Capitolo 69: Nel Castello

 

Anche l’esercito della Lutibia era rientrato quel giorno dal campo di battaglia, Aristos stesso aveva condotto gli uomini sopravvissuti per le vie della capitale, Passis, contando così quanti degli uomini fedeli a lui ed alla terra natia erano caduti sulla dura pietra per mano dei soldati di Aven e degli Arvenauti.

Quando alla fine raggiunse il castello, il Principe si tolse velocemente l’elmo, poi, avvicinatosi ad un soldato, lo chiamò a se, “Avvisa Anhur, primo guardiano di mia sorella, la Principessa Cassandra, che ho bisogno di parlargli”, ordinò il primogenito di Priaso, prima di avvicinarsi ai suoi due Generali.

I tre si sedettero dinanzi ad un piccolo tavolo, vicino ad una lavagna su cui erano disposti i confini del regno di Lutibia e quelli di Tryo, oltre alla disposizione delle navi e degli accampamenti Avenui.

“Spero che sia stata solo una mia impressione, amici Generali, ma oggi il numero di caduti di cui solo i corpi senza vita saranno ricondotti in città, è superiore rispetto al solito”, esordì il Principe.

“Non so che dirle, sommo principe”, replicò Pirros, “ho cercato di ardere più nemici mi fosse possibile, però, la presenza di quei Naviganti, nemici formidabili, devo ammetterlo, ci ha dato uno svantaggio non indifferente. Potremmo forse cercare degli alleati, forse nelle remote lande del…”, ma la frase del Generale fiammeggiante non fu nemmeno completata, un gesto di Aristos lo ammutolì.

“Non cercherò mai alleati fra esseri oscuri o malefici, già l’aver permesso che quei sette strani esseri viaggiassero in nostro nome, alla ricerca di Tre tesori che non sono stati trovati, è stato, a mio parere, un errore grave che mio padre ha commesso, qualcosa che avrebbe potuto dannare per sempre le anime del nostro popolo”, ribatté deciso il Primogenito, “solo dalla gente del Cator avremmo accettato aiuto, ma loro si rifiutano di prendere le parti di una o dell’altra potenza”, concluse Aristos.

“Si, so bene la vostra preferenza per degli alleati più normali di me ed Orpheus, o dei sette che furono mandati alla ricerca dei Tre tesori”, ricordò Pirros, con tono critico, “Non è del tutto vero, Generale. Forse posso non comprendere come voi possiate governare coloro che muoiono, ma non oserei mai criticarvi, dato che ci siete leali alleati”, replicò il Principe.

“Piuttosto”, continuò, dopo aver ripreso fiato, Aristos, “avete visto quali poteri hanno questi Sette Naviganti? Di cosa sono stati capaci in questa battaglia? Io stesso ho provato la forza e la lama dell’Immortale, ma gli altri ho potuto solo intravederli”, spiegò il primogenito di Priaso.

“Non sono più Sette, colui che li guidava, Odisseus, è caduto in terre lontane, da ciò che mi ha spiegato uno di loro durante la battaglia, quando lo ho affrontato”, esordì Orpheus, “Con chi ti sei fermato a parlare?”, domandò ironico Pirros, “Ho discusso con Iason, mentre i miei cadaveri lo bloccavano”, spiegò il Musico con voce quieta.

“Anch’io ho visto uno di loro, una donna capace di diventare uno sciame d’insetti, ha spento con facilità le mie fiamme animate, ma niente di più, dato che le sono sfuggito”, raccontò poi il Generale fiammeggiante.

“Avete qualche piano per abbatterli, o per riuscire a fermare la loro avanzata nei nostri territori?”, domandò allora Aristos, “No, signore, nessuna idea mi è venuta in mente, l’unica cosa che possiamo fare è continuare ad avanzare, cercando di distruggere più nemici possibili, utilizzando anche i cadaveri per combattere, se sarà necessario”, propose Pirros, “Ma questo è già ciò che facciamo”, si intromise Orpheus, spezzando la foga del suo pari.

In quel momento i tre furono interrotti da un soldato, appena giunto, che fu subito scrutato dai loro tre sguardi interrogativi. “L’uomo che aveva richiesto è qui, Principe”, disse semplicemente il soldato, prima di prendere congedo.

