UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA "LA SAPIENZA’’ ANNO ACCADEMICO 96/97 TESI DI LAUREA:
GLI APPORTI DI JOHN BOWLBY ALLA PSICOPATOLOGIA E PSICHIATRIA INGLESI NEGLI ANNI SETTANTA.
Relatore: Correlatore: Prof. Nino Dazzi Prof. Paolo Cruciani
Laureanda: Barbara Buralli. Matricola 15166983
La storia gratta il fondo come una rete a strascico con qualche strappo e più di un pesce sfugge. Qualche volta si incontra l’ectoplasma d’uno scampato e non sembra particolarmente felice. Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato. Gli altri, nel sacco, si credono più liberi di lui. (da Satura, Eugenio Montale, 1962-1970)
INTRODUZIONE...................................................................pag. 5 CAPITOLO 1 L’INFLUENZA DI JOHN BOWLBY NEL MOVIMENTO PSICOANALITICO INGLESE. 1.1 L’evoluzione della psichiatria infantile infantile in Gran Bretagna : il contesto storico del ventesimo secolo..........................................pag. 7 1.2 Il rilievo della situazione reale nella genesi della psicopatologia.................................................................................pag. 25 1.2.1 Le reazioni della Società Psicoanalitica alla Teoria dell’Attaccamento...........................................................................pag. 37
CAPITOLO 2 I CONTRIBUTI DELLA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO ALLA PSICHIATRIA E PSICOTERAPIA INFANTILE
2.1. Le modificazioni apportate da Bowlby alla pratica psichiatrica infantile...........................................................................................pag. 57 2.2. La revisione del concetto di deprivazione materna. .........pag. 68 2.3. Gli studi longitudinali quali precursori del modello relazionale della psichiatria.......................................................................................pag. 87 2.2.1 Il ruolo della clinica Tavistock nell’espressione del movimento anti-psichiatrico......................................................................................pag. 104 2.3 Gli studi a trasmissione intergenerazionale.......................pag. 118 CAPITOLO 3 GLI EFFETTI NELL’APPLICAZIONE CLINICA: DEPRESSIONE E AGORAFOBIA. 3.1. L’interpretazione del sintomo agorafobico nell’interazione familiare patogena..........................................................................................pag. 139 3.1.1. La funzione della perdita e delle minacce di abbandono nell’eziologia del disturbo..............................................................pag. 152 3.2. La depressione..................................... ...................................pag. 158 3.2.1. La personalità dipendente nella sindrome depressiva ....pag. 170 3.2.2. Il sintomo nel rapporto di coppia......................................pag. 173 3.2.3. Il terapeuta come base sicura............................................pag. 175
CONCLUSIONI....................................................................pag. 180
INTRODUZIONE
Il proponimento primo della tesi da noi formulata è quello di rendere manifesto il percorso che ha visto l’esordio dei concetti legati alla Teoria dell’Attaccamento, frutto dell’opera dello psichiatra inglese John Bowlby. L’elaborato si dirige quindi verso la descrizione delle formulazioni legate al decennio che va dalla fine degli anni sessanta (momento di ingresso del paradigma bowlbiano nel mondo scientifico) per estendersi agli anni settanta, fino ai primi anni ottanta, in virtù del rilievo assunto dalla stessa teoria nella definizione eziologica della sindrome depressiva e agorafobica. L’analisi evidenzia dunque, nel primo capitolo, il passaggio da una chiara impronta psicoanalitica (kleiniana soprattutto) ad una preferenza per un approccio di tipo relazionale. L’interesse è accordato in seguito all’attenzione espressa da Bowlby per le situazioni reali nelle quali il bambino si trova ad essere coinvolto che, secondo l’opinione dello scienziato, prevaricano l’importanza attribuita alle fantasie libidiche e aggressive nella eziologia del disturbo nevrotico e psicotico. La visione di Bowlby è destinata a scatenare una controversia di non facile risoluzione, che conduce la Società Psicoanalitica a ritenere lo psichiatra una sorta di "analista minore" (come viene definito da Jeremy Holmes) all’interno del circolo scientifico. Le reazioni del movimento psicoanalitico stesso attivano una riflessione che condurrà John Bowlby ad allontanarsi definitivamente dalle tematiche psicoanalitiche per instradarsi verso l’approfondimento dei concetti relazionali. E’ questo quanto analizzato nel secondo capitolo della nostra tesi. Al proposito, vengono prese in considerazione le aree principali nelle quali la Teoria dell’Attaccamento ha verificato le sue applicazioni. Dopo un breve paragrafo introduttivo in cui si illustrano il carattere propositivo e programmatico del paradigma discusso, l’attenzione si concentra sulla revisione del concetto di deprivazione materna, sugli studi longitudinali promossi e sugli studi a trasmissione intergenerazionale del disturbo psicopatologico. L’Inghilterra degli anni settanta e la clinica Tavistock, in particolare, sono inoltre testimoni attivi del movimento anti-psichiatrico, "figlio naturale" della filosofia esistenzialista e voce forte e distinta di una nuova dottrina terapeutica. E’ quindi sottinteso che ci è sembrato indiscutibilmente necessario accennarvi; in virtù del rilievo storico che tale movimento ha assunto e, soprattutto, in funzione del modello relazionale ivi ridefinito. Il capitolo affronta dunque quelle che sono state le critiche maggiormente dibattute nei confronti della "separazione" e delle annesse ipotesi bowlbiane, nonchè degli effetti conseguenti. In ultima analisi, si è voluto concentrare l’attenzione del nostro elaborato a due sindromi specifiche che Bowlby individua come ampiamente interconnesse: la depressione e l’agorafobia. L’osservazione proposta indaga le possibili componenti relazionali, così come evidenziato da Bowlby nella trilogia "Attaccamento e perdita", concentrando l’interesse sugli effetti dei modelli patogeni di interazione familiare ed, in particolare, sulla relazione invertita genitore-figlio e sugli effetti dell’iperprotezione, in relazione al controllo esercitato dalle figure parentali sui pazienti. Di assoluto rilievo, emergono gli studi avviati negli anni settanta riguardanti il ruolo della perdita di persone emotivamente significative durante l’infanzia, nonchè quelli sulle minacce di abbandono e sulle conseguenze attivate in tal senso. L’elaborato si conclude citando la diatriba riguardante l’interpretazione del concetto di dipendenza e la sua funzione nella possibile evoluzione della sindrome depressiva, in conseguenza dell’originale prospettiva di indagine assunta da Bowlby nella rivalutazione della connotazione positiva della dipendenza stessa. In ultima istanza, si è voluto far riferimento alla figura del terapeuta quale base sicura attraverso la quale il paziente può iniziare il tentativo di ricostruire un rapporto corretto con immagini interiori distorte e frustanti, al fine di esprimere liberamente la creatività ed il benessere connesso ad un attaccamento ritenuto sicuro.
CAPITOLO 1 1.1. L’evoluzione della psichiatria infantile in Gran Bretagna : il contesto storico del ventesimo secolo . Focalizzare l’attenzione sulla psichiatria infantile inglese significa instradarsi in un percorso relativamente breve (Hersov, 1986,pag.781). Il bambino nella tradizione psichiatrica classica non occupa una posizione privilegiata; infatti, l’attenzione nei confronti del disagio mentale sembra appartenere esclusivamente al soggetto adulto, quasi a creare una sorta di vuoto tra i vissuti interiori infantili e quelli dell’età matura . Alexander Walk, nel suo articolo : "The Pre - History of Child Psychiatry" (Walk,1964) evidenzia come la letteratura scientifica dei secoli antecedenti il ventesimo dedichi un margine di interesse al bambino, soprattutto relativamente all’epilessia, ai disturbi del sonno ed ai fenomeni delinquenziali. I casi registrati inerenti al disagio infantile sono, ad ogni modo, troppo rari per includervi riferimenti all’interno di manuali psichiatrici e l’accordo riguardante l’eziologia dei disturbi risulta essere estremamente scarso. I primi manuali che individuano il bambino quale portatore di un disagio mentale risalgono al 1852, con i lavori di Robert Ellis e Charles West, il quale include all’interno della sua opera:"Lectures on the Diseases of Infancy and Childhood" un capitolo riguardante il terrore notturno infantile (cit.in Walk, 1964). Tra i contributi più significativi alla definizione dell’importanza della vita psichica nel fanciullo ricordiamo l’opera di Henry Maudsley . Nel testo "The Pathology of Mind", pubblicato nel 1895, egli dedica un intero capitolo a "The Insanity of Early Life", ponendo buona parte dell’attenzione alla classificazione delle psicosi infantili (Lewis, 1951). L’evoluzione del concetto di malattia mentale risponde, in questi anni, alla visione positivista; la "follia" si inserisce all’interno di un modello medico in cui il "malato di mente" è soggiogato all’interno di "entità" patologiche suscettibili di prognosi, etichettamenti e rigide classificazioni (Foucault, 1963). Il nuovo modello medico-positivista di malattia mentale non lascia spazi: così come una malattia infettiva può produrre macchie rosse sulla pelle, la malattia mentale produce sintomi psichiatrici ( Jervis ,1975, p. 46 ). L’interesse nei confronti del disturbo mentale infantile è comunque ancora incerto; secondo le concezioni dominanti gli inizi del secolo, il malessere psichico non si presenta prima della pubertà. Ad un livello teorico, si crede che la mente del bambino sia troppo instabile per poter generare disturbi cerebrali di lunga durata ed un’eziologia a carattere organico è largamente preferita ad una motivazione psicologica scatenante il disturbo (Chess, 1988). L’ingresso nel ventesimo secolo si caratterizza per un incremento verso le esigenze individuali dei bambini considerati "difficili", con ritardi mentali o handicaps, che conduce allo sviluppo di forme di psicologia denominate educative. Nell’articolo : "The History of Child and Adolescent Psychiatry : Its Present Day Relevance", Parry Jones riferisce di una serie di servizi medico- scolastici, fondati nel 1907 e destinati, grazie alla presenza di un nuovo corpo di medici, all’indagine scientifica di un’area concernente i difetti ed i disordini dell’infanzia (ibidem,1989). L’approfondimento scientifico inerente al bambino attraverso metodi psicologici, sociologici ed antropometrici fu promosso dal British Child Study Association, fondata da Sully nel 1893 (cit. in Parry Jones, 1989,pag.7) Gli anni venti si distinguono per un forte interessamento nei confronti del bambino quale custode di un disagio psichico passibile di trasformarsi in una patologia nell’individuo adulto. Il Child Guidance Movement diviene l’estrinsecazione del nuovo orientamento culturale e scientifico; il movimento, nato inizialmente negli Stati Uniti e diffusosi rapidamente in Europa, esprime l’intento di forgiare una forma di collaborazione interdisciplinare tra psicologi, psichiatri e operatori sociali, nel tentativo di occuparsi della cura e del supporto psicologico ai bambini (Hersov, 1986). Operativamente, il movimento si trasforma nella creazione di una serie di cliniche destinate ad ospitare i nuovi piccoli pazienti. Nel 1927 nasce la East London Child Guidance Clinic, il cui direttore onorario è Emanuel Miller, uno dei fondatori della Association of Child Psychology and Psychiatry and Allied Discipline. Il nome di Miller riveste un’importanza particolare nello sviluppo della psichiatria infantile in Inghilterra, sia per l’attività legata all’Est London Child Guidance Clinic, sia per la direzione, negli anni che vanno dal 1933 al 1938, della clinica Tavistock. Egli è tra i primi a riconoscere l’importanza delle difficoltà psichiche genitoriali nell’evoluzione della patologia infantile. In virtù di una simile visione scientifica, la clinica Tavistock includerà un tipo di trattamento che ricorda una primordiale terapia della famiglia e che John Bowlby, qualche anno più tardi, riconoscerà quale forma di trattamento del disturbo infantile (cit.in Hersov, 1986, p. 786). La figura di Emanuel Miller si lega alla accettazione dell’importanza dei processi biologici nello sviluppo infantile e contemporaneamente alla critica ad alcuni aspetti della teoria psicoanalitica. La discussione di Miller riguardo "l’approccio multidisciplinare" è considerata uno dei quadri maggiormente pionieristici nel campo delle "child guidances" (Miller, 1968). Agli inizi del secolo, comunque, questo tipo di ricovero non adempie alla cura e al trattamento della malattia psichiatrica; si limita, infatti, ad un sostegno finalizzato ad un migliore adattamento dell’individuo al suo ambiente di vita quotidiano. Negli anni che seguono, i servizi delegati al riconoscimento del disagio infantile acquistano una consistenza determinante; dal 1923, il Maudsley Hospital si attiva a favore dell’infanzia. A Islington, nel 1928, il London Child Guidance Centre, più tardi conosciuto come London Child Guidance Clinic, inizia la sua attività (Hersov, 1986). Dal 1927, l’espansione delle London Child Guidance Clinics assume proporzioni numericamente rilevanti. Le Child Guidances sono spesso fondate con l’aiuto di mani caritatevoli, opere di volontari e sostenute economicamente da autorità locali.L’ospedalizzazione, all’interno di esse, non è praticata con regolarità. Il concetto di team inteso come collaborazione volta allo sviluppo di un "lavoro di squadra" tra psicologi, psichiatri e operatori sociali assume un’importanza notevole; secondo Rutter, infatti, esso: ha influenzato la pratica corrente della psichiatria generale ed è, ormai, ritenuto un sistema di approccio molto comune nel lavoro psichiatrico con i bambini e le loro famiglie. (Hersov, 1986, p. 782). La vera innovazione nella psichiatria dei primi decenni del ventesimo secolo è apportata dall’introduzione, ed il susseguente sviluppo, della ideologia legata alla visione freudiana che ridefinisce, in maniera radicale, i presupposti sui quali è andata costituendosi la tradizione psichiatrica classica, modificandone le stesse basi teoriche. E’ stato Freud che ha portato, forse, il più fiero attacco alla psichiatria ad impronta somatica, quando ha sottolineato il significato di determinati fattori psicologici, emotivi ed irrazionali, nella genesi di svariate forme psicopatologiche .Freud ha amplificato le dimensioni della personalità psichica dell’uomo, quando ha riconosciuto che il suo mondo psichico non è racchiuso soltanto nei confini del raziocinio e della volontà cosciente di un Io, ma si erige anche sopra attività extra coscienti, sopra un fondo di dinamismi inconsci, dove convergono l’irrazionale, il primitivo, il represso, il dimenticato . (Rossini, 1977, p. 16) Come sottolineato da Jervis, inoltre, grazie alle idee psicoanalitiche evidenziate da Freud, il modello medico della