13/ 10/ 05
LA
RIDUZIONE DEL “TEMPO” AD OGGETTO DI BANALITA’
( Un breve
saggio sul modo di consumare e gestire il nostro tempo esistenziale )
INTRODUZIONE
“La durata delle
cose, misurata a periodi, specialmente secondo il corso apparente del sole”:
questa è la definizione generica del concetto di “tempo” fornita da un comune
dizionario della lingua italiana.
Eppure, proprio attorno a tale categoria ed a ai suoi molteplici significati (di
ordine storico, filosofico, o di natura astronomica) si è come addensata una
coltre di fumo accecante, densa di luoghi comuni e rozze ovvietà, che sono
persuasioni assai diffuse nella vita quotidiana di noi tutti. Gli stereotipi sul
“tempo” paiono proliferare senza soluzione di continuità, e quasi tutti,
eccezion fatta per quei fenomenali campioni della lingua e del sapere umano, se
ne servono abitualmente, forse inavvertitamente, magari per riempire il vuoto
raccapricciante di certe conversazioni, in altre parole per coprire i “tempi
morti” della nostra esistenza.
Sovente infatti, ci capita di ascoltare asserzioni totalmente insensate, che
farebbero inorridire le nostre menti qualora fossimo soltanto un po’ più attenti
e riflessivi, meno pigri o distratti.
“Ammazzare il tempo”, tanto per citare uno dei casi più dozzinali, è un modo di
dire quantomeno sciocco perché non significa nulla se non che si uccide la
propria esistenza.
La persona che “ammazza il tempo”, cioè che impiega malamente il proprio tempo
vitale, non sapendo cosa fare, non avendo interessi gratificanti, né occupazioni
di tipo mentale (come leggere e scrivere) o di carattere fisico (come gli
sport), tali da motivare il vivere quotidiano, non coltivando passioni che
potrebbero impreziosire la qualità del proprio tempo esistenziale, finisce per
annichilire sé stessa, divenendo un essere ansioso, depresso, accidioso, ma non
ozioso.
Prestiamo attenzione alle parole: chi parla bene pensa bene, ma soprattutto vive
bene...
Invero, l’otium dei latini, per il cristianesimo più bigotto, influenzato da
filosofie mistiche orientali e da una forma volgarizzata dello stoicismo,
rappresenta il vizio supremo: infatti, l’accidia è compresa tra i “vizi
capitali” osteggiati dalla tradizione giudaico-cristiana. Nondimeno, l’otium era
l’ideale di vita proprio della cultura classica greco-romana, ispirata invece da
una concezione epicurea, nutrita da orientamenti filosofico-esistenziali che
privilegiavano la ricerca della felicità e del piacere di vivere quali finalità
somme da perseguire in quanto capaci di liberare l’intrinseca natura della
persona umana.
Dunque, l’otium era ed è la condizione dell’individuo privilegiato, del ricco
padrone di schiavi, padrone della propria e dell’altrui vita, della persona che
non è costretta a lavorare per sopravvivere, che non deve travagliare e può
dunque sottrarsi alle fatiche materiali necessarie al procacciamento del vitto e
dell’alloggio, non ha bisogno di stancarsi fisicamente perché c’è chi si affanna
per lui, e può dunque godersi le bellezze, il lusso e quanto di piacevole la
vita può offrire.
L’ otium, in altre parole, è il modus vivendi del padrone aristocratico, del
patrizio romano, del parassita sfruttatore del lavoro servile, che non fa nulla
ed ha a sua disposizione tutto il tempo per poterlo occupare nella “bella vita”,
ovvero in un’esistenza amabile e gaudente per sé, quanto detestabile e dolorosa
per i miseri che nulla posseggono, neanche il proprio tempo, sprecato ed
annullato per ingrassare e servire i propri simili!
Tutto ciò è vero, purtroppo…
È vero, infatti, che non tutti detengono il privilegio o la fortuna (che dir si
voglia) di avere molto tempo libero disponibile, da poter spendere in diverse e
divertenti attività.
Rammento che la radice etimologica dei vocaboli “diverso” e “divertente”, è la
medesima: entrambi derivano dal latino “di-vertere” che sta per “deviare”,
ovvero “variare”.
Anzi, la grande maggioranza degli individui sulla Terra, ancora oggi è costretta
suo malgrado a travagliare, a patire, insomma a lavorare per sopravvivere, chi
cacciando e vivendo primitivamente, chi coltivando la terra, chi sprecando otto,
nove ore a sgobbare in fabbrica, o ad annoiarsi in ufficio, chi occupandosi
inutilmente di “affari”, ossia di faccende non gratificanti ma stressanti e
frustranti, al solo scopo di lucrare e speculare.
Pertanto, è d’uopo comprendere che il tempo (quello vitale) degli individui,
dell’esistenza quotidiana di ciascuno di noi, rappresenta una risorsa di valore
inestimabile, non solo e non tanto sul piano economico-materiale, ovvero nel
senso più venale e triviale del termine.
