Capitolo 53: Il racconto di Odisseus

 

I Sette furono condotti su una delle due navi, “Lasceremo qui la vostra imbarcazione, al sicuro da occhi mortali finché non sarete giudicati”, li rassicurò Marut, guidando la piccola carovana che li conduceva sulla sua nave, mentre alla fine della stessa si era posta Awr’ien, di guardia alle retrofile.

Furono legati gli Arvenauti e posti in una piccola cella all’interno della nave, dove furono lasciati in silenzio.

“Cosa ne sarà ora di noi?”, domandò subito Iason, “Ci processeranno, almeno, così fecero quando arrivai qui, molti anni fa. Mi processarono i Tre eccelsi signori del regno di Tenkia, deliberando poi per il mio esilio, dato che le prove contro di me non erano determinanti”, spiegò subito Odisseus, sedendosi in un angolo della cella.

“Io non vorrei restare qui ad attendere il processo e voi?”, esclamò poco dopo Acteon, lanciandosi con furia contro la cella, che però respinse la sua potenza offensiva, rigettandolo indietro con una furia egualmente distruttiva.

“Ma cosa?”, balbettò appena il Cacciatore, osservando un piccolo bagliore argenteo riflettersi sulla superficie della cella, “Lo stesso che aveva fatto Qui Han su Midian, una prigione circondata dal potere dell’Essenza, ma molto più robusta di quella”, osservò allora Argos, avvicinandosi alle sbarre di metallo, che ancora brillavano.

“Odisseus, tu puoi distruggerla”, esclamò allora Eracles, “No”, fu la secca risposta del Navigatore, senza nemmeno voltarsi verso il suo interlocutore, che teneva ancora fra le braccia Pandora, non ripresasi dal colpo subito. “Non posso distruggere qualcosa che ha creato un conoscitore dell’Essenza che mi supera per sapere e poteri”, spiegò con voce rotta Odisseus, “inoltre con una mano sola mi verrebbe difficile”, concluse poi, guardando l’arto destro, inutilizzabile.

“Prima li hai chiamati, Tenjin, che cosa vuol dire?”, domandò allora Acteon, appoggiandosi alla parete contro cui era andato a sbattere, “Sono quasi come i Jinma, ma, se vogliamo, possono essere considerati la loro controparte”, rispose con fare titubante l’Arvenauta maledetto da Possidos.

“Sono simili a Tsun Ta?”, domandò allora Atanos, che era stato liberato dalla rete in cui lo avevano rinchiuso, “Non del tutto, loro conoscono un’altra forma di Essenza, quella pura, al contrario del Sacerdote Nero, che era esperto nella parte impura dell’Essenza”, cercò di spiegare Odisseus.

“Non mi hai mai parlato di questa differenza, nel periodo degli allenamenti”, osservò allora Iason, entrando nel discorso, “Non te ne ho parlato perché non era ancora tempo, sarebbe successo se tu mi avessi superato del tutto nell’uso delle tecniche e, soprattutto, se fossi arrivato ad uno stato di conoscenza dell’Essenza che solo qui nel regno di Tenkia sanno raggiungere. Vi è infatti un quarto stadio, successivo ai tre di cui ti ho parlato, quando non si ha più bisogno di guidare il corpo con la mente al massimo delle sue potenzialità, né si cerca volontariamente di entrare in contatto con l’Essenza che risiede nella natura, ma bensì si è completamente padroni di questo potere, un potere che ti porta a combinarti del tutto con ciò che ti circonda, quasi come succede a Marut. Voi lo avete visto, dal suo sguardo provengono i fulmini ed ad un pensiero si scatenano i venti, ebbene, questo succede perché lui è ad un passo dal controllo completo e totale della natura che lo circonda”, spiegò Odisseus.