malattia mentale legato a una predisposizione ereditaria, alla degenerazione biologica e ad ignote affezioni a carattere progressivo della stessa mente umana, inizia a subire un lento declino, che finirà col condurlo ad una crisi decisiva (Jervis, 1975). Nel 1933, il termine "Child Psychiatry" appare per la prima volta nel Regno Unito e nel 1937 viene ufficialmente insignito quale portavoce di una nuova disciplina scientifica. L’anno 1939 si apre con un importante riconoscimento: il Feversham Committee propone una revisione dei servizi per la salute mentale e, per la prima volta nella storia, vi include quelli per i bambini. In questo senso, viene richiesta una separazione radicale dei servizi psichiatrici infantili da quelli per gli individui adulti. E’ l’inizio di una nuova era scientifica che vede la psichiatria infantile quale settore di specializzazione indipendente, la cui definizione è ancora completamente da strutturarsi. La psicoanalisi sposta l’interesse verso il mondo segreto delle dinamiche intrapsichiche e verso i fattori interpersonali da cui il disagio mentale origina. Si palesa, dunque, l’esistenza di un legame sottile nella natura dei disturbi emotivi, capace di legare la vita interiore del bambino a quella dell’adulto. Per cui, il disturbo mentale manifestantesi in età matura non è che l’evoluzione di una patologia infantile la quale non ha avuto modo di essere elaborata mentalmente nella maniera più adeguata e che, quindi, ha cercato nella manifestazione del sintomo stesso un canale teso alla comunicazione del malessere psichico. Il 1939, con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, costituisce un periodo di profonde e drammatiche modificazioni. I bambini vengono sfollati, separati dalle loro famiglie e lasciati soli nelle grandi città e nei villaggi (Burligham & Freud, 1942). Le difficoltà di adattamento alle esigenze di una quotidianità incerta contribuiscono alla manifestazione di una grande varietà di disturbi emotivi. I bambini sopravvissuti ai bombardamenti, spesso, sono costretti ad inserirsi all’interno di nuovi nuclei familiari con caratteristiche e abitudini molto diverse, nella maggior parte dei casi, da quelle in cui i ragazzi erano inseriti nel periodo antecedente il conflitto bellico. Le osservazioni di Anna Freud e Dorothy Burlingham, riguardanti i bambini separati dalle loro famiglie, informano i professionisti del settore sulla gravità dei disturbi emotivi manifestati dai fanciulli (Hellman, 1983). Nell’articolo della Hellman dedicato al lavoro nelle strutture denominate "Hampstead war Nurseries" (fondate da Anna Freud), si pone l’accento sull’effetto patogeno della separazione dei fanciulli dalle loro madri: si centra l’origine delle problematiche infantili all’interno della distruzione della vita familiare, nelle reazioni alla separazione, seppure parziale, dei bambini dalle loro madri, nella risposta a figure materne sostitutive, negli effetti della vita gruppale e nella quasi totale assenza di relazioni con figure maschili (Hellmann, 1983, p. 436). Le conseguenze inerenti la separazione, sia fisica che psichica nella vita dei bambini, sono denunciate, in toni drammatici e provocatori, dallo psichiatra inglese John Bowlby il quale, già dall’epoca del Primo Conflitto Mondiale, sta concentrando il suo interesse sugli effetti della separazione nella formazione della personalità adulta ( Newcombe & Lerner, 1982 ). Gli anni al London Child Guidance Clinic, antecedenti la Seconda Guerra Mondiale, lo esortano ad indirizzare un forte interesse scientifico alle esperienze reali che i bambini hanno con le loro famiglie; in particolare, con le figure di grande valenza emotiva. La conclusione del conflitto mondiale e l’avvento del National Health Service, nel 1948 (cit. in Hersov, 1986), assistono un rinnovato supporto finanziario ad un nuovo tipo di struttura per l’infanzia : gli Hospital - Based Services. Il panorama psichiatrico del dopo guerra offre quindi due tipi prevalenti di servizi delegati ai bambini: le "Child Guidance Clinic" e gli "Hospital - Based Services", molto vicini a vere e proprie cliniche psichiatriche e in stretto contatto con gli altri servizi ospedalieri e pediatrici. Il decennio che conduce agli anni sessanta è impregnato da innumerevoli discussioni su quali direzioni i servizi debbano prendere e come sia possibile curarne l’amministrazione. The Underwood Report, pubblicato nel 1955, si presenta quale vettore della polemica inerente i meriti ed i demeriti dei due tipi di servizi. Negli anni cinquanta, l’interesse della psichiatria inglese si scinde in due grandi aree ideologiche; gli approcci adottati individuano fondamentalmente un indirizzo di pensiero vicino ad una visione "psicopatologica" ed un altro tipo di approccio a carattere "psicobiologico". Più in particolare, le personalità che aderiscono al primo ordine di idee identificano nella vita emotiva e nelle relazioni interpersonali i fattori di primario interesse per lo psichiatra; la psicoterapia, conseguentemente, sembra essere lo strumento elettivo di intervento. Sull’altro versante, i sostenitori dell’approccio psicobiologico non abbandonano la "mitologia del cervello", retaggio di nostalgie positiviste (Sarteschi, 1982) ed analizzano l’intero essere umano nei molteplici aspetti della sua fisicità ancor prima della psichicità stessa. Il bambino è visto come un individuo finalizzato al raggiungimento di obiettivi molteplici nel suo sviluppo fisico, psicologico ed emotivo, in relazione al suo ambiente familiare comune, educativo e sociale (Cameron , 1956, 1962) . I primi anni di vita sono considerati cruciali nel dipanamento del processo che conduce alla formazione della personalità. Il ruolo che la figura materna assurge in questi anni è inequivocabilmente determinante nello sviluppo e nella cronicizzazione del disturbo mentale e comportamentale del bambino (cit. in Chess, 1988 ). Lo studio di John Bowlby nel 1951, commissionatogli dalla Word Health Organization, la cui indagine è diretta al riconoscimento della salute mentale tra i fanciulli senza tetto, è uno dei documenti più significativi a favore di questa tesi. Sono anni, questi, in cui l’autore dichiara : L’amore materno nell’infanzia e nell’adolescenza è importante per la salute mentale quanto le vitamine e le proteine lo sono per la salute fisica (Bowlby, 1988 , p. 2 ). Susan Isaacs, membro della "Scuola Inglese di Psicoanalisi", vicina al punto di vista di Bowlby (per quanto facente parte del gruppo vicino a Melanie Klein), sostiene : Non vi è miglior educatore per un bambino che un genitore saggio, sebbene anche il più saggio dei genitori , da solo , non sia sufficiente. Il bambino piccolo ha bisogno sia di una vita familiare soddisfacente, sia della possibilità di formare più vasti contatti sociali in una scuola materna o in un giardino d’infanzia. ( Isaacs , 1972 , p. 11 ). Si intuisce, da tale affermazione, il valore che l’autrice attribuisce agli stimoli affettivi e sociali, soprattutto in riferimento all’opera di scolarizzazione, che ha ravvisato in lei una della protagoniste nell’opera di riforma della psichiatria inglese. Nell’Inghilterra degli anni Trenta, infatti, l’insufficienza mentale non è ancora ritenuta materia di approfondimento in campo psichiatrico; si dovranno attendere gli anni sessanta per parlare di un "concetto qualitativo della struttura di personalità" (Isaacs, 1972). L’emergere di attributi qualitativi nell’interazione madre-bambino si inserisce in un periodo storico, che potremmo definire, di "ascolto" alle voci del nuovo movimento di rivendicazione dei diritti femminili che interpreteranno la teoria dell’attaccamento come un tentativo di ricondurre la condizione della donna a stati precedenti di dipendenza dai modelli maschili. Ilda Bruch, nel 1954, descrive con allarmismo la pressione crescente a cui sembrano essere sottoposte le madri : Un modello di comportamento genitoriale non sostenuto, un’immagine inventata di perfezione artificiale e di felicità, viene sostenuta dai genitori che cercano, diligentemente, di raggiungere un ideale irraggiungibile di buona genitorialità, come cani alle prese con coniglietti meccanici (....) I nuovi insegnamenti implicano che genitori assumano un ruolo di completa responsabilità , di Fato preventivo nei confronti dei loro figli (Bruch,1954 ). Transluce, dunque, come gli anni cinquanta segnino l’inizio di una seconda era nella psichiatria infantile; il momento in cui la disciplina si inserisce nella realtà accademica e scientifica della medicina. La prima generazione di psichiatri ha posto, quindi, ogni sforzo alla creazione di servizi, combattendo aspre battaglie al fine di gettare le basi, stabilire le priorità ed esplorare la forza ed i limiti di un lavoro di squadra . L’indagine della nuova generazione è volta alla determinazione, ancora oscura e misteriosa, delle cause per cui le dinamiche che portano alla psicopatologia si intrecciano e si sviluppano. Il percorso non è semplice. Le motivazioni legate a problematiche strettamente teoriche si intrecciano, infatti, a disfunzioni del sistema amministrativo dei servizi di assistenza all’infanzia. All’interno dell’opera "Cure materne e igiene mentale" (Bowlby, 1957), l’autore denuncia: Persiste in Gran Bretagna una situazione confusa, senza un’autorità chiaramente responsabile che possa prevenire la negligenza od i maltrattamenti dei bambini nella propria famiglia, o prevenire il fallimento familiare ( Bowlby, 1957, p. 211). L’accusa di Bowlby è rivolta soprattutto alle carenze nel coordinamento tra i servizi d’affidamento familiare e i servizi di assistenza. Infatti, sebbene lo sviluppo della psichiatria infantile sia stato notevole e indubbiamente rapido, nella maggior parte dei paesi occidentali "l’assistenza ai bambini trascurati o senza famiglia si è sviluppata in modo disordinato" (Bowlby, 1957, p. 210). Nella definizione delle competenze della "nuova" psichiatria infantile, la visione di Bowlby tende ad enfatizzare la necessità di aiuti specificamente terapeutici ai genitori, compresi quelli che presentano problematiche di origine psichiatrica. Si delinea, dunque, l’esigenza di un intervento rivolto al miglioramento delle reali condizioni di vita del fanciullo, per il raggiungimento di una vita familiare serena e stabile, presupposto primo per una buona salute mentale. Il servizio sussidiario deve occuparsi della madre nubile ed aiutarla a formare un focolare per il bambino o a disporre per la sua adozione, aiutare a mobilitare i parenti e i vicini per sostituire i genitori in casi di emergenza, procurare un’assistenza di breve durata nei casi necessari, pur lavorando per la ripresa di una normale vita familiare e, finalmente, prendendo dei provvedimenti a lunga scadenza quando siano fallite tutte le altre possibilità ( Bowlby , 1957 , p. 211 ). E’ in quest’ottica che il pensiero di John Bowlby tende ad indirizzarsi. E’ solo attraverso un contatto reale con le condizioni di vita quotidiana del bambino e della famiglia all’interno della quale quel bambino è inserito che diviene possibile strutturare un intervento terapeutico. L’opera di John Bowlby focalizza in questo modo l’interesse generale sugli effetti della privazione delle cure materne, con conseguenze i cui sviluppi verranno approfonditi successivamente. Intorno agli anni sessanta, un nuovo avvenimento è destinato a turbare gli equilibri nello sviluppo delle concezioni psichiatriche. Le droghe psicotrope appaiono nel panorama terapeutico ed il trattamento dei disturbi mentali subisce una inversione di tendenza. La psicofarmacologia, in questi anni, conquista un settore rilevante dell’attenzione scientifica (Taylor, 1985). Tuttavia, per quanto le aspettative riservate all’utilizzo delle sostanze chimiche si inseriscano in una visione quasi a definirsi "utopistica" (nel senso che la scienza psichiatrica sembra ergerle ad una sorta di panacea miracolosa nella risoluzione del malessere psichico), le soluzioni che realmente ne vengono apportate non collimano con le ipotesi prospettate . I prodotti ansiolitici, infatti, nascondono seri pericoli riguardanti gli effetti di dipendenza (che si evidenziano in misura sempre maggiore), gli antidepressivi non risultano essere risolutivi nei disturbi di origine affettiva e l’emergenza di distonie legate all’uso di prodotti neurolettici allentano la fascinazione che la soluzione farmacologica aveva legittimato al momento del suo ingresso negli ambienti medico-psichiatrici (ibidem, 1986). In Inghilterra, particolarmente, la psicofarmacologia non riscuote un successo eclatante. La psichiatria infantile inglese preferisce, infatti, enfatizzare il ruolo dei fattori psicosociali sottovalutando forse il valore dei fattori biologici e degli annessi processi neurochimici. Come Taylor (1985) sottolinea, "il trattamento farmacologico, di solito, è aggiunto a quello psicologico, non sostituito ad esso" (cit. in Hersov, 1986). Nella seconda metà degli anni settanta l’approccio alla psichiatria infantile si sposta da una posizione unidimensionale, su un piano teorico, ad una preferenza per un approccio di tipo multifattoriale. Si esprime, attraverso una simile affermazione, l’intento a un maggior coordinamento delle interazioni tra psicologia, biologia e influenze socio - culturali, analizzate nei loro plurimi livelli di funzionamento (Chess, 1988). E’ appropriato ricordare, al proposito, l’impegno della Association of Child Psychology and Psychiatry nel supportare il cambiamento a favore del paradigma interdisciplinare ( Hersov, 1986 ). Secondo l’opinione di Rutter, l’approccio multifattoriale indica che : E’ difficile operare valide generalizzazioni circa il comportamento umano. E’ necessario dirigere l’attenzione alla specificità delle interazioni tra le persone e le situazioni (.....), è preferibile un approccio che si focalizzi sulla soggettività degli esseri umani piuttosto che evidenziare tratti particolari ritenuti rilevanti; più genericamente, si evidenziano le idiosincrasie che rendono una persona necessariamente differente da tutte le altre . (Rutter, 1980, p. 5) Il paradigma interdisciplinare è destinato ad apportare profonde modificazioni. Gli ultimi decenni della storia della psichiatria inglese si arricchiscono di importanti mutamenti nella pratica clinica e nella ricerca empirica. La psichiatria privilegerà, d’ora in avanti, lo studio dei fattori psicosociali, la psicopatologia dello sviluppo e l’indagine delle interazioni familiari, non trascurando le possibili componenti biologiche. Nel 1956, Cameron, scrivendo in proposito dello stato allora corrente della psichiatria infantile, si esprime in termini la cui attualità è ripercorribile nel corso degli anni a venire : Nessuno può permettersi il lusso di esprimere soddisfazione per l’attuale stato della psichiatria infantile; è arrivato il momento di dichiarare la consapevolezza delle deficienze, insieme ad una vivace auto critica ed all’urgenza per un avanzamento in una direzione o in un’altra, in modo da poter impiantare il seme dell’ottimismo . (cit. in Hersov , 1986 ) .
