchi della Caroana […]”, per poi enumerare le tappe del viaggio fino alla Mecca. E qui, nel capitolo XV (Como è facta la Mecha: et perché vanno li Mori alla Mecha […]) cita la carovana del Cairo in questo modo “allora che noi intrassemo in dicta cità trovassemo la Caroana del Cairo la quale era venuta VIII giorni in prima de noi: perché non vengono per la via che venissemo noi. Et in la dicta caroana si erano LXIIII mila Cambelli [sic] et C Mamaluchi”.

[40] G. A. Menavino, op. cit., l. I, pp. 82-85, cap. XIIII (Come la gente della Turchia vanno in peregrinaggio alla Meccha).

[41] Anche Lonicer, Chronicorum Turcicorum, in quibus Turcorum origo, principes,, imperatores, bella, praelia, caedes, victoriae, relique militaris ratio … omnia nunc primum bona fide collecta … a … D. Philippo Lonicero …, 2 ll., Francoforte 1584, l. II, pp. 112-114 (De peregrinationibus Turcarum Mecham versus caput XIIII), cita questo personaggio, ma in realtà, mentre altrove riprende il Giovio, almeno per tutta questa parte non fa altro che tradurre in latino il Menavino aggiungendo qualche precisazione, come in questo caso. Scrive infatti a p. 113: “Soldanus Alcairi trium dierum itinere per hospitalia sua excipit, rerumque necessarium apparatu fovet et deficit. Deinde summum ducem, quem Amiralium a maris praefectura vulgo nominant, addito ingenti Mamalucorum numero, eis presidii loco adiungit, ut Mecham usque eos comitetur, et adversus latrunculorum Aethiopum hinc inde in cavernis vel subterraneis meatibus latitantium (rarae enim ibi sunt silvae et arbusta, sub quibus se occultent) insidias tueantur. Regio ista arenosi instar est aequoris. Ingentes saepe arenarum cumulos montium instar venti impetus attollit, aliosque congestos disiicit […]”. Evidentemente il titolo di Armiraglio che si trova nel Menavino e quell’aggiunta del Lonicer “Amiralium a maris praefectura” testimoniano un fraintendimento della parola Âmir al-hajj, che indicava l’Emiro del pellegrinaggio, cioè il Minasagi dello Zeno. Con questo probabilmente non va identificato il funzionario detto dal Tournefort Intendant des caravanes, col quale forse l’autore francese indica il Caznadar (tesoriere), mentre un altro funzionario presente nella carovana poteva essere un Agà del Bîrûn, addetto di solito alle scuderie del Gran Signore, ossia il Mîrahûr, accompagnato da altri funzionari con competenze riguardanti il tesoro e le questioni politico-militari, come nel caso del Kâhya. Ma vedremo in seguito, basandoci sul saggio di J. Jomier e sulla sua fonte musulmana, Jazari, quali fossero i funzionari principali e secondari presenti nella carovana.

[42] L. de Vartema, op. cit., cap. XV (Como è facta la Meche: et perché vanno li Mori alla Mecha […]), non menziona il nome del monte, ma si limita a questa descrizione “Da l’altra banda dove leva il Sole, è un’altra boccha de montagne a modo de una vallata per la qual se va al monte dove fanno el sacrificio d’Habraham et Isaac: el quale monte sie lontano da dicta cità circa VIII o X miglia… et in cima de dicto monte è una Moschita a usanza loro […]”. Evidentemente il Monte della Misericordia.

[43] Cfr. N. de Nicolay, op. cit., l. III, capp. XXI-XXII, p. 117 e p. 120.

[44] Cfr. soprattutto ‛Abd al-Qâdir al-Ansâri al Jazari, ad-Dorar al-farâ‛id al-monazzama fî akhbâr al-hâjj wa Tarîq Makka al-mo’azzama, citato in J. Jomier, op. cit., passim. Jazari fu, al Cairo, segretario presso l’ufficio incaricato dell’organizzazione del pellegrinaggio fra il 1517 e il 1553.

[45] Cfr. B. Navagero in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 64.

[46] Dice il Cantacuzeno (in C. N. Sathas, op. cit., p. 217): “Sono anchora 200 Zausi; prima non erano più che 100, ma sultan Selim et sultan Suleiman presente imperatore li ha redotti a questo numero di 200; et hanno un capo, qual si chiama Zausbassi […]”. Nel 1573 il Garzoni ne conta quattrocento (Relazione dell’Impero ottomano del Senatore Costantino Garzoni stato all’ambasceria di Costantinopoli nel 1573, in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 418), Cfr. anche H. İnalcık, op. cit., pp. 82-83, e Glossary, p. 218, s. v. Çavuº e M. F. Viallon, op. cit., Glossaire turc, p. 265, s. v. Çavus.

[47] Cfr. Relazione di Matteo Zane …, letta in Senato nel 1594, in E. Albèri, op. cit., vol. III, pp. 396-397. Per meglio comprendere le funzioni svolte in guerra dagli ambasciatori del Palazzo e dei Pascià, può essere utile rivolgerci ad una fonte più tarda, ossia ad alcuni avvisi a stampa conservati nel fondo Magliabechiano della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, in cui sono riportate notizie riguardanti la guerra del 1661-1664 che oppose l’Impero Ottomano a quello Asburgico per il dominio della Transilvania. Si tratta della raccolta di avvisi a stampa contenuta nei tre Codici Magliabechiani XXV, 740, 742 e 743, e in particolare del Cod. Magl. XXV, 740, per cui si veda Gianluca Masi, La Transilvania nella seconda metà del XVII secolo (febbraio-ottobre 1661), fra Impero Asburgico e Impero Ottomano, secondo la testimonianza inedita del Codice Magliabechiano XXV, 740 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, in L’Italia e l’Europa Centro–Orientale attraverso i secoli. Miscellanea di studi di storia politico-diplomatica, economica e dei rapporti culturali, a cura di Cristian Luca, Gianluca Masi e Andrea Piccardi, Brãila–Venezia 2004, pp. 231-276. Nell’avviso datato Venezia, 19 febbraio 1661 (Cod. Magl. XXV, 740, f. 8), si ha testimonianza di un compito alquanto onorevole: “Per via di Ragusi aviamo lettere, che confermano l’elezione fatta dalla Porta del Chiaus Mamet Chialì per spedirlo a Vienna all’Imperatore [sc. Leopoldo I, 1658-1705] a rappresentargli e sincerarlo che non è stata già mai mente del Gran Turco [sc. Mehmet IV, 1646-1687] l’invadere con le armi li Stati di Sua Maestà Cesarea, anzi assicurarla della continuata sua buona amicizia, portando seco bellissimi regali di Aironi, Sorbetti, et altre galanterie per presentare a Sua Maestà et a’ suoi Ministri. Teneva il suddetto Chiaus ordini segreti e sigillati per consegnarli in mano propria d’Aly Comandante a Varadino [l’odierna città romena di Oradea] ove detto Chiaus dovea prima passare che a Vienna”. Ma, nell’avviso datato Venezia, 7 maggio 1661 (Cod. Magl. XXV, 740, f. 40v): “Questa sera si attende qua l’arrivo di un Chiaus Turco mandato dal Bassà di Buda, non si sa con che commissione, ma credesi per dar semplicemente parte della sua comparsa in quel governo, per buscar qualche presente, e per spiar quanto potrà, come qui si stia provisti per la nuova Campagna […]”.

[48] Doge dal 26 novembre 1567 al 3 maggio 1570.

[49] Cfr. Maria Pia Pedani, Doni e insegne del potere concessi dai sultani ottomani ai principi romeni nel Cinquecento, in L’Italia e l’Europa Centro–Orientale attraverso i secoli cit., pp. 117-132, e in particolare le pp. 128-130.

[50] Cfr. J. Tournefort, op. cit., II vol., pp. 45-49.

[51] Cfr. H. İnalcık, op. cit., pp. 82-83, e Glossary, p. 225, s. v. Sipâhî; M. F. Viallon, op. cit., Glossaire turc, p. 270, s. v. sipahi. Si tratta appunto dei Sipahi, la cui fondazione è attribuita a Mourad I, nel XIV secolo.

[52] Qui il Tournefort allude agli Acemî oğlan e agli Iç-oğlan. Gli uni e gli altri erano reclutati col sistema del devºirme, ossia la leva, ogni cinque anni, di fanciulli cristiani di età compresa fra i dieci e i quindici anni, che venivano educati alla lingua turca e convertiti all’Islam. Ma i primi erano destinati all’esercito (sia cavalieri che fanti, e di questi parleremo a proposito dei Giannizzeri) o all’amministrazione dell’impero (come paggi nel palazzo del Sultano), mentre gli iç-oğlan erano acemî oğlan selezionati per accedere alla parte più interna della residenza del Sultano, Cfr. H. İnalcık, op. cit., pp. 78-79, 82, e Glossary, pp. 217, 219 e 221, s. vv. acemî, devºirme e iç-oğlan, e M. F. Viallon, op. cit., Glossaire turc, p. 263, pp. 265-266 e p. 267, s. vv. acemi oghlan, devshirme e iç-oghlan.

[53] Cfr. H. İnalcık, op. cit., pp. 82-83, e Glossary, p. 224, e M. F. Viallon, op. cit., Glossaire turc, p. 268. I Müteferrika non erano arruolati col sistema del devºirme. Come scrive il Cantacuzeno (in C. N. Sathas, op. cit., p. 215): “Sono alcuni adimandati Mutpharacha, et sonno tutti signori overo figliuoli de principi, et hanno circa 100 al presente, questo Suleiman li ha redotti, che sonno più di 200, et questo perché non hanno capo alcuno […] Sonno questi pagati ogni mese dal thesoriero eunucho intimo dello imperatore”. Il numero di duecento è riferito dal Menavino (op. cit., l. IV, p. 146), secondo il quale essi hanno anche un comandante detto Mutteferraca bascià. Mentre il Navagero (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 63), qualche anno più tardi, parla di circa trecento Müteferrika, e così il Tiepolo nel 1576 (Relazione dell’Impero ottomano del clarissimo bailo M. Antonio Tiepolo, letta in Senato il 9 giugno di quell’anno, in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 140), ma il Garzoni, nel 1573, ne computa 400 (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 413). Anche un müteferrika fu impiegato come ambasciatore, un tale Cafer che, nel 1527, fu inviato in Moldavia a recare le insegne del potere al nuovo voivoda (=principe), Cfr. M. P. Pedani, op. cit., p. 130.

[54] Solimano detto il Magnifico (1495-1566), Cfr. Roger B. Merriman, Suleiman the Magnificent, Cambridge (Mass.) 1944; Robert Mantran, La vita quotidiana a Costantinopoli ai tempi di Solimano il Magnifico, Milano 1985 (trad. ital. di Idem, La vie quotidienne à Constantinople au temps de Soliman le Magnifique, Parigi 1965); André Clot, Solimano il Magnifico, Milano 1986 (trad. ital. di Idem, Soliman le Magnifique, Parigi 1983); Süleiman the Magnificent, catalogo della mostra a cura di John M. Rogers e Rachel M. Ward, Londra 1988; Soliman le Magnifique, Parigi 1990; Therese Bittar, Soliman. L’empire magnifique, Parigi 1994.

[55] Il tīmār designava una rendita inferiore a ventimila aspri e un feudo concesso dal Sultano; in cambio i beneficiati avevano l’obbligo di fornire all’esercito un certo numero di cavalieri, in proporzione all’importanza del feudo. Mentre lo ziâmet designava una rendita superiore, dai venti ai centomila aspri, col medesimo obbligo. Cfr. E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 14, nota I; H. İnalcık, op. cit., cap. XIII, pp. 104-118, e Glossary, p. 226, s. vv. Timar e Zeâmet; M. F. Viallon, op. cit., Glossaire turc, p. 270 e p. 272, s. vv. timar e ziâmet. Sul tīmār si veda anche Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino 1986, pp. 758-764. In realtà i tīmār erano feudi sui generis perché servivano essenzialmente al mantenimento dei Sipahi, tanto da essere definiti anche sipahilik, e perciò erano revocabili (per il Braudel almeno prima del 1375) qualora i beneficiari del vitalizio non ottemperassero agli obblighi che il Sanjaqbey della provincia, chiamato Viceré dal Tournefort, faceva rispettare su mandato del Sultano. In realtà Gianfrancesco Morosini (Relazione di Gianfrancesco Morosini bailo a Costantinopoli letta in Senato l’anno 1585, in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 259) reca testimonianza del fatto che, anche a quella data, “i timari non sono beni ereditari come li feudi delli principi cristiani […] fra’ turchi tutti questi che hanno li timari convengono esser soldati, non si accostumando darli ad altra sorte di gente, e morto quello che l’ha ottenuto viene di subito dato ad un altro pella [sic] medesima professione”. E così, nel 1594, Matteo Zane (in E. Albèri, op. cit., vol. III, pp. 395-396), secondo cui “Questi timari si possono poi facilmente alienare e permutare […]”. Il Trevisano, dal canto suo (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 125), scrive che, ai Sipahi posti sotto il comando dei Beylerbey e dei Sanjaqbey, sono assegnati timari dai quali si riesce ad ottenere dai ventimila ai trentamila aspri di rendita, mentre ogni cinquemila i beneficiari sono obbligati a fornire un cavaliere da loro stipendiato.

