Capitolo 82: La fine della Guerra

 

Il dardo lanciato da Axides correva con feroce velocità contro la propria meta, il corpo immobile di Argos, che ben sapeva quanto sarebbe stato rischioso per lui sia subire l’attacco mortale, sia evitarlo, poiché avrebbe liberato Kaspian, il Cavaliere di Bram-Nur che aveva paralizzato con i suoi occhi verdi.

Fu l’intervento tempestivo di Ebhe, generalessa dell’esercito di Aven ad impedire che l’Arvenauta compisse una scelta; la guerriera aprì infatti la mano emettendo gelida aria, che congelò con velocità e destrezza la freccia avversa, che esplose prima ancora di avvicinarsi al suo bersaglio, colpendolo, però, con dei piccoli detriti, che annullarono il contatto visivo fra gli occhi verdi di Argos e lo sguardo di Kaspian, liberando quest’ultimo.

“Ti ringrazio di avermi salvato”, fu la prima frase che Argos disse, vedendo accanto a se l’alleata e semidea, “ora, però, dovresti darmi una mano in questa battaglia”, concluse con un triste sorriso. “Va bene”, replicò prontamente la Generalessa, “l’importante è impedire che qualcuno blocchi la Principessa di Lutibia prima che lei abbia aperto il tempio di Porian”, spiegò la semidea, sbalordendo per alcuni attimi Argos.

“Un piano al quanto pericoloso il loro”, osservò titubante il Guardiano, mentre riprendeva in mano la propria arma, pronto alla battaglia.

 

Axides aveva visto la propria freccia esplodere, ma questo non gli interessava, ben altro era il suo bersaglio, un individuo più nobile, colui che da sempre odiava e che subito inquadrò fra i vari guerrieri, lanciandosi in picchiata, “Preparati Aristos, è giunto il tempo in cui ti ucciderò!”, tuonò infuriato colui che un tempo era il Secondogenito di Lutibia, lanciandosi contro quello che era stato il suo fratello maggiore.

“Sono pronto ad affrontarti, fratello”, replicò infuriato il Primogenito di Lutibia, sollevando la spada dorata, che sembrò brillare nuovamente di luce propria, quando, saltando sopra un cadavere, Aristos prese la giusta rincorsa per arrivare quasi all’altezza dell’Idra Tessitrice e cercò di ferirla al ventre, riuscendo solo a scheggiare la propria lama.

“La mia pelle è rivestita da una corazza che nemmeno l’amata spada di chi governa in Lutibia potrà distruggere”, rise divertito Axides, sollevando l’arco contro colui che un tempo era suo fratello, “né la tua dorata corazza potrà difenderti da questo”, concluse poi, scoccando un dardo che si conficcò nella gamba sinistra del Primogenito di Priaso.

Il Generale dalla corazza dorata fu costretto a chinarsi per il dolore, “Non dirmi che il potente Aristos, membro regale della grande Passis, primo nel cuore del popolo e del Re, si trova adesso in ginocchio dinanzi ad Axides, l’Idra Tessitrice”, esclamò divertito il malefico nemico.

“Non sai quanto abbia sognato tutto questo, quanto aspettavo di vederti nella posizione a te più adatta, inchinato dinanzi a me”, affermò con voce chiaramente emozionata il Membro dell’Idra Nera.

“Hai sempre avuto problemi, Axides, ma né nostro padre, né io, volevamo crederci, pensavamo fosse semplicemente apatia, accidia, a renderti così, ma in realtà tu sei malato dentro, fratello mio”, lo ammonì con voce costernata Aristos, “Non mi servono queste osservazioni stupide”, ringhiò l’altro. “Pensi davvero che qualcuno malato riesca in ciò che ho fatto io? Distruggere con abilità uno dei regni più potenti di questo mondo? Ho fatto cadere la Lutibia in una trappola che porterà alla sua completa cancellazione ed inoltre farò in modo che anche il popolo di Aven sia massacrato. Non sono malato, sono un genio”, concluse con gioia l’Idra Tessitrice.

“Sei solo un ragazzino con forti problemi di autostima”, ribatté infuriato Aristos, rialzandosi in piedi con sguardo deciso, “ed ora vendicherò il padre che hai ucciso, anziché proteggerlo contro dei nemici, interni o esterni che fossero”, esclamò il Primogenito di Lutibia, sollevando la propria spada dorata.