1.2. Il rilievo della situazione reale nella genesi della psicopatologia .
Il sistema che conduce allo sviluppo della Teoria dell’Attaccamento attraversa numerose rivisitazioni; l’influenza della psicoanalisi è originariamente dominante (Bretherton, 1992). Dopo la laurea in medicina, nel 1928, Bowlby si dedica al training in formazione psicoanalitica presso il British Psychoanalitic Institute; durante questo periodo, l’influenza kleiniana è fortissima (eadem, 1992). Il calibro teorico della tecnica sviluppata da Melanie Klein è uno dei maggiori punti di riferimento nell’esplorazione della genesi del disturbo infantile. La grande innovazione nel tracciare un canale di accesso all’inconscio è l’utilizzo della tecnica del gioco. I giocattoli, dai contenuti simbolici blandamente celati, costituiscono il primo materiale di analisi nelle libere associazioni del bambino (Klein, 1961). L‘attività fantastica, attraverso la quale il bambino diventa capace di rapportarsi agli eventi che accompagnano la sua vita è, nella teoria kleiniana, il mezzo primario attraverso cui accedere alle manifestazioni dell’inconscio. Le fantasie inconsce rivestono, all’interno del modello kleiniano, un’importanza centrale. Esse sono l’espressione mentale degli istinti e la loro esistenza coincide con l’inizio della vita; le fantasie dunque accompagnano la realtà interagendo continuamente con essa (Segal, 1975). L’ambiente, nell’opinione di Melanie Klein, acquisisce valore soltanto in relazione agli istinti e alle fantasie del bambino. In conseguenza di ciò, i disturbi emotivi nel bambino sono dovuti, pressoché interamente, alle fantasie generate dal conflitto interiore tra pulsioni libidiche ed aggressive piuttosto che ad eventi realmente verificantesi nel mondo esterno (cit. in Bretherton, 1992, p . 760). Sebbene inizialmente Bowlby aderisca alla visione kleiniana, il suo pensiero successivo subisce profonde modificazioni. Secondo una definizione di Jeremy Holmes, l’impatto con il training psicoanalitico è, per John Bowlby, qualcosa di misterioso (Holmes, 1994). La Società Psicoanalitica Inglese, a cui Bowlby aderisce intorno agli anni trenta, sta attraversando, in quegli anni, un vero e proprio "turmoil" ideologico. Una buona parte dei seguaci della dottrina freudiana, infatti, è costretta a lasciare Vienna in seguito ai notori accadimenti storici. Nel 1938, Anna Freud e suo padre fanno il loro ingresso nella società londinese innestando il famoso scisma dottrinale che andrà a modellare un primo gruppo vicino alle concezioni kleiniane ed un secondo aderente a quelle freudiane. L’interesse predominante nei circoli intellettuali è la successione, nell’eredità teorica, del sistema psicoanalitico; il coinvolgimento di Bowlby nella disputa in atto lo conduce a sottolineare alcuni difetti nel pensiero psicoanalitico. Egli è preoccupato dal dogmatismo, che giudica eccessivo, del mondo della psicoanalisi. Sul piano teorico, ad ogni modo, egli si dichiara vicino al pensiero freudiano. L’ipotesi primaria da cui egli dipana la psicopatologia dello sviluppo, infatti, rintraccia le sue radici nell’infanzia del bambino stesso; "per comprendere il funzionamento attuale di una persona, è necessario sapere come egli o ella è divenuta l’uomo o la donna che noi incontriamo oggi" (cit. in Ammaniti, Dazzi, 1992). I circoli psicoanalitici, inoltre, attribuiscono un’importanza primaria alle immagini che arrivano dall’inconscio. Joan Rivière, analista di John Bowlby, nel 1927, scrive: La psicoanalisi è la scoperta, da parte di Freud, di ciò che accade nell’immaginazione. Non ha a che vedere con niente altro, non riguarda il mondo reale; Concerne semplicemente ed, esclusivamente, le immagini della mente infantile (Rivière, 1927, pag.83; cit. in Holmes, 1996) Secondo una documentazione riportata da Rayner (Rayner, 1992; cit. in Holmes, 1996) nel testo appartenente a John Bowlby, egli avrebbe sottolineato ai margini :"Ruolo dell’ambiente=zero". Nel 1940 l’autore si esprime in questi termini : Una intervista settimanale in cui le problematiche delle madri possano essere affrontate analiticamente e ricondotte all’infanzia delle madri stesse è , effettivamente , molto efficace. Aiutarle a riconoscere e a catturare i sentimenti che le hanno accompagnate durante l’infanzia per rendere detti sentimenti accettabili e comprensibili incrementa l’empatia e la tolleranza verso lo stesso figlio ( Bowlby, 1940, p. 23 ). Attraverso questa affermazione è possibile rivelare gli interessi teorici e clinici riguardo la trasmissione intergenerazionale dei modelli interattivi che accompagnano le relazioni di attaccamento e la possibilità conseguente di intervenire terapeuticamente sul fanciullo per mezzo di un aiuto fornito alle figure parentali (Bretherton, 1992). Bowlby rimprovererà alla teoria kleiniana (e a quella freudiana) di non essere riuscita a cogliere la concezione di attaccamento quale legame psicologico a sé stante nel rapporto tra la madre e il bambino. La fame del bambino piccolo per l’amore e la presenza della madre è grande quanto la sua fame per il cibo. La teoria dell’attaccamento fornisce un linguaggio nel quale viene data piena legittimità alla fenomenologia delle esperienze di attaccamento. L’attaccamento è un "sistema motivazionale primario" ed opera con altri sistemi motivazionali ( Bowlby, 1973). Il primo studio, a carattere empirico, in cui si delineano le idee che domineranno la teoria dell’ Attaccamento, risale al 1944 . L’attività gli è commissionata dal London Child Guidance Clinic; la ricerca prevede un’ inchiesta sul furto (Lebovici, 1989), attraverso l’analisi statistica di 44 soggetti, ed è tesa ad evidenziare l’importanza della separazione e della deprivazione delle cure materne nell’evoluzione di una personalità sana (Holmes, 1993). E’ proprio durante il periodo lavorativo al London Child Guidance Clinic che Bowlby inizia a prendere coscienza del ruolo che l’ambiente ha nello sviluppo delle nevrosi e del comportamento delinquenziale; quando la World Health Organization sta ricercando un esperto in grado di fornire una documentazione sulle esigenze dei bambini orfani e senza fissa dimora, Bowlby risulta essere il candidato più adeguato (Holmes, 1993). I risultati di tale nuova indagine lo conducono a rafforzare l’opinione relativa all’importanza del ruolo della perdita e della separazione nell’infanzia quale precursore di una possibile nevrosi in età adulta (Bowlby, 1952). Qualche anno fa, poiché ero uno psichiatra della famiglia, iniziai a ricercare quali fossero gli effetti della separazione dei bambini dalle loro famiglie. Essi mostravano, in maniera evidente, l’intensa tristezza e il desiderio disperato di ritrovare la propria madre. Si poneva, dunque, la questione di saper spiegare l’origine e la natura del legame, straordinariamente intenso, tra il bambino e la madre. La sola teoria dell’epoca prevedeva che il bambino divenisse emotivamente legato alla madre poiché ella lo nutriva. Per quel che mi concerne, ero profondamente insoddisfatto di questa risposta e fui molto felice di essere condotto alla conoscenza delle idee di Lorenz; anche gli etologi erano ugualmente interessati allo studio dei legami tra i cuccioli ed i loro genitori, in numerose specie . Inoltre, in qualità di biologi professionisti, il loro approccio era radicalmente differente da quello che io avevo conosciuto, fino a quel momento, presso psicologi e psichiatri. I legami tra gli individui, come appresi all’epoca, potevano essere studiati sperimentalmente e il loro valore per la sopravvivenza poteva essere compreso alla luce della teoria evoluzionista (Bowlby, 1988, p . 2) . Proponendosi in questi termini, a distanza di trenta anni dalla formulazione delle prime concezioni inerenti all’attaccamento, Bowlby riassume le motivazioni che lo conducono ad accentuare l’importanza del ruolo della situazione reale su quella fantasmatica, di origine psicoanalitica, e ad allontanarsene, ritenendola insufficiente a giustificare la genesi della psicopatologia. Sulle basi del nuovo tipo di approccio, Bowlby rintraccia quelle che ritiene essere le proposizioni meglio caratterizzanti la sua posizione ( Lebovici, 1989 ), sintetizzandole in quattro assunti principali : a ) i legami emotivi significativi sono funzioni essenziali per la sopravvivenza degli individui ed hanno, dunque, un valore primario; b) essi possono essere compresi a partire da circuiti cibernetici situati nel sistema nervoso, il quale ha la funzione di mantenere con tali legami la prossimità o accessibilità; c) per ottenere operazioni efficienti, ogni individuo costruisce nel suo sistema mentale particolari modelli di sé e degli altri, nonché schemi di interazione tra essi; d) simili considerazioni esigono che vengano sostituite le teorie che descrivono fasi specifiche dello sviluppo postulando che gli individui possano fissarsi o regredire a queste fasi. La nuova posizione di Bowlby sottolinea, dunque, l’allontanamento dalla visione psicoanalitica per avvicinarlo al pensiero dei neuro-scienziati e data intorno alla fine degli anni cinquanta (ibidem, 1988) . Nel 1958, l’autore conclude un importante studio sulla "natura dei legami tra il bambino e la madre" (Bowlby, 1958) che lo esorta ad inserire il fanciullo stesso all’interno del sistema filogenetico. Alcuni gesti del bambino quali, per esempio, il tendere le braccia verso la madre hanno sicuramente significati filogenetici (ibidem, 1958). L’accordo con Herman (Herman, 1943), che descrive un "istinto all’aggrapparsi", sembra essere integrale. L’interesse di Bowlby, nello studio delle interazioni che favoriscono l’attaccamento, lo induce a focalizzare l’attenzione su un comportamento primario capace di mantenere la vicinanza sociale tra il bambino e la persona che se ne occupa. A sostegno di detta tesi, egli si avvale della documentazione filmata da James Robertson :"A two-Years-Old goes to hospital" (Robertson, 1953a, 1953b, Robertson & Bowlby, 1952), la quale rende manifesto l’impatto emotivo che una breve separazione provoca in una bambina di due anni, costretta a separarsi dalla madre per una temporanea ospedalizzazione (Holmes, 1993). E’ possibile identificare, grazie a questa proiezione, i momenti che successivamente verranno classificati da Bowlby quali fasi di "protesta", "disperazione" e "distacco" . In conseguenza del filmato, inoltre, l’accesso alle pratiche pediatriche degli anni cinquanta diviene materiale di libera osservazione; tutto ciò innesta un ulteriore input a modificare l’approccio corrente nella pratica di intervento terapeutico al mondo dell’infanzia (Holmes, 1993) ed allontana, pressoché definitivamente, John Bowlby dalla Società Psicoanalitica Inglese . I seguaci di Melanie Klein, infatti, preferiscono interpretare lo stress manifestato dall’interprete del filmato quale conseguenza delle fantasie aggressive che la bambina deposita all’interno della figura materna piuttosto che dovute alla separazione reale alla quale la bambina è assoggettata (Holmes, 1993) . Lo studio di John Bowlby rappresenta sotto molti punti di vista, quindi, una critica al paradigma psicoanalitico. E’ la qualità delle cure materne che diviene centrale nello sviluppo della personalità infantile (Sroufe, 1986), in sostituzione alla concezione dominante della gratificazione orale, che individua nel soddisfacimento della pulsione di fame l’origine dell’attaccamento del bambino alla figura materna. Bowlby postula, quindi, l’esistenza di un legame primario tra la madre e il bambino, esistente fin dalla nascita e con una precisa funzione evolutiva: garantire la protezione dai predatori (Holmes, 1994). Il legame primario con la figura materna provvede a determinare quella che Bowlby definisce la base sicura, che sosterrà l’individuo nel corso dell’intera vita, ed alla quale ogni essere umano farà ritorno in situazioni di pericolo, fatica o malattia (Holmes, 1994). Non solo, Bowlby analizza il valore dei meccanismi di fissazione e regressione, ai quali preferisce sostituire il concetto di "prototipo"; secondo Bowlby, infatti, lo sviluppo procede in virtù di una "intelaiatura" sostenuta da schemi di adattamento originatisi in passato (Sroufe, 1986). L’esperienza viene strutturandosi, quindi, nel contesto di precedenti rappresentazioni di sé e degli altri (Sroufe, 1986). L’adattamento dell’individuo al suo ambiente è da percepirsi come un processo in cui l’essere umano reagisce e modifica attivamente situazioni interpersonali reali in termini di modelli operativi interni; cosi come Bowlby li definisce. In quest’ottica la relazione di attaccamento primario è di fondamentale importanza; essa costituisce, infatti, il prototipo delle future interrelazioni a carattere sociale. Seguendo il pensiero di Holmes, dunque, una certa onnipotenza, o una forma di solipsismo, risiederebbe nel cuore del progetto psicoanalitico (particolarmente in quello kleiniano) ed è proprio contro di essa che Bowlby lotterà nei decenni a venire (Holmes, 1994) garantendosi l’antipatia dei circoli psicoanalitici. Per circa due decenni, Bowlby fu considerato pressappoco una non-persona nei circoli analitici; un destino che egli accettò con dignità e, a parte qualche occasionale diverbio, senza ritorsioni ( .... ) (Holmes, 1994, p. 65). L’energia, l’efficienza e l’originalità intellettuale di Bowlby (Holmes, 1994) non sono comunque destinate ad essere ignorate. L’indagine commisionatagli dal WHO (Maternal Care and Mental Health, 1951), nella quale egli introduce la sua visione relativa all’impatto dei fattori ambientali nella genesi della psicopatologia, riscontra una profonda accettazione negli ambienti scientifici e gli anni settanta si distinguono per un fortissimo interesse nell’approfondimento della ricerca riguardante l’interazione madre-bambino. Il paradigma interpersonale va sostituendosi, in questi anni, ad una visione intrapsichica, in cui l’inconscio non è più il contenitore delle fantasie libidiche ed aggressive ma la rappresentazione del mondo interpersonale nel quale il bambino è inserito e con il quale interagisce continuamente (ibidem, 1994) . Sono questi gli anni in cui inizia ad emergere una mappa molto dettagliata riguardante le interazioni madre-figlio; ricerca, questa, supportata dagli studi a carattere etologico e sperimentale. Nell’opera "Attaccamento e Perdita" (Bowlby, 1973) viene a delinearsi, in maniera evidente, l’interesse che l’autore dedica alle interazioni interpersonali. Nel volume secondo, infatti, egli dedica un paragrafo ai "Modelli patogeni di interazione familiare", in relazione a casi di agorafobia. (...) tutto ciò che si può fare qui è richiamare l’attenzione su alcuni risultati ragionevolmente ben fondati che concordano , se non altro , con la tesi che molti , se non tutti , i casi di agorafobia sono spiegabili come prodotto di certi modelli patogeni di interazione familiare (Bowlby ,1973 , p. 376, corsivo mio). Bowlby individua, infatti, interazioni linguistiche e comportamentali perpetrantesi in questo tipo di pazienti . Vi sono oggi molti psichiatri , me compreso , i quali ritengono che numerosi disturbi anche gravi siano spiegabili come insorti in seguito a un conflitto conoscitivo di questo genere (Bowlby, 1973, p. 398) Riassumendo, è possibile dunque sintetizzare gli assunti principali che maggiormente hanno caratterizzato le evoluzioni teoriche del pensiero di Bowlby e l’allontanamento dalla dottrina psicoanalitica. Contrariamente alla concezione kleiniana, Bowlby percepisce la realtà interiore del fanciullo profondamente influenzata dalla realtà esterna, conferendo alle situazioni ambientali un’importanza primaria . La teoria dell’Attaccamento concepisce la madre ed il bambino quali soggetti psicologicamente separati che interagiscono dal primo momento in cui il bambino viene alla luce; è in questo senso che si definisce tale teoria come "spaziale". In terzo luogo, i due sistemi affrontano, in maniera non esattamente congruente, l’approccio alla distinzione tra sviluppo normale e anormale. La Klein arriva ad identificare un comportamento normale a partire dal concetto di "anormalità"; Bowlby preferisce comprendere l’anormalità all’interno di un contesto di sviluppo "sano", ravvisando quindi nelle cure materne primarie il cuore pulsante della sanità psichica ( cit. in Holmes , 1994 ). Bowlby, comunque, nonostante gli attacchi del movimento psicoanalitico contro il suo paradigma teorico, rimane uno dei membri della Società Psicoanalitica. Rayner, nel 1991, in occasione del congresso in onore dello scienziato, esprime il rammarico della Società Psicoanalitica per non aver saputo rispettare l’alterità delle opinioni dell’autore che egli ritiene "a great alterer of frames of mind" (Rayner, 1991). Nel concludere, vorrei riportare un’affermazione dal testo "Attaccamento e Psicoanalisi"(1992), in cui Ammaniti e Dazzi rilevano "quanto l’influenza della teoria dell’attaccamento non sia stata riconosciuta nella sua piena potenzialità, per quanto abbia contribuito alla crescita di un nuovo paradigma relazionale del rapporto infante-madre" (ibidem, 1992, pag.7).
