(segue - LE RAGIONI DI UNA SCELTA)



L'interesse romano e gli interessi lombardi

Quando si invoca la secessione di una Regione del Nord o di tutta la Padania dall'Italia, ci si sente ripetere spesso un'obiezione di questo tipo: "Fare uno Stato più piccolo significa fare uno Stato più debole, che conterà meno nel mondo e nella stessa Unione Europea, che avrà minor peso economico e un mercato più ristretto a cui vendere i propri prodotti; restare in Italia significa, invece, vedersi tutelati da un Governo rispettato e in grado di difendere l'interesse nazionale".
Si tratta, non c'è che dire, di un'obiezione ben costruita e apparentemente inconfutabile. Il problema è che si tratta anche di un insieme di affermazioni ormai prive di valore, se non del tutto false. Vediamo perchè.

Innanzitutto la questione delle dimensioni di uno Stato non ha alcun legame diretto con il benessere dei cittadini. Forse (ma ripetiamo e sottolineiamo, forse) questo genere di caratteristiche -la grandezza, il numero, la potenza- poteva valere fino a qualche decennio fa, in un mondo nel quale le frontiere avevano ancora un certo peso e in cui la dimensione poteva aiutare in caso di crisi economiche. Oggi tutto ciò è privo di senso. Pensiamo ai cosiddetti microstati, cioè a quelle città-stato, o poco più, che esistono nel mondo e anche in gran numero nella stessa Unione Europea e dintorni: San Marino, Liechtenstein, Monaco, Andorra, Malta, Cipro, Lussemburgo. Anche se non intendiamo certamente paragonare la Regione Lombardia a queste realtà, vogliamo far notare che in nessuna di esse le persone muoiono di fame o faticano a permettersi l'automobile. Al contrario, in questi piccoli o microscopici Paesi, le condizioni economiche di vita sono generalmente buone, se non addirittura ottime. Ci riesce pertanto difficile pensare che la regione Lombardia, che ha 9 milioni di abitanti (più della Svezia e dell'Austria, tanto per intenderci), possa d'improvviso subire crisi economiche, dopo aver fatto la secessione, per il solo fatto di essere così diventata “più piccola” dell’Italia. Semmai, pensiamo esattamente il contrario, e cioè che la secessione ci permetterebbe di conservare e di sfruttare appieno le nostre ricchezze (cioè il frutto della nostra laboriosità e della nostra capacità produttiva), garantendoci condizioni di vita veramente invidiabili.

Posto anche che la Lombardia ambisca a contare politicamente (e non "soltanto" economicamente) in Europa e nel Mondo, ci chiediamo come potrebbe contare di meno per il solo fatto di avere dimensioni più ridotte dell'Italia intera. Nell'Unione Europea che conosciamo, per come è andata sviluppandosi negli ultimi anni, non è certo la grandezza a fare la differenza, bensì la capacità di fare blocco con altri Paesi membri, al fine di favorire l'adozione di determinate scelte. Non solo: far parte di uno Stato come l'Italia che, pur essendo fra i membri fondatori dell'UE, non conta veramente negli equilibri della diplomazia continentale, significa subirne le retrocessioni che ne derivano. L'Italia è sempre stata un Paese molto chiacchierone, ma poco decisivo nella politica dell'Unione Europea; a causa della pochezza della classe politica che ci governa, una casta che preferisce i salotti romani alle dure trattative politico-economiche internazionali, l'Italia è un Paese che riveste un ruolo davvero poco influente in Europa; anche perchè ha sempre avuto una posizione acriticamente europeista, che non serve a molto quando si tratta di prendere decisioni controverse. All'Italia è sempre e solo interessato di ospitare la firma dei trattati costituzionali europei; agli altri Paesi, compresi quelli molto combattivi giunti dall'ex blocco orientale, è interessato invece di discutere nel merito quei trattati, impedendo che essi trasformassero l'UE in un superstato, di cui non si sente proprio alcun bisogno.