“Lasciatemi solo con lui, Generali, avremo tempo di parlare di qualche strategia domani, o al più presto stanotte, se non saremo troppo stanchi”, sentenziò Aristos, alzandosi in piedi e salutando i due, che subito si alzarono di risposta, allontanandosi verso la porta, dove già attendeva la figura di Anhur.

Orpheus superò a capo basso il Guardiano di Cassandra, mentre Pirros sbatté contro la sua spalla con la propria, “Attento, Guardiano”, lo ammonì con tono superbo il Generale, allontanandosi con un sorriso beffardo sul volto.

Aristos guardò con occhi critici quella scena, per poi sorridere al guerriero che gli si avvicinava, “Cosa desidera da me il mio Principe?”, domandò Anhur, con un lungo inchino, “Dobbiamo parlare, ma fuori, nel giardino reale, lo preferisco”, disse semplicemente il primogenito di Priaso, indicando l’esterno al custode di Cassandra.

 

Camminarono in silenzio per alcuni minuti i due giovani guerrieri, finché, dopo essersi distanziati dalle stanze reali, Anhur non fermò i propri passi, “Ditemi, mio Sire, cosa volevate chiedermi di così pericoloso da non meritare orecchie indiscrete?”, domandò all’improvviso il Custode.

“Ti prego di non rivolgerti a me con tutti questi formalismi, Anhur, in fondo, fino a pochi anni fa, prima dello scoppio della follia, che prese mia sorella per prima, tu non eri un semplice Guardiano, ma il Colonnello a cui facevo diretto affidamento nelle nostre battaglie. Per tanto tempo abbiamo rischiato insieme la vita sui campi di battaglia e per altrettanto abbiamo gioito insieme quando tu ci concedevi di essere nostro gradito ospite nelle sale reali, dove ancora sorrideva mia sorella”, ricordò con voce quieta Aristos, “Mai ho visto un guerriero abile come te sui campi di battaglia, le tue armi e la tua determinazione erano invidiate da tutti i soldati del nostro regno”, continuò, “No, le vostre erano le doti invidiate, Principe, io vi ero secondo per abilità guerriere”, replicò con tono gentile l’altro.

“No, tu mi eri secondo solo per nascita, perché, malgrado discendente di una famiglia cadetta del nostro casato, quasi un parente per noi, non avesti la possibilità di addestrarti come me, per anni ed anni, fin dalla più tenera età. Ma ora basta rimembrare tempi passati, seppur non potrò mai dimenticare quanta fiducia avessi in te sui campi di battaglia e quanta ancora ne ho adesso che proteggi il più bel fiore della famiglia reale, tu che volontariamente hai abbandonato la tua carriera militare per difendere Cassandra”, concluse dopo alcuni minuti Aristos.

“Bene, mio Principe, ma allora, permettetemi di chiedervi, perché mi avete condotto fin qui? Forse solo per ringraziarmi di aver compiuto il mio dovere? Per me sapete quanto è leggero l’abito di semplice Custode che portò se paragonato a quel che vedo soffrire alla vostra celeste Sorella, che si dispera per visioni, spesso prive di un senso logico”, replicò con voce cupa Anhur.

“Non ti ho chiamato solo per ringraziarti, fedele soldato della Lutibia, ma per chiederti di una creatura che oggi mi è stata citata e che forse, avevo già sentito nominare, proprio da mia sorella”, rispose Aristos, “Che creatura?”, incalzò l’altro, “L’Idra Nera, un nome che non dovrebbe rappresentare un vero e proprio essere vivente, suppongo, ma ha comunque un suo valore, qualcosa di strano ed oscuro, penso”, suppose il Principe nel rispondere.

Anhur rifletté alcuni minuti, fece mente locale sulla disperazione della Principessa Cassandra e sui diversi vaticini che, simili a vaneggiamenti, erano stati da lei emessi nel periodo di prigionia che aveva dovuto sopportare, un periodo simile ad una lunga notte che tutto rendeva nero, ed alla fine ricordò.