1.2.1. Le reazioni della Società Psicoanalitica
La Società Psicoanalitica non accoglie con entusiasmo l’uscita dei volumi "Ansietà da Separazione" ( Bowlby, 1960) e "La natura del legame del bambino alla madre" (Bowlby, 1958). L’ingresso delle concezioni teoriche dell’autore scatena, infatti, un’ondata di polemiche destinata a non esaurirsi in breve tempo. Le posizioni ufficiali della Società Psicoanalitica Inglese sono sottolineate, in particolar modo, dalla rigorosa critica che Anna Freud solleva in risposta all’originalità della posizione di John Bowlby. Il diverbio nasce in conseguenza della interpretazione delle differenti visioni delle controparti su di un livello teorico. L’incomprensione relativa alle divergenze è predominante. La preferenza che Bowlby accorda alla natura biologica nella formazione del legame di attaccamento (Hinde, 1990) non incontra il consenso dei circoli analitici. Come analisti non siamo interessati agli accadimenti del mondo esterno quanto, piuttosto, alle ripercussioni del mondo esterno all’interno della mente umana (Freud A., 1960) Anna Freud appoggia la sua critica sulle osservazioni che, negli anni della Seconda Guerra Mondiale, conduce insieme a Dorothy Burlingham nelle Hampstead Nurseries. Non esistono grosse differenze nel materiale osservato e raccolto dal team delle Hampstead Nurseries, riguardante i bambini separati, e le osservazioni condotte successivamente dal dottor Bowlby concernente l’ansietà di separazione nei bambini ospedalizzati (Freud, 1960, p. 53). Il materiale osservativo è raccolto da James Robertson, membro di entrambi i gruppi. Le immagini da lui collezionate costituiscono l’elemento di analisi relativamente alle incomprensioni generate dalle differenti interpretazioni teoriche dei dati a disposizione. Anna Freud evidenzia, quale primo punto di attrito tra i due, una visione profondamente diversa nell’orientamento teorico. Il dottor Bowlby si attiene alla teoria biologica, secondo la quale il legame madre-bambino deriva da una disposizione innata dell’essere umano; il "comportamento di attaccamento", quindi, non è che il prodotto di questo tipo di legame; l’ansietà di separazione, il dolore, l’angoscia per il lutto sono strettamente vincolati alla distruzione di tale legame (Freud A., 1960, p. 53). La linea di argomentazione proposta da John Bowlby conduce i circoli analitici a dissentire da alcune proposizioni teoriche. Come accennato in precedenza, la teoria psicoanalitica è debolmente interessata al ruolo che l’ambiente ha nell’evoluzione di ogni possibile disagio mentale; è l’individuo (e le istanze mentali che all’individuo fanno capo) sovrano indiscusso del regno del razionale e dell’irrazionale; conseguentemente, la Freud si dichiara interessata esclusivamente alle possibili ripercussioni che le situazioni reali hanno nella vita mentale del bambino. Specificando più accuratamente, è il modo in cui l’informazione proveniente dall’ambiente viene registrata dalle istanze mentali del bambino a costituire la traccia a cui si lega la patologia. Viene rimproverato a John Bowlby un eccessivo semplicismo nel delineare il legame che la biologia ha nei confronti della relazione di attaccamento. Anna Freud prosegue la sua disamina rintracciando due elementi che, a detta dell’autrice, meglio si adattano ad illuminare le incomprensioni teoriche tra John Bowlby e la dottrina psicoanalitica. I punti caratterizzanti la discordia intellettuale riguardano la concezione teorica su cui si fonda il concetto di narcisismo infantile e la contrapposizione del principio di piacere al concetto di attaccamento materno. La critica rivolta da Bowlby agli psicoanalisti si esplica in termini di "pulsione primaria e secondaria"; l’oggetto in analisi è l’azione che svolge il freudiano "Principio di piacere". Secondo l’autore, infatti, l’ordine di importanza che la gratificazione ha nel primo anno di vita non è ben focalizzata dagli psicoanalisti. Secondo la teoria freudiana, infatti, la ricerca del piacere è primaria ed il legame che il bambino instaura con la madre è una conseguenza diretta del soddisfacimento di una pulsione (la pulsione di fame, per l’esattezza). Appare evidente, secondo Bowlby, che gli psicoanalisti concepiscono il legame di attaccamento secondario rispetto al principio di piacere. Secondo la Freud, una simile interpretazione è causata da una incomprensione su un piano teorico. Sono d’accordo con Bowlby che l’attaccamento del bambino alla figura materna sia il risultato di un istinto biologico primario in grado di assicurare la sopravvivenza. Ma, sebbene la ricerca della gratificazione sia una tendenza inerente tutta l’attività pulsionale, secondo il nostro punto di vista il principio di piacere, come tale, non è né primario, né secondario. Nel suo significato metapsicologico, esso è concepito come un principio governante tutta l’attività mentale nella personalità immatura ed ancora insufficientemente strutturata dell’infante (....) Assumere un dibattimento per la priorità dell’uno (il legame materno) o dell’altro (il principio di piacere) non mi sembra auspicabile, poiché essi sono fenomeni mentali dello stesso ordine. (eadem, 1960, p. 55) Rimuovere tali incomprensioni è, secondo la Freud, essenziale per comprendere quanto il trattamento analitico e la visione bowlbiana siano concettualmente più vicini di quanto possano sembrare (Freud, 1960). Si illustra inoltre in entrambe le teorie, l’importanza determinante che l’assolvere alle esigenze del bambino assurge nella definizione della figura materna. Ad ogni modo, le aree di incomprensione sono comunque estese. Il secondo punto di disaccordo riguarda il concetto di narcisismo infantile. Bowlby, in proposito, è molto chiaro; rifiuta, infatti, l’esistenza del narcisismo nell’infanzia. Anna Freud, in risposta, dichiara che l’uso del termine differisce nei due diversi orientamenti scientifici. In termini metapsicologici, il concetto di narcisismo infantile non si riferisce al comportamento, ma ad una fase precoce dell’organizzazione libidica. Esiste, in questa fase, uno stato di equilibrio libidico, simile all’equilibrio ottenuto durante l’esistenza uterina. (Freud, 1960, p. 56)
Secondo la Freud, dunque, la concezione di Bowlby è da intendersi in senso descrittivo. Le controversie si allargano alla conseguente applicazione clinica delle osservazioni condotte, alla loro descrizione e interpretazione. Nell’esposizione delle reazioni del bambino alla separazione da figure emotivamente significative, Bowlby isola tre fasi specifiche : la "protesta": in cui il bambino è arrabbiato, piange, mostra un comportamento di paura; la "disperazione": in cui la fiducia nell’oggetto d’amore inizia a venire meno destando, quindi, un sentimento di acuta pena; il "distacco": in cui ogni contatto emozionale con il mondo esterno sembra essersi interrotto. In questo senso, le osservazioni del gruppo di Anna Freud collimano perfettamente con quelle della clinica Tavistock . Il dissenso nasce riguardo l’interpretazione del termine "distacco": Se utilizzato in termini semplicemente descrittivi non può implicare che l’assenza di un comportamento manifesto esprimente la perdita; se utilizzato in senso analitico, potrebbe esprimere un processo difensivo diretto sia contro la ricognizione della realtà esterna (per esempio, l’assenza della madre), sia contro l’affetto stesso (per esempio, un senso insopportabilmente penoso di perdita ( eadem, 1969, pag.59) La critica di Anna Freud si estende alla durata delle reazioni alla perdita. John Bowlby, in questo senso, esprime un’identità di fondo tra l’angoscia espressa dal bambino e le reazioni manifestate dai soggetti adulti . La Freud si dichiara riluttante ad accettare un’identità corrispondente ai processi di elaborazione del lutto che sottostanno ad individui adulti ed a soggetti in tenera età . Il processo di elaborazione del lutto, in senso psicoanalitico, evidenzia uno sforzo individuale ad accettare un evento del mondo esterno e ad effettuare modificazioni corrispondenti nel mondo interiore (eadem, 1960, p. 58). Tutto ciò presuppone l’esistenza di alcune capacità dell’apparato mentale: una accettazione del principio di realtà , un parziale controllo delle tendenze dell’Es grazie allo sviluppo dell’Io ecc...; capacità tutte che non sono ancora pienamente sviluppate nel bambino. Per cui, mentre il periodo di lutto tradizionalmente nell’adulto sembra risolversi nell’arco di un anno, pare che, detto tempo, sia da considerarsi anormale per un bambino . Sulla base delle osservazioni alle Hampstead Nurseries, il comportamento manifesto legato alla elaborazione del lutto va da "alcune ore a numerose settimane e persino alcuni mesi"(eadem, 1960, pag.58). Bowlby rifiuta la possibilità che il lutto possa essere elaborato in un tempo così breve promuovendo l’ipotesi che occorrano tempi molto più lunghi nella risoluzione di tale dinamica. Riguardo la patologia susseguente a separazioni precoci, Bowlby rimprovera agli psicoanalisti di non cogliere il legame esistente tra essa e successivi stati depressivi o melanconici. Il materiale raccolto è, secondo Anna Freud, ancora troppo scarso e la documentazione disponibile concerne un gruppo di giovani vittime dei campi di concentramento. La sintomatologia presentata, comunque, sembra verificare l’ipotesi avanzata da Bowlby. I ragazzi, infatti, presentano dalla pre-adolescenza in poi sintomi depressivi, auto-accusatori e atteggiamenti ostili. La critica di Anna Freud si conclude facendo riferimento all’opera "The Occurrence of Mourning Behaviour in Animals" (Bowlby, 1960b), nella quale Bowlby identifica alcune caratteristiche specifiche del comportamento umano rispetto a quello animale. In proposito, la Freud sottolinea, relativamente alle reazioni al lutto, che le differenze tra bambini di età differenti sono strettamente correlate allo sviluppo e, quindi, a processi mentali più complessi ed a personalità maggiormente strutturate (eadem, 1960). La disputa in atto coinvolge anche gli ambienti psicoanalitici americani; in particolare, ricordiamo gli interventi di Max Schur e Renè Spitz, le cui posizioni si pongono in contrasto piuttosto netto con il costrutto bowlbiano. La critica di Spitz concerne, in maniera elettiva, quella che egli definisce la risposta infantile alla perdita dell’oggetto ed investe la ridefinizione di alcuni termini e concetti psicoanalitici. La tesi sostenuta da Bowlby suggerisce un comportamento indifferenziato nella risposta dei fanciulli e degli adulti alla perdita dell’oggetto d’amore "prediletto". La risposta è, dunque, per entrambi i tipi di soggetti assolutamente simile: il dolore e l’angoscia, intesa nel senso di elaborazione del "lutto". Quando il bambino sperimenta la perdita dell’oggetto d’amore, egli sperimenta il dolore e si avvia in un periodo in cui il lutto deve, necessariamente, essere elaborato (cit. in Spitz, 1960, pag. 85) Il secondo punto in cui Spitz manifesta il suo dissenso riguarda una revisione nell’utilizzo dei termini e dei concetti a cui le teorie citate fanno riferimento. La critica rivolta da Bowlby riguarda l’esigenza di un uso più esatto, chiaro e consistente dei termini e dei concetti psicoanalitici; egli si riferisce, in particolar modo, all’utilizzo dell’espressione "svezzamento". Secondo Bowlby viene fatto riferimento raramente al fatto che l’allontanamento dal seno materno rappresenta l’interposizione di una maggiore distanza -in senso fisico- tra il bambino e sua madre (precedentemente avevamo accennato alla teoria dell’attaccamento come ad una teoria spaziale); si esprime, dunque, una riduzione delle opportunità che i due soggetti hanno nel mantenere una vicinanza fisica andando così ad affievolire quella prossimità che è indispensabile al bambino nel mantenere un senso di sicurezza. In accordo con Bowlby, Spitz sottolinea che l’allontanamento dal seno materno assume la rappresentazione di una perdita reale della figura materna. Lo svezzamento coincide frequentemente con una esperienza di separazione dalla madre (Spitz, 1960, pag.85). Il significato che Spitz attribuisce a questa esperienza è connotato in senso positivo; egli ritiene, infatti, che essa costituisca una "frustrazione necessaria e benefica" (Spitz, 1960) in grado di dirigere lo sviluppo del bambino. Secondo Spitz, la definizione che ne dà Bowlby è, invece, ancorata ad una formulazione non-dinamica dell’evoluzione. Bowlby, in questo senso, non riesce a cogliere le innumerevoli sfumature emotive che arricchiscono il rapporto tra una madre ed il suo piccolo nel corso del primo anno di vita. Spitz prosegue nella sua disamina analizzando l’uso del termine "seno" che, a detta dell’autore, viene mal interpretato da Bowlby. In alcuni casi, infatti, egli sembra servirsene nel suo significato letterale. Il seno è , in questo senso, l’organo che il neonato percepisce fisicamente. In altre occasioni, ad esso si attribuisce un’accezione più propriamente psicoanalitica, ed in questo senso esso può assumere un numero molto elevato di significati. Proseguendo, l’attenzione di Spitz si sofferma sulla concezione di Bowlby riguardante il repertorio di risposte ereditarie presenti nella specie umana. Secondo Bowlby, infatti, è presente nell’uomo uno schema di risposte innate che egli ritiene essere preformate, già presenti alla nascita. Esse rappresentano, insieme con le pulsioni orali, i presupposti fisiologici e comportamentali sui quali i bambini costruiscono le prime relazioni oggettuali (Spitz, 1957). E’ necessario puntualizzare, secondo il parere di Spitz, che comunque i patterns di risposta innati, così come vengono definiti da Bowlby, sono una condizione necessaria ma non sufficiente a spiegare la formazione della relazione oggettuale nel bambino. Senza l’intervento dei processi psicologici, infatti, non potrebbe formarsi alcun tipo di relazione oggettuale. E’ la perdita di tali relazioni psicologiche a sviluppare la risposta di angoscia nel bambino. Finché le risposte innate saranno gli unici vettori delle relazioni madre-figlio, la perdita della madre verrà interpretata in chiave fisiologica e non in senso psicologico. Per sperimentare gli affetti, i bambini devono sviluppare un’organizzazione psicologica che, secondo il mio parere, si origina intorno al sesto mese di vita (Spitz, 1960, pag.87) Bowlby discute inoltre sull’estrinsecarsi di un comportamento manifestamente ostile quale componente naturale nel processo di elaborazione del lutto. Egli rifiuta l’interpretazione di Spitz, secondo la quale l’atteggiamento del bambino è determinato da un rivolgimento contro il sé dell’aggressività originariamente diretta all’esterno. Bowlby preferisce spiegare le cause di un simile atteggiamento nella rottura di relazioni considerate primarie. In questo senso, egli è probabilmente il primo psichiatra a riconoscere che la manifestazione violenta del dolore è decisamente più terapeutica della sua soppressione silenziosa. Spitz osserva, inoltre, che un simile comportamento non si presenta nei bambini al di sotto di un anno di età. Bowlby, infatti, non analizza i differenti livelli di sviluppo nel bambino; egli è convinto che nel periodo che va dai sei mesi ai quattro anni, non vi sia una crescita emotiva e psicologica molto differenziata. La polemica suscitata dalle concezioni bowlbiane coinvolge Max Schur, in particolare, riguardo alla freudiana "fase orale" egli sostiene: E’ difficile comprendere le ragioni per cui Bowlby non riesca a cogliere l’importanza di ciò che noi chiamiamo fase orale nello sviluppo della relazione madre-bambino. Quando il bambino entra nella fase in cui, secondo Bowlby, l’aggrapparsi ed il seguire dovrebbero "attivarsi", in realtà, questo tipo di legame è già molto ben strutturato. L’aggrapparsi ed il seguire divengono, quindi, alcune delle molteplici funzioni attraverso le quali si utilizzano gli apparati esecutivi innati (corsivo nel testo) che aiutano il bambino a prevenire la separazione ( Schur, 1960, pag.73). Bowlby appare infatti molto interessato al diniego dell’importanza dell’oralità nello sviluppo infantile. Al 21mo Congresso dell’Associazione Internazionale di Psicoanalisi ( Copenhagen, 1959) interpreta il fenomeno dell’oralità, nella nevrosi e nella psicosi, nei termini di un "fenomeno di rimozione". Parallelamente, si dichiara non interessato ai primissimi mesi di vita del bambino. Le ragioni delle scelte di Bowlby si spiegano in una maniera molto semplice: la relazione madre-bambino si basa su meccanismi di risposte istintive pienamente strutturate, soprattutto (corsivo nel testo) per quanto riguarda l’aggrapparsi ed il seguire. Queste risposte maturano solo successivamente, per cui il periodo antecedente non può assumere un’importanza determinante.