[56] Cfr. C. N. Sathas, op. cit., pp. 216-217; R. Mantran, op. cit., p. 134 (che elenca: Sipahi propriamente detti, Silahdar, Ulufeci e Garip), e M. F. Viallon, op. cit., p. 131.

[57] Cfr. Agostino Pertusi, I primi studi in Occidente sull’origine e la potenza dei Turchi, in “Studi Veneziani”, XII, 1970, pp. 465-552, in cui l’autore (alle pp. 489-490 e nell’Appendice I) sostiene che il trattatello Quibus itineribus Turci sint aggrediendi di Feliks Petanèiæ (pubblicato col titolo: Felicis Petancii… libellus de itineribus aggrediendi Turcum, nella silloge Bello contra Turcas prudenter gerendo libri varii selecti ex uno volumine editi cura Hermanni Conringii, Helmestadii 1664), indirizzato dal Felix Ragusinus a re Vladislao II nei primi anni del Cinquecento, è un “furtarello letterario” dal Tractatus de provisione Hydronti et de ordine militum Turci et eius origine, che Martino Segono (Vescovo di Dulcigno) compose nel 1480 e inviò a papa Sisto V. Il Petanèiæ, dal 1487 al 1490, fu amanuense e miniatore della biblioteca di Mattia Corvino, poi, dopo un periodo a Ragusa, verso il 1501 tornò a Buda presso il successore del Corvino, Vladislao II, che nel 1513 lo inviò come ambasciatore a Selim I. Il Pertusi pubblica il testo del Segono (contenuto nel Cod. Ambr. Q. 116 sup. ff. 157v-159v) alle pp. 522-524.

[58] In passi come questi si misura la genesi dell’opera del Cantacuzeno, accresciutasi via via nelle redazioni successive, registrando le notizie più recenti ed aggiornandosi alla situazione storica del presente, senza badare troppo, o almeno è ciò che risulta in questo e in casi analoghi, a mimetizzare le suture. È evidente infatti che l’inciso “Suleiman imperator li ha accresciuti a 3000” è aggiunta successiva al 1520, ossia alla salita al trono del Solimano, e che il Cantacuzeno ha aggiornato la sua opera inserendo i provvedimenti introdotti dal nuovo sultano.

[59] Il Cantacuzeno menziona anche un’altra categoria di cavalieri che non appartengono ai Sipahi e non superano le quattromila unità, ovvero i cosiddetti Deli, ottimi cavalieri, che cavalcano senza turbante, armati di spada, lancia e targone, “et non è signor o capitano in Turchia che non habbi qualcuno di questi Deli per pompa sua in compagnia”. Dal Bassano, op. cit., cap. XXXVI, pp. 43v-44, apprendiamo che i cavalieri detti Deli, ossia “pazzi”, ma anche Serviani, Cheruat e Illyrii (nelle Historiae di Erodiano), stanno in Bosnia, paese che confina da un lato con la Grecia e dall’altro con l’Ungheria, e si chiamano nella loro lingua Zataznici, vale a dire “sfidatori, et quest’è perché sfidano sempre a corpo a corpo, a romper la lancia, in che fanno prove mirabilissime”. Sono assai forti e di statura colossale, ma hanno costumi barbari, anche nel vestire: indossano infatti pelli d’orso e di lupo, e portano sul capo una “celata di pelle di Capretto con due ale d’Aquila morta, vicino al ferro della lanza, vi portano ligata una penna d’Aquila”. Usano per armi la lancia, più lunga di quelle in uso in occidente e vuota all’interno, il targone, la spada e la mazza. Dal canto suo, Nicolas de Nicolay, op. cit., l. IV, cap. XIII, pp. 137-138, per alcune notizie sembra avere per fonte proprio il Bassano. Tratta appunto dei cosiddetti Delli (“che tanto vuol dir, quanto che pazzo et audace”), ma anche Zataznici nella loro lingua, cavalieri “venturieri, come cavalli leggieri, che fanno professione di cercare la lor ventura ne’ luoghi più pericolosi ove per fatto bellicoso dell’arme loro essi possano far prova della lor persona, virtù et valore: per la qual cagione volontariamente seguono le armate del gran Turco senza paga alcuna, come gli Anchisi […]”. E di questi ultimi tratteremo anche in seguito. I Delli, secondo Nicolas de Nicolay, per la maggior parte sono alle spese di Pascià, Beylerbey e Sanjaqbey. Abitano nelle regioni della Bossina e Servia, le quali confinano da un lato con la Grecia, dall’altro con Ungheria e Austria, e quindi sono chiamati anche Servij, Crovatti e Illirici da Erodiano (nel “Sonno di Severo”). Sono armati di scimitarra, pugnale, lancia e un targone ornato da piume d’aquila in foggia d’ala, mentre il cavaliere, ben visibile nel ritratto posto a p. 138, è rivestito di pelli d’orso e leopardo.

[60] Cfr. P. Giovio, op. cit., pp. 31r-31v.

[61] Cfr. G. A. Menavino, op. cit, l. IV, pp. 147-148 e pp. 151-152.

[62] Anche il Bassano (op. cit, cap. XLIIII, p. 50) parlando in genere di Sipahi, ma alludendo evidentemente a quelli della Porta, li dice tutti “Schiavoni, Greci, Albanesi e Ungheri”. Essi in città cavalcano a gruppi di dieci, “con cavalli bellissimi e ricchamente guarniti, con gran susciego [sic]”, sfoggiando finimenti d’oro e d’argento, e non portano armi, ma sono arroganti, presuntuosi, avarissimi, irriconoscenti e nemici acerrimi di cristiani ed ebrei.

[63] Cfr. E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 60-63.

[64] Cfr. E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 225-226. In questa occasione l’anonimo cronista della campagna di Persia del 1553 descrive in modo particolareggiato la tenuta dei Silictari. Essi portano giacche di maglia, sulle quali solo alcuni esibiscono, sul petto e sulla schiena, due piastre tonde di ferro e sono provvisti di bracciali. In capo indossano una grande celata tonda che ricopre la nuca, le orecchie, e termina in una cima aguzza provvista di pennacchio molto grande, mentre sul davanti non hanno altra difesa per il viso che un ferro, largo un dito, che possono alzare o abbassare a piacimento sul naso. Per la difesa recano, come tutte le genti d’Asia, uno scudo rotondo, assai largo, costituito da canne d’India, ciascuna riempita e grossa un dito, che è tenuto insieme strettamente da un rivestimento di seta. Al centro un umbone di ferro destinato a ricevere le frecce e i colpi nel corpo a corpo. Anche la lancia di cui sono dotati è, per la maggior parte di loro, una canna d’India, mentre alcuni la portano di legno. Oltre a queste armi, sono presenti la scimitarra, il pugnale detto cangiar, la mazza ferrata, l’arco, le frecce e talvolta uno stocco alla tedesca.

[65] Domenico Trevisano (in E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 125-127), trattando dei Sipahi della Porta e dipendendo in gran parte dal Navagero, attribuisce i seguenti stipendi agli Agà e ai cavalieri sotto il loro comando. Lo Spaì-agassi ha di stipendio cento cinquanta aspri al giorno e una rendita dal timaro di ventimila aspri all’anno, mentre i duemila cavalieri sotto il suo comando ricevono da quindici a quarantacinque aspri al giorno. Il Slictar-agassi ha centoventi aspri al giorno di paga e i suoi mille cinquecento - duemila cavalieri fra i quindici e i quaranta. I due Ulufegi-bascì ricevono cento aspri al giorno, mentre i duemila cavalieri al loro comando dieci aspri. Infine i due Ciargagì-agassi hanno per stipendio cento aspri al giorno e i mille cinquecento cavalieri loro sottoposti guadagnano otto aspri al giorno, la paga più bassa elargita dal tesoro del sultano, e perciò son detti “soldati poveri”.

[66] Per la milizia dei Giannizzeri, oltre al Navagero (in E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 48-56), cui principalmente mi attengo in questo paragrafo che dedico al sistema del reclutamento, Cfr. T. S. Cantacuzeno (in C. N. Sathas, op. cit., pp. 212-215); L. Bassano, op. cit., cap. XXXVI, pp. 43-43v; D. Trevisano (in E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 128-131); N. de Nicolay, op. cit., l. III, capp. I-VII; J. Tournefort, op. cit., II vol., pp. 38-45; H. İnalcık, op. cit., pp. 82-83, e Glossary, p. 222, s. v. Janissary (Yaniçeri) corps; M. F. Viallon, op. cit., Glossaire turc, p. 272, s. v. yeniçeri (nuova milizia). E citerò via via le altre fonti che trattano di questa milizia, la cui fondazione da molte di esse (alcuni baili veneziani, il Giovio e il De Nicolay) è attribuita a Murad I. Cfr., a questo proposito, anche A. Clot, op. cit., p. 329; R. Mantran, op. cit., p. 135; Philips M. Price, Storia della Turchia. Dall’Impero alla Repubblica, Bologna 1958 (trad. ital. di Idem, A History of Turkey. From Empire to Republic, Londra s. d.), pp. 69-70, per cui Murad I, nel 1362 circa, per la fondazione di una fanteria ben addestrata, desunse dai Bizantini la tattica della legione romana.

[67] Cfr. J. Tournefort, op. cit., II vol., p. 38, per cui quel sistema ai suoi tempi non si usava più.

[68] Il Cantacuzeno (in C. N. Sathas, op. cit., p. 212), per il resto meno ricco di particolari (parla infatti genericamente di schiavi per indicare i funzionari coinvolti nel reclutamento), è più preciso su questo punto e indica, a proposito del reclutamento, un intervallo medio di circa cinque anni, almeno al tempo di Selim I.

[69] Anche il Cantacuzeno (in C. N. Sathas, op. cit., p. 214) cita un funzionario che chiama con la medesima parola greca Protoghero. Per quanto Benedetto Ramberti, Libri tre delle cose dei Turchi, Venezia 1539, l. I, p. 15, scriva che il Protoghero è un luogotenente dei giardinieri (i quali hanno come capo un ufficiale dei Giannizzeri detto Boluchbassi) che guadagna venti aspri al giorno, è probabile che l’autore tratti di un compito particolare affidato a questo funzionario, giacché anche i giardinieri erano reclutati come i giovani giannizzeri col sistema del devºirme; e del resto i compiti affidati dal Navagero al Protogiro non rientrano certo nella sfera di quelli svolti da un luogotenente di giardinieri. Ritengo dunque, col De Nicolay (op. cit., l. III, cap. III, p. 75, in cui è scritto: “Checaia o Protoghero”), che il Protoghero vada incluso nella normale gerarchia di comando e identificato col Kâhya (di cui ci siamo già occupati a proposito di Caterino Zeno); e del resto il Cantacuzeno, trattando dei Giannizzeri, attribuisce al Protoghero i medesimi compiti che altrove assegna al Cheaia e cita il Protoghero, al posto del Cheaia, insieme con gli stessi funzionari con cui altrove accompagna il Kâhya. Il Menavino, poi (op. cit., l. IV, pp. 143-144), e con lui il De Nicolay (op. cit., l. III, cap. I, p. 73, dove si tratta del devºirme), conta circa duecento reclutatori, inviati soprattutto in Grecia, Valacchia e Bosnia, per cui l’Agà dei Giannizzeri è “di natione Bosna”.

[70] Secondo il Cantacuzeno (in C. N. Sathas, op. cit., p. 203), i sultani precedenti erano soliti tenere in casa circa trecento fanciulli, o “Icioglancar, in lingua italica garzoni intimi”, mentre il Solimano ne aveva aumentato il numero a quattrocento. Il Menavino (op. cit., l. IV, p. 144), da parte sua, menziona duecento o trecento fanciulli recati a Costantinopoli e distribuiti per la città. Mentre Nicolas de Nicolay (op. cit., l. III, cap. I, p. 73), circa questi fanciulli “più belli” e posti nel Serraglio, scrive che di essi “i più grossi e meno atti d’ingegno sono deputati a portar acqua o legna per gli offici, e tener pulito il Serraglio et nel verno a ricoglier la neve che cade dall’aria per sotterrarla poi in un luogo chiamato Carcich, ove ella si mantiene tutta la State nella sua solida natura et frigidità senza punto distruggersi, et così in questi luoghi freschi conservata, serve nei tempi caldi per rinfrescare la bevanda del Signore. Sono gli altri fatti Giardinieri o Cuochi [ed evidentemente posti sotto la supervisione di un Checcaia o Protoghero], overo sono dati al servitio de’ Giannizzeri, de’ Spachi o degli Capitani […]”. Ricevono due o tre aspri al giorno, sono vestiti due volte all’anno con un “vil panno di colore celeste”, e portano in testa una “berretta alta et gialla fatta a guisa di un pan di Zucchero”. Quindi sono posti sotto un capitano detto Agiander Agassi, che ha un salario di trenta aspri al giorno. Gli altri, quelli che il De Nicolay chiama Rustici (op. cit., l. III, cap. II, p. 75), vengono inviati in Anatolia, dove risiedono in media circa quattro anni.

[71] Cfr. M. F. Viallon, op. cit., Glossare turc, p. 264, s. vv. bölük e bölük-bas (comandante di compagnia).