“Sì, alcune volte le ho sentito nominare questo nome. Parlava di Nove teste, questo era il numero che legava a quest’Idra, quattro nascoste nei quattro regni celesti, una aveva rubato i Tesori più grandi degli dei, un’altra tormentava la vita di un’Isola, due vagavano, portando sventura e distruzione e l’ultima si nascondeva qui, in Lutibia, spingendo tutto il nostro regno alla distruzione, questo diceva. La definiva spesso una piccola testa, che si accresceva, tessendo la sua orrenda trama fra di noi, intrappolando tutto nella notte. Spesso la sentii dire questo, soprattutto nel momento del sonno, ripeteva ad Anfitride di non voler dormire, perché temeva che quest’Idra arrivasse a lei, rubandole ogni forza vitale, oltre che la ragione, già danneggiata da troppi dolori”, raccontò con voce triste il Custode.

“Ed ora? Non ha più questo terrore?”, domandò Aristos, “Al contrario, adesso parla di un’ombra che si sta ingrandendo, non ha più citato quell’Idra Nera, forse perché è diventato un terrore minore nel suo cuore, ma sente qualcosa che si avvicina alla nostra capitale, qualcosa di oscuro e negativo e poi…”, stava per dire qualcosa altro Anhur, ma si fermò, come se avesse rischiato di eccedere nel parlare.

“Cosa, Anhur, cosa altro devo sapere?”, domandò il Principe, “La Principessa ripete sempre che quei Naviganti saranno la nostra salvezza, malgrado per ora siano nostri nemici”, concluse il Custode, parlando con un soffio di voce, quasi volesse evitare che qualcuno sentisse le sue parole.

“So bene di questa convinzione di mia sorella, ma non posso comprenderla”, replicò Aristos, prima di guardare con sguardo deciso il suddito, “ho da chiederti solo un’altra cosa, Anhur. Tu credi a Cassandra? Pensi che quest’Idra Nera, o l’Ombra che lei teme, esistano?”, domandò subito dopo il Primogenito di Priaso.

“A dire il vero, non credo affatto che la Principessa sia del tutto folle, piuttosto temo che qualcosa le abbia dato una vista capace di oltrepassare le barriere del tempo, qualcosa che le permette di vedere oltre il normale scorrere dei fatti, ma la sua mente non ha retto a questo dono. Ora le verità che lei riesce a comprendere ci sono celate dalle sue parole sibilline, quindi, in qualche modo, l’Idra Nera, o l’Ombra, esistono, seppur non so come. Ma, mio principe, anche se fosse tutto vero e se lei sapesse che quei Naviganti ci salveranno, cosa vuole fare? Dichiarare la resa senza il consenso di suo padre, il nostro sommo Re?”, domandò perplesso Anhur, “Se servisse a salvare il mio popolo, potrei anche obbiettare a mio padre, l’importante in questo momento è la salvezza della nostra gente, Anhur, non credi anche tu?”, replicò con voce cupa Aristos, prima di prendere congedo dal Custode, che subito tornò nelle stanze dove riposava Cassandra.

 

Quella sera, pochi minuti dopo, anche il principe Axides ebbe una visita: quella di Pirros.

“Dimmi, Generale”, esordì il secondogenito di Priaso, uscendo dalle proprie stanze nel solito lungo abito, che non lasciava vedere niente di lui a parte il volto, che a Pirros parve sempre più pallido.

“Mio Principe, vostro fratello ha appena finito di parlare con Anhur, il Custode di vostra sorella, però, non ho potuto ascoltare le loro parole, perché vostro fratello si è spostato in una zona aperta, priva di luoghi da cui ascoltarli senza essere notati”, spiegò il Generale.

“Anhur e mio fratello che parlavano, mi chiedo di cosa, se solo di Cassandra e dei loro ricordi di soldati, o anche di altro, magari di qualche piano, o preoccupazione che agita l’uno o l’altro”, rifletté, quasi con tono ironico, Axides, “ad ogni modo, di certo loro due da soli non possono fermare quel che deve accadere, la potenza che riceverò da coloro che si sono alleati con noi sarà tale da poter mostrare a tutti chi è il miglior figlio di Priaso e quando tutto sarà compiuto tu, Pirros, potrai occuparti di sistemare quei cinque custodi”, concluse il secondogenito di Lutibia.