(Schur, 1960, pag.71) Bowlby, con questa affermazione, sembra contraddire i risultati di numerose osservazioni longitudinali effettuate soprattutto negli Stati Uniti. Inoltre non è comprensibile, secondo l’opinione di Schur, che egli trascuri le reazioni del bambino ( e quindi le grida, la rabbia) alle sensazioni di fame non soddisfatte. Proprio Bowlby che descrive così particolareggiatamente le osservazioni sue e di Robertson alla protesta che i bambini manifestano in seguito alla separazione, non dovrebbe trascurare la più violenta di queste proteste, che è la reazione del bambino alla fame (Schur, 1960, pag.71) Bowlby, in risposta, sottolinea che né Freud né la maggior parte dei teorici psicoanalitici hanno analizzato correttamente il concetto di oralità; esso è diventato per gli psicoanalisti solamente un’espressione legata alla soddisfazione della sensazione di fame (corsivo nel testo) del bambino. Le formulazioni a sostegno della tesi enunciata derivano dalle ipotesi secondo le quali gli esseri umani nascono con un certo numero di risposte comportamentali innate. Bowlby ne individua cinque, che indica con le capacità di : succhiare, piangere, sorridere, stringere, seguire. L’autore considera un errore ( proprio, dunque, dei teorici psicoanalisti) considerare il succhiare ed il mangiare predominanti sugli altri comportamenti. Secondo l’opinione di Bowlby, sono lo stringere ed il seguire i comportamenti più importanti ai fini dell’adattamento e della sopravvivenza. Uno sviluppo emotivo disturbato nell’evolversi di tali comportamenti ci conduce ad analizzare l’aspetto patologico della teoria dell’attaccamento. Un bambino i cui segnali non siano stati correttamente interpretati da una figura di attaccamento sensibile matura un atteggiamento ansioso, meglio definito da Bowlby "ansietà da separazione", i cui effetti si ripercuotono in maniera più o meno grave se vengono perpetrati nel corso degli anni. L’ansietà da separazione è, secondo la prospettiva bowlbiana, l’inevitalbile corollario del comportamento di attaccamento. Una risposta ansiosa automatizzata è il risultato della mancata soddisfazione di un sistema di risposte innate che non ha avuto una soddisfazione e non è stato in grado di arrivare al termine dell’azione. Bowlby denomina questo tipo di ansietà, "ansietà primaria" (cit. in Schur, 1960, pag. 75). Bowlby ipotizza che il bambino mangia poiché deve succhiare; sviluppa un legame con la figura di attaccamento perché deve aggrapparsi, seguire e fuggire e manifesta un’ansietà da separazione nel caso in cui non riesca a "terminare" queste risposte comportamentali istintive. La tesi proposta da Bowlby è dunque molto semplice; egli sostiene che la reazione del bambino alla separazione dalla figura di attaccamento, specialmente se questa avviene in un’età compresa tra i sei mesi ed i tre anni, ha conseguenze più mature e più profonde di quelle prospettate dalla letteratura psicoanalitica. Nel 1953, al coro dei commenti della Società Psicoanalitica, si aggiunge il punto di vista di Donald Winnicott. Egli pubblica in quell’anno una recensione delle opere di Bowlby: "Cure materne e igiene mentale del fanciullo"(1951) e "Grief and Mourning in Infancy" (1960). La posizione dell’autore individua nell’opera di Bowlby l’intento di tradurre le scoperte psicoanalitiche degli ultimi cinquant’anni in "azione sociale" (Winnicott, 1989, pag.447). E nel sostenere ciò, egli elegge il metodo statistico a tecnica privilegiata nell’indagine scientifica degli argomenti psicologici. Sarebbe lui il primo ad ammettere che le statistiche non hanno alcun valore se non sono basate su dati indiscutibili, e in effetti proprio questi sono i dati più difficili da raccogliere nella nostra professione. Si potrebbe pensare che in quasi tutti gli altri tipi di disturbi psicologici non vi è abbastanza accordo su ogni singola definizione dei fenomeni osservati perché il metodo statistico possa funzionare. (Winnicott, 1989, pag, 448) Winnicott rimprovera a Bowlby di semplificare eccessivamente le ipotesi sulla deprivazione materna al fine di fornire delle prove statistiche. Probabilmente tutti saranno d’accordo che per gli scopi delle indagini statistiche (corsivo nel testo) è necessario effettuare delle semplificazioni, ma non si fa male a nessuno se dal semplice si ritorna al complesso prima di costruire una nuova teoria (Winnicott, 1989, pag.448) Winnicott sostiene che forse Bowlby ha enfatizzato l’importanza della deprivazione, soprattutto nella considerazione delle risorse dei bambini normali e che la statistica sia una scienza esatta ma estremamente riduttiva nella valutazione della natura umana. "Solo certe malattie possono essere trattate in questo modo, specie quelle abbastanza stereotipate" (ibidem, 1989). Proseguendo, Winnicott aderisce all’idea di Bowlby di un’adozione rapida dei bambini abbandonati. "E’ nell’interesse della salute mentale del bambino adottivo l’essere adottato subito dopo la nascita". In pratica comunque questa pratica è divenuta sempre più difficile da perseguire, denuncia Winnicott. L’idea che ciò che succede nelle prime settimane successive alla nascita non abbia alcuna importanza per la psiche è da abbandonare il più presto possibile (ibidem, 1989). La critica di Winnicott si estende ai problemi teorici trattati da Bowlby; tuttavia, egli apprezza considerevolmente l’egregio lavoro svolto da Bowlby e dai suoi collaboratori nella realizzazione del filmato che illustra gli eventi disturbanti all’origine della reazione di deprivazione in una bambina di due anni. Il film, se usato adeguatamente, potrebbe avere una risonanza enorme e penso che il gruppo non potesse fare di meglio. L’unico pericolo è che se si obbliga un pubblico che non vuole soffrire a rendersi conto di questi fatti, ci possono essere reazioni, contro-reazioni e un nuovo genere di guai: la prevenzione di tutto ciò è compito di coloro che si occuperanno di presentare il film (ibidem, 1989). Relativamente all’opera "Grief and Mourning in Infancy", Winnicott tenta di chiarire in primo luogo il suo pensiero, che pare sia stato mal interpretato, secondo l’opinione dell’autore, da Bowlby. Egli si ritiene in accordo con Bowlby nella difesa della relazione madre-bambino e nella propaganda della pericolosità intrinseca alle separazioni, sebbene l’elemento propagandistico sia, secondo Winnicott, una componente di difficile gestione, soprattutto per le conseguenze derivanti dall’eccessiva diffusione di concetti che sono prima di tutto scientifici. Egli si unisce al pensiero di Bowlby anche per quello che riguarda il training infantile. Secondo Winnicott, infatti, sussiste il pericolo che vengano promossi esperti analisti persone che non hanno l’esperienza richiesta per l’accudimento dei bambini. La critica di Winnicott prosegue facendo riferimento al concetto di dolore. Secondo il parere dell’autore, Bowlby non è stato il primo teorico a descrivere la graduale trasformazione del dolore in "dura indifferenza"(ibidem, 1989, pag. 452). Il lavoro della Klein e della Freud, durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale, aveva già gettato una luce inquietante sugli effetti della separazione dalle madri in età precoce. Winnicott si sofferma, inoltre, sulla considerazione del valore dell’etologia nell’approfondimento delle tematiche psicoanalitiche. Mi assumo in pieno il rischio che un giorno si pensi a me come a un vecchio barbogio e voglio dire chiaramente che secondo me per l’analista il contributo dell’etologia è un vicolo cieco (ibidem, 1989, pag.453) Winnicott sostiene che il contributo dell’etologia possa intendersi in maniera particolare. Si potrebbe assumere, secondo l’autore, che il piccolo essere umano, così come gli animali, possa essere influenzato dalle condizioni ambientali e sorridere senza sperimentare, di fatto, lo stato d’animo che si connette al sorriso. Mi piace l’etologia per quello che ci insegna sugli animali, ma secondo me Bowlby ha fallito proprio quando ha tentato di mostrarci come egli applichi le sue opinioni sui riflessi infantili primitivi all’area di sviluppo rappresentata dal film A Two-Year-Old Goes to Hospital.(Winnicott, 1989, pag. 453) La complessità psichica di un bambino di due anni è difficilmente omologabile alla visione etologica. Winnicott sostiene quindi che Bowlby non si sia riferito al cambiamento "da una relazione con un oggetto soggettivo a una relazione con un oggetto oggettivamente percepito". Cambiamento, questo, che si verifica proprio nel periodo successivo al compimento del primo anno di vita e diventa pressoché completo all’età di due o tre anni. Tutto questo viene messo da parte dall’implicazione di Bowlby che vi sia un fenomeno semplice di perdita d’oggetto, simile all’estinzione di un riflesso a causa dell’assenza di stimolo. L’argomento che Bowlby esamina è talmente più ricco di quello che egli sembra suggerire, che io temo si posa perdere di vista ciò che la reazione alla perdita può significare, se ci si impegna in una controversia sui corvi e gli anatroccoli (ibidem, 1989, pag. 454) Winnicott prende in considerazione inoltre la possibilità di riformulare la tesi inerente al processo di elaborazione del lutto. Bowlby sostiene che la perdita della figura materna nel periodo che va dai sei mesi ai tre, quattro o più anni, è un evento ad alto potenziale patogeno a causa del processo di lutto cui di solito dà luogo e che può facilmente prendere a questa età una strada patologica. Winnicott replica che il lutto implica maturità emotiva e salute e che dunque la perdita della figura materna non è patogena a causa del processo di lutto. Quando un bambino viene separato dalla madre il trauma spesso non è la perdita della madre, ma la perdita di quello che Winnicott definisce un oggetto transizionale. Se la perdita della madre persiste per un tempo troppo duraturo, l’oggetto transizionale inizia a perdere il suo valore simbolico. Tutto questo è al centro della reazione alla perdita della madre ed è molto più importante per noi che lo studio degli animali, anche di quelli che usano oggetti transizionali ( Winnicott, 1989, pag. 456) La visione di Bowlby peraltro sembra non lasciare spazio al concetto di morte e rinascita dell’oggetto all’interno del bambino.
CAPITOLO 2 2.1. Le modificazioni apportate da Bowlby alla pratica psichiatrica infantile.
Per un certo periodo di tempo gli psicoanalisti, specialmente quelli appartenenti alla scuola delle relazioni oggettuali (Ferenczi, 1938; Balint, 1968; Klein, 1948; Fairbairn, 1952; Winnicott, 1958; Guntrip, 1968; Kernberg, 1976) hanno studiato l’effetto delle relazioni interpersonali nello sviluppo psicologico e nel benessere fisico del singolo bambino e dell’adulto. Negli ultimi venti anni, comunque, vi è stata una crescita esplosiva dell’interesse per ogni sfaccettatura della materia in oggetto, sia nell’uomo che nelle altre specie (Heard D., 1981, pag . 89) Secondo l’opinione di Dorothy Heard, il crescente sviluppo dei concetti legati all’etologia (Lorenz, 1935; Harlow, 1965) ha prodotto numerose modificazioni nell’impostazione teorica classica della psichiatria (Heard, 1981), contribuendo ad incrementare l’interesse verso gli effetti che peculiari relazioni interpersonali hanno nella determinazione della personalità matura. La teoria dell’attaccamento si è andata collocando, dunque, all’interno della disciplina psichiatrica come il primo fermento di una nuova impostazione concettuale nei riguardi dell’eziologia della patologia stessa. John Bowlby e la teoria dell’attaccamento hanno contribuito, in questo senso, a convalidare l’importanza del modello relazionale nella stessa psichiatria. Il costrutto di Bowlby inerente alla teoria dell’attaccamento è andato dunque proponendosi come un cambiamento nel paradigma corrente della psicologia e psichiatria dello sviluppo. La definizione proposta da Bowlby (1969), infatti, sostiene che gli individui siano governati da un "adattamento evolutivo all’ambiente". Il concetto viene ripreso dall’autore dalla letteratura etologica ed, in particolare, dagli studi di Harlow sulle scimmie Rhesus. In questo senso, egli enfatizza l’importanza attribuita alle relazioni interpersonali estendendola, non solo a comunità differenti in termini di spazio e regole sociali, ma anche a primati non umani (cit. in Hinde, 1987). L’attenzione dello scienziato si rivolge, a tal fine, all’indagine delle interazioni che i piccoli delle scimmiette stabiliscono con le loro madri ed, in maniera privilegiata, all’analisi degli effetti che la separazione provoca nell’interazione madre-bambino. Le relazioni interpersonali si rivelano dunque una interconnessione importantissima nell’indagine inerente ai sentimenti di angoscia che accompagnano la perdita e la separazione nell’ambiente in cui il bambino risulta inserito. Nel libro "Attaccamento e Perdita" (1969), Bowlby accenna alle prime ricerche condotte da alcuni colleghi della clinica Tavistock e sensibili alle tematiche connesse ai sentimenti di abbandono conseguenti la separazione. Gli anni delle osservazioni risalgono, rispettivamente, al 1956 per lo studio di Christoph Heinicke, e al 1966 per il lavoro di Christoph Heinicke e Ilse Westheimer. Secondo ciò che riferisce Bowlby, gli studi "sono unici nel loro genere per l’accuratezza del piano di ricerca e per la quantità di osservazioni sistematiche" (Bowlby, 1969, pag . 