Purtroppo, un altro luogo comune, assai vergognoso e detestabile, recita “il
tempo è denaro” ed è abitualmente pronunciato dai cosiddetti “uomini d’affari”,
i signori del denaro e della finanza, i paperon de’ paperoni, ovvero i parassiti
e i nullafacenti della società odierna, gli arrivisti e i carrieristi, gli
approfittatori dell’altrui tempo, dell’altrui denaro e dell’altrui ingenuità,
gli sfruttatori del lavoro sociale e dell’esistenza dei più miserabili e
sventurati.
Invece, il vero valore del tempo esistenziale emerge da un punto di vista più
propriamente estetico-spirituale, che comprende la sfera del piacere, della
bellezza, del godimento, della cultura, dell’arte, dell’amore,
dell’immaginazione, della felicità, cioè la dimensione creativa, ludica e
libidinosa della vita.
Il tempo, nella maggioranza delle esistenze individuali, viene sprecato e speso
male, se non malissimo, ovvero viene “ammazzato”, svuotato di ogni senso
proprio, sicché è la propria vita ad essere abbruttita ed impoverita, e la
persona umana si sente avvilita, inutile, quasi disperata, priva di stimoli, di
interessi, di entusiasmo, di voglia di vivere.
Il concetto stesso di “tempo”, nella fattispecie quello climatico, è
frequentemente citato quale insulso e comodo oggetto di conversazione, nel
desolante vuoto dell’incomunicabilità e dell’alienazione moderna, quando con
sgomento si scopre di non sapere cosa dire, di quali argomenti chiacchierare,
con un interlocutore qualsiasi o con un compagno d’occasione, o magari con una
personalità oltremodo imbarazzante, la cui ingombrante presenza ci infonde
soggezione, oppure quando ci si sente mentalmente affaticati e non si è in grado
di elaborare idee originali o di sostenere valide argomentazioni, ovvero perché
non si è molto abili o educati all’arte della conversazione e della
comunicazione.
Il “tempo atmosferico”, come tema di dialogo e di confronto interpersonale,
risulta perciò una sorta di via di scampo o di “uscita di sicurezza”
dall’imbarazzo, dalla stanchezza e dal vuoto dell’incomunicabilità, dalla
povertà intellettuale, ma in realtà conduce all’abisso dell’ovvietà e della
noia, allo squallore dell’ipocrisia, precipitando infine nel baratro
dell’angoscia e dell’ignoranza più becera.
Frasi trite e ritrite del tipo “che tempo fa oggi?” o “il tempo minaccia...”
ecc., talvolta sono spie inequivocabili che tradiscono la soggezione emotiva, la
goffaggine e l’imbarazzo personale, l’incapacità e l’ingombrante difficoltà di
comunicare, il conformismo esistenziale e culturale, oppure indicano un
atteggiamento di astuzia, di falsità, di “temporeggiamento” (paradossalmente, il
“tempo”, inteso come categoria atmosferica, è in taluni casi adoperato quale
espediente per “temporeggiare”, vale a dire “prendere tempo”, così da poter
pensare ad altro, in attesa che qualcosa accada), ovvero esprimono il desiderio
di indugiare oltre, l’ansia di “guadagnar tempo” (appunto), magari perché si
tenta di approfittare di qualcosa o di qualcuno. Da questo punto di vista, i
luoghi comuni e le convenzioni sul “tempo”, inteso nella più comune accezione
meteorologica, si sprecano a dismisura, e quel concetto , sì tanto nobile e
complesso, finisce per essere assurdamente involgarito e banalizzato come in
nessun altro caso, al solo fine di camuffare un pauroso vuoto di idee, per
dissimulare propositi malvagi, per mascherare, in modo maldestro, emozioni,
intenzioni, stati d’animo o quanto possa apparire indice di vulnerabilità.
Intorno al senso meteorologico-atmosferico del concetto di “tempo”, si
“addensano” (tanto per usare una metafora in tema) “nuvole” di inanità
linguistiche, vere e proprie “tempeste” di frasi convenzionali, “uragani” di
luoghi comuni.
Dietro il facile espediente del “tempo” quale argomento di conversazione fin
troppo scontato ed ordinario (esiste una sfilza di sinonimi altrettanto
prevedibili, da sputare sulla carta, a riguardo), sovente si annidano secondi
fini o cattive intenzioni, oppure motivi di timidezza, ingenuità, goffaggine, se
non proprio un’ignoranza abissale, magari anche un’indolenza mentale,
un’abitudine al conformismo ed alla miseria intellettuale, una carenza di idee
proprie ed originali, uno stato di profonda immaturità culturale.
Si potrebbe ironicamente (o cinicamente) osservare che, in questi casi, il
“tempo” (vale a dire il “clima”, quale banalissimo oggetto di conversazione) può
“annebbiare” la mente e “ottenebrare” lo spirito, nella misura in cui ci si
abitua sciaguratamente alla più deteriore condizione esistenziale, ossia alla
pigrizia intellettuale, che è l’esatto contrario dell’”otium” di cui si è già
spiegato il senso più vero e più nobile, che non è “sfaccendare” o “non fare
nulla”, ossia non equivale a “sprecare il tempo”, all’ “oziare” nel senso
borghese di non esercitare “negotium”, che è l’attività per accumulare denaro,
intraprendere imprese lucrose, siglare “affari d’oro”, e via discorrendo in
questa teoria di lessico aziendalista e capitalista.