“Che intendi dire?”, domandò allora Acteon, “Io ho visto ciò di cui parlava, ho chiaramente distinto la sua luce circondare l’aria intorno a lui e scatenare quella folata di vento, o il fulmine che ne è seguito”, affermò allora Argos, “Esatto, questo è il potere di cui parlavo, quello di inglobare non solo l’Essenza che si conduce nel corpo, ma bensì anche quella dell’ambiente circostante, materializzandola ognuno in modo diverso, questo è il quarto stadio, quando non si deve più scaturire il proprio potere attraverso la natura, ma si controlla quello della natura stessa. Una volta raggiunto questo livello di conoscenza, possono accadere due cose, una buona, l’altra un po’ meno.
Si può venire a contatto con l’Essenza stessa della natura, quella lasciata dal divino spirito che diede origine alla vita e combinarsi con questa, tanto che alla fine la natura intorno a se si muoverà spontaneamente ad ogni nostro pensiero, senza nemmeno bisogno di concentrarsi per scatenarli, così da diventare dei Tenjin. Oppure, la seconda possibilità, si può entrare in contatto con la parte impura della natura, quella più corrotta, che di per se è come un vuoto, una mancanza da dover colmare e questa mancanza prende possesso della mente e del corpo di chi vorrebbe utilizzarla, rendendolo un essere malefico, schiavo del suo oscuro potere e capace di vivere proprio grazie a questo, un Jinma, quale era Tsun Ta, ad esempio”, concluse il Navigatore.

“Nomos e Caos, me ne aveva parlato il Sacerdote Nero su Midian, le due forze, quella creatrice e la sua parte malefica, il vuoto incolmabile di cui si era liberato, me ne ricordo”, affermò allora Atanos, che aveva rimembrato quel passato discorso, in parte coincidente con questo sulla dualità della natura.

“Esatto, Immortale, la logica è la medesima, ci si può rendere potenti, unendosi al potere dell’Essenza di Nomos, o diventare dei servi dell’oscuro potere che fu emanato alla creazione di Caos”, concordò il Navigatore.

“Capisco. Ma ora ho un’altra domanda per te, Odisseus”, continuò l’essere maledetto da Sade, “Dimmi pure”, replicò l’altro, “Ti chiedo di raccontarci cosa successe fra te ed i signori di questo Regno, quando fosti da loro processato più di cento anni fa”, affermò con voce quieta l’Immortale, ricevendo uno sguardo sorpreso dal suo interlocutore.

Odisseus guardò i cinque compagni di viaggio che lo osservavano e sorrise a tutti loro, “Sia pure, vi racconterò la triste storia successiva ai miei primi anni di vagabondaggi, vi narrerò come la sofferenza e la superbia mi avevano reso pazzo in quel tempo e solo la saggezza di Rahama mi aveva fatto rinsavire”, concluse il Navigatore, preparandosi ad un ampio racconto.

 

“Come ben sapete, fui maledetto da Possidos alla fine della guerra contro il popolo dei Tulakei, per la mia eccessiva superbia e per l’arroganza con cui mi risolvi al dio, ma non accettai da subito la mia situazione di dannato, infatti, non credendo a ciò che mi era successo, cercai di ritornare nella mia terra natia, presso la moglie amata ed il figlio tanto atteso. Il tentativo di ritorno si rilevò vano, non riuscii a ritornare nelle mie terre e persi tutti i compagni di viaggio e fedeli soldati, caduti per la mia tracotante superbia. Una volta, però, dopo appena vent’anni di viaggi, riuscii ad arrivare in uno stato vicino al mio, quello dei Merioidi, un popolo di uomini valorosi, che colmarono il mio cuore con la gioiosa notizia che il regno che i miei antenati avevano creato era ancora nelle mani della mia famiglia, guidato da mio figlio, divenuto uomo e capace di riprendersi ciò che io stesso gli avrei voluto lasciare.

La gioia di quella notizia e la felicità di aver trovato lì una donna che mi amava, la figlia del Re dei Merioidi, Nesseica, mi spinse a restare in quel regno come futuro sposo della principessa. Il mio nome, però, arrivò presto alle orecchie del figlio che non mi aveva mai visto, poiché partito quando lui era ancora in fasce, scatenando la sua ira, giacché credeva quello uno scherzo di cattivo gusto, o, forse, una forma di offesa contro la mia memoria. Un figlio cresciuto senza padre, circondato da coloro che volevano rubargli il trono che gli spettava, non poteva essere di certo un giovane misericordioso, quindi scatenò guerra contro il regno dei Merioidi. Volevo, a quel punto, cercare di far ragionare i due sovrani, ma né mio figlio volle incontrarmi, in territorio neutro, né il padre Nesseica mi diede più tanta fiducia, anzi, mi ritenne la causa di quella guerra, orinandomi di andare via da quella terra.