46). Il rilievo di tali analisi si lega soprattutto all’interesse che riescono a suscitare nel settore della ricerca psicologica e psichiatrica; infatti, in conseguenza della curiosità stimolata in questi ultimi decenni, numerose altre ricerche si sono attivate in tal senso. La notevole uniformità nei dati emersi incoraggia inoltre lo studio delle interazioni attraverso l’osservazione dei comportamenti infantili in tempo reale e non retrospettivo (Bowlby, 1969). Secondo ciò che riferisce Hinde (1987): Nello studio dello sviluppo psicologico, dunque, è necessario considerare il bambino non tanto quanto una entità isolata ma quale essere sociale formato da, e facente parte di, un sistema di relazioni sociali che si rivelano cruciali a garantire la sua integrità (Brofenbrenner, 1979; Clarke-Stewart, 1978; Power & Gottman, 1979; cit.in Hinde, 1987). A partire da questo punto di vista, Hinde precisa che una relazione sociale non può essere individuata in un’entità statica ed immobile, ma piuttosto in un processo autorigenerantesi in continua espansione e creazione attraverso il tempo (Hinde, 1979). Non è possibile dimenticare che l’andamento futuro di ogni relazione è legato agli eventi che lo hanno preceduto (ibidem, 1987, pag. 9) Dunque, poiché è impossibile separare i diversi livelli di complessità di ogni relazione, diviene indispensabile comprendere le proprietà integrali di ognuno dei livelli per acquisire una visione globale delle dinamiche che sottostanno alle relazioni. D’Amato (1969), nel testo "Verso una nuova psichiatria infantile" si esprime in questi termini: Il bambino può essere visto come un membro, in rapporto dinamico, di un gruppo familiare (corsivo nel testo). Questo costituisce una gerarchia a sé. Comprendere l’organizzazione e la dinamica della famiglia del bambino è indispensabile, e costituisce uno dei principi fondamentali della psichiatria infantile, una delle operazioni tipiche di questa disciplina. Nei centri residenziali, come nei centri diurni, è della massima importanza prestare attenzione all’organizzazione ed ai processi dei gruppi dei pari e dei gruppi a struttura familiare (D’Amato, 1969, pagg.4, 5). Le interazioni fra gli individui si trasformano dunque in una concatenazione non additiva di differenti livelli relazionali che comprendono, oltre alle azioni stesse, le aspettative, le paure, le percezioni sensoriali dei soggetti coinvolti. L’indagine sulle interazioni acquista una importanza determinante nell’emergente modello relazionale dello sviluppo. In questo senso, l’opera di Bowlby si distingue per l’apporto conseguito al rilievo delle dinamiche familiari nell’incistarsi della patologia infantile. Il comportamento materno, secondo tale prospettiva, viene influenzato dall’interazione presente e da tutti gli eventi del passato che si sono rivelati significativi emotivamente nello sviluppo evolutivo del soggetto stesso (Halverson & Waldrop, 1970). L’analisi di ogni livello di interazione non può essere condotta quindi senza il supporto conoscitivo del livello che la ha preceduta e, naturalmente, senza l’indagine del contesto in cui l’individuo risulta inserito. Il passaggio da una concezione monadica dello sviluppo della personalità a un orientamento relazionale conduce, quale conseguenza, ad effetti che la Heard sintetizza in questi termini : Nel campo clinico, un esempio dello sviluppo nell’interesse verso gli effetti delle relazioni interpersonali è la crescita improvvisa del movimento legato alla terapia della famiglia (Heard, 1981, p. 89). La teoria dell’attaccamento, secondo la visione della Heard, si lega a questa nuova impostazione teoretica. Essa si presenta, infatti, nei termini di un nuovo "paradigma" scientifico e come tale, aderendo ad un’affermazione di Kuhn (Kuhn, 1962), "attraversa momenti di immaginazione creativa a cui fanno seguito periodi di inevitabile conflitto rivoluzionario nel quale le nuove idee e le metodologie che ne seguono emergono e si stabilizzano". Il nascente costrutto della teoria dell’attaccamento (Bowlby 1969, 1973, 1977, 1980) si configura, dunque, quale cambiamento paradigmatico nella psicologia evolutiva che, secondo Mary Ainsworth, può essere definito "programmatico", intendendo con ciò un costrutto da elaborarsi e ridefinirsi attraverso la ricerca; una guida, una teoria soprattutto esplicativa (Ainsworth, 1978). La teoria dell’attaccamento, così come è stata formulata da John Bowlby, ed interpretata da Mary Ainsworth, non è un modello scientifico preconfezionato, e neppure una serie di ipotesi attraverso le quali costruire predizioni cliniche. Essa si definisce come una gamma di possibili meccanismi dai quali estrapolare modelli in grado di analizzare ipotesi comportamentali interpersonali ( Heard, 1978 ) . Le evoluzioni concettuali e cliniche della teoria dell’attaccamento, come nota la Colin (1996), si sono estese in tempi uguali nel campo della ricerca e della teoria; a tutt’oggi si ritiene che "la teoria dell’attaccamento è una delle più promettenti teorie della personalità e dello sviluppo sociale" (eadem, 1996, pag. 1). In risposta alla definizione di "costrutto" proposta dalla Ainsworth, Sroufe & Waters (1977), nell’articolo "Attachment as an Organizational Construct", rivolgono alle concezioni alla base della teoria dell’attaccamento una critica molto dura. Essi sostengono che esistono intercorrelazioni molto basse nelle ricerche sui comportamenti predittori dell’attaccamento (Coates, Anderson & Hartup, 1972; Maccoby & Feldman, 1972; cit. in Sroufe & Waters, 1977). Si nota che gli indici dei comportamenti di attaccamento non hanno intercorrelazioni elevate, non mostrano una stabilità temporale e sono fortemente influenzati dal contesto; i critici perciò hanno concluso che l’attaccamento come costrutto in sè è deficitario, che i concetti quali quelli di relazioni di attaccamento e legame affettivo sono superflui e che gli schemi relativi al comportamento di attaccamento nei bambini hanno conseguenze irrilevanti (Sroufe & Waters, 1977)
L’intento assunto dalla teoria dell’attaccamento è, ad ogni modo, in prima istanza propositivo; si intende affermare con ciò che lo studio di Bowlby, nelle sue fasi iniziali, ha promosso l’attivazione di una potenzialità intrinseca ai concetti evidenziati, tale da incentivare un approfondimento nella ricerca empirica ed una modificazione nella pratica clinica corrente. Le difficoltà incontrate si sono rivelate inevitabilmente numerose; in breve, da una prospettiva puramente teorica si accenna all’opinione di Cohen (cit. in Heard, 1981), il quale mette in evidenza (1974) la difficoltà nel fornire una definizione operazionale del comportamento di attaccamento. La selettività e il mantenimento della prossimità delle figure di attaccamento sono concezioni di difficile misurazione poichè essi sono processi simbolici che l’individuo interiorizza. Rosenthal, allo stesso modo, preferisce interpretare la teoria dell’attaccamento in termini comportamentali di stimolo-risposta nell’interazione del bambino con la madre. Il ruolo che la teoria dell’attaccamento ha avuto in psichiatria è, secondo Bowlby, paragonabile a quello che l’immunologia ha avuto nella medicina. Infatti, la teorizzazione psicoanalitica sulla relazione tra esperienze infantili e malattia psichiatrica non ha incontrato il favore degli ambienti psichiatrici. Il dissenso, secondo un’ interpretazione fornita da Jeremy Holmes, nasce dall’impostazione ideologica con cui psichiatria e psicoanalisi hanno interpretato il concetto di "categoria"(Holmes, 1993). Il termine, nella visione tradizionale della psichiatria, tende ad un’applicazione molto definita ed, in un certo senso, rigidamente strutturata dell’eziologia riguardante il disturbo mentale. Lo stesso utilizzo si configura in termini più sfumati tra gli psicoterapeuti. Per gli psicoterapeuti, un termine come "psicotico" viene spesso usato in modo arcano e sovainclusivo (Holmes, 1993, pag . 186) Allo stesso modo, sempre secondo la visione di Holmes, risulta "difficile specificare la presenza o assenza di una categoria" . E’ nel tentativo di ovviare a tali difficoltà che Bowlby concentra il suo interesse nell’esteriorità dell’evento, e quindi dedicando gran parte della sua attenzione agli effetti che la separazione (in termini di realtà dell’evento) provoca nei fanciulli prima e nella personalità adulta successivamente. L’impegno dell’autore è peraltro giudicato come " una ipersemplificazione" teorica (Ibidem ,1993 ). Con l’esclusione forse degli stress post-traumatici, non c’è alcun legame diretto causa- effetto fra i traumi ambientali e la malattia psichiatrica. Infatti, data la complessità dello sviluppo psicologico, la varietà dell’esperienza e la fluidità di significati con la quale l’esperienza è compresa, sarebbe sorprendente se le cose andassero così. Abbiamo bisogno di un modello dello stress, della vulnerabilità e del tamponameno più sottile, anche se meno attraentemente semplice (Holmes, 1993, pag . 186). Nella presentazione al testo :" Introduzione alla psichiatria sociale", scritto da Arthur Ransom (1971), la dottrina psichiatrica viene definita come: Intesa, innanzitutto, come lo studio del ruolo dei fattori sociali ed ambientali nelle cause dei disturbi mentali, fondamentalmente sull’epidemiologia di un certo territorio e di una data comunità socioculturale (Ransom ,1971; pag . 6). Il legame tra le due istanze comunque non risulta essere diretto tanto quanto Bowlby aveva ipotizzato. Le difficoltà ambientali sono "mediate" dallo stato mentale della persona, ed i punti di riferimento mentale possono influenzare in modo potente la maniera in cui una persona reagisce allo stress (Holmes, 1993; pagg. 189, 190). In base ai dati messi in evidenza dalla Adult Attachment Interview sembra che, almeno un terzo degli individui adulti, sia potenzialmente caratterizzato dalla possibilità di instaurare un attaccamento di tipo ansioso nelle relazioni sociali ed affettive. "Ciò potrebbe costituire un grande fattore di vulnerabilità rispetto alla malattia psichiatrica nel caso ci si debba confrontare con eventi stressanti" ( Holmes, 1993, pag . 188). L’intento della teoria dell’Attaccamento, comunque, non vuole limitarsi all’esplorazione concettuale delle idee proposte da Bowlby. La vastità dell’opera, infatti, si presta a potenziare un’ampia varietà di ricerche e, in particolar modo, a modificare la pratica clinica (Heard, 1981). Il rilievo della teoria dell’attaccamento nella pratica psichiatrica infantile si manifesta in alcune principali linee di approfondimento; ne ricordiamo due in particolare: in prima istanza, il risalto delle conclusioni teoriche nel campo della ricerca scientifica. Il potere della teoria dell’attaccamento, infatti, secondo l’opinione di Dorothy Heard, risiede nella capacità di suggerire molteplici linee di ricerca e modelli del comportamento sociale in stretto legame con le aree proprie dell’interazione tra individui (Heard, 1981). Il concetto centrale, a favore di detta tesi, dimora nella convinzione che gli esseri umani abbiano forti necessità a mantenere contatti molto ravvicinati con membri ritenuti familiari, soprattutto in particolari condizioni di notevole stress (eadem, 1981). Henderson (1974), dal suo canto, sostenendo le formulazioni di Bowlby, espone le linee conduttirci della sua teoria, utilizzando il materiale clinico a sua disposizione alla luce della teoria dell’attaccamento. Egli focalizza la sua attenzione nella funzione della rete sociale come supporto psicologico. In questo senso, egli modella le concezioni di Bowlby sostenendo che gli esseri umani hanno, dalla nascita, una sorta di equipaggiamento per interagire affettivamente e positivamente con gli altri; nel caso in cui detto supporto venga a mancare gli individui tendono ad incrementare la possibilità di manifestare disturbi psichiatrici. Aderendo alla visione di Bowlby, quindi, Henderson concentra l’attenzione sul valore della qualità delle interazioni. I bambini e gli adulti sono quindi programmati alla ricerca della vicinanza con gli altri esseri umani per una funzione sociale supportiva in caso di pericolo, capace di mantenere intatto il comportamento di esplorazione. Boniface & Graham (cit. in Heard, 1981), in accordo con la visione proposta da John Bowlby, presentano una revisione del termine "oggetto transizionale" di Winnicott con la introduzione dell’espressione "oggetto di attaccamento". In uno studio su 792 famiglie, essi osservano che la separazione assume caratteri meno traumatici nei soggetti che utilizzano un oggetto di attaccamento che non negli altri. L’altro punto di interesse centrale, nell’evidenziazione dei risvolti in ambito psichiatrico della teoria di John Bowlby, riguarda le procedure ed i metodi di ordinamento del materiale clinico relativamente alla conseguente utilità nella pratica clinica. Sempre secondo il giudizio della Heard, a questo proposito, Bowlby stesso (1973, pagg. 258- 312) fornisce alcuni esempi a delucidazione della tesi sostenuta; il comportamento abitualmente definito di "dipendenza" e molti sintomi fobici, infatti, sono da classificarsi nei termini di "attaccamento ansioso". La classificazione da lui proposta procede, infatti, nell’ordinamento di un insieme di diverse manifestazioni a carattere nevrotico in un’unica categoria concettuale. Il rimprovero addotto alla teoria dell’attaccamento riguarda l’incompletezza di quelli che vengono definiti i modelli dei meccanismi psicologici in grado di fornire spiegazioni esaurienti dei fenomeni clinici manifestantesi in connessione a separazioni subite da soggetti adulti o da bambini (Heard, 1981).
2.2. La revisione del concetto di deprivazione materna L’anno 1972 si presenta quale regolatore nella revisione del concetto di "deprivazione materna". Il termine, secondo Rutter (1981), viene usato da Bowlby impropriamente. Il suo rapporto si occupava principalmente della privazione (l’assenza di qualcosa di cui si ha bisogno) piuttosto che della deprivazione (la sottrazione di qualcosa che prima c’era). La distinzione è importante perché, come vedremo, i risultati della mancanza completa di cure materne sono quasi sempre dannosi per i bambini e hanno conseguenze molto gravi e durature, mentre la deprivazione è meno facile da definirsi e molto meno prevedibile nel suo impatto ( Holmes , 1993 ; pag . 40 ). Le tesi avanzate da Bowlby nel 1951, anno di pubblicazione del resoconto commissionatogli dal WHO "Cure Materne e igiene mentale nel fanciullo", furono accolte con molta circospezione negli ambienti scientifici degli anni settanta. Le ipotesi avanzate riguardanti gli effetti stabili, duraturi e profondi delle esperienze nei primi anni di vita non potevano ancora essere sostenute da un numero di prove empiriche sufficienti e tali da validare la teorizzazione di Bowlby. Appartiene al 1972 la revisione proposta da Rutter dei concetti legati ai costrutti bowlbiani (Rutter, 1979); in questi anni, l’evidenza sperimentale ha fornito numerosi contributi relativi alla teoria dell’attaccamento ed, allo stesso tempo, ha esteso il significato del termine "deprivazione materna" ad un’ampia gamma di esperienze i cui esiti sono dovuti a numerosi meccanismi ivi implicati che non sempre hanno verificato le ipotesi formulate da John Bowlby. La revisione dei concetti inerenti la teoria dell’attaccamento è tuttavia, per lo più, una verifica in termini positivi delle teorie avanzate da Bowlby nel 1951; ad ogni modo, poichè dalle nuove ricerche è possibile cogliere alcuni risultati che contraddicono le tesi bowlbiane, ne illustriamo dettagliatamente i contenuti. Si suppone, dunque, secondo la lettura che ne dà Rutter, che "l’enfasi originaria sui supposti effetti deleteri della separazione come tale sia inesatta" ( Rutter, 1971, 1972). Il disturbo psichiatrico dunque non è, secondo le nuove intrpretazioni, da attribuirsi nè alla separazione nè alla rottura dei legami affettivi, ma ad altri fattori che analizzaremo più in dettaglio tra breve. A tale proposito, si rende necessario rammentare il rilievo, indiscusso secondo l’opinione di Bowlby, che vanno ad assumere le esperienze della prima infanzia, i cui effetti si ripercuotono a lungo termine e con proporzioni amplificate nella vita degli adulti. Bowlby, per esempio, enfatizza il ruolo che la separazione ha nello sviluppo delle forme delinquenziali. Rutter, in contrasto alla visione bowlbiana, sostiene che la separazione non debba essere considerata la causa scatenante il disturbo. Le rivisitazione della teoria dell’attaccamento proposta negli anni settanta, inoltre, tende a sconfermare l’ importanza attribuita da Bowlby alla figura materna. In particolare, si sostiene che l’evidenza empirica non supporta l’ipotesi che il legame più significativo per il bambino sia quello con la madre, che differisce quindi, nel tipo e nella qualità, con i legami instaurati con "altri" emotivamente meno significativi. Le ricerche sulla deprivazione materna pongono quindi una grande enfasi sulle differenze individuali con le quali i bambini reagiscono alla deprivazione stessa. Il richiamo alla peculiarità della risposta infantile è incentivato soprattutto dallo studio sull’invulnerabilità che alcuni bambini mostrano in seguito a situazioni ed eventi che danneggiano il funzionamento psichico. Rutter (1979) specifica che il disaccordo con la visione bowlbiana deriva dall’enfasi con la quale Bowlby riconosce un ruolo primario e privilegiato alla relazione che il bambino stabilisce con la madre stessa. Secondo l’autore, infatti, esso differisce nel tipo e nella qualità con qualsiasi altro tipo di legame. Rutter replica, in risposta, che una simile affermazione non è sostenuta da nessun tipo di evidenza empirica.