Se proprio queste considerazioni non dovessero bastare a convincere i visitatori di questo sito, sarà forse sufficiente ricordare che, ad esempio, nella vicenda delle quote latte comunitarie, i politici romani hanno svenduto i diritti di produzione degli allevatori lombardi e padani per qualche aiuto, regolarmente sprecato, al Sud. Salvo poi affermare, con faccia tosta impareggiabile, che soltanto l'esistenza di un ministero centrale delle politiche agricole per l'Italia intera poteva difendere gli interessi dei nostri agricoltori e allevatori in Europa.
Non parliamo poi del tasso di cambio contrattato per l'adesione della Lira all'Euro. Le famose 1.936,27 Lire per 1 Euro sembravano fatte apposta per ingenerare una percezione psicologica di raddoppio del prezzo dei beni: è il famoso effetto per cui 1 Euro corrisponde a 1.000 Lire (invece che alle effettive 2.000 circa). Secondo i tecnocrati che ci hanno governato spesso e volentieri in questi anni, si tratterebbe di argomentazioni prive di fondamento; peccato però che non lo siano affatto per le tante persone comuni, specialmente anziane, che ancora oggi scambiano 1 Euro per 1.000 Lire -e 1.000 Euro per il vecchio milione di Lire-, con tutto ciò che questo comporta in termini di assuefazione collettiva ad un tacito, ma pur sempre effettivo, raddoppio del prezzo di determinati beni.

Anche l'obiezione relativa al mercato più ristretto in cui vendere i propri prodotti è una bufala della propaganda antisecessionista. Può darsi che questa argomentazione avesse un qualche senso logico dieci-quindici anni fa, quando l'approdo dell'Italia nel mercato unico europeo era ancora lontano dal compiersi del tutto. Non c'era l'Euro e la comunità continentale era ancora un'entità in via di integrazione. Pertanto, se la secessione fosse avvenuta nella seconda metà dei Novanta, come originariamente auspicava la Lega Nord, non si sarebbe potuta escludere una qualche forma di boicottaggio, da parte del Centro-Sud, nei confronti dei prodotti "made in Padania".

Oggi, però, questo tipo di minaccia non fa più paura a nessuno. Le imprese della Regione Lombardia commerciano con tutto il mondo, come già facevano, peraltro, anche prima dell'avvento del mercato comune europeo. La vera novità è che adesso non è nemmeno più possibile ipotizzare forme di "embargo" commerciale, all'interno dell'Unione continentale. Viviamo in un mercato unico, nel quale l'assenza di barriere doganali ha eliminato del tutto la possibilità di bloccare l'import di prodotti.
Certo, spontaneamente i cittadini della residua Repubblica Italiana potrebbero rifiutarsi di acquistare prodotti "made in Lombardia", all'indomani della nostra secessione. Ma chi ci crede seriamente? Quasi tutti i giorni si sentono proclami contro le merci cinesi e proposte di istituire dazi doganali per fermarle alle frontiere; nonostante questi appelli, i prodotti "made in China"  vengono regolarmente venduti e acquistati in ogni negozio e in ogni famiglia italiana. Figuriamoci, quindi, se è credibile l'ipotesi di un qualsiasi spontaneo boicottaggio a danno dei prodotti lombardi!

Se non bastassero queste rassicurazioni, aggiungeremo un argomento di pura economia: La Repubblica Lombarda ridurrebbe drasticamente il prelievo fiscale sulle nostre imprese; ciò avrebbe l'effetto immediato di permettere un generale abbassamento dei prezzi dei beni prodotti e venduti in Lombardia. Alla luce di questa considerazione, è più facile immaginare che, invece di improbabili boicottaggi spontanei da parte dei cittadini della Repubblica Italiana nei confronti del “Made in Lombardy”, assisteremmo piuttosto ad un assalto degli stessi ai nostri negozi, per poter comprare merci a costi più bassi. Esattamente ciò che accade a quei cittadini italiani che abitano in aree di frontiera, i quali, già oggi, non esitano a fare qualche chilometro di strada in più, per poter comperare beni a prezzi più economici negli Stati di confine, dalla benzina per le auto ai pannolini per i neonati.
Da questo punto di vista, è persino realistico immaginare che, all'indomani della secessione della Regione Lombardia, lo stesso Stato italiano sarebbe finalmente costretto a diminuire il peso fiscale sulle aziende (e magari anche sui privati cittadini), per evitare di subire la concorrenza commerciale e tributaria della neonata Repubblica Lombarda. Vorremmo proprio vederli i politici italiani, alle prese con la concorrenza di un nuovo Stato confinante, più popoloso della Svizzera, collegato sotto ogni punto di vista con il resto della Padania, dotato della stessa lingua e accomunato all'Italia dall'appartenenza all'Unione Europea, con tutto ciò che questo comporta in termini di vantaggi, giuridici e commerciali.