Il Generale rispose con un sorriso beffardo a quella proposta, chinando poi il capo, “Hai altro da dirmi?”, domandò poi Axides, “Si, mio padre mi informa che fra i nostri nemici serpeggiano le critiche e le diffidenze, specialmente da parte di quella Generalessa, che sembra non gradire il modo di agire dei sei Naviganti, li critica, da ciò che mi è stato riferito”, rispose prontamente Pirros. “Bene, le loro debolezze sono la nostra forza”, osservò subito il figlio di Priaso, “soprattutto loro non devono entrare nella capitale prima della notte prestabilita, anzi, dovrete riuscire ad impedirgli ogni avvicinamento eccessivo per i prossimi quattro giorni, capito? Solo allora potranno tentare qualche sortita, tanto, all’alba del quinto giorno della Lutibia non resterà che una provincia di un Impero ben più grande un territorio di notte e oscurità, in cui i nostri nemici saranno invitati, come premi alla gloria di Chi mi comanderà”, esordì soddisfatto Axides, prima di dare le spalle al suo servitore.

“Non ci sono altri ordini?”, domandò Pirros, “No, mio caro servitore, tu fai la tua parte e sarai ricompensato insieme a tuo padre, sbaglia nell’agire e morirai, ma per stasera nessuna di queste fini ti tocca, poiché io ho bisogno di temprarmi per ciò che sarò e quindi ho bisogno di passare del tempo con la mia sposa, proprio come fanno tutti gli uomini sposati di Lutibia, compresi mio fratello ed il Musico tuo pari”, concluse Axides, prima di entrare nelle proprie stanze, che non fece vedere al Generale, nemmeno quel giorno.

 

Orpheus aveva raggiunto le sue camere, senza aspettare parole da Pirros, o seguirlo durante la relazione giornaliera ad Axides. Anche il Musico era fedele al secondogenito di Priaso, ma in lui il cuore era diviso in due, come la sua anima, per metà avrebbe voluto abbandonare quelle spoglie ingannevoli, quelle dell’oscuro musicista soldato che attraverso tristi note di requiem rialza a nuova vita coloro che sono degnamente caduti in battaglia, aiutando, così Aristos con tutta la lealtà che ancora nel suo cuore albergava.

Ma l’altra metà di Orpheus non poteva farlo, troppo era legato ai suoi gesti di devozione a coloro che avevano resuscitato Pirros. Ancora oggi il Musico ricordava la scena vista, un essere, una creatura oscura, lo aveva incrociato nelle strade dove lui era solito camminare, nei sottoborghi di Cutras, città in cui si era trasferito dopo il suo matrimonio ed in cui era rimasto, dopo essere rimasto solo. In quei luoghi senza vita e senza arte, il Musico per diverso tempo si era lasciato vivere, abbandonando ogni interesse ed amore, finché qualcuno, una creatura oscura, nascosta in un abito nero, lo aveva preso con se e trasportato in una landa lontana, dinanzi a tombe senza nome.

“Sai cosa sono queste?”, gli aveva chiesto quell’essere, “Le tombe dei guerrieri che combatterono i Tulakei, diversi millenni fa, lì, riposano Aidas, il Tejano, lì il Re da cui discende Ruganpos di Aven, e molti altri ancora, fra cui un padre e suo figlio, eccoli”, concluse quella creatura, indicando due tombe vicine.

L’essere sollevò le mani su di loro, quindi le appoggiò sulla prima tomba, poi sulla seconda, in quel momento Orpheus ebbe come un senso di vomito, qualcosa di terribile, legato al disgusto ed alla paura, tutto questo, insieme all’odio che aleggiava intorno alla creatura, confuse i sensi del Musico che quasi non riuscì a credere ai suoi occhi quando due corpi uscirono dalle tombe, perfettamente integri. “Ora voi, Guerrieri di Mirnat, padre e figlio, vi presenterete ai due regni che stanno per entrare in guerra, Aven e la Lutibia, uno come generale per Ruganpos e l’altro come generale per Priaso, dove troverà in Axides una guida e comandante a me alleato ed a Chi mi comanda, il mio Padrone. Andate, carcasse che ho ridato al mondo, combattete in nome dell’Oscurità che mi guida, anche se non lo mostrerete”, tuonò la figura, prima di voltarsi verso Orpheus.