Molte indagini hanno mostrato che alcuni bambini non risultano danneggiati da esperienze di separazione dalla figura materna, il che ha incentivato l’esplorazione delle ragioni che sottostanno a detta apparente invulnerabilità , incrementando un campo fertile di ricerche e di studi ( Rutter , 1979 , pag . 283 ) Date queste premesse, diviene più semplice accedere alla critica mossa nei confronti della teoria dell’attaccamento dalla disciplina psichiatrica. L’indagine di Rutter si sofferma a considerare le sindromi psichiatriche ritenute principali ed i meccanismi che soggiacciono alle loro cause. Egli analizza, in primis, la sindrome acuta da stress; il riferimento è rivolto alle intense reazioni emotive mostrate da bambini ospedalizzati. L’ipotesi avanzata privilegia una sorta di interferenza con il comportamento di attaccamento e si allontana dalla convinzione che la condotta degli infanti sia dovuta esclusivamente a motivazioni strettamente legate alla separazione. Lo studio di maggior riferimento, all’epoca, è quello condotto da Hinde e Robertson. Essi osservano che, in seguito ad ospedalizzazione, le risposte emotive dei bambini si presentano con uno stress manifesto molto più acuto ed intenso quando i bambini non sono supportati da un setting a loro familiare. A sostegno della tesi vengono forniti i resoconti di Hinde e colleghi (Hinde & Mc Ginnis, 1977), riguardanti le esperienze di separazione fra i piccoli delle scimmie Rhesus che rivelano la presenza di una forte tensione che caratterizza il momento di riunione tra i piccoli della specie e le loro madri (a seguito chiaramente di una separazione precedente). La separazione, dunque, secondo Rutter, sebbene costituisca un fattore rilevante, non è l’agente causale determinante l’eziologia della sindrome da stress. Si preferisce enfatizzare il rilievo assunto dalla formazione del "legame affettivo" nel processo di attaccamento. Probabilmente, lo stress si manifesta in virtù di un qualche tipo di "interferenza" con il comportamento di attaccamento. L’evidenza empirica poggia a favore di questa possibilità; la separazione, infatti, interviene a distruggere un legame che si era già costituito ed inoltre le condizioni che si verificano durante le separazioni non facilitano certo il comportamento di attaccamento. Crockenberg (1981; cit. in Colin, 1996) dimostra che la rete sociale di supporto che la madre ha intorno a sè può determinare un miglioramento della qualità dell’attaccamento con il bambino. Specificando meglio, egli sostiene che le madri che possono usufruire di una rete di amicizie in grado di sostenerla nei compiti a lei delegati sono in grado di contenere più adeguatamente l’irritabilità del bambino stesso; e conseguentemente fornire un miglior sostegno allo sviluppo dell’attaccamento sicuro. Padri, nonni, amici e zie possono, infatti, proteggere il bambino dai giorni "no" della madre e dagli effetti negativi che una mancata sensibilità nei confronti del bambino inevitabilmente producono. Nella disamina rigardante la teoria dell’attaccamento si analizzano, inoltre, i disturbi legati alla condotta, meglio definiti disturbi antisociali . Gli studi antecedenti al 1972 rintracciano un forte legame esistente tra la sindrome antisociale ed il disaccordo coniugale, anche nei casi in cui questo non sia caratterizzato da una vera e propria separazione o rottura. La disgregazione familiare appare, in questo tipo di disturbo, un elemento che contraddistingue l’evolversi di una socializzazione inadeguata dove i concetti evidanziati da Bowlby acquistano un ruolo marginale. Per esempio, si sostiene che il divorzio abbia un rilievo maggiore nella manifestazione della patologia che non la morte di un genitore. In questo senso, è la relazione interpersonale distorta a proporsi come chiave interpretativa della patologia. I disturbi antisociali sono legati alla disgregazione delle famiglie non perché indotti dalla separazione ma, piuttosto, perché la disarmonia ed il disaccordo coniugale hanno condotto alla rottura (Rutter, 1979, pag. 283). Ricerche scientifiche, in anni più recenti, hanno confermato l’ipotesi originaria. Studi epidemiologici estesi alla popolazione generale mostrano vincoli tenaci tra il disaccordo coniugale e i disturbi della condotta (Rutter, Cox, Tupling, Berger & Yule 1975; West & Farrington 1973, 1977). La separazione dunque viene considerata dall’autore un elemento concorrente alla situazione generante lo stato di stress e non la causa prima e unica delle problematiche infantili. Rutter prende successivamente in considerazione il ritardo intellettuale. All’epoca in cui la sindrome viene discussa ed esaminata, e dunque intorno agli anni settanta, predomina la convinzione che il "personal mothering" (inteso come il peculiare prendersi cura del bambino) non costituisca una determinante fondamentale nello sviluppo cognitivo del bambino. Si preferisce enfatizzare il ruolo dell’ambiente nello sviluppo intellettuale del fanciullo. L’evidenza empirica, a sostegno della tesi avanzata, è supportata dagli studi di Barbara Tizard e altri (Tizard & Joseph, 1970; Tizard & Rees, 1974) con bambini ospedalizzati. I risultati appaiono chiari all’interpretazione: bambini istituzionalizzati dall’infanzia mostrano, esaminati all’età di otto anni, un quoziente intellettivo normale. Tutto ciò lascia intravedere una scarsa rilevanza della deprivazione materna ai fini dello sviluppo intellettivo; infatti, sebbene si evidenzi la presenza di accenti patologici nello sviluppo psicosociale dei fanciulli, in seguito alla discontinuità del legame con figure pseudo-genitoriali, si sottolinea la presenza di quozienti intellettivi che rivelano un’intelligenza normale, tali da sottintendere, quindi, l’ipotesi che la continuità nelle relazioni familiari non rivesta un ruolo centrale nello sviluppo intellettuale. Il ritardo intellettuale è causato dalla mancanza di esperienze cognitive appropriate e non dalla separazione (cit. in Rutter, 1979) Gli studi di Waters, Wippman e Sroufe (1979; cit. in Colin 1996) confermano l’ipotesi evidenziata. Essi, infatti, non riscontrano differenze nel "developmental quotient" (DQ)tra i bambini con attaccamento sicuro rispetto a quelli con attaccamento insicuro o evitante. Matas, Arend e Sroufe (1978; cit. in Colin, 1996) osservano che i bambini con attaccamento sicuro si dimostrano "più entusiasti, persistenti, cooperanti ed efficaci nella risoluzione dei problemi rispetto ai loro compagni con attaccamento ansioso"(eadem, 1996). Essi, infatti, manifestano meno frustrazione, piangono meno, ed esibiscono una aggressività minore nei confronti della madre. In conseguenza di ciò, Rutter sottolinea l’assurdità di una presunta indipendenza dello sviluppo intellettuale dalle relazioni interpersonali. La vita emotiva e quella sociale del bambino, infatti, non possono essere considerate entità scisse le une dalle altre. Le ricerche di Clarke-Stewart (1973) rivelano che l’attenzione materna è correlata con cambiamenti nello sviluppo del quoziente dei bambini; Mc Call, Appelbaum e Hogarty (1973) concludono asserendo che il comportamento genitoriale è correlato al quoziente intellettivo nella tarda adolescenza, ed infine gli studi di Tizard, Cooperman, Joseph e Tizard (1972) mostrano significative correlazioni fra le esperienze di bambini istituzionalizzati ed il loro livello di comprensione linguistica. Sebbene, dunque, non si conoscano ancora i meccanismi associati a tali risultati, l’evidenza che le esperienze di apprendimento in, o al di fuori da, un contesto familiare influenzino lo sviluppo cognitivo appare incontrovertibile. Ad esaltare la veridicità delle teorie bowlbiane, le ricerche fatte evidenziano all’unanimità il rilievo della "qualità" delle esperienze intellettuali ed emotive; in particolare, l’interscambio che avviene durante la comunicazione verbale sembra assumere un’importanza cruciale rispetto alla quantità di stimolazioni fornite al bambino. In ultima istanza, Rutter sottopone ad analisi la sindrome da psicopatia anaffettiva. La ricerca, in tal senso, sembra essersi scarsamente direzionata verso il suo approfondimento, lasciando emergere quasi esclusivamente un’anormalità nello sviluppo del legame di attaccamento, con particolare riferimento alla determinazione delle relazioni sociali. Si suppone che l’anaffettività presente nella psicopatia non sia dovuta lla rottura delle relazioni sociali ma, piuttosto, ad un fallimento iniziale nella formazione dei legami affettivi. Bowlby, in questo senso, dedica un’attenzione particolare all’indiscusso rilievo che, nella sua prospettiva, hanno i legami affettivi dei primi anni di vita. L’attaccamento alla madre in età precoce si conferma essere, infatti, il precursore essenziale delle future relazioni sociali. L’evidenza empirica dimostra che i bambini sviluppano un attaccamento verso una particolare persona (che, di solito, è la madre) intorno ai sei, dodici mesi di vita. Fattori quali: ansia, paura, malattia o fatica, incrementano la tendenza del bambino a ricercare modalità di attaccamento a determinate figure (Bowlby, 1969; Maccoby & Masters, 1970). Si suppone, quindi, che il legame di attaccamento si sviluppi preferenzialmente con persone che attivamente si prodigano per il benessere del bambino stesso, in ogni tempo ed in ogni condizione. Madri attente e responsabilmente sensibili predispongono la personalità del bambino a formarsi con modalità "sicure" di attaccamento. La mancanza qualitativa di tali requisiti sembra divenire terreno fertile nell’evoluzione della sintomatologia nevrotica. Le critiche mosse nei riguardi del concetto di legame di attaccamento (affective bonding) sono, negli anni settanta, numerose. Il legame affettivo è, naturalmente, una metafora. Esso simbolizza le manifestazioni affettive positive racchiuse nelle reazioni sorridenti, accoglienti e rumorose di chi si prende cura del bambino e dell’apparente sicurezza che deriva dalla semplice presenza e, successivamente, dalla rappresentazione interna della persona che dispensa l’affetto. Esso è una simbolica catena psicologica che lega il bambino e la figura di attaccamento insieme (cit. in Sroufe, Waters, 1977, pag. 1186). Le difficoltà nel rendere il concetto operazionalizzabile si sono rivelate molteplici; soprattutto poichè il concetto è difficilmente misurabile (Rosenthal, 1973; citato in Sroufe, Waters, 1977). Nondimeno, scindere il concetto di legame dalla teoria dell’attaccamento significa eliminare la validità del costrutto stesso di attaccamento. Weinraub (1977, cit. in Sroufe, Waters) asserisce, in difesa delle ipotesi di Bowlby, che le difficoltà nella misurazione o nella dimostrazione in laboratorio della validità del concetto non costitiscono una motivazione sufficiente a sostenere la superficialità del concetto stesso. In particolare, la sensibilità materna sembra essere una delle qualità primarie nello stabilirsi del legame di attaccamento sicuro. Numerose ricerche, in proposito, hanno evidenziato il valore della sensibilità genitoriale nell’instaurare un comportamento di reciprocità con i segnali emessi dal bambino ( Brazelton, Tronick, Adamson, Als & Weise 1975; Condon, Sander 1974; Stern, Jaffe, Beebe & Bennett, 1975; Brown & Bateman, 1978). Gli studi al riguardo hanno, ad ogni modo, presentato numerose difficoltà. I problemi più frequenti nascono in conseguenza dell’interpretazione dei risultati poichè le ricerche sembrano fornire risultati contrastanti. Ainsworth, Bell e Stayton mettono , infatti, in evidenza che l’immediata risposta della madre al pianto del bambino è efficace nell’interruzione del pianto stesso, tuttavia non specificano l’abilità parentale necessaria nel riconoscimento dei diversi tipi di pianto. Tra i punti di forte controversia nello stabilirsi del legame di attaccamento ricordiamo inoltre il concetto di monotropia. L’evidenza empirica dimostrata negli anni settanta poggia a favore del riconoscimento che i bambini sviluppano attaccamenti multipli. Le argomentazioni che Bowlby porta a sostegno del concetto di monotropia stabiliscono che il bambino consolida una relazione con la madre ( o, comunque, con la figura di attaccamento principale) che si struttura in maniera completamente diversa rispetto ad ogni altro tipo di relazione. E’ a causa di questa marcata tendenza al monotropismo che siamo capaci di emozioni profonde, perché avere un attaccamento profondo ad una persona (o ad un posto o ad una cosa) vuol dire averli presi come oggetti su cui terminano le nostre risposte istintuali . (Bowlby, 1988). Tutto ciò implica che gli attaccamenti che il bambino instaura con il mondo esterno differiscano in intensità e non siano facilmente interscambiabili. Le prove a favore di questa ipotesi sono numerose; persino i bambini istituzionalizzati tendono ad eleggere un loro adulto preferito e le ricerche della Ainsworth (1967) dimostrano l’esistenza di una gerarchia nella forza emotiva con cui gli attaccamenti si costruiscono. Alcune ricerche ad opera di Farran e Ramey (1977; cit. in Colin, 1996) mostrano una chiara preferenza accordata dal bambino alla figura materna rispetto alle altre persone che si prendono cura del piccolo. Allo stesso tempo, però, l’ipotesi di Bowlby dovrebbe evidenziare anche una differenza nella "qualità" dell’attaccamento ritenuto primario rispetto agli altri attaccamenti sussidiari. Questo non accade nell’evidenza empirica; si nota, infatti, da numerose ricerche, che le risposte alle condizioni di stress (che notoriamente tendono ad enfatizzare la risposta di attaccamento) appaiono essere le medesime, non solo nei confronti della figura materna -così come Bowlby ha sottolineato- ma anche nei confronti dei padri (Lamb, 1977), dei sostituti materni all’interno delle nurseries (Arsenian, 1943) e degli altri bambini. Rutter (1972), ad ogni modo, rimarca che le ricerche citate hanno considerato comunque bambini che avevano già consolidato legami affettivi con la figura materna. I fattori principali che determinano la preferenza per specifiche figure di attaccamento sembrano essere fondamentalmente quattro; ricordiamo dunque il tempo trascorso con il bambino; la qualità delle cure fornitegli; l’investimento emotivo dell’adulto nei confronti del bambino ed, infine, i suggerimenti dispensatigli dagli adulti a lui vicini (Colin, 1996). Bowlby, in questo senso, afferma che i legami selettivi precoci sono determinanti nel costituire le fondamenta della personalità sociale del fanciullo. Le figure di attaccamento secondarie acquistano dunque una importanza considerevole nel mitigare lo sconforto che segue l’assenza della figura di attaccamento primaria e nel compensare le carenze affettive di madri ansiose. Le ricerche promosse intorno agli anni settanta rilevano una correlazione esistente tra i legami precoci e il successivo sviluppo sociale, ma detta covariazione può subire delle modifiche nel corso della crescita del fanciullo. Le ricerche di Tizard e Hodge (1978) hanno focalizzato l’attenzione sul ruolo delle esperienze precoci nello sviluppo "normale" della personalità analizzando la fomazione iniziale degli attaccamenti selettivi. I soggetti utilizzati allo scopo erano bambini adottati dopo i quattro anni. I risultati delle ricerche mostrano un’elevata capacità di questi bambini nel formare significative relazioni affettive con i genitori adottivi. Lo stesso esito è verificato nei bambini che in istituto avevano difficoltà nella socializzazione. Purtroppo, sebbene l’attaccamento possa evolversi adeguatamente negli anni successivi alla nascita, lo sviluppo della socializzazione non è direttamente correlato all’attaccamento e dunque si possono registrare difficoltà scolastiche nei bambini adottati o istituzionalizzati. Gli studi sulle correlazioni esistenti tra attaccamento e interazioni sociali hanno dato risultati divergenti. In particolare, Lamb (1977) osserva che mentre il gioco sociale è inibito dall’ansia, il comportamento di attaccamento ne risulta intensificato. Il suo studio rivela, infatti, che all’ingresso di un estraneo in una stanza dove sono presenti i genitori, il bambino diminuisce l’interazione sociale con i compagni di giochi ricercando le figure parentali. Negli anni settanta, ad ogni modo, molte domande sulle relazioni tra attaccamento e formazione dei sintomi psichiatrici non riescono ad evere risposte adeguate. Tra i quesiti maggiormente dibattuti in quegli anni ricordiamo la controversia sul processo di formazione del legame di attaccamento. Più in particolare, si fa riferimento alla possibilità che tale legame nasca in conseguenza di una propensione innata e se esso sia un processo qualitativamente distinto da altre forme di apprendimento sociale. Le ricerche nel settore, infatti, non sembrano fornire risposte chiare. Gli studi sul legame di attaccamento nei bambini maltrattati sono quelli che hanno fornito la documentazione più consistente. Bowlby (1969) dichiara, dunque, che l’attaccamento si consolidi in funzione di una risposta sensibile e individualizzata delle figure parentali nei confronti delle esigenze dei bambini. Le ricerche di Harlow e altri (cit. in Rutter, 1979) sul maltrattamento, in realtà, verificano che le vittime di trattamenti severi e violenti sviluppano forme di attaccamento molto intense verso i loro "torturatori". Allo stesso modo, le ricerche etologiche sulla formazione dell’attaccamento negli oggetti inanimati dimostrano una verità discordante se paragonate ad osservazioni nei soggetti umani. Sono noti gli studi di Harlow sulle scimmie Rhesus, per cui gli animali (socialmente isolati) instaurano un forte legame affettivo con surrogati materni in tessuto. La ricerca, dunque, lascia presagire che l’attaccamento si sviluppi anche per gli oggetti inanimati. Le osservazioni con i bambini istituzionalizzati però sconfermano l’ipotesi avanzata. Infatti, questi soggetti appaiono molto poco propensi a sviluppare una qualche forma di attaccamento con giocattoli di pelouche o simili (Passman & Weisberg, 1975). La teoria dell’attaccamento postula quindi una "generalizzazione" dell’attaccamento anche alle cose inanimate, ma, osservano gli autori, se è vera l’ipotesi che esiste una propensione biologica a creare attaccamenti, non è chiaro il motivo per cui i bambini istituzionalizzati (che già non hanno la possibilità di sviluppare attaccamenti intensi per un’unica figura emotivamente significativa) non formino legami sostitutivi con i giocattoli stessi. In contrasto, Marchant, Howlin, Yule e Rutter (1974) notano che i bambini autistici, i quali di fatto sembrano non sviluppare nessuna forma di contatto con l’ambiente esterno, si mostrano molto interessati agli oggetti e stabiliscono con essi delle forme di attaccamento molto intense. La particolarità di assoluta rilevanza nelle osservazioni con le scimmie rhesus conduce ad una riflessione profonda. Si notano, infatti, in questi animali, grosse difficoltà nello sviluppo di normali relazioni sociali; fattore, questo, che non è rilevabile nei soggetti che hanno sviluppato attaccamenti con figure parentali a loro simili (cit. in Rutter, 1979). Le osservazioni scientifiche che hanno promosso l’approfondimento della validità della teoria dell’attaccamento negli anni settanta ci conducono a supporre che la ricerca teorica non sia, in questi anni, ancora conclusa. Appare evidente che esistono lacune profonde nella verifica delle ricerche fatte. Numerose prove poggiano a favore dell’ipotesi di una concorrenza delle concomitanti biologiche nell’evoluzione della personalità; allo stesso modo, si osserva che l’apprendimento sociale, in questi anni, appare di rilevanza maggiore rispetto al valore dei legami di attaccamento. L’interesse di Bowlby per l’attaccamento e le conseguenze che seguono le separazioni attirano l’attenzione di Colin Parkes, il quale si unisce agli studiosi della clinica Tavistock nel 1962. La curiosità di Parkes è stimolata dallo studio di Bowlby riguardante l’elaborazione del lutto; anch’egli sta, infatti, conducendo una ricerca sugli effetti della perdita. Parkes apprezza l’importanza della prospettiva di indagine delle osservazioni di Robertson e Bowlby e dunque, in collaborazione con gli operatori della clinica Tavistock, intraprende uno studio non clinico con un gruppo di vedove per verificare l’andamento del processo di elaborazione del lutto con un gruppo di adulti normali. La ricerca è nuova nel suo genere, poiché in questi anni le conoscenze al riguardo sono ancora piuttosto scarse. I risultati vengono raccolti in un volume curato da Parkes in collaborazione con lo stesso Bowlby(1972) in cui si descrivono quattro fasi di elaborazione dell’angoscia successiva alla perdita nei soggetti adulti. In particolare, gli autori evidenziano : a) un primo momento di stordimento, in cui non si è ancora presa coscienza del fatto accaduto; b) la protesta, accompagnata da un senso di struggimento rabbioso; c)la disorganizzazione e la disperazione, dopodiché si è compresa l’ineluttabilità degli eventi; d) un’ultima fase in cui il soggetto inizia a riorganizzare la propria esistenza accettando la perdita avvenuta (Parkes, 1972).