Veniamo, infine, alla questione del cosiddetto "interesse nazionale". Molte persone credono che esso esista veramente; credono, in parole povere, che ci sia una sorta di interesse superiore che solo i governanti di Roma sono in grado di riconoscere e di perseguire. Questa specie di misteriosa entità è un'altra colossale bugia inventata dai governi dei vecchi stati nazionali, come l'Italia, per poter giustificare sempre e comunque le proprie decisioni.
E' facile, infatti, di fronte all'evidenza di aver commesso degli errori, nascondersi dietro la scusa che una certa azione politica è stata messa in atto per questioni di "interesse nazionale". Chi potrebbe dimostrare il contrario? Nessuno, dato che il Governo centrale attribuisce a se stesso il diritto e il potere di disporre di ogni cosa secondo la propria opinione. O meglio, secondo il proprio interesse.
Ecco il punto cruciale della questione. Il supposto "interesse nazionale" altro non è che l'interesse di chi governa. E infatti, nella storia della Repubblica Italiana, l'interesse nazionale ha coinciso spesso (se non quasi sempre) con gli interessi di Roma e del Centro-Sud. Naturalmente non parliamo di interessi volti al progresso e al miglioramento: almeno quelli li avremmo potuti accettare, anche se pagati con le nostre tasse; no, parliamo di interessi di piccolo cabotaggio, tesi a costruire meccanismi di spartizione del denaro pubblico (cioè in gran parte lombardo) all'interno di una casta enorme, fatta di piccoli e grandi privilegiati.
I politici centro-meridionali, infatti, hanno occupato progressivamente i partiti e, attraverso di essi, hanno colonizzato le istituzioni, trasformandole in proprie agenzie private, dedite al clientelismo e allo spreco delle tasse raccolte soprattutto in Lombardia; i funzionari pubblici sono stati prevalentemente assunti fra i cittadini del Mezzogiorno, sicché gli apparati burocratici hanno acquisito una mentalità tendenzialmente borbonica, e cioè impermeabile alle esigenze di modernità, elasticità e dinamismo di cui avrebbero necessitato le imprese e i cittadini della nostra Regione.
Lo Stato italiano, dunque, è andato centro-meridionalizzandosi nel corso dei decenni seguiti al dopoguerra. In effetti, questa tendenza si era già manifestata in modo vistoso nella seconda metà dell'Ottocento, dopo l'unificazione guidata dai Savoia. Lo spostamento della Capitale a Roma e l'arruolamento di moltissimi funzionari ministeriali al Sud avevano suscitato, già allora, aspre polemiche al Nord e tensioni politiche di natura territoriale. Attorno agli anni 1894-6 era sorto a Milano un fortissimo movimento politico, favorevole alla secessione della Lombardia dall'Italia, il cosiddetto "Stato di Milano". Questa prima importante esperienza di secessionismo padano, e segnatamente lombardo, si era poi riassorbita, avendo ottenuto il successo di far cadere il Governo del siciliano Crispi, vero precursore del centralismo mussoliniano.
Passata, poi, la bufera della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, con in mezzo il Ventennio fascista e il relativo culto di Roma imperiale, con i noti esiti che ben conosciamo, la Repubblica Italiana ha continuato a spostare il baricentro della propria attenzione politica verso il Centro-Sud. Come abbiamo detto, protagonisti di questa involuzione sono stati i partiti, vere e proprie macchine di spartizione organizzata del potere e del denaro pubblico (cioè nostro).
In effetti, osservando le vicende storiche dell'Italia unita, è difficile individuare qualche grande (ma anche piccola) scelta delle istituzioni centrali che, nel nome dell'"interesse nazionale", abbia fatto realmente anche gli interessi della Lombardia. Bisogna semmai osservare che le conquiste della nostra Regione in campo economico, sociale, culturale sono prevalentemente avvenute nonostante l'Italia, e non certo grazie ad essa.