“Tu, Musico, puoi scegliere di combattere per me, come loro. Alla fine ti sarà ridata la persona a te più cara”, sentenziò la creatura, mentre una piccola arpa nera usciva dal suolo, “questo strumento di musica ti sarà d’aiuto, poiché con questo guiderai i cadaveri, che per te saranno come burattini senza vita, in movimento finché le loro membra non si sfalderanno, o finché la tua requiem non cesserà su di loro. Che ne pensi?”, domandò poi l’essere, i cui sottili occhi verdi non potevano nascondere il suo disprezzo, come facevano invece le sue parole.

Orpheus vide quei due, padre e figlio, di nuovo vivi e pensò alla loro gioia, oltre che alla propria, nel poter rivedere chi aveva perduto, quindi prese in mano quell’arpa, “Accetto”, fu la sua risposta, prima che quella creatura oscura scomparisse nel terreno.

Ora però, dopo tutte le battaglie vissute, dopo aver visto prodi guerrieri cadere disperati perché consci che sarebbero diventati i suoi pupazzi da battaglia, Orpheus non era più tanto sicuro, il suo cuore era disgustato da ciò che faceva, non più da chi lo aveva arruolato, non poteva più fare a meno di pensare che Aristos era un comandante degno di fiducia e rispetto, non Axides o quella creatura.

Con questi pensieri nel cuore e nella mente, ogni notte Orpheus si sedeva dinanzi alla statua funeraria che aveva in stanza e pregava, non delle divinità, ma bensì lo spirito della persona persa, che gli indicasse lei la via, quella via che lui sapeva di aver ormai smarrito.

 

Aristos, una volta finito il dialogo con Anhur, aveva raggiunto le proprie stanze. Qui si era tolto la pesante armatura dorata, aveva riposto le armi e lavato le ferite, aveva pregato dinanzi all’altare di Porian, “O sommo dio del Sole, ti prego di dare noi un aiuto, dacci un segno, affinché il tuo popolo possa continuare a vivere libero e senza che altri figli della Lutibia perdano i loro amati genitori, fai che non ci siano più spose e madri che piangono gli uomini caduti”, supplicò più volte il Principe primogenito, prima di andare nelle stanze dove era solito riposare e lì trovo ad attenderlo la moglie, Pulchra. “Marito mio”, lo salutò lei abbracciandolo preoccupata, “ho sentito che nuovi e potenti nemici sono giunti da Aven”, continuò con voce sofferente, “Si, i Naviganti che furono mandati alla ricerca dei Tesori degli Dei, ma sembra che siano giunti qui a mani vuote, seppur pronti a darci battaglia. Li ho visti combattere e con uno di loro mi sono scontrato, ma fortunatamente, sono ancora qui, cosa che non si può dire di molti nostri soldati”, osservò Aristos, cercando di tranquillizzare la moglie, “Placa il tuo cuore, mio amato sposo, sai bene quanto tutti gli uomini di Lutibia combatterebbero per evitarti la morte”, replicò lei con gli occhi verdi pieni di lacrime. In quel momento Aristos guardò i bei lineamenti della sua sposa, i lisci e lunghi capelli castani e gli occhi tristi, quindi la strinse a se, “Si, so quanto tutti amino il loro principe, ma spesso è un peso dover dare più valore alla mia vita di primogenito e futuro re, che a quella di tutto il mio popolo”, rispose il figlio di Priaso, avvicinandosi ad un piccolo letto di legno.

“Esar sta dormendo”, gli disse la moglie, “ho fatto di tutto per non rivelargli la mia preoccupazione, ma ho preferito comunque lasciarlo riposare stanotte, che lui possa almeno dormire, se io per il troppo terrore non vi riesco”, raccontò, prima che Aristos le stringesse le mani. “Cosa devi temere? Sono qui da te, mi vedi, non hai di che preoccuparti, di certo non lascerò che mio figlio resti senza padre, o che mia moglie rimanga vedova, troppo vi amo per rischiare questo”, concluse il Principe, prima di avvicinarsi al letto ed andare a riposarsi, abbracciato all’amata sposa.

Anche presso il castello di Lutibia quel giorno di lotte era passato, ma un altro vi si affacciava.