[72] Il Cantacuzeno (in C. N. Sathas, op. cit., p. 212 e p. 214), oltre ai compiti di “carreggiar pietre et calcina in più luoghi ove si fabrica per lo imperatore et altri signori […]”, naturalmente assegna, al tirocinio dei giovani giannizzeri, anche il compito di “imparare da’ loro maestri deputadi a trar con l’arco et sagittare; puoi dispensano quelli a varii capitani, acciocché emparino a militare, et alcuni anchora a navicare”, per cui non vi è nave del Sultano che non imbarchi veterani dei Giannizzeri e giovani Azamogliani i quali imparano dai primi. Quindi, quando sono sufficientemente esercitati, vengono iscritti nel “cathalogo delli Janizari già fatti et adulti […]”, e a Costantinopoli ce ne sono in aspettativa circa tremila. Mentre il Trevisano, nel 1554 (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 130), conta in tutto l’impero sedicimila quattrocento azam-oglani, di cui seimila ottocento a Costantinopoli.

[73] Per quanto riguarda il numero dei Giannizzeri, già il Segono (in A. Pertusi, op. cit., p. 524) parlava di dodicimila Janizari reclutati “singulis lustris”, che come armi “utuntur ense, clipeo et arcu”. All’inizio del secolo XVI, il Cantacuzeno (in C. N. Sathas, op. cit., p. 231) scrive che l’Agà, a Costantinopoli, ha sotto di sé diecimila Giannizzeri, e così anche il Menavino (op. cit., l. IV, p. 143), Marco Minio (Relazione di Marco Minio oratore alla Porta ottomana fatta leggere in Pregadi li 8 aprile 1522, in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 72) e Pietro Bragadin (Sommario della relazione di Pietro Bragadin, bailo a Costantinopoli, del 9 giugno 1526, in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 110). Mentre, secondo il Navagero (in E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 55-56): “[…] per l’ordinario si crede che siano dodici mila […] Ora però sono informato che se ne trovano scritti nei libri quindici mila e cinquecento sessantuno”, e Daniele Barbarigo (Relazione dell’Impero Ottomano del clarissimo Daniele Barbarigo, tornato bailo da Costantinopoli nel 1564, in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 33), ne cita 13.502 (sic). E 13.000-14.000 li dice il Garzoni (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 415). In Lonicer, op. cit., l. I, pp. 74-76, dove l’autore tratta altresì dei Sipahi, si parla di dodicimila Giannizzeri, fra i quali vi sono “Illyri, Macedones, Ungari, Graeci, Germani, Poloni, Berussi, Serviani”. E così B. Ramberti (op. cit., l. III, p. 32v) e N. de Nicolay (op. cit., l. III, cap. III, p. 77), come anche il Giovio (op. cit., p. 32), che, oltre ad indicare il medesimo numero, fornisce in volgare italiano lo stesso catalogo delle nazionalità e nello stesso ordine: “Schiavoni, Albanesi et Ungheri […] Greci, Todeschi, Pollachi, Rossi, et Serviani”, donde si evince che da questa fonte ha tratto il Lonicer; quindi il Giovio parla di seimila Giannizzeri veterani, stanziati nelle diverse fortezze dell’impero e dipendenti comunque dal sultano, e non dal Beylerbey. Dodicimila sono detti questi soldati da Daniello de’ Ludovisi (Relazione dell’Impero ottomano riferita in Senato dal segretario Daniello de’ Ludovisi a dì 3 giugno del 1534, in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 14), da Domenico Trevisano (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 128), da Antonio Erizzo (Sommario della Relazione di Antonio Erizzo, bailo a Costantinopoli, letta in Senato nel 1557, in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 127), da Luigi Bonrizzo (Relazione di Luigi Bonrizzo offerta al Senato il 14 gennajo 1565 nel suo ritorno da Costantinopoli dove fu segretario del bailo Daniele Barbarigo, in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 99), dalla Breve relazione della milizia terrestre e marittima che ha in essere Amurat II, con le entrate e uscite e ordini del suo imperio nell’anno 1575 (in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 313) e dal Tiepolo un anno dopo (in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 141). Nel Sommario della relazione di Antonio Giustinian, del 7 febbraio 1514 (in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 48), si sosteneva che i Giannizzeri erano 24.000, ma si specificava che dodicimila erano quelli della Porta e dodicimila i cosiddetti Agansi. Si tratta probabilmente di quei soldati che il Tournefort (op. cit., vol. II, p. 44) chiama Arcangi, insieme agli Azapi (Cfr. M. F. Viallon, op. cit., Glossaire turc, p. 263, s. v. azab). Secondo lo scrittore francese infatti, in tutto il territorio dell’impero, molti soldati di fanteria portano il nome di Giannizzeri, avendo comprato questo titolo per ottenere pari privilegi. Ma in realtà i Giannizzeri veri e propri, cioè quelli della Porta, non superano le 25.000 unità e con essi non bisogna confondere gli Azapi e gli Arcangi, ossia le più antiche brigate musulmane, di cui gli Azapi sono destinati per lo più a servire sulle navi. Cfr. anche il Segono (in A. Pertusi, op. cit., pp. 523-524), per il quale gli “Acanzii, idest fatales” sono 40.000 cavalieri senza stipendio i quali, del bottino che fanno, devono cedere la quinta parte al sultano, mentre gli “Asapi […] levis armaturae milites quos antiqui velites appellabant” sono circa 4.000, infine con gli Scharachorii si identificano i fabbri, i legnaioli, gli scavatori, i genieri ecc. Il Cantacuzeno (in C. N. Sathas, op. cit., p. 231) scrive che Selim I aveva destinato alla flotta “tre mila Azapi […] tutti huomini assueti et molto exercitati ale cose maritime, et stanno continuamente residenti in Constantinopoli […] Ha etiam deputato altri tremila Azamogliani, Janizerotti, per metterli insu l’armata del mare […]”. E così il Giovio (op. cit., p. 33) riferisce che gli Asapi sono arcieri poco adatti alla guerra, che il sultano destina ai remi quando mette in mare la flotta, mentre gli Alcanzi sono cavalieri “quali son di natura gran ladroni”. Comunque alla fine del secolo i Giannizzeri, compresi quelli di stanza alle frontiere e i 4.000 di Costantinopoli, sono circa 15.000 per Jacopo Soranzo (Relazione e Diario del viaggio di Jacopo Soranzo, ambasciatore della Repubblica di Venezia per il ritaglio di Mehemet figliuolo di Amurat imperatore dei Turchi l’anno 1581, in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 247 e p. 253). Paolo Contarini (Relazione di Paolo Contarini bailo a Costantinopoli, letta nel 1583, in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 219) conta sì 26.000 Giannizzeri, tutti armati di archibugi, ma comprende in questo numero quelli di stanza in Ungheria, in Persia e in Barberia, mentre a Costantinopoli in realtà se ne trovano 8.000 e altrettanti Azamoglani. E così il Moro (Relazione di Giovanni Moro bailo a Costantinopoli, del 1590, in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 343) scrive: “il loro numero è cresciuto a poco a poco […] è ora di più di 25.000” e molti di essi, col tempo, possono divenire Sipahi. Quanto agli Acangi, li considera una cavalleria di avventurieri. Il Bernardo, due anni dopo (Relazione dell’Impero ottomano di Lorenzo Bernardo 1592, in E. Albèri, op. cit., vol. II, pp. 331-332), parla di Giannizzeri che “solevano esser prima dodicimila, ma nelle guerre di Persia sono accresciuti a ventiquattromila […]”, e di questi un terzo viene spedito ai confini dell’impero, un terzo partecipa alla guerra e alle spedizioni militari, un terzo sta in Costantinopoli a guardia del sultano. Quindi Matteo Zane (in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 392 e p. 394) ripete nel 1594 alcune parole del Bernardo e conferma un numero che, forse, non muterà più fino alla fine del XVII secolo: “Li gianizzeri solevano essere 12 in 15.000, ma nella guerra di Persia ne furono aggiunti molti, onde accrebbero a 24.000”, ma reca testimonianza anche dei cosiddetti Achingi, 30.000 uomini di stanza in Grecia, “avvezzi ad ogni patimento, che non hanno per fine il combattere, ma il rubare solamente, e servono a cavallo e a piedi come possono […]”.

[74] Cfr. A. Clot, op. cit., p. 329; H. İnalcık, op. cit., Glossary, p. 218, s. v. Bektaºî Order; M. F. Viallon, op. cit., Glossaire turc, p. 264, s. v. bektâshi. I Bektâºî erano membri di una confraternita fondata nel XIII secolo da Hadji Bektâº, che secondo la leggenda aveva fondato anche il corpo dei Giannizzeri. Ma forse è fra XIV e XV secolo che i Giannizzeri adottarono il Bektascismo; Cfr. anche R. Mantran, op. cit., p. 135.

[75] Probabilmente le divisioni chiamate Cemaat, Bölük e Seymen (o Sekbân), composte da un certo numero di reggimenti (Cfr. M. F. Viallon, op. cit., Glossaire turc, p. 269, s. v. odjak, “reggimento”), i quali a loro volta erano suddivisi in camerate o squadre. Cfr. R. Mantran, op. cit., p. 133, secondo il quale i reggimenti erano 77 a Costantinopoli e 229 in tutto l’impero. In origine i reggimenti Sekbân erano composti dai guardiani dei cani da caccia, che furono incorporati nella fanteria dei Giannizzeri a partire da Mehmet II.

[76] Cfr. N. de Nicolay, op. cit., l. III, cap. IV; Jacopo Soranzo (in E. Albèri, op. cit., vol. II, pp. 246-247) e Daniele Barbarigo (in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 17). Il Navagero (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 54) sostiene che i Giannizzeri abitavano tutti insieme presso l’Agà in diverse camere, sottoposti a chi fra loro si fosse distinto in qualche azione particolare: testimonianza questa che mi pare più ragionevole. Secondo il Cantacuzeno (in C. N. Sathas, op. cit., p. 214), invece, i Giannizzeri alloggiavano dieci per camera e chi per primo entrava aveva le funzioni di capo camerata, ossia Oddabassi (Cfr. M. F. Viallon, op. cit., Glossaire turc, p. 268, s. vv. odahs, camera). Il Tournefort, op. cit., II vol., p. 39, scrive che i Giannizzeri abitavano in grandi caserme, distribuiti in 162 camerate, ciascuna con un capo camerata, un portainsegna, un dispensiere, un cuciniere e un portatore d’acqua. Mentre, secondo Giovanni Moro (in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 343), i Giannizzeri “sono chiusi in squadre 171”. Forse questi numeri accomunano, per Costantinopoli, le squadre dei Giannizzeri veri e propri e degli Acemî oğlan.

[77] Cfr. N. de Nicolay, op. cit., l. III, cap. III, p. 77.

[78] Cfr. B. Navagero in E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 53-54.

[79] Cfr. J. Tournefort, op. cit., II vol., p. 39. Nel Lonicer, op. cit., l. I, p. 75, così si trova descritto il copricapo dei Giannizzeri: “Pro galea est ipsis peculiare capitis tegumentum, quod Exarcolam vocant, colore album, ex coacta crassiore lana densatum adeo, ut gladiis sit impenetrabile. A tergo latior cauda demissa cervices munit, a fronte ornantur aureo vel argenteo cono qui cristas sustinet”.

[80] Cfr. L. Bassano, op. cit., cap. XXXVI, pp. 43-43v. Così anche per il Garzoni (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 45) i Buluc-bascì, che nel 1573 ammontano a 170 ed hanno 70 e più Giannizzeri sotto di loro, recano sul capo un “cerchio piramidale” dorato con un gran pennacchio bianco. La conferma a queste notizie, come vedremo, è fornita dall’anonimo cronista della campagna di Persia del 1553, il quale descrive alcuni di questi elementi dei Giannizzeri, fra cui proprio i veterani e i Buluc-bascì, durante la loro entrata nella città di Aleppo. Il De Nicolay, op. cit., l. III, cap. V, sostiene che questo ufficiale comanda a cento uomini e guadagna sessanta aspri al giorno, ma conta almeno trecento o quattrocento Bölük-bas in tutto l’esercito, un numero che corrisponde a quello della campagna di Persia del 1553.

[81] Cfr. A. Clot, op. cit., p. 330.

[82] Cfr. C. N. Sathas, op. cit., pp. 213-214.

[83] Cfr. H. İnalcık, op. cit., Glossary, p. 226, s. v. Yaya (fante).

[84] Cfr. G. A. Menavino, op. cit., l. IV, p. 144.

[85] L’Agà dei Giannizzeri, inquadrato nel Bîrûn, era alle dirette dipendenze del sultano, e direttamente dal sultano (secondo il Soranzo in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 248) erano nominati anche i suoi luogotenenti. Ma oltre agli ufficiali inseriti nella normale catena di comando, sotto l’Agà vi erano anche i seguenti comandanti: Sekbân bas, comandante di 34 compagnie (sekbân) che in combattimento fornivano al sultano la guardia personale, col Kethüdâ bey, luogotenente; Zagardjî bas, comandante della LXIV compagnia di fanti e cavalieri; Bach çavuº, comandante della V compagnia di portaordini; Muhzir ağa, comandante della compagnia addetta alle trasmissioni fra il Divano e l’Agà. Cfr. M. F. Viallon, op. cit., p. 130.