Vagai per cinque anni, finché non seppi, da un individuo che un tempo era soldato nelle schiere dei Merioidi e che poi trovai mendicante in una piccola città della costa di Aven, che la guerra era finita e del regno di Nesseica niente era rimasto, spazzato via dalla furia di mio figlio, lo stesso figlio che prese come schiava e concubina colei che io avrei dovuto sposare perché amavo ed ero riamato.

Quella notizia mi fece quasi impazzire di dolore e per un tempo indeterminato, quasi cinquant’anni, forse, vagai per i mari, vivendo di sotterfugi, crimini di basso stampo e dipendendo da ogni alcolico che riuscivo a trovare lungo i miei tragitti, questo finché non arrivai, con una spedizione mercantile, nel regno di Tenkia.

Era una piccola città portuale quella in cui arrivai, una zona mercantile di bassa lega, dove si poteva rimediare ogni sorta di svago per pochi denari e qui mi fermai per un po’ di tempo, incantato dalla bellezza del luogo e delle donne che vi vivevano e qui lo incontrai.

Fu due giorni dopo il mio arrivo, ricordo ancora che mi trovavo in una piccola locanda, ero completamente accecato dai fumi dell’alcool quando un uomo mi derise per i miei strani abiti, abiti di mercante sotto cui celavo i ben più importanti vestiti di generale. Non so bene come accadde, ma sfidai quell’uomo a ripetere tali parole, lo avvisai che non avevo mai perso contro nessun nemico da molti anni ormai e lui, in tutta risposta si tolse il lungo soprabito che ne copriva i lineamenti, rivelandosi a me con un abito in parte rosso, in parte blu. Era un giovane, appena ventenne, credo, aveva corti capelli violacei ed occhi profondi e rossi come il fuoco, si presentò a me come Varnat, il potente e mi sfidò a batterlo.

Lo scontro non fu dei più lunghi, infatti, non appena tentai di colpirlo con la mia spada, quel giovane mi attaccò con le mani, aprendole contro di me ed investendomi con qualcosa che era molto simile ad una corrente d’acqua, una corrente dalla potenza distruttiva ed immensa, che mi rigettò al suolo, una prima volta, poi una seconda e quindi una terza, finché non caddi esanime al suolo. << Adesso addio, straniero >>, furono le sue ultime parole, prima che i sensi mi venissero meno, poi, però, qualcuno lo fermò.

Non seppi mai cosa si dissero, ma quando mi ripresi, ero ancora vivo e mi trovavo in un luogo chiuso, una piccola costruzione in legno, da ciò che potei vedere. Era una sala squadrata costruita su due superfici, di cui la prima era composta in pietra, vi era una sola porta all’altezza del piano in pietra da cui, dopo alcuni interminabili minuti di silenzio, apparve una donna, una creatura dalla bellezza quasi divina, con quei suoi bellissimi capelli violacei, legati a coda dietro la schiena e due sottili occhi rossi come il fuoco. Anche lei vestiva con abiti rossi, ma che si combinavano con stoffe color dell’oro e non blu, come quelle dell’uomo che mi aveva battuto e subito notai che fra i due vi era una certa somiglianza.

<< Dove mi trovo? >>, le domandai, ma ella non mi rispose, << Io sono Odisseus, tu come ti chiami? >> continuai, senza ricevere parola alcuna in risposta, anzi, dopo avermi medicato alcune ferite, la giovane bellezza si allontanò, lasciandomi lì da solo, di nuovo.

La sentii parlare per alcuni minuti con un altro uomo, dalla voce dura e vissuta, lo stesso che aprì poi la piccola porta, presentandosi dinanzi a me in tutta la sua grande saggezza.