“Taci, maledetto”, esclamò con chiara perdita di pazienza Axides, scoccando un’altra freccia, che si conficcò nell’avambraccio del Primo guerriero di Lutibia, ma questo non fermò lo scatto di Aristos, che, giunto in prossimità del nemico compì una veloce rotazione della propria lama e, appoggiandosi sulla gamba illesa, conficcò la lama dorata nel tronco dell’Idra Tessitrice.

Grande fu lo stupore nel volto malefico di Axides, mentre sentiva quella lama divina, brillante di luce propria, conficcarsi nel suo ventre, poi, alla prima pressione di Aristos sentì un altro rumore simile a quello di qualcosa che si spezza.

Questo rumore produsse stupore nel Primogenito di Lutibia, poiché vide cedere la lama di cui il suo popolo aveva avuto tanto rispetto ed orgoglio, la vide rimanere incastrata nel corpo, ora ferito, del suo nemico, prima di ricadere al suolo.

Adesso, i due, che un tempo erano fratelli, si ritrovarono entrambi a terra, feriti e sanguinanti, “La spada è distrutta, ora potrò finirti”, esordì dopo alcuni attimi Axides, prima tentare, inutilmente di rialzarsi, restando chino al suolo, grondante sangue.

“Ti sbagli, mostro, la spada non è andata distrutta, ha deciso volontariamente di sacrificarsi per fermare la tua furia malefica, a cui il dio Porian è contrario”, replicò con voce quieta Aristos, senza nemmeno tentare di alzarsi.

“Porian, sempre Porian, credi che la divinità del Sole ti aiuterà in questa battaglia?”, tuonò iracondo il Membro dell’Idra Nera, “Certamente, soprattutto dopo che avremo richiamato la sua attenzione”, concluse sorridente Aristos, mentre entrambi cadevano svenuti al suolo.

 

Argos ed Ebhe osservavano con attenzione il nemico che si ergeva dinanzi loro, “Preparati a morire, Mostro dai tanti occhi, e nemmeno la tua amica farà una bella fine”, avvisò ringhiante Kaspian, scotendo la frusta contro i due.

“Spostati presto!”, urlò prontamente l’Arvenauta, allontanando la Generalessa, che si buttò prontamente sul lato opposto al suolo.

“Lascia a me questo vile nemico dei nostri dei!”, tuonò seccamente la semidea nascosta in un corpo umano, aprendo le mani contro il nemico. Decine di stalagmiti di ghiaccio volarono allora contro la possente corazza di Kaspian, ma il Cavaliere mosse prontamente la frusta, distruggendo i diversi lembi di ghiaccio, che ricaddero al suolo, mentre l’arma si dirigeva contro il collo della Generalessa.

Un colpo alle ginocchia, però, salvò la vita di Ebhe, costringendola a chinarsi, così da evitare di essere ferita, “Stai attenta, Linnea, costui non è nemico da sottovalutare”, la avvisò colui che l’aveva salvata: Argos, “lascia che sia io ad occuparmene”, aggiunse poi l’Arvenauta, lanciandosi a sua volta all’attacco.

La frusta schioccò diverse volte, creando delle veloci movenze di serpente nell’aere infinito, ma nessuno di quei colpi così precisi ed efficaci riuscì a raggiungere l’ex semidio, poiché Argos si rivelò molto più veloce ora che aveva aperto anche gli occhi rossi sulle braccia, che gli concedevano una maggiore velocità di risposta agli attacchi avversi.

“Mi dispiace, ma non puoi certo sperare di battermi con così poco”, avvisò il Guardiano di Lera, sollevando il bastone pronto a colpire il suo nemico, usufruendo della velocità di rotazione che aveva dato alla propria arma.

In quel momento, però, la frusta ritornò verso Kaspian, pronta a ferire chiunque si fosse messo fra lei ed il suo padrone, furono però i velocissimi riflessi di Argos a salvarlo nuovamente, costringendolo, allo stesso tempo, a trattenere il proprio colpo.

“Non è ancora abbastanza”, avvisò il Cavaliere, vedendo i movimenti del suo avversario, e cercando di colpirlo con un potente calcio alla schiena; mossa che risultò inefficace, dato che, grazie al proprio bastone, l’Arvenauta parò il colpo, venendo rispedito indietro dalla forza della gamba avversaria.