L’”otium” non è propriamente lo stato del “fannullone”, quantunque si sia già
spiegato che esso rappresenta una condizione privilegiata, appartenente ad
un’élite aristocratico-classista che non deve fronteggiare le difficoltà
quotidiane della sopravvivenza materiale.
In un certo senso, l’”otium” (in quanto negazione del “negotium”) è una virtù,
un talento, che presuppone molteplici e diverse qualità creative, anzitutto
l’abilità e la capacità di impiegare il proprio tempo libero realmente
disponibile, per migliorare e valorizzare progressivamente e costantemente la
qualità della propria esistenza, grazie ad una serie di impegni gratificanti
quali la lettura di bei libri, la visione di bei film, l’ascolto di buona
musica, l’amore (in tutte le sue dimensioni, compreso quello carnale), le buone
amicizie, la buona gastronomia, le belle arti, il godimento delle bellezze
naturali e di ogni altra gioia o piacere che la vita è in grado di offrirci,
soltanto se lo volessimo, solamente se sapessimo organizzare il nostro tempo, e
se davvero ne avessimo la possibilità.
IL “TEMPO” NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA OCCIDENTALE
Finora si è trattato, in maniera piuttosto generica, ironica e (forse)
superficiale, del concetto di ”tempo”, senza aver chiaramente determinato i suoi
numerosi significati, cioè cosa si definisce con tale vocabolo di carattere
multisemantico e multiconcettuale.
In effetti, se ci addentrassimo nei meandri della filosofia, delle scienze,
della linguistica, della semiotica e di tutti quei rami disciplinari, o
artistici, in cui la categoria del “tempo” riveste un ruolo centrale, potremmo
senz’altro rinvenire una pluralità di significati e di concetti, ciascuno
inerente in maniera specifica ad un dato settore.
Ad esempio, nel campo della musica l’accezione di “tempo” è alla base del ritmo
e della melodia e si definisce, appunto, come “tempo musicale”, la cui
spiegazione più propriamente tecnica non è tra le mie personali competenze.
Così nella poesia, laddove (come nella musica) ci sono tempi da osservare e
scandire, in quanto sono parte di una metrica, cioè dell’arte di comporre in
versi (dall’etimologia greca “metros” che sta per misura), più esattamente di
una tecnica di misurazione del “tempo” e del ritmo musicale in forma di poesia,
avvalendosi di unità di misurazione quali le sillabe, il numero dei versi, e via
discorrendo.
Non è un caso che in origine, nell’antica Grecia, la poesia fosse cantata.
Infatti, i versi dei celeberrimi poemi omerici dell’Iliade e dell’Odissea, erano
cantati e si tramandavano oralmente di generazione in generazione, attraverso
appunto il veicolo del canto e della melodia musicale.
Molto probabilmente, questa è una delle principali ragioni per cui la poesia
contemporanea ha smarrito il suo valore e il suo fascino, ed è stata soppiantata
dalla canzone d’autore e dalla musica leggera in genere, per cui un Battisti, un
Dalla, un De Gregori, un Guccini, un De Andrè, sono più famosi di un Montale, di
un Ungaretti, di un Saba, di un Campana, di un Pasolini.
Volendo compiere un’opera di sintesi, cioè di collegamenti logici, è possibile
distinguere, nell’ambito storico-filosofico occidentale, tre fondamentali scuole
di pensiero, relativamente al significato o, per meglio dire, ai significati del
termine onnicomprensivo di “tempo”.
IL “TEMPO
OGGETTIVO”
Il primo filone è quello che concepisce il “tempo” come ordine misurabile del
“divenire”, ovvero del movimento storico-cronologico, del fluire dei giorni e
delle notti, delle stagioni, degli anni, dei secoli, e così via.
A tale concezione si legano le seguenti idee.
Nell’antichità:
Eraclito di Efeso
La visione ciclica del mondo e dell’esistenza umana, compresa la teoria di
Eraclito del “panta rei” (tutto scorre), dell’inarrestabile e perpetua
trasformazione di tutte le cose, per cui nulla è “sacro”, immortale o
eternamente immutabile, neanche Dio!
La “metempsicosi”
L'idea della “metempsicosi”, cioè dell’eternità e dell’immortalità dell’anima
attraverso la “reincarnazione” in altre forme o gradi di esistenza, che si
possono ritenere superiori o inferiori, in virtù di meriti o demeriti, di valori
o di colpe, vale a dire in forza del bene e del male che si è compiuto in
un’ipotetica e presunta vita precedente, per cui se si “retrocede” ad uno stadio
inferiore vuol dire che la propria condotta in vita, da essere umano, è stata
caratterizzata da malefatte, mentre la successiva trasmigrazione dell’anima in
una forma di vita migliore, è il risultato di un’azione e di un comportamento
all’insegna dell’onestà, della bontà e della virtù in genere.