Era un individuo anziano nell’aspetto, ma di certo aveva la mia stessa età, allora, o forse era persino più giovane di me, i suoi abiti erano rossi come il fuoco e neri, nei lunghi pantaloni e nelle spalliere che portava intorno alla lunga tunica color del fuoco. Il volto, sorridente e pallido, era ravvivato da profondi occhi rosa, mentre il capo aveva appena qualche accenno di colore, dato dai lunghi capelli argentei.

<< Mi scuso per il disturbo che ti ha dato il mio primo discepolo Varnat, straniero. Io sono Siddha, il saggio maestro, che molti definiscono amico degli dei, per i miei poteri in grado di visualizzare l’Essenza>>, si presentò l’anziano maestro.

<< L’Essenza? >> ripetei io perplesso, ancora incredulo verso quei poteri che non pensavo umani. Per cinque giorni rimasi in quel luogo, ferito e stordito, sotto le gentili attenzioni di Siddha e le amorevoli cure della sua seconda discepola, Awr’ien”, Odisseus, riprendendo fiato.

“Awr’ien? Vuoi dire quella pazza che ha quasi spazzato via il corpo di Atanos?”, domandò sbalordito Acteon, “Esatto, Cacciatore, proprio lei, prima di divenire una conoscitrice esperta dell’Essenza. Varnat, scoprii poi, era suo fratello maggiore”, rispose prontamente il Navigatore. “Ma se era la bellissima fanciulla di cui parli, com’è potuta divenire ciò che è adesso?”, domandò sorpreso Eracles, “Questo, giovane figlio di Urros, è l’elemento più importante della mia triste storia”, replicò Odisseus, prima di riprendere il racconto.

 

“Quando mi ripresi, chiesi subito a Siddha di poter restare presso di lui, per conoscere i rudimenti di quella forma di lotta ed egli non si rifiutò, malgrado Varnat vedesse negativamente questa sua decisione, il saggio maestro mi prese come terzo discepolo e mi iniziò alle arti di controllo dell’Essenza.

Passai diversi anni in quel luogo, addestrando la mia mente di giorno e riscaldando il mio cuore di notte, poiché, con il passare dei mesi, io ed Awr’ien diventammo sempre più vicini, fino ad unire le nostre anime ed i nostri corpi in un legame di passione senza pari. Ero felice in un modo che mi era sembrato impossibile per decine di anni, pensavo, addirittura, che la maledizione fattami da Possidos mi avesse abbandonato in quel luogo, rendendomi finalmente libero, seppur sempre giovane, finché non arrivò il giorno che avevo sempre temuto, quello di cui mi aveva accennato più di una volta ognuno dei miei tre compagni, in quel periodo, il giorno in cui i divini signori della Triade avrebbero scelto il successore di Siddha come guardiano celeste del Say, una delle due stelle guida del cielo d’Oriente, insieme alla stella del Tay, la prima rappresentante una tigre, la seconda un drago.

Fu proprio il guardiano del Tay, Marut, a presentarsi a noi, per avvisare che la prova per scegliere il successore sarebbe stata fatta il giorno dopo.

Quella notte chiesi al mio venerando maestro di potergli parlare, così, lasciata Awr’ien a riposare nel nostro nido d’amore, andai nella sala degli allenamenti, dove il saggio Siddha mi attendeva.

<<Di che cosa volevi parlarmi, allievo carissimo? >>, mi chiese con gentilezza il vecchio, << Volevo supplicarla di lasciarmi fuori da questa prova>>, affermai, sbalordendolo, <<Perché? Se è lecito chiedere. Sei arrivato dopo Varnat ed Awr’ien, questo è vero, ma sei molto dotato, tanto da riuscire persino a batterli, immagino>>, mi disse il venerando maestro, <<Si, anch’io ho la quasi certezza di poter vincere, ma non voglio farlo. Non potrei mai ferire Awr’ien, poiché è troppo grande il mio amore verso di lei, né potrei in alcun modo far del male al fratello che lei rispetta tanto quanto ama me>>, spiegai a quell’uomo, prima che un rumore di passi ci interrompesse.

