Un articolo che ci ha fatto discutere...
 
"Ecco la nuova guerra, impariamo a combatterla" 
 di Carlo Jean
(dal Corriere della Sera del 9/5/97)
 


Una nuova "teoria della guerra" da applicare alle crisi nelle quali la comunità internazionale è impiegata: è uscito nelle librerie il volume "Guerra, strategia, sicurezza", edito da Laterza nella collana Sagittari.
L’autore, Carlo Jean, è presidente del Centro alti studi della Difesa.

Ne pubblichiamo alcuni stralci...
 

Il futuro è imprevedibile e ambiguo. La "nebbia della pace" ha sostituito quella della guerra – per usare una espressione di Clausewitz. Le certezze della guerra fredda sono finite, insieme alle eleganti semplicità della dissuasione nucleare, al prevalere della componente militare nelle politiche di sicurezza e alla prevalenza in queste ultime delle dimensioni "dure" o tecnologiche i cui impatti sono per loro natura misurabili, su quelle "morbide" o umane, dagli effetti meno prevedibili. 

  

La politica. 

La strategia si è politicizzata, mentre la forza militare è sempre più spesso impiegata in combattimento. Le sue capacità effettive hanno più importanza di quelle virtuali che invece dominavano durante gli anno del confronto bipolare... 
La non-guerra non è più separata dalla guerra. Ne è un esempio la Bosnia, laddove solo i bombardamenti della Nato hanno ripristinato la capacità di dissuasione e di coercizione della comunità internazionale. Le minacce non sono più sufficienti, in quanto vengono ritenute un semplice bluff, che si può impunemente sfidare. Non si può più fare affidamento sulla razionalità dell’avversario, come era avvenuto per decenni tra Washington e Mosca. 

  

I mass media. 

Lo sviluppo dei mezzi di informazione aventi una copertura globale e capaci di diffondere notizie in tempo reale ha fatto sì che le opinioni pubbliche siano divenute un fattore centrale in ogni calcolo, non solo politico ma anche strategico e, in futuro, anche tattico. Il politico e lo stratega si trovano spesso nelle condizioni di un chirurgo che debba effettuare un intervento in una sala operatoria piena di parenti emotivi e vociferanti. Ormai si combattono sempre due battaglie: una sul campo, l’altra sui mass-media. Il consenso è necessario, ma la "Cnn-politics" abbattendo le frontiere fra politica interna ed estera, comporta il rischio di subordinare la seconda alla prima. 

  
 
Il pacifismo 

È sciocco pensare di evitare la guerra esorcizzandola, soprattutto ora che la guerra è più probabile, sebbene molto meno pericolosa – anzi è più probabile proprio perché meno pericolosa -. Tale atteggiamento è anche rischioso. La pace non si difende da sola! Va difesa. La presenza dei soldati è essenziale per l’ordine internazionale come quella di carabinieri e magistrati per l’ordine interno. 
Come la forza militare, questi ultimi non promuovono la giustizia, ma solo l’ordine, che tuttavia rappresenta il presupposto necessario per la realizzazione di qualsiasi giustizia. 

  

Le nuove insidie. 

I presupposti per mantenere la pace sono due. Il primo è il possesso da parte di chi desidera salvaguardare lo status quo di una potenza superiore a quella dei possibili sfidanti e della volontà di servirsene quando è necessario. Il secondo è la capacità di gestire lo status quo, ad esempio in campo economico, politico e psicologico, così da renderlo tutto sommato accettabile. 
I vincitori della guerra fredda sono insidiati da un Terzo Mondo insoddisfatto, da trasformazioni molto rapide negli equilibri economici e militari da tendenze alla frammentazione e alla disgregazione degli Stati, che potrebbero portare ad un nuovo Medioevo, privo però dei principi regolatori di cui erano garanti il Papato e l’Impero. La globalizzazione e la conseguente competizione economica mondiale e, soprattutto, i trend demografici obbligano gli Stati occidentali a contrarre i costi dello Stato sociale, quindi a concentrare l’attenzione sulla politica interna. 

  

Italia ecumenica. 

In Italia alle limitazioni oggettive alla nostra sovranità, determinate dall’interdipendenza mondiale e dalle forze transnazionali, se ne aggiungono altre che ci siamo autoimposti, per l’erosione del senso di identità nazionale perseguita, in parte volutamente, da correnti culturali e politiche "ecumeniche" e per la profonda crisi, politica e istituzionale, che lo Stato attraversa. Ciò impedisce addirittura agli italiani di avere la consapevolezza di essere tra i vincitori della terza guerra mondiale – cioè della guerra fredda – e li rende incapaci sia di cogliere le opportunità che si sono aperte sia di assumere quei ruoli e responsabilità da cui dipenderà la possibilità futura di far parte del governo del mondo o almeno di quello dell’Europa. 

  

Diplomazia della violenza. 

A differenza della seconda guerra mondiale, conclusasi con la debellatio del nemico e l’imposizione di una resa incondizionata, attualmente l’uso della forza di per sé non risolve i conflitti. Serve solo a far ritornare la situazione a un punto in cui sia possibile ricominciare a trattare. L’intervento non ha per scopo la giustizia, ma il ristabilimento di un certo ordine, cioè di condizioni di tregua. Un successo militare non determina la soluzione di un conflitto interno, crea solo una gamma di opzioni, sbloccando una situazione senza via d’uscita. La forza facilita i processi politici. Non è un loro sostituto. È un presupposto necessario, ma non sufficiente per la pace. 
Per essere impiegata efficacemente essa ha bisogno, quantomeno, di sapere che tipo di pace vogliono i politici. La strategia della gestione delle crisi si identifica così con la "diplomazia della violenza". 
Se non esiste una potenza leader in grado di dare unitarietà agli interventi multinazionali, sarà ben difficile gestire efficacemente azioni preventive. La gestione di interventi preventivi a livello globale – da parte dell’ONU – appare quasi impossibile sotto il profilo pratico. Solo gli Usa o al limite alleanze di difesa come la Nato, possono garantire, oltre a forze e capacità operative, l’indispensabile unitarietà e tempestività decisionale. 
 
  

Cultura della guerra. 

Le difficoltà attuali derivano anche dal fatto che, dopo cinquant’anni di demonizzazione della guerra, l’Occidente ne ha perso la cultura. Invece di una cultura della pace, bisognerebbe ripristinare quanto prima una cultura sulla guerra.  
Sarà difficile, ma se lo si riuscisse a fare, ci si renderebbe conto che cosa significa intervenire militarmente e si saprebbe agire efficacemente, senza limitarsi a lamentose prediche o a condanne retoriche.

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