Tale dottrina, di origine orientale, è molto antica ed è presente nell’orfismo,
nel pitagorismo e nel platonismo; essa è sopravvissuta sino ai giorni nostri,
perpetuandosi nelle millenarie tradizioni religiose dell’induismo e del
buddhismo.
A riguardo, va sottolineata una singolare e paradossale coincidenza rispetto ad
una seppur vaga affinità concettuale globale, sul versante della percezione del
“tempo” come nozione di un “divenire” ciclico infinito ed inesauribile, tra due
delle più irriducibili e antitetiche visioni del mondo e dell’esistenza, da un
lato la teoria ateo-materialistica del filosofo di Efeso, dall’altro una delle
dottrine di maggiore ispirazione mistico-spirituale in senso assoluto che la
storia del pensiero umano abbia mai conosciuto.
Nell’età moderna:
Galilei (1564-1642) e Newton (1642-1727)
La concezione scientifico-naturalistica del “tempo”, determinata in modo
particolare dalle intuizioni rivoluzionarie di Galileo Galilei e di Isaac
Newton, i quali distinsero opportunamente tra il “tempo assoluto”, cioè
oggettivo, esteriore, reale, fisico, che è scientificamente misurabile
attraverso appositi strumenti di calcolo – quali, ad esempio, un pendolo, una
clessidra, un orologio, un calendario ecc. -, e il “tempo relativo”, che è
invece soggettivo, interiore, non suscettibile d’essere oggettivato, ossia non
può essere misurato e calcolato mediante congegni meccanici o criteri
scientifici rigorosi, di precisione matematica.
Kant (1724-1804)
Alla fisica sperimentale di derivazione galileiana e/o newtoniana, dominante nel
corso di tutta l’epoca moderna, si contrappose fermamente - e, oserei dire,
coraggiosamente - il maestoso genio tedesco di Immanuel Kant, la cui posizione,
indubbiamente originale e innovativa, fu successivamente ripresa e rilanciata da
un altro illustre, sottile ed ingegnoso spirito tedesco, Albert Einstein, la cui
eminente opera scientifica è tuttora un cardine fondamentale della fisica e, se
vogliamo, della conoscenza universale contemporanea.
Alla riduzione meccanicistico-materialistica del “tempo”, operata dalla
filosofia e dalla scienza moderna (cioè pre-kantiana), il celebre pensatore di
Könisberg, impegnato nel superbo sforzo di rifondare la metafisica classica su
basi matematico-scientifico rivoluzionarie - quanto rigorose -, enunciò la tesi
che riduceva l’”ordine di successione temporale” (in una parola sola, il
“tempo”) ad un “ordine di causalità” (ossia lo “spazio”), costituendo entrambi
le principali categorie dell’intelletto umano, intese quali “forme a priori”
della conoscenza fenomenica, nella misura in cui sono assolutamente necessarie
all’esperienza e allo studio della realtà sensibile. Al contrario, secondo la
metafisica aristotelica quelle categorie costituivano proprietà del mondo reale,
fisico e naturale.
La concezione kantiana ha subìto certamente alcune scosse profonde ad opera dei
successivi progressi scientifici e filosofici, in modo particolare da parte
dello sviluppo delle geometrie non euclidee e della ”teoria della relatività”.
Per Kant il “tempo”, la sua successione reale, oggettiva, storica, è “il
criterio empirico unico dell’effetto in rapporto alla causalità della causa” -
da: “Critica della Ragion pura”.
Einstein (1879-1955)
Albert Einstein ha in qualche maniera riproposto, ai giorni nostri, l’intuizione
kantiana (quantunque essa sia stata messa in crisi, come già si è accennato,
proprio dallo stesso padre della teoria della “relatività generale”), per
contrapporla nuovamente alla meccanica e alla fisica tradizionale di ispirazione
galileiana e newtoniana, enunciando la “relatività” della misurazione temporale,
vale a dire la “relatività” del “tempo oggettivo”, quantificabile e misurabile
in chiave matematico-scientifica, senza però intaccare, rinnovare o mutare alla
radice, il concetto classico e tradizionale del “tempo” in quanto “ordine di
successione”, bensì negando semplicemente (!) che tale ordine di successione
fosse unico ed assoluto.
In altri termini, Einstein ha negato l’esistenza di un sistema di riferimento
privilegiato per la misurazione della durata temporale e delle lunghezze in
genere, nella misura in cui esistono infiniti punti (o spazi) del Cosmo, dove la
scansione del tempo reale ed oggettivo (in quanto esterno alla personale
percezione e conoscenza interiore, propria del soggetto che conosce, cioè
l’individuo umano) può, in linea teorico-virtuale, essere valutata, calcolata,
misurata e definita in termini matematici totalmente diversi e distanti ( in
maniera “stellare”, appunto) dalla realtà spazio-temporale terrestre.