<< Poco male se non vuoi farmi del male, straniero, sarò io a fartene, non è questo l’elemento in dubbio, anzi ti spazzerò via con estrema facilità>>, avvisò con la voce sarcastica Varnat, appena entrato nella stanza. Almeno lui mi parve in un primo momento, poi, guardandolo meglio, vidi qualcosa di terribile nel suo sguardo, una forma di malvagità incontrollabile che ne aveva deformato il volto, rendendolo quasi simile a quello di una bestia, mentre dal suo corpo si emanava un forte alone di veleno e morte.

<< Avevo sempre temuto che succedesse, ma speravo fosse solo una mia paura di vecchio, mio caro discepolo. Eri il più dotato, brillavi per abilità e dedizione all’addestramento, ma non avrei mai potuto immaginare che questi tuoi doni sarebbero stati la tua rovina. Troppo presto ti sei avvicinato all’ultimo stadio, il quarto, e sei stato affascinato dalla potenza oscura dell’Essenza che ci circonda, diventando, purtroppo, un mero schiavo>>, affermò con voce cupa Siddha, mentre io guardavo i due sbalordito.

<<Si faccia da parte, maestro, affinché possa uccidere questo indegno individuo che lei ha addestrato e finire poi mia sorella, che dorme con questo straniero e vorrebbe rubarmi il titolo di Guardiano del Say, che merito più di chiunque altro>>, furono le semplici parole dette da Varnat, avanzando verso di noi, <<No, discepolo, tu non sarai mai il mio successore. Non perché io ti fermerò adesso, ma semplicemente perché il saggio Rahama, che tutto può vedere, te lo impedirebbe comunque, spazzandoti via da questo mondo per l’impura forma che hai preso>>, avvisò il saggio Siddha, facendo un passo avanti verso di me.

<< Se così volete, maestro, allora morirete per primo!>> tuonò l’allievo, scatenando dalle mani un’ondata d’acqua violacea, che subito si gettò verso di noi. Non ebbi nemmeno il tempo di difendermi, quando una tigre di luce argentea si pose fra me e l’attacco, proteggendomi, <<Non hai mai voluto capire il vero fine del tuo addestramento, non distruggere, ma proteggere>>, avvisò allora il venerabile maestro, scatenando il felino luminoso contro il nemico.

La bestia di luce investì Varnat, gettandolo indietro, stordito, ma senza riuscire a fermarlo. Il giovane si gettò nuovamente in avanti, mentre il suo volto continuava a mutare in forma, assieme all’aura che da lui traspirava, un alito di morte che tutto stava circondando.

Lo stesso alito di morte che mi stordì, impedendomi di bloccare i suoi movimenti mentre, oltrepassatomi, raggiungeva il saggio Siddha alle spalle, <<Vi ringrazio, maestro, senza questo attacco non avreste fatto di me il Jinma che sono ora>>, furono le parole del discepolo, nell’investire con un vortice di violaceo liquido colui che lo aveva allevato per diversi anni.

Quando il corpo di Siddha fu al suolo, non riuscii più a contenere la mia rabbia e mi lanciai all’assalto, tentando in modo disperato di colpire l’avversario con i rossi pugni di cui ero capace, ma senza successo alcuno, se non quello di subire diversi tagli dal potente veleno del mio nemico. << Non ti è bastato vederlo in tutti questi anni? Mi sei troppo inferiore, straniero>>, mi ringhiò Varnat pronto a colpire.

Ma in quel momento, con le ultime forze rimastemi, aprii dalla mano il bagliore della Stella dell’Est, con cui accecai quell’essere ormai divenuto impuro, recuperando così il tempo necessario per rialzarmi e gettarmi di nuovo contro di lui.

Le mie mani brillavano della nera luce che le contraddistingue ogni volta che lancio il mio assalto mortale per l’Essenza, ma Varnat fu più veloce di me, infatti già stava per colpirmi con uno dei suoi fiumi di veleno ed allora accadde l’irreparabile. Fu un attimo, ma quando capì ciò che era successo, ormai era troppo tardi: il saggio Siddha si era posto fra noi ed aveva bloccato la mano del suo primo discepolo, deviando l'attacco, per poi subire in pieno il mio, che ne trapassò le viscere, decuplicandone il potere, un potere tanto grande da uccidere sul colpo Varnat, che ne fu raggiunto.