Ebhe era di nuovo in piedi ed osservò Argos che ritornava, con una scoordinata capriola, vicino a lui, “Se hai finito di sprecare utili energie, Guardiano di Lera, proporrei di attaccarlo insieme”, suggerì la Generalessa, “Certo, Servitrice di Urros, sarò ben lieto di collaborare ad un attacco con te”, replicò con un gentile sorriso l’Arvenauta, “Bene, allora colpiscilo quando te lo dirò”, affermò subito la semidea, lanciandosi contro il nemico.

“Tocca di nuovo a te, donna?”, domandò divertito Kaspian, scotendo la frusta, ma la risposta di Ebhe lo sbalordì. La Generalessa, infatti, si mosse velocemente, aprendo le mani lungo i fianchi, così da scivolare sul terreno che lei stessa aveva congelato e dirigendo proprio la gelida aria da lei prodotta contro il nemico, le cui gambe ed il bacino furono completamente ghiacciate da quell’attacco.

“Ora, Argos”, urlò la semidea, mentre con un veloce scatto l’Arvenauta si lanciava contro il nemico. “Non si compie mai un attacco aereo contro un uomo con la frusta”, avvisò allora Kaspian, agitando la mano, prima che la sua arma, con velocità straordinaria, evitasse il bastone del Guardiano, raggiungendolo con violenza al tronco e rigettandolo indietro ferito.

“Attaccare con un salto implica avere meno possibilità di difesa e con un’arma come la mia, che può compiere abili semicerchi nel cielo, questo vuol dire soltanto tentare il suicidio”, concluse con voce fredda il Cavaliere, pronto a finire il nemico ferito al suolo.

Era pronto a subire il colpo della frusta che vide volare contro di se l’Arvenauta, quando un lungo fiume di sangue sporcò il suo viso, impedendogli di mettere bene a fuoco cosa fosse avvenuto. Grande fu poi la sua sorpresa nel vedere il corpo dilaniato di Ebhe, Generalessa di Aven, cadere vicino a lui, moribondo.

“Linnea!”, urlò disperato il Guardiano, piegandosi verso di lei sofferente, “Perché?”, domandò con tristezza infinita, “Perché la nostra natura di semidei ci obbliga a spegnere ogni sentimento ed ogni atteggiamento che possa bloccare le azioni dovute agli dei, ma i pochi giorni passati con te da mortale, sentendomi realmente umana, mi hanno spinta a sacrificarmi per salvare la vita che ritenevo più importante fra tutte quelle qui presenti”, sussurrò con estrema fatica la semidea, il cui corpo era stato dilaniato dalla spalla destra al fianco sinistro.

“Linnea”, riuscì solo a ripetere Argos, il cui volto era rigato da lacrime, “Non soffrire per me, in fondo risalirò allo stato di semidea e lì ti attenderò per molto tempo ancora, finché il Sommo Urros non deciderà di restituirti la tua natura di divinità, ridandoti quella luce che ti fu tolta dalla sua celeste sposa. Lì ti attenderò, sperando di rivederti e gustare con te il ricordo di quando i nostri corpi si unirono, come già avevano fatto i nostri spiriti”, spiegò con l’ultimo anelito di vita la Generalessa, cadendo senza vita fra le braccia dell’Arvenauta.

“Non piangere per lei”, sussurrò allora Kaspian, “ben presto la raggiungerai”, concluse, risollevando la frusta, pronto a colpire di nuovo, malgrado fosse congelato al suolo.

 

Anche lo scontro fra Atanos e Bram-Nur stava continuando senza sosta. Solo per alcuni brevi secondi i due si erano fermati, sorpresi dall’arrivo di tutti quei guerrieri nel giardino reale.

Lo scontro con le spade continuava costante, ad ogni affondo dell’Idra Immortale, l’Arvenauta rispondeva parando il colpo e cercando di investire il nemico in modo tale da togliergli la sua arma, ma questo sembrava risultare impossibile, poiché l’abilità di Bram-Nur era forse minore di quella di Atanos, ma le doti della spada dell’oscuro essere erano superiori a quella di Tomatos dell’Immortale.

“Non potrai battermi andando avanti così, lo sai. E ben presto i miei compagni troveranno un modo per liberarsi di voi, fastidiosi invasori”, avvisò dopo alcuni minuti di lotta incessante Atanos, “I tuoi compagni? Pensavo che un vuoto portatore di vita li considerasse, al massimo, come dei viaggiatori meno sfortunati di lui”, ridacchiò divertito Bram-Nur, a cui calma e beffarda ironia sembravano essere ritornati.