Così, tanto per citare un esempio chiarificatore, ciò che per noi, ovvero per il
nostro sistema privilegiato - o convenzionale - di riferimento e di misurazione,
rappresenta un “anno solare” (astronomicamente inteso come il “tempo” che il
pianeta Terra impiega per compiere esattamente la sua orbita di “rivoluzione”
attorno al Sole), può corrispondere ad un “minuto secondo” del nostro sistema di
misurazione temporale, in un angolo assai remoto dell’Universo, oppure ad
un’”ora” in un altro punto (o spazio) cosmico, in virtù di una stretta relazione
di interdipendenza spazio-temporale che fu Kant ad intuire chiaramente, pur
espondendola e formulandola in sede teoretico-metafisica e non propriamente
scientifica.
Einstein, sviluppando l’intuizione filosofica kantiana, tradotta in un ambito
più prettamente scientifico, ha ipotizzato che il rapporto tra le tre dimensioni
dello spazio e quella del tempo dipenda principalmente dai confini della
velocità della luce, a loro volta condizionati dalla presenza di campi
gravitazionali.
Reichenbach (1891-1953)
Successivamente, Hans Reichenbach ha riscoperto e rivalutato la tesi kantiana
nei riguardi della fisica della “relatività” einsteniana, riaffermando
l’identità di “tempo” e “causalità”, ovvero ribadendo e rilanciando l’ipotesi
secondo cui la successione temporale sarebbe da correlarsi all’ordine di
successione tra la causa e l’effetto, per cui “il tempo è l’ordine delle catene
causali: questo è il principale risultato della scoperte di Einstein (...)
L’ordine del tempo, l’ordine del prima e del dopo, è riducibile all’ordine
causale (...) L’inversione dell’ordine temporale per certi eventi, che è un
risultato che deriva dalla relatività della simultaneità, è solo una conseguenza
di questo fatto fondamentale. Dal momento che la velocità della trasmissione
esistono eventi tali che nessuno di essi può essere la causa o l’effetto
dell’altro. Per eventi siffatti l’ordine del tempo - cioè del prima e del dopo,
non può essere definito e ognuno di essi può essere detto posteriore o anteriore
all’altro.” (da: “Albert Einstein: Philosopher-Scientist” di Hans Reichenbach,
1949).
Pertanto, la tesi Kantiana della riduzione del “tempo” alla categoria della
“causalità” può essere intesa come la più alta proposizione filosofica avanzata
nell’ambito della più generale cognizione della “tempo” quale “ordine di
successione” e “misurazione” del movimento storico del “divenire”, empiricamente
scandito e percepito in base al susseguirsi del giorno e della notte, delle
stagioni, e quindi in base al ciclo vitale del mondo che sembra rinnovarsi in
eterno, quantunque si tratti (come ampiamente mostrato) di una visione oltremodo
ingenua, arcaica, superficiale, pre-scientifica, semplicistica,
empirico-sensibile, oramai superata dalle teorie moderne di Newton, Galilei,
Kant e dalle affermazioni più recenti e contemporanee di Einstein e Reichenbach,
che pure riprendevano e riproponevano, sviluppandole alle estreme conseguenze
l’intuizione kantiana dell’interdipendenza e dell’identità tra “tempo” e
“causalità” - ossia tra tempo e spazio -, secondo una concezione relativistica
del “tempo misurabile”, ovvero del “tempo oggettivo”, che appartiene alla sfera
esteriore e non interiore.
IL “TEMPO SOGGETTIVO”
La seconda, importante corrente storico-filosofica, è quella che definisce il
“tempo” quale “movimento intuito”.
A tale concezione si ricollega la nozione di “coscienza” e quindi di
“soggettività”, con cui il “tempo” viene identificato. In questo filone di
pensiero, un importante punto di partenza lo si ritrova in Sant’Agostino il
quale, muovendosi nella fattispecie particolare della teologia medievale, fu il
primo a postulare chiaramente in ambito teoretico-metafisico la categoria del
“soggetto”, aprendo in qualche misura le porte all’avvento successivo
dell’Umanesimo rinascimentale e alla riscoperta dei valori, dei diritti e delle
libertà della persona umana.
Hegel (1770-1831 )
Hegel considera il “tempo” come “divenire intuito”, cioè come intuizione del
movimento.
In particolare “il tempo è il principio medesimo dell’Io = Io, della pura
autocoscienza; ma è quel principio o il semplice concetto ancora nella sua
completa esteriorità ed astrazione.” (da: “Encyklopädie der philosophischen
Wissenschaften im Grundrisse” di Hegel, 1827).
Hegel dunque, non identifica il “tempo” con la “coscienza”, bensì con qualche
aspetto parziale o astratto della coscienza medesima.
Bergson ( 1859-1941 )
Un altro grande pensatore più contemporaneo, il francese Henry Bergson si è
fermamente opposto alla visione scientifica del “tempo”, definendo il “tempo”
della scienza come un tempo ”spazializzato” e che perciò non possiede alcun
carattere che la coscienza riconosce in quanto proprio del “tempo”. Esso
infatti, viene rappresentato come una successione lineare, “una linea” (la
“linea del tempo”), ma “la linea è immobile, mentre il tempo è mobilità. La
linea è già fatta mentre il tempo è ciò che si fa, anzi è ciò per cui ogni cosa
si fa.” (da: “La pensée et la mouvant” di Henry Bergson, 1934).