Consideriamo anche la questione dell'emigrazione dalle Regioni del Sud, che ha contribuito negli anni sessanta al rafforzamento dell'espansione industriale padana e lombarda e che viene spesso citata  come esempio di vantaggio ottenuto dal Nord grazie all’unificazione. Tralasciamo pure di considerare lo stress urbanistico e sociale generato da quel massiccio fenomeno migratorio, e dunque consideriamolo soltanto per i suoi lati positivi. Ebbene: si può affermare che quella emigrazione sia stata condotta a forza dallo Stato italiano, come avveniva in Unione Sovietica o in Cina? Certo che no. I tantissimi meridionali fuggiti dall'arretratezza culturale e, dunque, socio-economica del Mezzogiorno, per trovare nuove opportunità di vita al Nord, hanno intrapreso un cammino volontario di rinascita. Esattamente come tanti loro parenti, nonni, padri, fratelli hanno fatto andando negli Stati Uniti, in Australia o nell'Europa settentrionale (senza che ci fosse, ovviamente, alcun vincolo politico unitario fra quei Paesi e lo Stato italiano).
E' stata l'aria libera della Lombardia ad attrarre gli emigranti meridionali, non un decreto della Repubblica Italiana. Per cui il nostro ringraziamento va a chi ha scelto, con onestà e buona volontà, di fare della nostra Regione il proprio Paese adottivo. Non certamente allo Stato italiano, che ha semmai spesso contribuito a rendere più problematica la convivenza fra nativi e immigrati in Lombardia (si pensi all'istituto barbarico del confino, utilizzato per mandare mafiosi al Nord e buono soltanto per permettere loro di espandere la sfera del proprio controllo sui conterranei, che proprio dalla mafia erano fuggiti).
In altri termini, il fenomeno migratorio di massa dal Sud al Nord non ha niente a che vedere con l’Unità d’Italia, che infatti si è compiuta un secolo prima. E’ stato un fenomeno di natura prettamente socio-economica, non politica.

Ci sono, poi, casi recentissimi di danni provocati deliberatamente dalle istituzioni italiane alla Regione Lombardia. Il più eclatante è senza dubbio quello dell'aeroporto di Malpensa. Non staremo qui ora a ricostruire le vicende che hanno condotto alla nascita di questa importante infrastruttura padana: si tratta di passaggi complessi e delicati, che hanno evidenziato anche carenze da parte delle stesse classi dirigenti lombarde. Tuttavia le vicissitudini che hanno portato all'abbandono, di fatto, di Malpensa, da parte della compagnia di bandiera italiana, l'Alitalia, sono la dimostrazione di come l'Italia sia nemica della Lombardia. I governi di Roma che si sono succeduti nelle ultime legislature hanno fatto di tutto per salvare l'Alitalia da un fallimento certo e meritato. La compagnia è stata più volte ricapitalizzata con denaro fresco di origine pubblica, cioè con fondi prevalentemente raccolti in Lombardia. Si tenga presente che la gestione fallimentare di Alitalia è, in buona sostanza, il frutto del pesante condizionamento sindacale della sua dipendenza, quasi esclusivamente composta da cittadini laziali. L'Alitalia, ben lungi dall'essere compagnia di bandiera italiana, è semmai la compagnia di bandiera lazial-romana; oltre alla provenienza geografica del personale, lo dimostra il fatto che essa non ha la propria base là dove viene generato il maggior traffico aereo (cioè nella lombarda Malpensa), bensì là dove risiede la più parte dei dipendenti (cioè a Roma). Alitalia ha svolto il classico ruolo di carrozzone pubblico clientelare e sussidiato, fino alla definitiva crisi esplosa nel 2007.
Ebbene, nel corso del 2007, impossibilitato ormai a salvare per l'ennesima volta l'Alitalia con nuovi sussidi pubblici, il Governo italiano ha approvato la scelta della compagnia di privilegiare nettamente lo scalo romano di Fiumicino e, al contempo, di tagliare la maggior parte dei voli internazionali da Malpensa, con un danno economico e d'immagine facilmente immaginabile per il nostro aeroporto e per la nostra stessa Regione: si pensi soltanto al fatto che il taglio dei voli è arrivato il 1° aprile 2008 (e purtroppo non era uno scherzo), cioè esattamente il giorno dopo l'assegnazione dell'Expo 2015 a Milano, manifestazione che attirerà milioni di visitatori e turisti da tutto il mondo.
Ma il Governo, non contento di questa scelta scandalosa e contraria al buonsenso, ha osato contrattare con la compagnia francese Air France, disposta a "salvare" la cadaverica –e ormai romana ad ogni effetto- Alitalia, un accordo che avrebbe ucciso, di fatto, qualsiasi possibilità di sopravvivenza (e tantomeno di espansione) per la nostra Malpensa; il tutto allo scopo di soccorrere Alitalia e i suoi dipendenti, che sono il doppio di quanti una compagnia aerea con lo stesso traffico e gli stessi aerei dovrebbe avere.
L’accordo diabolico in questione prevedeva l’acquisizione di Alitalia da parte francese previo blocco di buona parte dei diritti di traffico di Malpensa. In parole povere: noi francesi salviamo la romana Alitalia, a patto che il Governo italiano impedisca a Malpensa di coprire con altri operatori i vuoti lasciati da Alitalia stessa.