[86] Cfr. N. de Nicolay, op. cit., l. III, cap. III, p. 75, e cap. V, in cui attribuisce allOdah bas una paga di quaranta aspri al giorno.

[87] Il De Nicolay, op. cit., l. III, cap. VI, cita come collaboratori dell’Agà un Chechaya o Protogero, con un salario di 200 aspri al giorno e 30.000 di timaro annuali, e uno Scrivano, pagato cento aspri al giorno.

[88] Cfr. N. de Nicolay, op. cit., l. III, cap. III, p. 77, e cap. IV; B. Trevisano in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 128.

[89] Cfr. B. Navagero in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 54.

[90] Cfr. C. N. Sathas, op. cit., p. 214.

[91] Cfr. E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 331.

[92] Cfr. N. de Nicolay, op. cit., l. III, cap. III, p. 77.

[93] Cfr. B. Ramberti, op. cit., l. III, p. 32v. Scrive il Navagero (in E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 56-57): “Chi ha disegnato di farsi signore dopo la morte di un altro e chi disegna, non ha atteso né attende ad altra cosa che ad acquistar la grazia de’ giannizzeri, la qual si acquista con la liberalità, e col dar opinione di sé d’uscir uomo da guerra e di voler fare imprese […] La potenza loro nasce dall’unione e dalla disciplina militare […] Questi nel tempo della morte del sultano sono tanti diavoli discatenati, andando alle case ed ai luoghi ove pensano più facilmente arricchirsi, perché sanno ad ogni modo che non solo dal nuovo Gran Signore ogni gran male che facessero gli è perdonato, ma anco gli sono concesse molte grazie che domandano, perché son essi che in mezzo a loro lo conducono nel serraglio e lo salutano imperatore”. Paolo Contarini (in E. Albèri, op. cit., vol. III, pp. 219-220) afferma che la milizia dei Giannizzeri è cresciuta tanto in reputazione, per il suo valore, da far temere che possa mutare le sorti dell’impero come già nel caso di Bâyezîd II (1481-1512), sostituito col figlio Selim, “e tutte le volte quello dei figliuoli d’imperatore, che ha avuto maggior favore da questa milizia, ha avuto maggior avvantaggio nella morte del padre nell’acquistarsi l’impero […]”. E così si era già espresso il Trevisano (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 129), quando aveva riportato lo stesso episodio ed espresso il medesimo giudizio. Per il segretario Luigi Bonrizzo (in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 99) i Giannizzeri “sono uomini molto forti e valorosi, sebben pare che da un tempo in qua questa milizia si vada corrompendo”; e così anche per il Morosini (in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 261), che a metà degli anni Ottanta del Cinquecento conferma un giudizio del Giovio (op. cit., p. 32): i Giannizzeri possono essere considerati il meglio delle forze turche, perché sono bene addestrati nell’uso delle armi che portano, compreso l’archibugio, ma non sono una buona milizia così com’erano nel passato. E il Moro (1590, in E. Albèri, op. cit., vol. III, pp. 343-344) replica: “Quanto abbonda il Signor Turco di cavalleria, tanto più è ristretta la sua milizia da piè, che tutta consiste in una sola quantità di uomini nominati gianizzeri […]”, che si servono per offendere della scimitarra, di una mannaretta portata alla cintura e dell’archibugio, più lungo di quello in uso in Occidente e peggio adoperato, e dunque sono meno valorosi e non più stimati come un tempo, per quanto rappresentino il nerbo delle milizie turche. Anche per il De Nicolay (op. cit., l. III, cap. III, p. 77) essi imitano la falange macedone, però la differenza nell’armamento è evidente, poiché non portano celate, corazze, lunghe picche e scudi, ma scimitarre, pugnali, scuri e archibugi più lunghi del normale. Ancora, Jacopo Soranzo (in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 248) riconosce che essi sono assai riveriti e godono di grandi privilegi, nonostante gli abusi che compiono in viaggio, “sopra i villaggi e case de’ poveri Cristiani […] Inoltre nel comprare fanno i prezzi a lor modo; non possono essere giudicati che dall’agà; non sono puniti a morte; e quando pur ciò occorre, si fa con grandissima segretezza per paura di sollevazioni”, e del resto l’elezione del sultano è sancita per acclamazione dal loro grido. E così Lorenzo Bernardo (in E. Albèri, op. cit., vol. II, pp. 331-332), dichiarato il valore dei Giannizzeri, ribadisce che essi: “Sono molto insolenti chiamandosi figliuoli del Gran Signore, e più volte, nelli tempi passati, e molto più nelli presenti si sono tumultuariamente sollevati, saccheggiando, bruciando e facendo ogni male avanti li propri occhi, si può dire, del Gran Signore […]”. La degenerazione dei Giannizzeri è attribuita, dallo Zane (in E. Albèri, op. cit., vol. III, pp. 392-393), che lesse la sua relazione nel 1594, ad un preciso fattore: i Giannizzeri “solevano essere tutti figliuoli di cristiani […] ma ora dicono che pur dentro vi sono intromessi molti figliuoli di turchi con inganno […] La virtù di questi gianizzeri in altri tempi è stata riputata sopra tutte le altre per la fedeltà ed obbedienza verso il principe loro, per il combattere tutti uniti ordinatamente con gran forza e con buonissima disciplina e per essere allevati ed avvezzi al patire ogni disagio; ma ora è perduta in loro la fedeltà e la obbedienza, sono scemate le altre condizioni, e si danno più all’ozio e alle comodità che non solevano […] In mano di questi gianizzeri, e nel loro grido, è pur tuttavia riposta la confirmazione e deposizione del re, e perciò sono accarezzati, rispettati e temuti, ed ogni loro delitto passa impune, onde son fatti di una insolenza intollerabile […]”. Anche il Tournefort, op. cit., II vol., p. 41, reca testimonianza della “degenerazione” dei Giannizzeri, rispetto all’epoca in cui tanto avevano contribuito alla fondazione dell’impero, ed elenca le loro ribellioni, così temibili poiché possono cambiare le sorti dell’impero in un istante. Per restare al solo XVI secolo, essi hanno deposto nel 1512 Bâyezîd II, hanno anticipato la morte di Murad III (1574-1595), hanno creato gravi problemi al successore, Mehmet III (1595-1603), e ad altri sultani fino ai tempi dello scrittore. I Giannizzeri, inoltre, godono di grandi privilegi anche per quanto riguarda il loro tesoro comune e per i possedimenti che hanno in proprio in tutte le parti dell’impero. A questo proposito R. Mantran, op. cit., pp. 132-133, confortato anche dalle nostre fonti, sostiene giustamente che i Giannizzeri per un certo tempo non potevano contrarre matrimonio ed erano obbligati a non avere altra fonte di reddito che il mestiere delle armi, ma aggiunge anche che questi obblighi vennero meno a partire dalla seconda metà del XVII secolo. In realtà tutte le nostre relazioni veneziane parlano di un rilassamento dei costumi per questa milizia già alla metà del XVI secolo. Così anche N. de Nicolay (op. cit., l. III, cap. III, p. 78) che parla dei saccheggi dei Giannizzeri a danno di cristiani ed ebrei, regolarmente perdonati, ogniqualvolta vi fosse una successione di sultani. Un costume assai crudele e barbaro, che pare al De Nicolay il presagio della prossima decadenza dell’Impero ottomano, come accadde all’Impero romano a causa dei Pretoriani. Inoltre, dei Giannizzeri che risiedono in Costantinopoli (N. de Nicolay, op. cit., l. III, cap. IV), alcuni sono sposati e non risiedono nelle caserme. E se i Giannizzeri sono assai favoriti, continua il Tournefort, l’Agà stesso, rispetto a tutti gli altri funzionari di palazzo, gode di particolari privilegi, ad esempio quando compare di fronte al sultano, presso il quale si può recare a mani libere. Per il Trevisano (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 119 e p. 129) l’Agà riceve cinquecento aspri al giorno di paga (ma il De Nicolay, op. cit., l. III, cap. VI, gliene attribuisce il doppio) e ne ricava trentamila di rendita dal timaro; inoltre “né entra ogni giorno né anco ha giorno deputato alla sua udienza, ma ogni fiata che gli occorre parla a sua maestà, ed è ammesso alla presenza di quella”. Anche il Cantacuzeno (in C. N. Sathas, op. cit., p. 212) scrive: “El primo de tutti li Agà è lo agà delli Janizari, qual è il più onorato e di maggior reputatione et poter che alcun altro Agà che sia in corte […]”.

[94] Cfr. P. Giovio, op. cit., p. 32. Alcuni di loro (secondo il Menavino, op. cit., l. IV, p. 144, venticinque, cinquanta alla volta), così semplicemente armati, facevano la guardia di fronte alle porte del palazzo del sultano e nei crocicchi lungo le vie che vi si recavano, naturalmente col compito di mantenere l’ordine pubblico. Cfr. J. Tournefort, op. cit., II vol., p. 40. Si tratta dei Kapigi (guardiani delle porte), che secondo Daniello de’ Ludovisi (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 13) ascendevano al numero di 250, con tre capi detti Capigi-bascì; a questo proposito si vedano H. İnalcık, op. cit., p. 82, e Glossary, p. 222, s. vv. Kapĭcĭ baºĭ e Kapĭcĭlar kethüdâsĭ (luogotenente dei Kapigi); M. F. Viallon, op. cit., Glossaire turc, p. 267, s. vv. kapigi e kapigi-bas. Il Cantacuzeno (in C. N. Sathas, op. cit., p. 215) li cita così: “El Capicibassi di fuora ha trecento Capizi, quali si fanno di Janizari a lui sottoposti. Capizibassi vuol dire capo di portinieri. Questi Capizi fanno la guardia alla porta […] et puoi alla porta per la qual si va per intrar alla casa del signore […]”.

[95] Cfr. Cantacuzeno in C. N. Sathas, op. cit., p. 214. E quindi li dicono sempre armati di archibugio tutti i baili veneziani le cui relazioni sono state raccolte da E. Albèri.

[96] Cfr. P. Giovio, op. cit., p. 32.

[97] Cfr. C. N. Sathas, op. cit., p. 217 e p. 230.

[98] Cfr. Andrea Cambini, Commentario de Andrea Cambini fiorentino, della origine de Turchi et Impero della Casa Ottomana, Venezia, 1538, l. IV, pp. 58-59. Il Cambini inoltre, a p. 56, conferma il particolare trattamento che Selim ebbe nei confronti del corpo dei Giannizzeri: “verso de quali usò liberalità smisurata donando loro largamente sanza alcuna misura […]”.

[99] Si veda, oltre al Cantacuzeno, G. A. Menavino, op. cit., l. IV, pp. 158-159, che parla ancora di cinquecento Topociler [sic], comandati da un Toppicibascià, di cui cento risiedono nel Topchana (ossia Tophane) a Pera, mentre, dei restanti, alcuni rimangono a Costantinopoli e gli altri accompagnano l’artiglieria quando il sultano va in guerra; Pietro Bragadin (in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 110) conferma, alla data del 1526, il numero di un migliaio di bombardieri, di cui settecento cristiani. Al tempo del Tournefort, op. cit., II vol., p. 44, i cannonieri sono circa 1.200, di cui seicento conservano anche le armi della fanteria e della cavalleria, da distribuire solo in tempo di guerra. Cfr. anche H. İnalcık, op. cit., p. 82, e Glossary, p. 226, s. v. Topçu baºĭ; M. F. Viallon, op. cit., Glossaire turc, pp. 270-271, s. vv. topçî, top hane e tüfenk; R. Mantran, op. cit., p. 132 e p. 134, secondo cui, presso la fonderia di cannoni detta Tophane, ma anche ad Ahikapi, all’estremità occidentale del Serraglio, erano accasermati i Top arabaci (600-700 nel XVI secolo), soldati addetti al trasporto dell’artiglieria e comandati da un Top arabaci baºi. Alla periferia di Galata, a Tophane, stavano in genere i Topçi, mentre a Costantinopoli, in una caserma di fronte a Santa Sofia, si trovavano i Cebeci, ossia gli armieri. Un corpo di artiglieri era già stato istituito ai tempi di Maometto il Conquistatore, ma abbiamo visto l’importanza di Selim I nel promuovere una riforma che rendesse l’artiglieria più spedita, più sicura e più efficiente.

[100] Cfr. C. N. Sathas, op. cit., p. 215. Il numero di duecento “staffieri” è confermato anche dal Ludovisi (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 14). Ma il Trevisano, nel 1554 (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 131), parla di quattrocento Solak, accompagnati da ottanta Çavuº, e il Menavino (op. cit., l. IV, pp. 154-155) conta trecentosessanta Isolac, dotati di un arco dorato e comandati da un Solarbascià, che portano un berretto di feltro bianco provvisto di pennacchi piumati, anch’essi bianchi. Nessun numero indica il Giovio, che pur li ritiene ottimi “saettatori” (op. cit., p. 32v). Il De Nicolay (op. cit., l. III, cap. VII) per alcune notizie sembra dipendere dal Cantacuzeno: i Solak portano un abito lungo sul dietro e corto davanti, con una cintura intessuta d’oro e di seta, mentre l’arco dorato è sempre teso ed armato di freccia. Sono pagati da dodici a quindici aspri al giorno ed hanno due Solak baºi.

[101] Cfr. L. Bassano, op. cit., cap. XXXVI, p. 43v.