“Non ho mai pensato a loro come semplici viaggiatori, sapevo che ognuno aveva una propria storia, troppo ho vissuto per considerare il prossimo soltanto per ciò che appare, sapevo che nessuno di loro aveva avuto la mia stessa sorte, ma conoscendoli ho capito che ognuno di loro aveva trovato, in modo diverso, la medesima sfortuna e solitudine che avevano torturato me per secoli”, replicò seccamente l’Immortale, sollevando l’arma di Tomatos contro il nemico e lanciandosi in un veloce assalto frontale.

“Stupido, non pensare di battermi così”, ringhiò Bram-Nur, subendo in pieno l’affondo dell’avversario, ma riuscendo, allo stesso tempo, a ferirgli le gambe con la propria spada, datrice di Morte. Atanos cadde a terra ferito, dopo quel colpo, in ginocchio dinanzi al nemico, da cui subito estrasse la propria lama, proveniente dai Cancelli Celesti.

“Ora addio, Immortale”, sentenziò l’ex Re di Nemon, conficcando la lama nel ventre del nemico, che urlò dal dolore, urla che furono però accompagnate da un repentino movimento della mano armata della spada, che si conficcò nel cranio dell’Idra Immortale, costringendolo ad indietreggiare con un movimento spasmodico.

Con pronta velocità Atanos approfittò di quel momento per estrarre la spada dal proprio corpo ed utilizzarla per attaccare il nemico, facendo leva sulla propria arma, per sollevarsi di nuovo.

Un secco movimento della mano destra bastò all’Immortale per recidere con decisione l’arto destro di Bram-Nur, che scoppiò subito in urla di dolore, che furono immediatamente accresciute da una veloce reazione del suo nemico, che gli conficcò la spada nella mano sinistra, rigettandolo poi indietro ferito e monco.

 

Nello stesso momento Methos stava combattendo ferocemente contro Iason, sempre più ferito e stremato per l’uso dell’Essenza; Kronos aveva dinanzi a se, come unica nemica, Pandora, ormai stremata per i due combattimenti e per la terribile presenza che aveva percepito prima di tutto ciò; Silas era intento a combattere contro Myooh ed Eracles, entrambi stanchi, ma ancora pronti ad affrontarlo e Kaspian stava per dare il colpo di grazia ad Argos.

In quell’istante, quando il braccio di Bram-Nur cadde al suolo, una luce rossa circondò gli arti destri dei Quattro Cavalieri, che improvvisamente sembrarono presi da un forte dolore, prima che le loro bracci destri cadessero, come privi di forza, al fianco, lasciando andare le armi al suolo e salvando le vite di coloro che li stavano affrontando.

Tutti i combattenti erano sorpresi da questo fatto e nessuno sentì in quell’istante delle estreme urla di battaglia, provenire da dinanzi al tempio di Porian.

 

Le urla erano di Anhur che, insieme a tutti gli altri soldati dei due eserciti, stava combattendo senza sosta contro i diversi nemici dell’Esercito dei Mille Rossi, un battaglione che sembrava non volersi arrendere mai, poiché ogni caduto veniva immediatamente sostituito da nuovi malefici esseri.

“Principessa, vada avanti lei, noi gli bloccheremo la strada”, urlò ad un tratto il Primo Custode, mozzando la testa con un veloce movimento di spada ad un altro nemico e subito Cassandra corse via, diretta verso il tempio di Porian.

Due guerrieri dal volto putrefatto ed i rossi capelli, però, le si pararono davanti, “Principessa, scappi!”, esclamò Anhur, che non poteva muoversi dalla sua posizione, dati i troppi nemici che lo circondavano e non poté soccorrere la sorella di Aristos quando i due oscuri non morti tentarono di colpirla.

Fu un altro a salvare la giovane figlia del defunto Priaso, un guerriero che apparve dal sottosuolo, uscendo per una buca e che veloce raggiunse la principessa, colpendo con ciò che restava di un nero oggetto i due non morti, che caddero al suolo.

“Generale Orpheus”, esclamò uno dei soldati dell’esercito Lutibiano, riconoscendo il Musico dai bianchi capelli.

“Principessa, tutto bene?”, domandò subito il discendente di Odisseus, “Le porte del sole tu devi aprirle, per il futuro di questa terra e di te stesso”, avvisò senza nemmeno rispondere Cassandra, “Che cosa?”, domandò sbalordito il Musico, prima di sentire i movimenti dei due non morti alle sue spalle.