Ed io mi ritrovai così, con un braccio conficcato nel corpo dell’uomo che mi aveva ridato la vita, mentre il mio pugno si appoggiava sul corpo del fratello della donna che amavo, uccidendolo ed in quel momento un rumore mi rapì, quello della porta che si apriva alle nostre spalle.

<< Che succede qui, maestro?>>, sentii domandare dalla tenera voce di Awr’ien prima di voltarmi. Lei era lì, ferma, con lo sguardo vitreo, mentre la sottile coperta che copriva la sua bellezza cadeva al suolo, lasciandola poi scivolare in ginocchio sul pavimento, per scoppiare in un interminabile e terribile pianto, il pianto di chi aveva perso il fratello ed un secondo padre per colpa dell’uomo amato.

Non cercai nemmeno di spiegarle ciò che era successo, né me ne andai, come se una forza innaturale mi costringeva lì. Pensai fosse colpa di qualche divinità, ma quella volta non scappai né ricercai vendetta presso l’altare degli dei, rimasi ad attendere l’alba e l’arrivo del comitato dei Senku, che trovarono entrambi vestiti per presentarci dinanzi alla divina Triade ed i corpi senza vita di Siddha e Varnat a terra, già pronti per le onoranze funebri.

Fummo portati dinanzi al tribunale degli dei, in quel giorno che sarebbe dovuto essere il momento della scelta di un nuovo guerriero.

Il tribunale era un luogo ameno, dove risiedeva da una parte l’espositore dei fatti, che in quel caso fu Smartash, il Guerriero, uno dei tre membri della Triade, dall’altra parte vi era Anirva, il Guaritore, che prese il ruolo di custode degli accusati, mentre il giudice di quell’udienza fu Rahama, il Sapiente dio Superiore. Entrambi raccontammo i fatti, sia io, sia Awr’ien, ciò che sapevamo e ciò che potevamo immaginare ed alla fine fu deciso che l’unico colpevole potevo essere io, si doveva comunque attendere la decisone dei tre signori della Triade.

Quando stavano per riunirsi, però, entrò Marut, <<Miei divini padroni, il popolo di Nipaj ci attacca, dovete concedermi dei soldati, al fine di bloccare la rivolta di questi vicini nemici>>, chiese con tono supplichevole il Guardiano del Tay, inginocchiandosi dinanzi ai tre dei ed in quel momento vidi il mio cuore cadere di nuovo nell’oblio. << Permetta a me, Awr’ien, ultima discepola del grande Siddha, di andare a fermare questi nemici, per onorare il mio maestro e per dimostrarmi degna di prenderne il posto>>, esordì allora la fanciulla che amavo.

I Tre signori del Tenkia si guardarono fra loro, <<Sia pure>>, esordì subito Smartash, prima di allontanarsi con gli altri due fratelli.

 

Fui imprigionato nella cella che dava verso il mare, mentre si attendeva di sapere quale destino mi fosse dato e da quel luogo vidi l’innocenza della donna amata scomparire. Non distinsi chiaramente cosa succedeva, ma potei vedere dei bagliori simili a braccia fuoriuscire dal corpo di Awr’ien, circondarla con una luce simile ad un sole, che poi si gettò contro le navi lontane in mare, spazzandole via.

Per alcuni minuti, interminabili, rimasi in silenzio, a piangere per tutto ciò che era successo, finché una figura non apparve dinanzi a me, era Rahama.

<< So quanto sia grande il tuo dolore, Viaggiatore maledetto da Possidos, ma se ti può essere di consolazione, lei non diventerà un Jinma. Perderà la fiducia negli altri uomini, ma non se stessa. Affogherà il dolore nel massacro di centinaia di nemici, tanto da venir ricordare per secoli come la più devastante delle guardiane del nostro regno, ma non si perderà. Amerà ancora, se ti può consolare, non con il cuore, ma con il corpo, con cui si unirà con ambo i miei fratelli negli anni a venire e come Marut vivrà per anni, come la più degna delle guerriere>>, mi raccontò.

<<Ti ringrazio, divinità, di avermi informato di quanto danno ho fatto a quella innocente fanciulla ed ora dimmi, hai altre maledizioni da darmi?>> , domandai con tono carico d’odio.