[102] Cfr. E. Albèri, op. cit., vol. III, pp. 150-151.

[103] Cfr. E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 57-64 e M. F. Viallon, op. cit., pp. 129-134, che, per la sua ricostruzione, si basa essenzialmente su questa fonte e sulla relazione di Domenico Travisano (in E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 124-133); ma anche H. İnalcık, op. cit., capp. XI-XIII, pp. 76-118, in cui l’autore tratta del Palazzo e dei suoi funzionari, dell’amministrazione centrale, di quella provinciale e del sistema del timar.

[104] Perciò il Brocardo vide Giannizzeri (fra cui i Chiaussi, come staffette; si ricordi la V Compagnia comandata dal Bach çavuº) e Spachi mescolati nella carovana. E Kapi kullari erano probabilmente quelli che lo Zeno chiama schiavi del Sultano. Cfr. H. İnalcık, op. cit., p. 82, e Glossary, p. 222, s. v. Kapĭkulu; M. F. Viallon, op. cit., Glossaire turc, p. 267, s. v. kapi kulu (plurale: kapi kullari).

[105] Cfr. A. Barbarigo in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 151.

[106] E lo stesso il Navagero aveva scritto poche pagine prima (in E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 54-55) “e vanno sbandati senza ordine alcuno […] Il grido loro è Padiscià che vuol dire –imperator padre nostro–”.

[107] Secondo il Navagero, precedevano il Sultano i due “Cadileschier, cioè giudici dell’esercito, l’uno della gente di Natolia, l’altro della gente di Grecia […]” (Cadis asker, consiglieri del Sultano relativamente alla legge coranica, Sharia); e i due Tefterdâr (tesorieri, anch’essi uno della Grecia e l’altro dell’Anatolia; ma, secondo il Trevisano, in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 118, dopo la presa della Siria e dell’Egitto ne era stato aggiunto un terzo). Seguivano “li Casnigir, li quali sono […] quelli che portano il mangiare al Gran Signore. Sono al numero di quaranta”, e i tre paggi del Sultano: Silicdâr, Scarabdâr, Scodradâr, che recavano “l’armi, li vestimenti, e il vaso da bere per il medesimo”; quindi il “Capigiler-chietcudasci, che vuol dir luogotenente dei portinari, dietro al quale sono due Capigi, cioè portinari […]” (Kapigi kethüdâ e Kapigi); ed infine “l’Emiralem, che vuol dir capo degli stendardi del Gran Signore […] Dietro al quale vengono sei stendardi di più colori […] Son portati questi stendardi da sei persone non nobili […]”. Cfr. anche M. F. Viallon, op. cit., pp. 130-131; H. İnalcık, op. cit., pp. 80-83, e Glossary, p. 219, p. 224 e p. 225, s. vv. Çuhadâr, Rikâbdâr, Silahdâr, e p. 222 e p. 223, s. vv. Kapĭcĭlar kethüdâsĭ e Mîr-alem. I funzionari del Palazzo (Enderûn), così come quelli del Bîrûn, seguivano il sultano in guerra ed erano inquadrati secondo le gerarchie e l’organizzazione militare. Sui funzionari succitati si dilungano, chi più chi meno, tutti i baili veneziani nelle loro relazioni e il Cantacuzeno (in C. N. Sathas, op. cit., p. 211, per i Tefterderi, che in lingua italica significa Quadernieri” e p. 214, per l’Emiralem). Il Navagero (in E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 93-95), trattando delle udienze del Gran Signore, descrive l’anticamera in cui sedevano i Beylerbey, i Cadis asker, i Tefterdâr, gli scrivani, alcuni vecchi Çavuº col Çavuº-baºi, e il Kapigi kethüdâ. Insieme con gli scrivani anche i Caznadar, poiché lì vicino era la stanza del Caznà, ma anche il luogo detto prima porta, dove erano gli Agà dei Sipahi Oğlan, degli Ulûfedji e dei Silictâr.

[108] Il numero di duecento Solak e dei loro capitani (quattro bulubassi) coincide dunque nel Cantacuzeno, nel Ludivisi e nel Navagero. Mentre il Menavino e il Trevisano parlano già di circa quattrocento Solak, forse un numero più probabile, così come il Tournefort, op. cit., II vol., p. 43, quando, alla fine del XVII secolo, scrive che in battaglia trecento, quattrocento Giannizzeri, con berretti dorati e alti pennacchi, attorniano il Sultano, armati unicamente di archi e frecce per non spaventarne il cavallo.

[109] Cfr. G. A. Menavino, op. cit., l. IV, p. 154.

[110] Cfr. E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 258.

[111] Così anche per l’anonimo descrittore della campagna di Persia del 1553, almeno per i Silictari; ma nel complesso le divisioni di Sipahi Oğlan e Silictâr, secondo il Cantacuzeno, erano state portate dal Solimano a tremila unità ciascuna, mentre Ulûfedji e Çarkadji dovevano raggiungere in questo periodo un numero di circa duemila-tremila cavalieri per gruppo. Probabilmente il Navagero, che era di nuovo a Costantinopoli nel 1552 e che tornò a Venezia in tempo per fare il suo rapporto (febbraio 1553), si riferisce ai numeri dell’esercito impegnato nella campagna di Persia, Cfr. Joseph von Hammer–Purgstall, Histoire de l’Empire ottoman. Depuis le premier traité de l’Autriche avec la Porte ottomane jusqu’à la mort de Sélim II: 1547-1574, Tome sixième, p. 56, traduit de l’allemand par J. J. Hellert, Parigi–Londra–S. Pietroburgo 1836.

[112] Abbiamo visto secondo il Menavino e il Navagero, quest’ultimo seguito dal Trevisano, gli stendardi e la disposizione all’ala destra dei Sipahi Oğlan, che in cinquecento facevano la guardia intorno alla tenda del Sultano (e non i Mütefèrrika, come scrive il Tournefort), degli Ulûfedji dell’ala destra, cui era demandato il compito di sorvegliare il tesoro del Sultano, e dei giovani cavalieri detti Çarkadji; mentre all’ala sinistra cavalcavano i Silictâr, seguiti dagli Ulûfedji e dai cavalieri Çarkadji dell’ala sinistra. Secondo Antonio Barbarigo (in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 150) alcuni Giannizzeri “sempre stanno d’intorno la persona di esso Signore per guardia sua […]”, e pare proprio che il bailo veneziano stia parlando dei Solak, ma poi prosegue scrivendo: “Ha 6.000 cavalli pure di detti gianizzeri, che sono obbligati sempre di cavalcare con il signore […] Questi cavalcando con il Signor, si partono e li fanno due ale, tre mila da una banda, tre mila dall’altra, e son li primi appresso la persona del Signore […] portano arco, frecce, la scimitarra ed uno stocco all’arcione […]”. Qui, probabilmente, il Barbarigo parlando della guardia del sultano mescola Solak, con Sipahi Oğlan e Silictâr, il cui numero era infatti di seimila cavalieri, anche perché tutti erano arruolati col sistema del devºirme. Sul numero dei Sipahi abbiamo, all’inizio del XVI secolo la testimonianza del Cantacuzeno, riportata nelle pagine precedenti, secondo cui Sipahi Oğlan e Silictâr erano stati portati dal Solimano a tremila uomini per categoria, ed anche la testimonianza, or’ora citata, di Antonio Barbarigo può essere ritenuta una conferma indiretta. Confermano inoltre questi numeri: il segretario Daniello de’ Ludovisi (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 15), che parla nel 1534 di tremila Spaì-oglani alla destra del sultano, tremila Silictari alla sua sinistra, 2.500 Ulufegì e 2.000 Capì-oglani, in due squadre; mentre il Garzoni, nel 1573 (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 413), conta tremila Spaì-oglani, tremila Silictari, tremila Ulufegì, duemila Ciarcagì, mille cavalieri del primo Visir e cinquecento per ognuno degli altri cinque Visir. Di 10.000 cavalieri aveva parlato anche il Minio (in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 72); mentre Daniele Barbarigo (in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 33), citando 7.095 Spaì, evidentemente si limita al totale delle prime due divisioni di cavalieri della Porta, Sipahi Oğlan e Silictâr. 14.000 sono detti nel 1575 (in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 311) e nel 1576 (dal Tiepolo, in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 140); 12.000 da Jacopo Soranzo nel 1581 (in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 253). Nel 1583, Paolo Contarini (in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 219) conta 10.000 Sipahi della Porta, “compartiti sotto sei squadre, ma chiamati ora con due soli nomi, cioè spaoglani e salitari, che per il passato soleva esser gente floridissima e stimata assai, e perciò era deputata alla guardia del Gran Signore, né si partiva se non quando Sua Maestà andava in persona alla guerra; ma ora è essa ancora ridotta in povertà e miseria per esser stata mandata alla guerra di Persia […]”. Dal canto suo il Morosini (in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 258), nel 1585, parla di sei legioni di cavalleggeri, chiamati Spai, che sono circa dodicimila “li quali, sì come li gianizzeri servono per antiguardia alla persona del Gran Signore, così questi altri servono per retroguardia della sua medesima persona, nella qual guardia entrano ancora li Mutaferagà, Ussineri e Chiaussi, e sono intorno 1.500”. Ma nel 1590 (si veda la Relazione di Giovanni Moro, in E. Albèri, op. cit., vol. III, pp. 339-341), dopo la breve decadenza dovuta alla guerra per il Caucaso, sotto Murad III (1574-1595), i Sipahi della Porta sono aumentati “Gli Spaì della Porta, come ho detto, sono 20.000, essendo cresciuti quasi il doppio da pochi anni in qua; sono divisi in sei compagnie […]”. Il che conferma un numero precedente di circa 10.000-12.000 uomini. Mentre quattro anni dopo (Relazione di Matteo Zane, del 1594, in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 394) i Sipahi risultano di nuovo 14.000, sempre ripartiti in sei compagnie: “Questa è la guardia della persona del re, alla parte sinistra del quale, come da noi a destra, cavalcano le compagnie più degne, e le due prime sono assai maggiori delle altre e tenute in più estimazione”. La guerra contro la Persia determinò una profonda crisi dell’esercito, come testimoniama mons. Maffeo Venier, Arcivescovo di Corfù (Relazione dello stato presente del Turco e modo di fargli una guerra reale di Mons. Maffeo Venier, Arcivescovo di Corfù, fatta da lui nell’anno 1586, in E. Albèri, op. cit., vol. II, pp. 297-307). Nel 1586 il sultano aveva perso in guerra seicento mila uomini, oltre ai morti causati a Costantinopoli dalla peste del 1585: per questo motivo erano divenuti Giannizzeri molti Azam-oglani, benché non avessero raggiunto ancora l’età giusta, ed erano stati arruolati molti turchi di nascita a dispetto del sistema del devºirme. Si comprende dunque l’origine delle parole pronunciate dallo Zane nel 1594 (in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 392), per il quale i Giannizzeri “solevano essere tutti figliuoli di cristiani […] ma ora dicono che pur dentro vi sono intromessi molti figliuoli di turchi con inganno […]”, parole che abbiamo riportato quando abbiamo trattato della “degenerazione” di quella milizia. Ma la guerra contro la Persia ha causato una decadenza complessiva di tutto l’esercito: “gli Spahis, in tempo che si pagavano li soldati,” scrive Mons. Venier (in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 298) “si sollevarono protestando di non voler andare alla guerra, se il Gran Signore non andava in persona […] Onde fu deliberato che per allora gli Spahis-oglani, cioè quelli della Porta, non fossero altrimenti obbligati di andare alla guerra”. Questa crisi militare dell’Impero ottomano produrrà nel Venier, come vedremo, valutazioni anche troppo ottimistiche sulla possibilità della caduta di Costantinopoli ad opera di un esercito cristiano.

[113] Cfr. E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 127 e nota I. Lancia spezzata, in francese Lance passade, Anspessade o Lance brisée, era anche un soldato mercenario, non appartenente a nessuna compagnia, oppure, nei secoli XVI e XVII, un soldato scelto di cavalleria o di fanteria che svolgeva funzioni di attendente, Cfr. Giuseppe Grassi, Dizionario militare italiano, 4 voll., Torino 1833. Alla fine del secolo tutti i baili, nelle loro relazioni, ripetono per i Mütefèrrika l’appellativo di lance spezzate. Ma già lo aveva usato il Ludovisi, nel 1534 (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 13), che contava ottanta muteferica, “overo lancie spezzate del Gran Signore, senza altro capo che lui”. Il Moro poi (in E. Albèri, op. cit., vol. III, pp. 341-342) li fa ammontare, nel 1590, a settecento, mentre lo Zane (in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 396), quattro anni dopo, riporta il medesimo numero di trecento. Evidentemente anche il Moro, così come altri, li confonde con un corpo dei Sipahi della Porta, oppure aggiunge al loro numero quelli che lo Zane chiama “altre sorte di cortigiani che aggrandiscono il numero degli abbligati”.