Si voltò di scatto Orpheus, prima che degli affilati coltelli si conficcassero nelle teste dei due nemici, lasciandoli ricadere al suolo. “Mi occuperò io della Principessa, in fondo questo è mio compito”, avvisò subito Anfitride, avvicinandosi ai due sul campo di battaglia, “tu va, Generale, apri le porte del tempio di Porian, presto”, ordinò la Custode, sbalordendo il Musico. “Io aprire le porte del tempio di Porian? Il dio che ho ripudiato dal mio cuore? Non posso”, sbottò infuriato Orpheus, “Spegni i dubbi nel tuo cuore, ricorda da quale eroe discendi”, affermò quietamente Cassandra, riuscendo così a convincere l’uomo dai bianchi capelli, che scattò verso il tempio ormai dinanzi a lui.

Appoggiò subito le mani sulle ampie porte del tempio Orpheus e le trovò sigillate da qualcosa di molto simile alla seta, “Che cosa?”, si domandò sbalordito il Musico, cercando di fare forza quanto più potesse con ambo le mani, mentre alle sue spalle i diversi guerrieri continuavano le loro battaglie. Inserì ciò che restava del suo oscuro strumento musicale fra le ante della porta, cercando di forzarle, ma tutto sembrava inutile, malgrado l’arpa non si spezzasse per la troppa pressione.

“Devo fare qualcosa, almeno adesso devo aiutare questo popolo. Poiché loro non hanno colpa per il mio dolore, devo soccorrerli, devo salvare questa gente che ha ancora un futuro”, si disse Orphues, cercando di aprire quelle due ante maestose.

“Spegni i dubbi nel tuo cuore!”, gli urlò nuovamente Cassandra, mentre Anfitride ed Anhur si occupavano di difenderla con stremante fatica.

“I dubbi nel mio cuore? Sono ormai certo di rifiutare l’aiuto dell’Idra Nera, se è questo che Porian vuole sentirsi dire”, ripeté fra se il discendente di Odisseus, alzando poi il capo verso il cielo, “Cosa vuoi di più da me? Ho già perso la fede in te per la morte della mia amata Euris, cosa ancora puoi chiedermi?”, domandò infuriato il Musico, quando una verità balenò ai suoi occhi.

“Ho perso la mia fede, non sei stato tu a togliermela, come non mi hai tolto tu Euris. Il dolore che sentivo dentro non era dato da un’azione di Porian, ma da qualcosa che io ho compiuto, un gesto ingiusto come il legarmi ad una vita ormai finita ed accusare della sofferenza che mi soffocava una divinità. Questo volevi sentire, celeste Porian? Ebbene è vero, non è mai stata colpa tua, o divino custode del Sole, non devo accusare te per il mio dolore, né Euris, o altri, solo me stesso, che dopo la sofferenza ho preferito sottomettermi all’odio. Devo essere come Odisseus quindi? Ritrovare la via retta e capire quale sia la giusta misura di sofferenza e quale la colpa di cui sentirmi responsabile, ebbene lo farò, sommo Porian, ma ora ti prego, celeste Signore del Sole, apri le ante di questo tempio e libera la terra di coloro che ti adorano”, concluse con le lacrime agli occhi Orpheus, mentre l’arpa nera si distruggeva, aprendo le gigante ante del tempio del divino figlio di Urros.

 

Il sole apparve subito dopo, in anticipo rispetto all’orario, ma illuminò comunque l’intera città con calde raggi luminosi.

“Methos, Kronos, Silas, presto, prendete Kaspian ed il mio confratello ed allontaniamoci da qui. Subito!”, tuonò Bram-Nur, prima che i raggi di sole iniziassero a circondare i diversi guerrieri dei Mille Rossi, bruciandoli all’istante.

Gli Arvenauti guardarono i loro nemici prendere l’Idra Tessitrice e l’assassino di Ebhe e fuggire sui potenti destrieri, solo Bram-Nur ritardò di qualche secondo.

“Non posso permettermi di essere visto da una divinità, ma sappi, Atanos, che la battaglia fra noi è appena iniziata, ben presto ci rivedremo e tu allora morirai”, lo ammonì l’Idra Immortale, scomparendo in un bagliore oscuro.

 

Passarono alcuni interminabili minuti in cui la luce del sole arse tutti i nemici ancora presenti, poi, quando furono finalmente liberi, tutti i soldati alzarono estreme urla di gioia e felicità. Erano salvi, malgrado molti di loro fossero morti in quella lunga notte era infine tornato il giorno che aveva segnato la fine di quella terribile guerra fra la Lutibia ed Aven.