Intervista a Joe Strummer

di Paolo Vites

(da JAM 74)

Johnny va in skateboard

Nel 1977 i Clash rubarono ai Sex Pistols la leadership della scena punk e fuggirono per campi disseminati di rock’n’roll, reggae, dub, musica dance e jazz. Lanciarono un segnale di rivolta che incendiò una generazione. Poi, com’erano giunti, sparirono nel nulla. Joe Strummer ne era la figura più rappresentativa e per anni abbiamo creduto di averlo perso per sempre, vista la sua latitanza dalla scena musicale. Ma è tornato, finalmente, per raccontarci le nuove avventure di Johnny Appleseed e di una radio che non la smette di trasmettere. È una radio "globale". A go-go.

È un vero terremoto, Joe Strummer. Non sta fermo un secondo, attacca cinque discorsi diversi contemporaneamente, fuma, beve, si agita.

Quando arrivo all’hotel milanese dove devo incontrarlo sono un po’ in anticipo, così capito nel bel mezzo di un set televisivo sistemato nella hall. Intervistano Joe Strummer, o meglio, stanno cercando di intervistarlo, perché lui tira scemi tutti, aprendo e chiudendo una tendina alle sue spalle per mostrare la via con la gente e il traffico che passa ("Così quando si stufano di vedere me possono guardare le persone che passano", dice), continuando a spostare la copertina del disco in modo che sia ben visibile davanti alla telecamera ("Se non ne approfitto per fare un po’ di pubblicità…", commenta).

La scena si ripete dopo, quando ci incontriamo in una saletta: si scusa ripetutamente se puzza un po’ (è un problema che sembra assillarlo più del dovuto: "Sai, quando si è in giro e si viaggia, si puzza, ma scusami davvero…"), continua a guardare e a toccare affascinato il mio registratore ("Ehi, è fantastico… Che modello è? Ogni volta che inventano qualcosa di buono, smettono di fabbricarlo… Quando capiscono di aver fatto una cosa perfetta, dovrebbero continuare a produrla… È sempre meglio comprare due copie di ogni cosa oggigiorno"). A un certo punto, mentre parliamo, si sfila gli stivali, li getta via infastidito e rimane in calzettoni. Con me c’è una ragazza che non si scompone più di tanto: "Almeno ha fatto un gesto da vero punk", commenterà dopo.

Be’, Joe Strummer non è più un punk, se mai lo è stato. Non ho mai considerato i Clash un gruppo punk, anche se forse ne avevano l’attitudine (ma allora erano punk anche Beatles, Rolling Stones e Bob Dylan, negli anni Sessanta). Per me i Clash sono sempre stati una grande, grandissima rock’n’roll band, nella più perfetta tradizione di Rolling Stones e Who. Contemporanei di Bruce Springsteen, che si dava da fare sull’altra sponda dell’Atlantico, hanno assolto allo stesso compito cui ha assolto appunto Springsteen, e cioè salvare il rock’n’roll. E salvarlo ha voluto dire salvarlo anche dal punk che, per quanto buono sia stato, non è mai stato in grado di far un gran bel servizio al rock, intrappolato come fu sin da subito negli slogan e nella ripetitività di una formula che non poteva avere vita lunga. Ci voleva gente capace di far schizzare in piedi uno stadio con brani come I Fought The Law, Tommy Gun, Should I Stay Or Should I Go, London Calling per salvare il rock’n’roll in quei giorni, non certo God Save The Queen dei Sex Pistols. E i Clash di stadi ne hanno fatti schizzare in piedi parecchi.

Fino a due anni fa Joe Strummer era un autentico desaparecido del rock, comunque. Dopo un solo episodio solistico del 1989, Earthquake Weather, e qualche colonna sonora, più nulla. Poi quel Rock Art And The X-Ray Style con questa nuova band, i Mescaleros, che non era stato certo un gran bel ritorno. Anzi. E oggi finalmente un disco degno del suo nome, Global A Go-Go (vedi JAM 73).

Decisamente ingrassato ma sempre con quella pettinatura rockabilly che l’ha reso famoso, Strummer, nonostante sia un gran casinaro, ha le idee chiare e decifrando il fiume di parole che ti getta addosso viene fuori il ritratto di un gran bel personaggio. Che ha molte cose ancora da dire e che ha un solo problema, sembra: i Clash. Un passato che, dice lui, "mi fa veramente paura. Non sono ancora in grado di affrontarlo". Gli crediamo, perché non deve essere un compito da poco portare sulle spalle una tale leggenda che, a quelli della mia età che erano ragazzi quando i Clash erano attivi, ci ha fatto dire con orgoglio e sicurezza ai nostri fratelli maggiori: "Anche noi abbiamo i nostri Rolling Stones. Si chiamano Clash". I Clash ci hanno dato una identità, in un periodo storico, la fine degli anni Settanta, che sembrava non offrirci nulla se non un’ipotesi di fallimento.

Fosse solo per questo, saremo sempre grati a uno come Joe Strummer.

Come è stato l’approccio alla lavorazione del nuovo disco? Differente da quello di Rock Art?