[114] Il corrispettivo tattico dei centodue cavalieri che il Brocardo dice appartenenti alla Cavalleria del Pascià, e dei centosessantacinque schiavi del Pascià di Damasco visti dallo Zeno. Cfr. B. Navagero in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 61-63. I Timarioti, a cavallo fra il XV e il XVI secolo, secondo il Segono (in A. Pertusi, op. cit., pp. 522-523) sono circa 80.000: “[…] Timarati dicti, hoc est stipendiarii. Tenent enim in stipendio villas, vicos, castella et talia […] presto sunt suo duci seu Sanzacho provinciae eorum. Censentur ad 80.000 esse, in duos divisi exercitus tam pace quam bello sub ductu et auspicio duorum bassa, uno Natoliae, altero Romaniae”. All’inizio del XVI secolo, stando al bailo veneziano Antonio Giustinian (in E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 48), ammontano a 50.000, di cui 22.500 provenienti dalla Grecia e 27.500 dall’Anatolia, mentre nel 1565 per il Bonrizzo (in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 99) sono nel complesso 160.000 e così un anno prima per Daniele Barbarigo (in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 33). Dopo Lepanto, il Soranzo (Relazione dell’Impero ottomano del clarissimo Giacomo Soranzo, ritornato ambasciatore da Sultano Amurat li 8 di novembre 1576, in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 197) e M. Antonio Tiepolo (in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 140 e p. 143) contano 130.000 cavalieri fra Grecia e Anatolia, con l’aggiunta di 28.000 “venturieri detti Aghiari, e di 10.000-15.000 vassalli Valacchi e altrettanti Moldavi, e circa 200.000 sono detti nel 1575 (in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 310 e p. 314), compresi però 10.000 Valacchi, 10.000 Moldavi, 30.000 Georgiani e 25.000 Curdi. Secondo Paolo Contarini (in E. Albèri, op. cit., vol. III, pp. 218-219), all’inizio degli anni Ottanta del secolo, i due Beylerbey hanno ancora sotto il loro comando 100.000 cavalieri. E i cavalieri della Grecia (40.000) sono più bellicosi, mentre quelli dell’Anatolia (60.000) son detti di poca considerazione. Ma nel 1590 il Moro (in E. Albèri, op, cit., vol. III, pp. 339-340) parla di 180.000 Timarioti, 80.000 dai villaggi d’Europa e 100.000, “stimati manco buoni”, provengono dall’Anatolia. Mentre lo Zane (in E. Albèri, op. cit., vol. III, pp. 395-396) conta 60.000 timari in Europa, che obbediscono al Sanjaqbey sotto il quale si trovano, e assai di più in Anatolia, ma anche molto meno stimati. Lo Zane, poi, è l’unico a citare gli Zaimi, come cavalieri di maggior grado fra i cavalieri del Timaro. Dal Trevisano, poi, (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 124) sappiamo che in Europa, oltre al Beylerbey della Grecia, ve ne sono altri due, uno di Buda e l’altro di Temesvar, e che quest’ultimo è stato eletto nel 1552, dopo la presa della città. Invece in Asia vi sono quindici Beylerbey oltre a quello dell’Anatolia, fra i quali alcuni hanno il titolo di Pascià, come il Beylerbey del Cairo, che ha grande autorità poiché governa su tutto l’Egitto.

[115] Cfr. E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 132-133. Dal canto suo, Jacopo Soranzo (in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 247) conferma che è la fanteria dei Giannizzeri a combattere per ultima.

[116] Cfr. The Cambridge History of Egypt, vol. II, Modern Egypt, from 1517 to the end of the twentieth century, edited by M. W. Daly, Cambridge 1998, p. 14, secondo cui l’Egitto, a causa della sua sicurezza, era una regione dell’impero ambita per svolgervi il servizio militare. C’erano in Egitto più Mütefferika e Çavuº che a Costantinopoli. Il Qanun-name permetteva solo 40 Çavuº, ma in Egitto, nella seconda metà del XVI secolo, se ne contavano almeno 450. Nel 1565 erano di stanza in questa parte dell’impero 1.400 Giannizzeri, 400 in più del dovuto, di cui la maggior parte di origine balcanica, e 700 Azapi invece dei 500 prescritti.

[117] Cfr. B. Navagero in E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 63-64, che scrive: “Se l’esercito andasse nella Natolia, il beilerbei della Natolia camminerebbe della parte destra, e quel della Grecia dalla sinistra, e viceversa”.

[118] La descrizione del Trevisano è confermata da un esempio concreto riportato dalla contemporanea Relazione anonima della Guerra di Persia dell’anno 1553 … (in E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 257-258), la quale, precisando che l’esercito turco andava incontro al Sofì come se avesse dovuto combattere, registra all’antiguardia il Beylerbey dell’Anatolia, “secondo il suo solito, perocché ogni fiata che il Signor Turco cavalca con l’esercito nelle parti d’Asia, tocca al beilerbei della Natolia”, e viceversa se l’esercito è in Europa. E quindi in Asia all’ala sinistra si pone il Beylerbey dell’Anatolia con i cavalieri dell’Asia, e all’ala destra quello della Grecia con i cavalieri dell’Europa (in mezzo Scander-agà, Beylerbey d’Erzerum, con 25.000 cavalieri armeni). Dietro i Beylerbey viene l’artiglieria, a guardia dei Giannizzeri, quindi il Solimano con i Solak circondati da squadre di quattrocento Spaì e Silictari (a destra Aly pascià, a sinistra Achmet pascià). In coda l’infinito numero di cammelli ed altri animali, che conducono i bagagli e tutto ciò che è necessario all’esercito. Il Caznà è posto al centro dei Giannizzeri. Probabilmente la diversa collocazione dei Sipahi della Porta è dovuta al fatto che questi cavalieri si disponevano sulle ali, per largo tratto, fra la testa dello schieramento e la fanteria dei Giannizzeri. Bisogna aggiungere che all’avanguardia, dell’esercito turco secondo J. von Hammer–Purgstall, op. cit., p. 63, erano i Pascià di Erzerum (Erzurum), Diarbekr (Diyarbakir) e Damasco, in ordine: Ayas, Skender e Mohammed.

[119] Cfr. E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 224-231.

[120] Dukagin Mehmet, che verrà nominato Pascià del Cairo dopo l’entrata dell’esercito in città.

[121] Si tratta di Cihangir, che morirà di lì a poco, figlio del Solimano e di Hürrem Sultân (Roxellana), quindi fratello di Selim, Bâyezîd e Mehmet. Un altro figlio del Solimano, Mustafà, era nato dalla favorita Mahidevran.

[122] Kara Ahmet Pascià, sposato a Fatma, sorella del Solimano, ricopre in questo momento la carica di secondo Visir, ma diverrà Gran Visir, al posto di Rustem, a partire dall’ottobre 1553 e fino al settembre 1555, quando verrà fatto uccidere dal Solimano e sostituito nuovamente da Rustem.

[123] Del Caznadar abbiamo già detto, gli altri erano il Kapi ağa, a capo degli eunuchi bianchi, e l’Odah baºi, maestro della Camera Privata del Sultano, ambedue inseriti nell’Enderûn. Cfr. H. İnalcık, op. cit., p. 82, e Glossary, p. 222, s. v. Kapǐ ağasǐ; M. F. Viallon, op. cit., Glossaire turc, p. 267 e pp. 268-269, s. v. kapi aga e odahs.

[124] Cfr. B. Navagero in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 64.

[125] Cfr. Relazione anonima della Guerra di Persia dell’anno 1553 …, in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 262.

[126] Cfr. B. Navagero in E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 64-65. Per ulteriori notizie sui Turchi, oltre alle opere già citate, si vedano anche Alessio Bombaci, Stanford J. Shaw, L’Impero ottomano (Nuova storia universale dei popoli e delle civiltà), vol. VI, parte II, Torino 1981, in particolare le pp. 402-404, dedicate all’istituzione militare (seyfiyye); Klára Hegyi, Vera Zimanyi, The Ottoman Empire, Budapest 1986; Giacomo E. Carretto, I Turchi del Mediterraneo. Dall’ultimo impero islamico alla nuova Turchia, Roma 1989, in particolare le pp. 45-48, che trattano dei Kapi kullari e del devºirme; Bernard Lewis, Istanbul et la civilisation ottomane, Parigi 1990.

[127] Scrive il Trevisano (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 130): “Non mi estenderò in farne particolar relazione alle eccellentissime signorie vostre, avendone più volte li clarissimi predecessori miei fatto particolar menzione […]”; e poiché parla del sistema di reclutamento dei giovani giannizzeri, si riferisce evidentemente al Navagero, che ha già trattato questo argomento in modo approfondito e ricco di particolari. Oppure Daniele Barbarigo, nel 1564 (in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 16): “Lascerò star di dire gli ordini dell’esercito […] essendone stato detto da molti miei predecessori a sufficienza”.

[128] Cfr. Jacopo Soranzo in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 245.

[129] Cfr. E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 261.

[130] Cfr. E. Albèri, op. cit., vol. III, p. 391.

[131] Cfr. P. Giovio, op. cit., pp. 34v-35r.

[132] Il Tiepolo scriverà nel 1576 (in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 141 e p. 143), a proposito dei Giannizzeri che sono armati di archibugio e scimitarra: “onde si può ben comprendere se possono questi contendere con la fanteria de’ Christiani, armata non solo d’archibugio e di spada, ma di lunghissima picca ancora […]”. Un richiamo ai “Pecchieri” del Giovio. Ma lo stesso diceva il Tiepolo della cavalleria turca, la quale, essendo armata di deboli lance, non può fronteggiare quella cristiana “ma il numero loro grande, e la furia del grido e del corso […] ha avuto quasi sempre forza di metter in fuga ed atterrar gli eserciti de’ Cristiani, benché meglio armati e forse anco meglio ordinati”.

[133] Cfr. B. Ramberti, op. cit., l. III, p. 33.

[134] È indubitabile che la battaglia di Lepanto sia stata salutata in Europa con entusiasmo, ma è anche vero che, nel breve spazio di un inverno, la flotta turca era ricostituita e la supremazia nel Mediterraneo orientale riacquistata. Per cui si può dire che con quella battaglia si rese evidente che l’impero ottomano poteva essere vinto, ma anche che esso aveva ancora sufficienti forze per incutere timore.

[135] È interessante, a questo proposito, l’incipit della relazione di M. Antonio Tiepolo (in E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 131), per cui “Dugento sessanta e più anni sono, che prese nome e regnò la casa Ottomana […] Diversi accidenti, ma sempre le discordie de Cristiani, e quelle massimamente degli imperatori di Grecia […] hanno facilitato l’imprese a lui [sc. Ottomano] e a suoi successori”, un giudizio che contiene elementi di buon senso, del resto già il Giovio delineava una sorta di “coalizione cristiana” sotto l’egida di Carlo V, formata da “Pecchieri alemanni […] Archibusarie Boeme, Spagnole e Italiane”, tuttavia un giudizio dal quale è esclusa ogni analisi o semplice considerazione delle reali forze messe in campo dagli Ottomani, come invece avveniva nel Giovio e nel Navagero. Si sente, al di là delle preoccupazioni per l’ars rhetorica, che sono passati pochi anni da Lepanto, anche se, sul giubilo per la vittoria, nelle parole del retore prevale il rammarico per le divisioni del passato (e di quelle che perdureranno), rammarico nel quale però la prudenza induce ad addossare tutte le responsabilità agli “imperatori di Grecia”. Ma essa sembra anche rispondere alle parole con cui si chiudeva la Relazione anonima della Guerra di Persia dell’anno 1553 … (in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 269), naturalmente precedente la battaglia di Lepanto, in cui si chiosava in questo modo la fine della guerra condotta dal Solimano contro la Persia: “Ora che con altri non gli resta da fare se non con li nostri, contro i quali ogni volta ch’egli voglia, libero da ogni altra cura, potrà condurre la maggior parte delle sue genti, non so chi potrà resistergli, essendo la cristianità divisa, e in sé talmente incrudelita che non solamente non cerca di coprirsi, e difendersi dai colpi del suo crudele inimico, ma scoprendosi non si cura d’essere da lui ferita, per star solo intenta a far qualche bel colpo in sé medesima”.

[136] Per quanto avesse avuto un esito vittorioso, questa guerra contro la Persia, voluta dal gran Visir Sokullu Mehmet Pascià sotto Murad III, determinò sicuramente una profonda crisi nell’esercito, come risulta anche dalle fonti che abbiamo citato, e in generale, come scrivono Bombaci-Shaw, op. cit., p. 433, si può ipotizzare che alla lunga contribuisse al decadimento dell’impero, poiché i successi militari sviarono l’attenzione dalla disgregazione delle istituzioni e dalle sue conseguenze finanziarie. Anche l’Egitto, nell’ultimo quarto del secolo, andò incontro ad una grave crisi economica e fu contrassegnato da rivolte militari a partire dal 1587. Per rinforzare l’esercito entrarono nei corpi militari molti nativi di origine araba (awlad ‛arab), per cui già nel 1568 si distinguevano, dai Kapi kullari, i Misir kullari, ossia i soldati egiziani, e spesso fra le due etnie si crearono forti tensioni, Cfr. The Cambridge History of Egypt cit., vol. II, p. 15.

[137] C’è anche chi eccede in zelo, come monsignor Maffeo Venier (in E. Albèri, op. cit., vol. II, pp. 304-305), secondo il quale per prendere Costantinopoli “in uno esercito di quarantamila fanti e duemila cavalieri sarebbe da potersi confidare; e questo anderebbe camminando in battaglia lungo la marina […] L’armata basterebbe che fosse di 100 galere” o che comunque parte della flotta prevedesse altrettante galeazze.