Il caso Malpensa-Alitalia è paradigmatico in quanto dimostra che le istituzioni italiane sono disposte a nuocere deliberatamente alla Lombardia e allo stesso libero mercato, pur di garantire il posto di lavoro all'ennesima casta di pubblici dipendenti del Centro-Sud. Gabrio Casati, acuto osservatore della questione settentrionale, ha sintetizzato tale concetto con una formula: “Come si uccide un mercato per salvare un’azienda”.
Nel momento in cui scriviamo queste righe, la vicenda Malpensa-Alitalia è in pieno svolgimento e il cambio di governo appena avvenuto potrebbe condurre ad esiti diversi da quelli prefigurati dalle trattative imbastite dalla precedente maggioranza. Una cosa è probabilmente certa. Difficilmente lo Stato italiano costringerà Alitalia (cioè i suoi dipendenti laziali) a spostare la propria base a Malpensa e quindi, ancora una volta, la Regione Lombardia dovrà fare da sola per garantirsi la presenza di uno o più vettori aerei di livello intercontinentale nel proprio principale aeroporto.
Sia chiaro, la prospettiva non ci dispiace nè ci spaventa, perchè in fondo rappresenta un esempio pratico di secessione regionale spontanea in ambito economico; del resto molte compagnie in Europa e nel mondo guardano a Malpensa come ad una possibile propria base. Peccato che nel frattempo, in tutti questi anni, il contribuente lombardo abbia tenuto in piedi la fallimentare Alitalia e i suoi sprechi. Bell'affare l'unità d'Italia, altro che interesse nazionale.

La vicenda che abbiamo citato è l'esempio più noto e paradigmatico dell'inesistenza di un' "interesse nazionale italiano". Non c'è alcun fantomatico "comune destino" che giustifichi ancora la permanenza della nostra Regione all'interno dello Stato italiano. L'unico "comune destino" che la Lombardia può riconoscere è quello che essa condivide con tutte le altre Regioni d'Europa, senza che ci debba essere un rapporto esclusivo fra noi e l'Italia.
Possiamo stare a fianco dell'Italia in Europa, ma non possiamo più stare dentro l'Italia. Il rapporto di sottomissione giuridica e fiscale che ci vincola alla Repubblica Italiana è ormai antistorico e contrario ai nostri interessi socio-economici.