Husserl ( 1859-1938 )
Non molto diversa è la concezione che il filosofo tedesco, Edmund Husserl , ha
del “tempo fenomenologico”: “Ogni effettiva esperienza vissuta è necessariamente
qualcosa che dura; e con questa durata si inserisce in un infinito continuo di
durate, in un continuo pieno. Essa ha necessariamente un orizzonte temporale
attualmente infinito da ogni parte. Il che significa che appartiene ad
un’infinita corrente di esperienze vissute. Ogni singola esperienza vissuta,
come può cominciare così può finire e chiudere la sua durata, come fa, per
esempio, l’esperienza di una gioia. Ma la corrente delle esperienze non può né
cominciare né finire.” (da: “Ideem zu einer reiner Phänomenologie und
phänomenologischen Philosophie“ di Edmund Husserl, 1950).
Come la “durata” bergsoniana, la “corrente dell’esperienza” conserva tutto ed è
una specie di “eterno presente”.
“ESSERE E TEMPO”: Heidegger (1889-1976)
Infine, la terza scuola di pensiero incentrata sul tema del “tempo”, è quella
ispirata dall’esistenzialismo.
Essa concepisce il “tempo” come “struttura delle possibilità”.
Tale visione offre alcune significative innovazioni concettuali nell’analisi
dell’idea del “tempo”, ed è illustrata da Martin Heidegger nella monumentale
opera intitolata “Essere e tempo” del 1927, che già nel titolo annuncia
l’identità tra i due termini.
Mentre le due precedenti concezioni si fondano sul primato del “presente”, la
teoria esistenzialista di Heidegger riconosce invece il primato dell’”avvenire”
nell’interpretazione del “tempo” in termini di “possibilità” o di
”progettazione”.
Tale analisi, sicuramente innovativa ed originale, contiene e presuppone un
serio e gravoso impegno sul versante metafisico, nella misura in cui il “tempo”
viene concepito e rappresentato come una sorta di “circolo” (o “movimento
circolare”) in base al quale ciò che si prospetta in avvenire, in quanto
possibilità e/o progettualità, è già stato, e a sua volta ciò che è già accaduto
in passato è ciò che si prospetta in futuro: in tal modo, il “cerchio” si chiude
e ricomincia, rinnovandosi e perpetuandosi nell’eternità.
RIFLESSIONI FINALI
A questo punto, con la filosofia esistenzialistica di Martin Heidegger, potrebbe
esaurirsi il compito, sicuramente umile e modesto, della presente ricerca sul
tema, assai vasto e complesso, del ”tempo”, in particolare come problema al
centro della speculazione teoretico-metafisica e dell’indagine scientifica, nel
corso più generale ed ampio della storia del pensiero occidentale (quantunque
sia stata rappresentata e ricostruita in estrema sintesi).
Ebbene, dopo questa necessaria, utile e preziosa disamina storico-filosofica
circa il senso e la nozione del “tempo” nella varietà e molteplicità delle sue
interpretazioni (che contengono ed esprimono accezioni e sfumature assai
differenti, sovente divergenti ed antitetiche, talvolta convergenti ed affini,
sotto il profilo meramente concettuale), ogni altra considerazione potrebbe
risultare sciocca e superflua.
Al contrario, mi pare che proprio tenendo conto di quelle impareggiabili
costruzioni del pensiero e dello spirito umano, che hanno avuto per oggetto il
problema del “tempo” (ma non solo), proprio in virtù dei risultati conseguiti da
quelle indagini di stampo scientifico e/o filosofico, ad opera di alcuni tra i
maggiori ingegni del genere umano (sono stati citati, infatti, Galilei, Newton,
Kant, Einstein, Hegel, Bergson, Husserl, Heidegger...), non sarebbe per nulla
scontato, né banale, pensare al “tempo” come al principio essenziale che riesce
a conferire senso e valore alla nostra esistenza, individuale e collettiva,
storica, sociale, di soggettività e di singole persone, ma altresì di specie o
di genere umano.
Il “tempo” è stato e può essere concepito in quanto “durata”, “successione”, in
maniera “lineare” o “circolare”, come “finito” o “infinito”, “assoluto” oppure
“relativo”, “oggettivo” e “soggettivo”, “unico” o “molteplice”, e via
discorrendo, ma una cosa è certa: senza il “tempo” non esisterebbe nulla.
Difatti, se non ci fosse ciò che definiamo “tempo” o, per meglio dire, se noi
non tenessimo più conto del flusso del tempo, dell’esperienza vissuta, dei
giorni e delle notti, dei cicli stagionali, degli anni, della nascita e del
tramonto solari, dell’età che avanza inesorabilmente, della vita e della morte,
insomma se noi vivessimo a prescindere dal “tempo”, se noi fossimo ad esempio
immortali, molto probabilmente non sapremmo che fare, ci annoieremmo “a morte”,
non potremmo e non sapremmo affatto apprezzare i veri ed essenziali valori della
vita e del mondo, dunque saremmo persi, condannati ad un cieco destino senza
fine.