[138] Cfr. E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 323 e pp. 366-377.

[139] Le rivolte di Sipahi e Giannizzeri continuarono fino all’energico intervento dei Köprülü; l’ultima rivolta infatti è del 1656, ma un’altra scoppiò nuovamente nel 1687. Cfr. R. Mantran, op. cit., p. 136; e Dimitri Kitsikis, L’Empire ottoman, Parigi 1985, pp. 88-89, secondo cui l’influenza grandissima degli ulema integralisti, a cavallo fra XVI e XVII secolo, minò le basi stesse dell’impero e rese difficile lo sviluppo della scienza e della tecnica. Anche l’influenza degli Ulema fu spezzata dal gran Visir Mehmet Köprülü (1661) che, per prevenire la guerra civile, li esiliò da Costantinopoli.

[140] Il Brocardo, evidentemente, con Cieco Alarbo intende indicare lo Shaykh al-‛Arab, lo Sceicco dei beduini arabi. Ma avremo modo di riparlare di questo personaggio.

[141] E anche queste notizie concordano con quanto sappiamo, dalle fonti, sull’armamento sia degli arabi, che erano provvisti di archi e frecce, sia dei giannizzeri; gli archibugieri turchi, infatti, saranno certamente giannizzeri con i loro tüfenk.

[142] Il Mahmal egiziano, in mezzo ad una folla di persone fra cui ‘Uthmān Pašā, governatore generale della Hiğāz, è ben visibile, con il suo profilo piramidale e le stoffe di cui è ricoperto, in Ch. Snouck Hurgronje, op. cit., ill. 7: un disegno eseguito dall’autore durante il suo viaggio alla Mecca negli anni 1884-1885.

[143] Cfr. N. de Nicolay, op. cit., l. III, cap. XV, pp. 105-106 (dov’è il ritratto di uno di loro). Ch. Snouck Hurgronje, op. cit., pp. 80-82, cita una tradizione secondo la quale le genti preislamiche erano solite eseguire nude il tawāf (cioè la rituale circumambulazione della Ka‛ba) e alcune tribù continuavano quella tradizione anche in epoca islamica. Secondo l’autore tale tradizione, se vera, alludeva probabilmente all’abbigliamento misero e ritenuto indecente dalle popolazioni urbane, con cui alcuni pellegrini spesso giungevano alla Mecca dopo un viaggio di mesi. Ed è probabile che anche nel caso dei Gromalieri alcuni di essi, già discinti nel modo consueto di vestire, avessero seguito già da mesi attraverso il deserto le altre carovane africane e si presentassero al Cairo, quel 24 agosto, in condizioni miserevoli.

[144] Il grande pellegrinaggio alla Mecca, uno dei cinque pilastri (rukn) dell’Islam, è il cosiddetto hağğ (o hajj) e deve essere compiuto, almeno una volta nella vita, da ogni musulmano che sia nelle condizioni economiche e fisiche per farlo. Questo tipo di pellegrinaggio differisce dalla visita o piccolo pellegrinaggio, detto ‛umra, “come l’adempimento di un obbligo religioso differisce dalla celebrazione di una festività sacra”, Ch. Snouck Hurgronje, op. cit., p. 13. Il grande pellegrinaggio, celebrato una sola volta all’anno e da un grande numero di fedeli, comincia il primo giorno del mese di dhū’l-hiğğa, e non è inutile ripetere qui che, essendo il calendario musulmano lunare e composto di dodici mesi per un totale di 354 giorni, ogni mese, compreso questo, cade in tempi diversi rispetto al calendario solare e col passare degli anni slitta attraverso tutte le stagioni. Si comprende così perché ogni viaggiatore che abbiamo citato vide la carovana in mesi diversi. Invece il piccolo pellegrinaggio, o ‘umra, può essere compiuto più volte nella vita e in qualunque periodo dell’anno, e i fedeli lo compiono di solito in occasione di una festività, ma soprattutto durante il mese del ramadan. Per il pellegrinaggio si vedano, fra le fonti musulmane, i viaggi di Ibn Jabair (Voyages, trad. fran. di Maurice Gaudefroy-Demombynes, Parigi 1949), che fu alla Mecca nel 1184, e di Ibn Battuta (Viaggi, trad. ital. di Francesco Gabrieli, Firenze 1969), che fece il suo viaggio nel 1326; fra quelle occidentali o che comunque esprimono un punto di vista simile, Aly Bey, Travels in Morocco, Londra 1816; Johann L. Burckhardt, Reisen in Arabien, Weimar 1830; Richard F. Burton, Personal Narrative of a Pilgrimage to El-Medimah and Mecca, Londra 1855; Augustus Ralli, Christians at Mecca, s. l. 1909; Reginald H. Kiernan, The unveiling of Arabia, s. l. 1937.

[145] Al museo Top Kapi di Istambul si trova il Mahmal più antico conservato, quello del sultano al-Ghouri risalente all’inizio del XVI secolo. Esso consiste in un bâti, cioè in un parallelepipedo sormontato da una piramide, ricoperta di seta gialla col nome del sultano ricamato. Il parallelepipedo misura alla base 1, 60 x 1, 10 m, e d’altezza 1, 50 m. Mentre la piramide si eleva sulla base per un’altezza di 1, 75 m. La stoffa che lo ricopre è di raso giallo, all’interno imbottito di lino bianco, mentre i ricami sono in stoffa rossa e riportano, sul bordo della base, voti di felicità, pace e longevità per il sultano. L’insieme è più slanciato di quello degli ultimi Mahmal della nostra epoca. Cfr. J. Jomier, op. cit., p. 11.

[146] Gli succedette nel 1549, solo per alcuni mesi, Mustafà Pascià, quindi negli anni 1549-1553 fu Pascià del Cairo Alì. Questa la carriera che Aly fece, secondo Daniele Barbarigo (in E. Albèri, op. cit., vol. II, pp. 30-31), dopo essere entrato nel Serraglio. Scelto come Casnigir (cioè Çaºnigîr, assaggiatore del sultano. Cfr. H. İnalcık, op. cit., p. 82, e Glossary, p. 218, s. v. Çaºnigîr baºi), divenne “Agà dei giovani poveri” (ossia dei cavalieri Çarkadji), “Agà degli Spaì maggiori” (probabilmente dei Sipahi Oğlan), “mastro piccolo di stalla e poi imroor-bascì” (per dirla col Menavino, prima “Cucchiucchi imbroorbascià […] cioè maestro di stalla piccolo”, probabilmente un Kethüdâ del Mîrahûr, e poi Mîrahûr vero e proprio), quindi Agà dei Giannizzeri. Infine, dopo essere stato Beylerbey della Grecia e Pascià del Cairo, fu terzo Visir della Porta e poi primo Visir, cioè, per la grande considerazione che aveva presso il sultano, il vero reggitore dell’impero. Si tratta evidentemente di Semiz Alì Pascià, originario dell’Isola di Brazza (Braè), nell’odierna Croazia, che entrò nel Serraglio sotto la protezione di un suo parente, Khasta Alì, Kâhya del Gran Visir Ibrahim Pascià (1523-1536), quindi, dopo essere stato Agà dei Giannizzeri, Pascià del Cairo e terzo Visir, subentrò a Rustem nella carica di Gran Visir, dal 1561 al 1564, sposando Hümaºah Ayºe, figlia di Selim. Era detto il Grasso, per la sua stazza fisica, ed è descritto come persona affabile e generosa, al contrario di Rustem. Semiz Alì, secondo la Relazione anonima della Guerra di Persia dell’anno 1553 … (in E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 243-245), giunse ad Aleppo provenendo dal Cairo nel marzo del 1553, durante la guerra contro la Persia, per assumere la carica di terzo Visir. Al suo posto il Solimano aveva nominato Beylerbey del Cairo Mehmet, già Beylerbey di Aleppo. E vedremo in seguito quali notizie si possano ottenere su questo personaggio.

[147] Fra le fonti europee dei secoli XVII-XIX, si vedano: Jean de Thevenot, Relation d’un voyage fait au Levant, Parigi 1665, p. 203, che, per le stoffe, parla di raso color cremisi; Johann M. Wansleben, Nouvelle relation en forme de journal d’un voyage fait en Egypte en 1672 et 1673, Parigi 1677, p. 347, in cui l’autore dichiara di non poter distinguere il colore dei drappi a causa dei fiori e delle decorazioni; da Fredrik Hasselquist, Voyage dans le Levant, trad. fran., Parigi 1769, p. 122, veniamo a sapere che i drappi destinati a ricoprire la Ka‛ba erano opera di Copti del Cairo, alloggiati nel Palazzo; in Richard Pockocke, A Description of the East, vol. I, Londra 1743, pp. 186 e ss., e in Edward W. Lane, An account of the manners and customs of the modern Egyptians, Londra 1837, II, pp. 184-185, i drappi risultano d’un colore rosso, verde e nero, di cui non vi è traccia nelle fonti musulmane; infine Bertrand de la Broquière, Le Voyage d’autremer, Parigi 1892, p. 56, parla senza precisazioni di un Mahmal da lui visto a Damasco. A partire dal 1937 il Mahmal fu fabbricato per conto del re Farouq (fino al 1952), mentre nel museo etnografico della Société royale de géographie del Cairo, fino all’epoca del Jomier, era conservato il Mahmal di re Fouad I (1922-1936), con stoffe di colore rosso, ricami d’argento e un versetto del Corano (II, 256-257) iscritto sulla base cubica. I Mahmal del sultano al-Ghauri e di re Fouad sono visibili in fotografia (I e III) alla fine del libro del Jomier, mentre nelle fotografie IV e V si vedono al Cairo il Mahmal del 1946 e i drappi del 1948. Quanto alla tradizione del Corano recato in dono alla Mecca, alcune delle fonti or’ora citate aggiungono che il libro veniva posto all’interno del Mahmal. Tuttavia le fonti musulmane tacciono su questo punto, e F. Hasselquist, op. cit., p. 123, asserisce che i Turchi al corrente di questa tradizione la ritenevano falsa. A nostro avviso, come abbiamo detto, essa può nascere dall’uso di ricamare a lettere d’oro, sui drappi del Mahmal, i versetti del libro sacro, così come sembra riferire lo Zeno con le parole: “camelo tutto coperto di broccato fino con l’Alcorano […]”, mentre la testimonianza del Brocardo, quando scrive: “una arca, credo di legname, ma etiam di velluto nero tutta adorna, fregiata intorno di lettere Arabesche d’oro molto grandi, et havea quasi forma Piramidale” non è dirimente. Il velluto di cui parla il Brocardo è meglio definito broccato da C. Zeno, in quanto quest’ultimo termine prevede nella tessitura l’uso della seta e di fili d’oro e d’argento. Il Brocardo, poi, con l’aggiunta: “Questo è il dono et l’offerta, che portano al lor propheta Macone”, sembra avallare la tradizione, comunque errata, secondo cui i doni erano destinati alla tomba di Maometto. Infine, circa il cammello che sosteneva il Mahmal, la tradizione riferita dal Thenaud e dal Tournefort, secondo cui l’animale veniva ucciso e mangiato dopo il pellegrinaggio, non è confermata dalle fonti musulmane, nelle quali si afferma che il cammello, per ovvie ragioni, era scelto per le sue doti di robustezza ed era nutrito in una scuderia speciale al Cairo, dove restava in ozio fino al momento di intraprendere il viaggio. Cfr. J. Jomier, op. cit., cap. II.

[148] Cfr. J. von Hammer–Purgstall, op. cit., pp. 244-245.