Se esistesse un autentico "interesse nazionale italiano", esso dovrebbe consistere, per forza di cose, nel far marciare a pieno ritmo il motore economico della Penisola, cioè, in particolare, la Lombardia. Invece abbiamo già visto, in precedenza, come la burocrazia ministeriale del Centro-Sud tenda, semmai, ad agire in senso esattamente opposto, boicottandoci. Ebbene, si tratta della stessa burocrazia che, per contro, non è nemmeno lontanamente in grado di controllare (o, forse, non vuole controllare) ciò che accade nelle Regioni del Mezzogiorno, dove interi quartieri abusivi vengono costruiti, dove le tasse vengono evase in massa, dove la criminalità è padrona del territorio. Ciò significa che lo Stato italiano è ormai divenuto l'agente e l’intermediario delle classi dirigenti politico-mafiose meridionali, che, dopo averlo occupato con assunzioni clientelari a pioggia nel corso degli ultimi decenni, se ne servono ora più che mai per spremere fiscalmente la Padania e, in particolare, la Regione Lombardia. Questa situazione sta diventando economicamente e socialmente insostenibile, nonché moralmente intollerabile: la Lombardia, infatti, si ritrova a dover competere sui mercati internazionali e nella stessa Unione Europea con una palla al piede pesantissima (il Sud) e con un braccio legato dietro la schiena (Roma con le sue burocrazie).
A quante opportunità economiche e sociali stiamo rinunciando per colpa di questa finta solidarietà fiscale al Sud che non è altro se non un vero spreco di risorse? Quanti danni stiamo subendo, a causa della mancanza di un reale autogoverno?

Le considerazioni che abbiamo svolto, partendo dalla questione dell'interesse nazionale, ci portano ad una conclusione. Dobbiamo prendere atto che non esiste più da tempo quel mondo in cui Milano si illudeva di andare a Roma per governare l'Italia e “milanesizzarla”, o “padanizzarla”. Quel mondo è finito perchè quell'illusione si è disvelata ai nostri occhi. Quando Milano va a Roma è quest'ultima a prevalere, nelle coscienze e nei cuori dei nostri rappresentanti. E' sempre successo così e non abbiamo motivo di credere che le cose cambino improvvisamente. Roma corrompe e, ad andar bene, annacqua in modo irrimediabile lo spirito riformatore e progressista di Milano, della Lombardia, del Nord.
E poi, ammettiamolo, l'illusione di portare un po' di Milano e della sua vocazione imprenditoriale e di buona amministrazione pubblica a Roma è anche figlia di una visione provinciale. Fino a quando Milano si sentirà provincia e percepirà Roma come punto di riferimento, quantomeno politico, le cose non potranno migliorare davvero per noi lombardi. Non basta che a Milano non ci sia una "Via Roma"; bisogna che da Roma e dalla sua palude politico-ministeriale si vada via per davvero. Noi lombardi dobbiamo capire una volta per tutte che, oggi più che mai, è Milano, è la nostra Regione-metropoli uno dei centri economici e propulsivi dell'intero pianeta. Il nostro riferimento non è la città papalina che, per un caso della storia, è divenuta Capitale d'Italia; il nostro vero riferimento è il mercato globale, che disegna un mondo policentrico, nel quale intrecciano relazioni e scambi, direttamente fra loro, le capitali planetarie dell'eccellenza nel commercio, nelle scienze, nella qualità, nella capacità di integrare persone e culture differenti. In questo contesto ogni centro, ogni capitale dell'eccellenza, fra cui la nostra Milano, ormai divenuta vera e propria città-regione, si contende il primato con le altre a colpi di innovazioni e progressi.

Ma come possiamo seriamente credere di giocare ad armi pari in un mondo così globalizzato, dinamico e competitivo, fino a quando saremo subordinati per legge ai capricci e alla burocrazia arretrata di Roma e del Sud?
E' questa, dunque, la sfida che abbiamo davanti a noi: riuscire a superare finalmente quel complesso di inferiorità, privo di senso e completamente infondato, che ci fa pensare di dover far parte dello Stato unitario italiano per poter contare nel mondo; dobbiamo superare il concetto di Unità d'Italia, per essere, se lo vorremo, italiani per lingua, cultura e stile, ma lombardi per Stato e istituzioni.