È stato un approccio totalmente differente. Prima di tutto ci siamo ritrovati in studio per puro caso. Non avevamo nulla, nessuna canzone, nessun testo, nessuna idea, nessuna direzione. Ma non avevamo neanche paura. Eravamo anche in uno stato d’animo particolare, perché il precedente disco, Rock Art, non aveva avuto alcun riscontro. Nella mia testa, questa volta, c’era la paura che questa poteva essere l’ultima occasione della mia vita di fare un disco. Ma alla fine quello che è contato veramente, quando ci siamo trovati in studio, è che noi ci divertiamo un sacco. I Mescaleros amano far musica e quindi abbiamo pensato: all’inferno tutto quanto. C’è una forte dose di spontaneità, in questo disco, ci siamo noi stessi… Per me questo disco è una delle cose migliori a cui abbia mai partecipato in tutta la mia carriera. Soprattutto per il modo in cui abbiamo lavorato, assolutamente in comune, senza ego e quant’altro.

Però si sente un maggior lavoro di produzione, di attenzione ai dettagli, un’incredibile ricchezza di stili musicali diversi fra loro rispetto a Rock Art…

Credo di sì, anche se è avvenuto in modo assolutamente spontaneo. I Mescaleros sono davvero dei bravi musicisti, per rendere le cose interessanti a loro stessi, ognuno di loro fa delle cose diverse, suona stili diversi. Pensa che l’ultimo arrivato in studio, il violinista Tymon Dogg (vecchio amico di Strummer, ndr), ha aggiunto il suo tocco a lavoro già finito, con quelle stupende melodie zingare, celtiche, egiziane. È stato il tocco finale che ha portato il tutto in una nuova dimensione. La combinazione di tutti questi elementi in uno solo è nata grazie a questi musicisti, non è merito mio.

Perché Global A Go-Go? Che messaggio c’è in questo titolo?

Global A Go-Go è una canzone che parla di una radio che trasmette a tutto il mondo. Una radio che lancia segnali di stili musicali diversi a qualunque latitudine. Dopo averla registrata, però, mentre ne osservavo il titolo, ho cominciato a scoprire significati differenti. Ad esempio la globalizzazione economica del mondo, oppure il fatto che alla fine della fiera viviamo tutti su di un solo pianeta. Mi piace ognuno di questi significati, ma soprattutto Global A Go-Go per me significa "Cominciamo a pensare globalmente". Poi mi sono anche detto: ottimo titolo, ci sarà più gente che comprerà il disco perché questa è una parola oggi di moda.

Cosa ne pensi del movimento anti-globalizzazione, allora?

Credo stiano dicendo le cose più intelligenti che si sentono in giro oggigiorno. Sono cose cui dovremmo prestare più attenzione, nel giro di poco tempo potrebbero rivelarsi più importanti di quello che crediamo.

Eppure i tuoi testi, quelli del nuovo disco, sono molto meno politicizzati di quanto fossero un tempo…

Oggi ragiono in modo diverso di quando ero più giovane. Ho ancora delle idee radicali, ma a una certa età devi venire a patti con il mondo. Diventi più maturo, non hai più il tempo necessario per pensare a tutto quello che succede: una volta pensavo di entrare dritto sparato nel mondo, oggi penso di aggirarlo, di passarci sopra. Quando sei giovane ti spacchi la testa contro il muro. Oggi cerco di pensare alle cose da un punto di vista più complesso, direi più intelligente, più sottile, ma sempre pericoloso. Credo anzi sia ancora più pericoloso, perché non sembra lo sia. Quando sei in un gruppo punk, ti metti a urlare ‘HEYYY’. A un certo punto ti stanchi di urlare. Preferisci sussurrare, è più eccitante, è diverso…

Cosa ne pensi di questa generazione? Dei giovani punk che ci sono oggi, voglio dire…

Non c’è molta gente che pensa che l’ultima generazione sia qualcosa di buono. Io la chiamo la generazione dello skateboard… credo che stiano comunicando qualcosa. Se guardi uno skateboard pensi: "È solo uno skateboard", ma invece comunica qualcosa. Ad esempio il modo in cui questi giovani vorrebbero che fosse il mondo. Camminare per loro è troppo noioso, ecco perché usano lo skateboard! Pensano che avere delle ali sia meglio, e hanno ragione. Fanno surf nell’aria con questo skateboard perché vorrebbero avere le ali, è stata la musica punk che ha dato inizio a tutto questo, che ha inventato la cultura dello skateboard. Solo per il fatto che usano lo skateboard, essi stanno cercando di comunicare qualcosa, che vogliono essere più vicini al cielo… Sono cose nate vent’anni fa in California, ma solo recentemente ho cominciato a capire che sotto c’è qualcosa… Forse dovrei comprarmi uno skateboard!

Chi è Johnny Appleseed, che dà il titolo alla prima canzone del nuovo disco?