In quel momento Rahama si manifestò a me in tutta la sua potenza, non più come un’opaca figura, bensì come un possente uomo dagli occhi dorati e dai lineamenti eleganti, i cui lunghi capelli color smeraldo si perdevano sulle spalle, confondendosi quasi con l’abito del medesimo colore. Sulla fronte di quel dio brillava un rubino, o quella che pensai essere un gioiello, incastonato poco sopra le sopracciglia. Il dio mi appoggiò una mano sulla fronte ed io ebbi come una visione completa della mia vita passata, i dolori, le frustrazioni, le sconfitte, le vittorie ed anche i piaceri vissuti, finché non fui raggiunto come da dei lampi, immagini confuse che si aggrovigliavano nella mia mente ed una sensazione di piena pace, la stessa che provo insieme a tutti voi, amici Arvenauti, la pace datami dal non dover più vivere solo come un vagabondo.

<<Ciò che hai percepito è il tuo futuro, un futuro che ho potuto leggere e che avrà un’importanza immensa per tutti gli uomini di questo mondo, poiché grazie a te una grande impresa avrà inizio, la più importante per divinità e mortali>>, mi spiegò Rahama, mentre in me si faceva spazio una profonda amarezza, non legata, questa volta, alla vendetta, ma ad una gioia distante ed agognata, che tanto impossibile sembrava, fui come purificato dal suo tocco. <<Ora vieni con me, mortale, la sentenza deve essere letta>>, mi avvisò, portandomi di nuovo nel tribunale, dove ritrovai Marut, inginocchiato dinanzi agli altri dei della Triade, ed Awr’ien, che in mano aveva alcuni teschi e parlava con un Senku, <<Portali ad un fabbro, affinché ne faccia una collana, che tutti possano ricordare la potenza spietata di Awr’ien, ora e per sempre>>, le sentii ordinare, prima di voltarmi per udire il mio giudizio.

<<Odisseus, delle terre dell’Oleampos, sei stato giudicato qui, presso il Tribunale della Sacra Triade di Tenkia, non colpevole dell’uccisione del saggio Siddha, un tempo guardiano di Say presso il nostro regno, ma, malgrado ciò, hai ucciso colui che dici essere divenuto un Jinma, Varnat, primo discepolo di Siddha, e per questo sei condannato all’esilio. Sarai portato dai poteri di uno di noi presso le terre dell’Oleampos, dove potrai continuare a vivere, ma sappi che se mai tornerai presso di noi, signori della Triade, l’accusa sarà di tradimento ed insubordinazione agli dei e per tale accusa il nostro Tribunale esige la morte>>, concluse Rahama, prima che una forza immensa mi circondasse facendomi scomparire da quel luogo.

Quando mi ripresi, scoprì di essere nella città di Seev, dove allora regnava il nonno di Re Ruganpos, Artio. Questa è dunque la triste storia di ciò che mi successe in queste terre, dove speravo di non dover ritornare. Ora sarò giudicato colpevole e condannato a morte, ma voi, amici miei, sarete al più accusati di avermi soccorso nel mio gesto criminale, quindi vi basterà poco per fuggire da qui, sarà di certo a voi concesso di salvarvi, quindi fatelo senza pensare a me”, concluse il Navigatore, guardando i cinque compagni.

 

Nessuno rispose a questa richiesta di Odisseus, tutti si guardarono fra loro, finché Acteon non prese la parola: “Quanto manca per questo tribunale?”, domandò il Guerriero di Aven, “Poco, già vedo il grande castello dei Signori della Triade Celeste”, rispose prontamente Argos. “Riesci a vedere attraverso questa parete d’Essenza?”, incalzò il giovane, memore di ciò che era avvenuto a Midian, “Si, questa è una parete per i nostri corpi, ma non per i miei poteri, non temono di farci vedere che succede oltre”, spiegò il Guardiano.

“Vi ringrazio tutti”, esordì in quel momento Odisseus, osservando la naturalezza con cui continuavano a comportarsi i suoi cinque compagni, senza giudicarlo o criticarlo, cosa che, sapeva bene, sarebbe avvenuta tra poco, per mano dei fratelli di Rahama.