Immaginiamo, per un momento, che la Terra fosse circondata da una sorta di
immenso “guscio” astronomico che oscurasse il Sole, impedendo così la nostra
percezione o coscienza, del “divenire” e dello scorrere del ”tempo”, che fine
faremmo?
Oppure, cosa accadrebbe se, per ipotesi, noi abolissimo tutti gli orologi, i
pendoli, le clessidre, i calendari, ed ogni criterio o strumento di misurazione
temporale (per quanto relativa, finita, storica e terrestre, possa essere,
secondo la teoria einsteniana della “relatività” del “tempo oggettivo”,
scientificamente e matematicamente misurabile)?
Probabilmente, non ci sarebbe stato e non sarebbe affatto possibile alcun
“progresso”, e noi non avremmo mai potuto realizzare tutto quanto l’umanità ha
saputo compiere : l’invenzione della scrittura; la scoperta del fuoco e
dell’agricoltura; la lavorazione dei metalli; la costruzione delle piramidi in
Egitto, del Partenone, del Colosseo, dei grattacieli; l’invenzione dell’energia
elettrica e dei calcolatori elettronici; la scoperta della matematica; la
produzione di inestimabili capolavori artistici e letterari, nel campo della
pittura, della scultura, della poesia, della musica, del romanzo, del teatro,
del cinema (e perché no, anche del fumetto) e via discorrendo; l’invenzione
della ruota, del motore a scoppio, dei sottomarini, degli aerei supersonici,
delle astronavi spaziali, dei satelliti artificiali; l’invenzione del telegrafo,
del telefono, della radio, della televisione, del fax, della trasmissione via
Internet; l’invenzione dell’aria condizionata, di tutti quegli elettrodomestici
che hanno alleviato e reso più comodo l’impegno quotidiano delle massaie e delle
casalinghe (svolto sempre più, per fortuna, anche dagli uomini); la scoperta
dell’America, l’esplorazione degli oceani e degli spazi interstellari ; la
scoperta della penicillina e degli antibiotici, l’invenzione dei vaccini
immunizzanti e tutti i grandi, preziosi sviluppi avvenuti nel campo
medico-sanitario, legati non solo alla medicina tradizionale, a quella
farmacologica propria della scuola occidentale, ma anche ad altre forme di
medicina, di matrice orientale, in particolare a quella araba, a quella cinese,
a quella indiana; è così via, l’elenco dei “progressi” e della “conquiste”
compiute dall’umanità nel corso del tempo (che meriterebbero una menzione), non
avrebbe termine...
In altre parole, non esisterebbe alcuna traccia di civiltà, di cultura, di
intelligenza dell’uomo, e non vi sarebbe alcun segno della nostra stessa
presenza sulla Terra.
Perciò, grazie di esistere al “tempo”, a ciò che, convenzionalmente, definiamo
tale, alla vita e alla morte, nella misura in cui senza la morte, ovvero senza
il “tempo”, non potrebbe esserci nemmeno la vita, e noi non sapremmo come e
quanto apprezzare, riconoscere e consolidare i valori, i beni, le ricchezze, le
bellezze, i piaceri e le gioie che l’esistenza medesima è in grado di offrirci,
proprio in ragione del fatto che possiamo e sappiamo riconoscere e disprezzare
(e, paradossalmente, apprezzare) il male, la violenza, l’orrore, l’ingiustizia,
le bruttezze, la malvagità, la prepotenza, i dispiaceri, il dolore, la morte...
Da quanto esposto finora può discendere un’estrema (ma non conclusiva)
valutazione.
Banalmente, ciò che davvero conta, non è tanto la durata, ossia la quantità del
nostro tempo vissuto, bensì la sua qualità.
A riguardo, mi sovviene un altro, diffusissimo luogo comune, il quale si può
così tradurre: ”Ho cinquanta anni, ma me ne sento venti”. In verità, potrebbe
persino essere l’esatto contrario: ”Ho venti anni, ma ne sento cinquanta”.
Forse, la soluzione del dilemma risiede (banalmente?) nel mezzo, ossia nella
giusta misura, nel senso che le risposte ad ogni domanda dell’esistenza,
richiedono una sintesi tra due opposti estremi, per sanarne le contraddizioni,
anche per ricomporre le più irriducibili e radicali fra le antitesi.
Questo ragionamento (di matrice hegeliana) ha sicuramente un senso, quantomeno
per il quesito prima formulato. Voglio dire che, indubbiamente (e
fortunatamente) l’età anagrafica esiste, nella misura in cui il tempo scorre ed
avanza in modo implacabile e ineluttabile.
Ma è altrettanto vero ed innegabile che non sempre l’età mentale e soggettiva
(cioè il tempo interiore, spirituale, qualitativo) corrisponde all’età
anagrafica, vale a dire al tempo cronologico, esteriore, oggettivo, assoluto,
matematicamente misurabile e quantificabile.