[149] Anche la carovana che compiva regolarmente il percorso fra il Cairo e Gaza passava da questa porta. All’andata essa, come la carovana del pellegrinaggio vista dal Brocardo, marciava fino a Suez dove la strada si biforcava, da un lato in direzione della Mecca e dall’altro, attraverso al-Khanka, verso la Terra Santa. Lo testimonia, nel 1599, il calabrese Aquilante Rocchetta (nato nel terzo quarto del XVI secolo), il quale, nel viaggio di ritorno da Gerusalemme, dov’era giunto l’anno precedente, arrivò al Cairo provenendo da Gaza. Il resoconto di viaggio del Rocchetta fu pubblicato per la prima volta a Palermo, nel 1630, col seguente titolo: Peregrinatione di Terra Santa ed altre Provincie di Don Aquilante Rocchetta cavaliere del Santissimo Sepolcro nella quale si descrive distintamente quella di Cristo secondo gli Evangelisti, Palermo 1630. Quest’opera è stata edita di recente nel “Corpus Peregrinationum Italicarum”, 4 (4.1): Don Aquilante Rocchetta, Cavaliero del Santissimo Sepolcro. Peregrinazione di Terra Santa e d’altre Provincie, a cura di Giuseppe Roma, Pisa 1996, di cui si vedano in particolare le pp. 155-161 (capp. II-IV della Peregrinatione). Il Rocchetta, dopo essere stato diciotto giorni a Gaza, decise di partire per il Cairo, ma “perché essendovi molti deserti, e molti mali incontri d’Arabi, bisogna andare con gran gente assai, una parte della Carovana, ch’era venuta con essonoi da Gierusalemme, volse arrischiarsi a passare, e le riuscì, ma l’altra parte dov’eravamo noi, non volse arrischiarsi altrimente, e ci trattenemmo aspettando miglior passaggio”. Tuttavia la carovana dei pellegrini che allora si metteva in marcia per la Mecca (probabilmente attraverso Damasco), con “cammeli addobbati di richissimi drappi di seta, et di ricamo [...] et con molta festa, e giuochi, et suoni di tabali”, abbisognava per scorta della maggior parte dei soldati disponibili, e perciò il Rocchetta, la mattina di giovedì 27 maggio, dovette accontentarsi di partire con chi già lo accompagnava. Per strada, passando il giorno dopo da Laris Castello, il gruppo trovò in quella località una guarnigione di 300 Giannizzeri, provvisti di 150 cavalli e ben riforniti di armi e munizioni, e guadagnò la compagnia di uno di loro, che si disse disposto a scortarli. Il viaggio continua, nel capitolo II, con una bella descrizione del deserto, in cui si risentono gli echi in altri viaggiatori e che reca testimonianza di come un uomo di quell’epoca potesse darci contezza d’un simile spettacolo: “Il paese che siegue è tutto piano, e pieno di sabbione, et eravamo già entrati nel principio del mare dell’arena, chiamandosi così quella pianura per essere come un mare d’arena sottilissima invece d’acqua, et soffiandovi il vento, ondeggia tutta, come appunto per il mare, et quando v’è troppo vento, e tempesta, si commove l’arena furiosamente, in maniera che chi passasse vi resterebbe sommerso”. Dopo un lungo viaggio e la descrizione di molte località, il gruppo giunse al Cairo nel cuore della notte, passando per la Matarea e il Calese, menzionati anche dal Brocardo e da altri viaggiatori, così come le Piramidi e il Nilometro. Al Cairo il Rocchetta rimase per ventidue giorni, ed oltre a visitare la città, ebbe modo d’incontrare l’11 giugno 1599: “Giovan Battista Vecchietti fiorentino”, che era già stato in Egitto negli anni 1586, 1590-1591 e 1594. Lasciato il Cairo, il calabrese prese la strada per Alessandria d’Egitto, facendo a ritroso la medesima strada del Brocardo (Bulaq–Fuwa–Rashid–Alessandria), Cfr. anche S. Yerasimos, op. cit., pp. 77-78 e pp. 433-434.

[150] Cfr. J. Jomier, op. cit., pp. 27-42 e pp. 62-67, secondo il quale, a partire dal 1953, è sopravvissuta solo la festa dell’ostensione dei drappi, mentre la tradizione del Mahmal si è persa.

[151] Cfr. J. Jomier, op. cit., pp. 42-56.

[152] Le fonti parlano anche di 3.500 morti. Quanto al numero dei pellegrini, nel 1279 furono contati 40.000 egiziani ed altrettanti siriani e iracheni. Nel 1431 i cammelli ammontavano a 1.500, nel 1444 a 4.000. Le saint Voyage de Jherusalem par le Seigneur d’Anglure, Parigi 1878, p. 185, riferisce un numero di circa 10.000 pellegrini, mentre il Brocardo ne conta 14.000 e lo Zeno, per la carovana di Damasco, menziona un censimento del 1546 da cui ne risultavano 37.000. Il Vartema, infine, registra 64.000 cammelli e cento Mamelucchi.

[153] Cfr. The Cambridge History of Egypt cit., vol. II, p. 23.

[154] Cfr. H. İnalcık, op. cit., p. 82.

[155] Cfr. The Cambridge History of Egypt cit., vol. II, pp. 9-11.

[156] Cfr. J. Jomier, op. cit., pp. 74-108; The Cambridge History of Egypt cit., vol. II, p. 12.

[157] Cfr. J. Jomier, op. cit., pp. 108-124.

[158] Trovandosi a Corfù, il Brocardo vanta la conoscenza del nobile veneziano Bortolo Vendramin, che lo trae d’impaccio giacché il pittore, colto nell’atto di disegnare la fortezza, era stato accusato di spionaggio e portato di fronte al bailo. Ma il Brocardo afferma anche di voler approfittare delle galere grosse del capitano Marco Soranzo, senza però riuscire nel suo intento; per i rapporti fra la città di Venezia, gli Ottomani e l’Egitto, si vedano: Venezia e l’Oriente fra tardo Medioevo e Rinascimento, a cura di Agostino Pertusi, Venezia 1966; Venezia centro di mediazione tra Oriente e Occidente, secc. XV-XVI, in “Atti del II Convegno Internazionale di Storia della Civiltà Veneziana”, vol. I, Firenze 1974, pp. 111-116; Paolo Preto, Venezia e i Turchi (Facoltà di Magistero dell’Università di Padova, XX), Firenze 1975, cap. IV, di cui in particolare le pp. 285-294, intitolate Il “viaggio in Turchia”; Robert Mantran, Venise, centre d’informations sur les Turcs, in Idem, L’Empire ottoman du XVIe au XVIIIe siècles, Londra 1984; Atti del Convegno “Venezia e i Turchi”, a cura di Gino Benzoni, Milano 1985; Palmira Brummett, The transformation of Venetian Diplomatic Policy prior to the Ottoman Conquest of Cairo (1503-1517), in “Studies on Ottoman Diplomatic History”, no. 1, 1987, pp. 11-26.

[159] Cfr. The Cambridge History of Egypt cit., vol. II, pp. 7-8; J. Hammer–Purgstall, op. cit., pp. 268-271.

[160] Cfr. Relazione anonima della Guerra di Persia dell’anno 1553 …, in E. Albèri, op. cit., vol. I, p. 233.

[161] Cfr. E. Albèri, op. cit., vol. II, p. 32.

[162] Cfr. J. von Hammer–Purgstall, op. cit., pp. 85-88.

[163] Così almeno in The Cambridge History of Egypt cit., vol. II, p. 9, in cui si sostiene che la maggior parte dei Pascià del Cairo erano conosciuti per la loro devozione e saggezza, con l’unica eccezione di Dugakin-Oglu Muhammad (sic), conosciuto come empio per il motivo suddetto. Ma è chiaro che la sua esecuzione fu dovuta alla parentela con Kara Ahmed e agli intrighi che li videro protagonisti.

[164] Per il ruolo svolto dai gran Visir che abbiamo menzionato, si vedano le opere già citate sull’Impero ottomano.

[165] Cfr. The Cambridge History of Egypt cit., vol. II, p. 8.

[166] Cfr. J. von Hammer–Purgstall, op. cit., p. 84.

[167] Il ritorno di Rustem alla carica di Gran Visir, seguìto all’esecuzione di Kara Ahmet, e l’inaugurazione della moschea Süleymâniye ebbero un’eco tale che lo stesso Scià di Persia, Tahmasp, inviò a Costantinopoli un ambasciatore straordinario con lettere di felicitazione al Solimano e a Rustem. In esse lo Scià, fra gli altri epiteti onorifici con cui si rivolge al Solimano, chiamandolo ministro delle due città sante, Medina e la Mecca, lo felicita per aver assicurato piena libertà e sicurezza al pellegrinaggio, ricordandogli così uno dei punti fondamentali del trattato di pace, nel quale era previsto appunto che le truppe di frontiera, lungi dal causare disordini, avrebbero facilitato l’afflusso dei pellegrini verso le città sante. Cfr. J. von Hammer–Purgstall, op. cit., p. 70 e pp. 93-94.

[168] Dieci giorni prima dell’inaugurazione a Costantinopoli della moschea Süleymâniye, la cui costruzione era iniziata sei anni prima, e sei mesi dopo l’insediamento in città del bailo veneziano Antonio Barbarigo. Per l’inaugurazione della moschea si vedano J. von Hammer–Purgstall, op. cit., pp. 88-90; J. G. Grelot, op. cit., pp. 271-280.

[169] Vale a dire la torre di sollevamento dell’acqua posta a lato del Khalig Misri, il canale detto dal Brocardo Calese e oggi ricoperto, ossia la testa dell’acquedotto che raggiunge a tre miglia la Cittadella di Salah ad-Din.

[170] Il Brocardo ad esempio, nella stessa occasione della Tagliata del Nilo, scrive: “[…] pigliammo a nolo una barca che chiamano Germa con un baldacchino di sopra et di tappeti adorna con la guardia di dui Giannizzeri […]”: il gruppo, dunque, era provvisto di una scorta ufficiale ed assisteva alla festa da una barca chiamata Germa che, come risulta dal disegno contenuto nel Cod. Vat. Lat. 6038 e dalla descrizione fornita dal Brocardo, era sicuramente un’imbarcazione lussuosa. Inoltre, come abbiamo detto, il gruppo del Brocardo potrà, di lì a poco, partecipare ad un banchetto della corte del Pascià sull’isola denominata ar-Rauda, presso il Nilometro.

[171] Anche questa, comunque, è una testimonianza indiretta del fatto che i viaggiatori europei devono aver preso contatto con il Pascià del Cairo. Come anche è possibile che il Brocardo, parlando genericamente di Mori che ritengono gli europei indegni di assistere al passaggio della carovana, non si riferisca ad un interdetto ufficiale, ma tema semplicemente che il gruppo venga identificato dalla popolazione locale e quindi bersagliato di pietre dai fanciulli, come già era avvenuto in precedenza almeno in due occasioni, quando gli europei a cavallo erano di ritorno dalle Piramidi e durante la festa della Tagliata del Nilo, che pure il Brocardo non ritiene interdetta, in entrambi i casi nonostante la presenza della scorta dei giannizzeri. A questo proposito è interessante ciò che scrive il Bassano circa i Sipahi (op. cit, cap. XLIIII, p. 50): questi cavalieri, a Costantinopoli, cavalcano per la città molto orgogliosamente, cosa che non possono fare “gli altri ed i Giudei”, se non su muli e anche di rado, “perché accorgendosi di loro i fanciulli gl’assassinano con gride et sassi”. Bisogna distinguere, dunque, fra il comportamento delle autorità, che adottavano una ben precisa strategia con quegli ospiti che ritenessero di dover impressionare, e il comportamento della popolazione. Pertanto il fatto che gli europei assistano al passaggio della carovana può comunque essere definito un “privilegio”, al tempo stesso dovuto a ragioni contingenti e presentato come tale dalle autorità turche, dal momento che la segretezza nella quale tale visione si svolge può essere ritenuta una precauzione messa in atto per ragioni di ordine pubblico, rispetto ad una popolazione che già si era dimostrata ostile, per diverse ragioni, nei confronti degli stranieri. È possibile, poi, che il Brocardo abbia deciso di non realizzare un disegno della carovana poiché aveva ben presente l’esperienza patita a Corfù: si ricordino le parole che chiudono l’episodio di cui era stato protagonista nell’isola, quando era stato sorpreso dagli zaffi a disegnare la fortezza e perciò condotto di fronte al Bailo: “Questa disgrazia mi fu un aviso, come dovessi in tali affari in paesi di Turchi, cautamente governarmi dove non può altro favore che del denaro”. Del resto spesso i viaggiatori occidentali, approfittando del pellegrinaggio a Gerusalemme, coglievano l’occasione di reperire in loco le notizie di rilevanza militare: ad esempio Leonardo Frescobaldi, nel 1385, riceve dal vescovo di Volterra e dal re di Napoli, Carlo III, l’incarico di esaminare “i porti e paesi di là, sicché alla mia tornata dove si potesse comodamente pigliar porto a gente d’arme e procurassi e fiumane e luoghi e siti da campeggiare, e qual terra fussino atte a vincere per battaglia, come che di ciò io sia poco esperto, come per lo mio peccato mi sono ritrovato in sette battaglie di campo”. Cfr. J. Guérin dalle Mese, op. cit., p. 128.

[172] Abbiamo ad esempio, nei mesi di maggio-luglio 1556, l’assedio di Szigetvár, Cfr. Historia obsidionis et oppugnationis arcis Zighet in Hungaria a Marco Horvat loci illius Capitaneo ad Regiae Majestatis mandatum descripta et trasmissa 23 die Augusti 1556, Wittenberg 1557, citata in J. von Hammer–Purgstall, op. cit., p. 108.

[173] Cfr. L. Bassano, op. cit., cap. XXXVII, p. 44v.

[174] A parte i Bölük baºi che entrarono a cavallo in Aleppo nel 1553, ma non possiamo ritenere che, come scorta della carovana del Cairo, venisse inviata una cavalleria di ufficiali.

[175] Cfr. L. Bassano, op. cit., cap. XXXVI, p. 43v. Evidentemente Cheruat significa Croato.

[176] Come quel Sokullu Mehmet, nato in un paese della Bosnia, che nel 1573 aveva circa cinquecento schiavi con un copricapo simile a quello dei Giannizzeri, “col pendone di metallo in fronte che fa bellissimo vedere” (Relazione dell’Impero ottomano di Andrea Badoaro …, in E. Albèri, op. cit., vol. I, pp. 364-365). Inoltre, nella campagna di Persia del 1553-1554, gli schiavi del Sokullu sono ricoperti di pelli, sia sul corpo che sul capo, portano un grande targone, speroni, bracciali e guanti di ferro. Probabilmente sono Deli, Cfr. J. von Hammer–Purgstall, op. cit., p. 63.

[177] L’organigramma dell’esercito del Solimano è basato essenzialmente sulla relazione di Bernardo Navagero, con aggiunte che ho tratto da altre fonti, e prende spunto da quello che M. F. Viallon, op. cit., traccia a p. 132.