C’è una storia che si tramanda a proposito di Johnny Appleseed. Forse è solo un mito o una leggenda, comunque… Tra i primi coloni giunti in America dall’Inghilterra c’era un tale che si chiamava Johnny Appleseed. Aveva una sacca sulle spalle e andava in giro per i boschi, si gettava dietro le spalle dei semi così che la gente che fosse giunta anni dopo di lui avrebbe trovato questi semi, avrebbe mangiato le mele che ne erano cresciute e non sarebbe morta di fame.

Negli anni Sessanta, durante l’epoca degli hippie, si raccontava invece quest’altra storia, a proposito di un altro Johnny Appleseed che camminava lungo le strade americane con una sacca di semi di marijuana sulle spalle, così che la marijuana crescesse ovunque e fosse disponibile a tutti. Credo che questa storia sia piuttosto fondata, che qualcuno, prendendo ispirazione dall’antico Appleseed, sia veramente andato in giro a spargere semi di marijuana.

Queste due storie mi sono sempre piaciute molto, mi sono state nella testa per molto tempo, e non so dirti perché mi è venuta fuori una canzone proprio adesso.

Qualche anno fa hai partecipato al tributo a Jack Kerouac, Kicks Joy Darkness. Quanto è importante per te la letteratura beat?

Sono assolutamente affascinato dalla poesia beat, dai beatnik, tutto quello che sono è cominciato grazie alla mia passione per questi personaggi e il loro lavoro. Ho paura di ammettere che sono del tutto ossessionato da questa cosa. Non c’è particolare, anche il più insignificante, che io non voglia apprendere a proposito dei beat, potrei leggere anche un libro che parla dei gatti che appartenevano a queste persone…

Nel brano di Kerouac che mi proposero per il tributo si sentiva la voce di Frank Sinatra che cantava Stranger In The Night uscire da un jukebox in sottofondo. I tipi della Rykodisc, per paura di venir querelati dalla casa discografica di Sinatra, mi chiesero di coprire la sua voce con della musica… E mi ritrovai nel cuore della notte a inventarmi qualcosa… per non essere denunciati dalla mafia!

Recentemente, con i tuoi Mescaleros, hai fatto dei concerti con gli Who. Che tipo di esperienza è stata?

Abbiamo fatto qualche data in Inghilterra, è stato bello ma non è il mio genere di cosa… Questo pubblico così disciplinato, tutti in ordine, vietato fumare, vietato bere birra… Divertente come andare a vedere una partita di hockey… È quasi impossibile creare l’atmosfera giusta in queste situazioni.

Cosa ne pensi di un gruppo come i Rage Against The Machine? Penso che abbiano più di qualcosa in comune con i Clash…

Oh sì, credo anch’io che i RATM siano davvero simili ai Clash… Parlano di quel tipo di problematiche di cui cantavamo anche noi. Li ho visti la prima volta in Giappone, al Fuji Rock Festival, nel 1996, e mi piacquero un casino. Ho cominciato ad ascoltarli e adesso che li apprezzavo veramente, il cantante se ne è andato… Tipico! Ogni volta che mi piace qualcosa, bang!, finito!

E dei gruppi punk attuali cosa pensi?

Sono il protettore ufficiale di tutti i giovani gruppi punk: guai a voi se dite qualcosa di male contro i giovani musicisti punk! Da quando vado in giro con i Mescaleros mi è capitato di dividere il palco con alcune di queste band, gli Offspring, i Blink 182, i Sick Of It All, ho potuto osservarli e studiarli stando sul palco e mi piacciono davvero. Fanno del loro meglio, sono felice che ci siano gruppi così, non posso immaginare un mondo senza giovani gruppi punk. Che altro rimarrebbe di eccitante nella musica?

Vent’anni fa, con i Clash, cantavi: "La stupida beatlemania è finalmente finita nel fango". Vent’anni dopo i Beatles sono più che mai sulla cresta dell’onda. Non ci libereremo mai di loro?

(Scoppia a ridere, nda) Mi piacciono i Beatles. Sono sempre stato curioso di ogni cosa che riguarda i Beatles. C’è gente che oggi li definisce spazzatura, ma dire una cosa del genere per me è peggio che insultare il Papa… è un sacrilegio! Se ascolti i loro dischi… è tutta roba fantastica. In Inghilterra si discute ancora di cose come ‘Sì erano bravi ma non sapevano suonare dal vivo’. Può darsi, non lo so, ero troppo giovane per averli potuti vedere quando si esibivano dal vivo, per cui non lo so, ma gente, se ascolti i loro dischi… Erano davvero eccezionali.

Hai preso parte alla preparazione del recente disco dal vivo dei Clash?

No, quel tipo di cose mi fa paura. Il passato mi fa paura. È troppo traumatico ascoltare i Clash dal vivo… Non voglio avere una specie di flashback da Vietnam… Credo sia una cosa pericolosa. Ma un giorno, spero, ci riuscirò.

Però dal vivo fai dei brani dei Clash, no?

Sì, però questa volta suoneremo cose dei Clash che neanche i Clash hanno mai suonato dal vivo. Le cose più strane di dischi come Sandinista… I Mescaleros muoiono dalla voglia di suonare qualche canzone dei Clash… e se poi non suono qualcosa dei Clash la gente che ci viene ad ascoltare si incazza!

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