Ed è altresì vero e inoppugnabile che tutto ciò che ha a che fare col “tempo”, è
assolutamente storico, relativo, personale, quindi effimero, fugace, transitorio
e mutevole, nel senso che io potrei avere (anagraficamente parlando) trent’anni
e sentirmene, in un dato momento o in un altro contesto, appena diciotto, mentre
in un’altra situazione o in un altro frangente addirittura settanta!...
Tutto è assolutamente relativo e storicizzabile, soprattutto il “tempo”.
Ciò che appare oggettivo e reale, può diventare soggettivo, grazie al “tempo”,
ed è sempre il “tempo” che rende finito e mortale ciò che appare o crediamo
infinito ed immortale, e viceversa.
Dunque, il “tempo” costituisce la misura del valore che ha la nostra esistenza,
che è unica e sola, fino a prova contraria (nel senso che possiamo vivere una
volta sola), a meno che non sia vera la dottrina della “metempsicosi”.
Tuttavia, il “tempo”, quantunque possa apparire un problema oltremodo astratto e
cerebrale, quasi incomprensibile per certi versi (pensiamo, ad esempio,
all’analisi heideggeriana), non può assolutamente essere banalizzato, perché
rischieremmo di banalizzare la nostra stessa esistenza, il che vuol dire
rischiare di vivere inconsciamente, ciecamente, vanamente, ossia banalmente!
UN’UTOPIA POSSIBILE E NECESSARIA
Sovente penso a un paradosso di portata storica globale che pure mi riguarda
personalmente, ma che investe direttamente ciascun essere umano.
Mi riferisco a un’oggettiva contraddizione tra il crescente progresso
tecnico-scientifico compiuto soprattutto negli ultimi decenni, che permetterebbe
all’intero genere umano di vivere molto meglio, e la realtà planetaria che
evidenzia un sensibile peggioramento delle condizioni economiche, materiali e
sociali, soprattutto dei produttori e dei lavoratori salariati (anzi
sotto-salariati) che vivono anche nel mondo occidentale cosiddetto “avanzato”.
Ebbene, grazie alle più recenti conquiste dello sviluppo tecnico e scientifico,
la grandiosa, nobile, quanto antica “utopia” dell’emancipazione dell’umanità
(tutta l’umanità) dal bisogno di lavorare e, quindi, dallo sfruttamento
materiale, è teoricamente (ossia virtualmente) realizzabile, oggi più che nel
passato, nel senso che sarebbe oggettivamente possibile, oltre che necessaria,
ma nel contempo è impraticabile, almeno nel quadro dei rapporti giuridici ed
economici esistenti, che si basano sulle leggi e sulle tendenze classiste insite
nel sistema capitalistico-borghese, che non a caso attraversa un periodo di
grave crisi strutturale.
Pertanto, l’idea dell’affrancamento definitivo e totale dell’umanità dallo
sfruttamento e dall’alienazione che si compiono durante il tempo di lavoro,
appare molto prossima alla sua attuazione. Pur tuttavia, ciò non potrebbe
compiersi senza una violenta rottura rivoluzionaria rispetto al predominio
capitalistico-borghese vigente su scala planetaria.
Come gli antichi greci si occupavano liberamente, e amabilmente, di politica, di
filosofia, di poesia e delle belle arti, e godevano di tutti i piaceri offerti
dalla vita, in quanto erano esonerati dal lavoro materiale svolto dagli schiavi,
così gli uomini e le donne di oggi potrebbero dedicarsi alle piacevoli attività
del corpo e dello spirito, affrancandosi finalmente dal tempo di lavoro affidato
esclusivamente ai robot e condotto grazie a crescenti processi di automazione e
informatizzazione della produzione di beni materiali.
Questo traguardo storico rivoluzionario è oggi raggiungibile, almeno in teoria,
proprio in virtù delle enormi potenzialità “emancipatrici” ed “eversive” offerte
dallo sviluppo della scienza e della tecnica soprattutto nel campo della
robotica, della cibernetica e dell’informatica.
Lucio Garofalo (*)
e-mail
(*) umile insegnante (proletarizzato dall’euro, sigh sigh) di Lioni, un
Comune della provincia di Avellino, una piccola area meridionale del nuovo
“Impero globale made in U.S.A.”.
Per diletto scrive e collabora con diversi siti web e con qualche testata
giornalistica locale (ma forse sarebbe più corretto definirla “g-locale”).
Inoltre, si occupa di varie attività, soprattutto di natura intellettuale,
artistica e creativa: ad esempio è un appassionato di musica, di cinema, di
fumetto, di satira politico-sociale. Talvolta, egli stesso si diverte a
realizzare vignette e caricature politiche, che non sono mai state pubblicate,
bensì divulgate solo nella ristretta cerchia delle amicizie più intime.
Naturalmente, tra i suoi molteplici interessi, che coltiva con cura e con
perfezione quasi morbose e maniacali, occorre annoverare anche la passione per
la filosofia, benché questa non si sia mai concretizzata in un corso di studi
accademici e universitari.
Ma per questi impegni e questi traguardi non è mai troppo tardi... C’è ancora
tempo.
Una cosa è certa: il tempo libero dal tempo di lavoro, vale molto, ma molto più
del denaro!