2.3. Gli studi a carattere longitudinale quali precursori di un modello relazionale dei disturbi psichiatrici
L’area in cui si sono compiuti i progressi più notevoli e che porta la promessa più grande per il futuro è quella degli studi longitudinali (Heard, 1987). Con questa affermazione la Heard introduce il paragrafo: "Longitudinal Studies", dedicato al rilievo che la teoria dell’attaccamento ha assunto nella definizione della pratica psichiatrica infantile (eadem, 1987). Si evidenzia, quindi, alla luce delle ricerche attuate nel campo dell’attaccamento, l’impostazione metodologica profondamente differente (rispetto ai classici canoni di indagine della psichiatria) adottata da John Bowlby. Come ha sottolineato Kuhn, qualunque nuovo schema di riferimento concettuale è difficile da afferrare, specialmente per coloro che hanno una lunga consuetudine con una teoria precedente. Descriverò solo alcune delle molte difficoltà che ho incontrato nella comprensione della teoria adottata. Una difficoltà è sorta dal fatto che, invece di iniziare con una sindrome clinica di anni più tardivi e di cercare di rintracciare le sue origini retrospettivamente, ho cominciato con un gruppo di traumi infantili e ho cercato di tracciarne le sequele, in prospettiva . Una seconda è che, invece di iniziare con i pensieri e i sentimenti privati di un paziente, espressi tramite le libere associazioni o il gioco, e di cercare di costruire una teoria dello sviluppo della personalità a partire da quei dati, ho iniziato con l’osservazione del comportamento dei bambini in determinate situazioni specifiche, comprese la registrazione dei sentimenti e dei pensieri che essi esprimevano, e ho cercato di costruire una teoria dello sviluppo della personalità a partire da queste osservazioni. (Bowlby, 1988) L’importanza degli studi longitudinali inerenti alla teoria dell’attaccamento è da cogliersi in relazione al concetto di stabilità degli schemi con i quali il bambino si lega alle figure emotivamente significative. Il procedimento della Strange Situation, ideato da Mary Ainsworth e colleghi, è teso ad individuare le caratteristiche socioemotive di bambini di un anno lungo una dimensione sicurezza-insicurezza che si ipotizza resterà invariata in contesti diversi da quello prettamente sperimentale. Non solo, Bowlby (1969) puntualizza che "oggi la nostra fiducia nella validità di questa classificazione è enormemente accresciuta dalla scoperta che, a condizione che l’ambiente familiare rimanga stabile, si può prevedere non solo che il modello di attaccamento si manterrà invariato durante il secondo anno di vita, ma anche che negli anni successivi sarà possibile verificare la correlazione delle modalità di attaccamento con le modalità di comportamento sociale e di gioco in compagnia di altri bambini o di adulti diversi dalla madre. E’ così finalmente disponibile uno strumento per valutare quei tratti della personalità che appaiono costanti lungo lo sviluppo, e che finora erano così sfuggenti" (ibidem, 1969, pagg. 435-436). Al proposito, lo studio di Mary Ainsworth, Alicia Lieberman e Mary Blehar (1977) supportato dal Foundation Fund for Research in Psychiatry, si viene a determinare quale componente di importanza fondamentale nella verifica delle ipotesi mosse dalla teoria dell’attaccamento. La ricerca si propone l’osservazione longitudinale di un gruppo composto da 26 bambini, di età compresa tra le sei e le quindici settimane, interagenti con le loro madri alla presenza di un osservatore relativamente estraneo alla coppia. L’interazione cui gli autori fanno riferimento è sia visiva che fisica. Essi si rivolgono alla comunicazione face-to-face che madre e bambino attivano nei primi mesi di sviluppo del piccolo. Il volto umano, in questo periodo della vita, è un potente veicolo di trasmissione delle emozioni; il bambino, infatti, non ha ancora acquisito il linguaggio verbale e quindi comportamenti quali il sorridere, il guardare, l’emettere vocalizzi diventano i segnali premonitori dei futuri legami di attaccamento. Stern (1974; cit. in Ainsworth, 1978), in concomitanza all’indagine, osserva che esiste una tendenza, da parte delle madri, a prolungare il tempo di interazione col bambino, esagerando le espressioni facciali e vocali in modo da evocare una risposta nel bambino. Lo studio dunque si prefigge quale scopo l’individuare l’abilità del bambino nel riconoscere la figura materna, discriminandola da quella di un soggetto osservante e relativamente estraneo alla coppia. Tale competenza viene individuata dagli autori nella maggiore emissione -da parte del bambino- di sorrisi, sguardi e vocalizzazioni diretti alla figura verso la quale si sta consolidando il legame di attaccamento. La capacità discriminante che il piccolo dimostra nel riconoscere la madre viene considerata un segnale qualificante l’attaccamento del bambino verso la figura materna. Gli studi di Ainsworth (1967), Schaffer ed Emerson(1976) suggeriscono che è proprio in virtù di questa abilità discriminatoria mostrata dal bambino che la connessione con la suddetta formazione del legame di attaccamento viene ad inserirsi in maniera privilegiata. Gli autori ipotizzano dunque che il legame di attaccamento così determinato diventerà la base sicura cui l’individuo farà riferimento soprattutto nei periodi di notevole stress. Implicito in questa ricerca è la nozione che, quando un bambino dirige sorrisi, sguardi, vocalizzazioni verso una persona piuttosto che un’altra, egli è in grado di discriminare tra esse. Per questo motivo, il comportamento preferenziale per una figura specifica è stato, spesso, considerato il segnale dell’attaccamento del bambino verso quella determinata figura (Ainsworth , 1977). Bowlby, nel testo "Una base sicura", puntualizza, infatti, che : Il comportamento di attaccamento è quella forma di comportamento che si manifesta in una persona che consegue o mantiene una prossimità nei confronti di un’altra persona, chiaramente identificata, ritenuta in grado di affrontare il mondo in modo adeguato. Questo comportamento diventa molto evidente ogni volta che la persona è spaventata, affaticata o malata, e si attenua quando si ricevono conforto e cure. Altre volte il comportamento è meno evidente. Nondimeno, per una persona, il fatto di sapere che una figura di attaccamento è disponibile e pronta a rispondere è un fatto che fornisce un forte e pervasivo senso di sicurezza, e incoraggia a dare valore alla relazione e a continuarla. (Bowlby, 1988) Virginia Colin, in "Human Attachment" del 1996, fa rifeimento alle opinioni di Lamb, Thompson, Gardner e Charnov, che nel 1985 concludono un importante studio sui limiti metodologici dell’indagine di Baltimora. Essi sostengono che l’opera della Ainsworth è diretta maggiormente ad evidenziare un’ipotesi esplorativa piuttosto che "a hypothesis-testing study" (eadem, pag. 80).Infatti, secondo l’opinione degli autori, il campione utilizzato dalla Ainsworth e collaboratori è troppo esiguo per poter inferire congetture universali sullo sviluppo della personalità infantile. Bowlby individua inoltre una certa stabilità negli schemi di interazione (Holmes, 1993). Conseguentemente, egli ritiene che il modello di attaccamento cui il bambino fa riferimento tenderà a mantenersi invariato anche nel secondo anno di vita, qualora l’ambiente familiare tenda a rimanere stabile (Bowlby, 1969). Le prove che Bowlby apporta a verifica delle teorie da lui avanzate concernono alcuni studi longitudinali condotti negli anni settanta e che, a detta dell’autore, verificano appieno la validità della teoria dell’attaccamento. Egli, in particolare, fa riferimento alle ricerche eseguite a Baltimora dalla Main (1973; cit. in Colin 1996). Nello studio si procede all’accertamento della stabilità del comportamento di attaccamento con bambini classificati all’età di dodici mesi con il metodo della Strange Situation. Più in particolare, si osservano i bambini in situazioni di gioco libero e di gioco in compagnia di un adulto estraneo. I risultati della ricerca evidenziano che "i bambini che erano stati classificati sicuramente attaccati si impegnavano per un tempo più lungo in ciascun episodio di gioco, mostravano un interesse più intenso per i giocattoli e una maggiore attenzione ai particolari, ridevano e sorridevano più spesso di quelli che erano stati classificati evitanti o ambivalenti. Inoltre, i bambini sicuri erano più cooperanti, sia con la madre che con le altre persone" (Bowlby, 1969, pag. 436). Waters, Wippman e Sroufe (1979, cit. in Bowlby, 1969), in un altro studio longitudinale, osservano bambini ( che a quindici mesi venivano classificati "ansiosi" o "sicuri") all’età di tre anni e mezzo alla scuola materna. I dati evidenziati rilevano che esiste una maggiore competenza sociale, una maggiore curiosità e una maggiore sensibilità al dolore altrui, nei bambini classificati come sicuramente attaccati rispetto a quelli ritenuti ansiosi. Bowlby, al proposito, conclude: Dunque, negli anni prescolari, la qualità positiva del comportamento del bambino "sicuro" è ormai intrinseca al bambino stesso e, come prevede la teoria, non dipende più dalla presenza della madre (ibidem, 1969, pag. 437)
Diviene possibile ipotizzare, dunque, che il modello di attaccamento che caratterizza un bambino all’età di dodici mesi, sarà foriero di indicazioni riguardanti le modalità esplorative e comportamentali nelle età successive dello stesso bambino. Allo stesso tempo, Bowlby denuncia che numerosi studi sembrano confermare l’ipotesi che "esista nel primo periodo della vita una fase sensibile, trascorsa la quale sviluppare una capacità di instaurare attaccamenti scuri e diversificati diventerebbe sempre più difficile; in altri termini, il modello secondo il quale si è organizzato il comportamento di attaccamento tende a persistere e, mano mano che il bambino cresce, a modificarsi meno e meno facilmente, e sempre meno completamente, in base all’esperienza" (ibidem, 1969, pag.442). In disaccordo con le opinioni di Bowlby, Alan ed Ann Clarke (1976), in una revisione dei concetti sull’importanza dei periodi critici nell’infanzia, sostengono che i primi anni di vita non siano più formativi rispetto agli altri. Gli autori difendono l’idea che lo sviluppo debba essere preso in considerazione nella sua globalità. L’evidenza empirica, ad ogni modo, sembra difendere le idee bowlbiane. E’ noto, infatti, quanto numerosi disturbi adolescenziali, per esempio, abbiano origine negli anni dell’infanzia; conseguentemente, l’intervento terapeutico è molto più difficoltoso nel caso di disturbi persistenti affrontati in epoche successive ai tempi dell’esordio della patologia. L’ambiente, a detta di Bowlby, acquista un rilievo determinante; l’entità della cronicizzazione del disturbo acquisterà quindi una consistenza maggiore a seconda che il bambino abbia convissuto in ambienti patogeni per tempi più o meno lunghi. Gli studi sullo sviluppo intellettuale hanno dimostrato che bambini severamente "deprivati" hanno acquisito un normale QI se inseriti in ambienti sani all’età di sei-sette anni (cit. in Rutter, 1979). Purtroppo, è oltremodo vero che le esperienze positive dell’età infantile non riescono a proteggere sufficientemente quei bambini inseriti in ambienti familiari considerati "a rischio". Gli studi longitudinali promossi negli anni settanta hanno illuminato alcune interpretazioni che, in anni successivi, hanno verificato in gran parte la loro veridicità. Rutter & Madge (1976) hanno dunque evidenziato come gli stress isolati non siano in grado di condurre a disturbi a lungo termine della personalità, i quali, al contrario, trovano terreno fertile alla crescita se individuati in ambienti cronicamente svantaggiati. Per l’indiscussa importanza riconosciutagli, facciamo inoltre riferimento allo studio longitudinale di Minneapolis, iniziato nel 1975 e conclusosi nel 1984 ad opera di Egeland e Farber (cit. in Colin, 1996). E’ questa una replicazione parziale del lavoro di Mary Ainsworth e colleghi e tratta la valutazione di 267 neonati assieme alle loro madri; le famiglie in esame sono economicamente svantaggiate. Esso supporta integralmente l’ipotesi inerente alla sensibilità materna; infatti, si riscontra che, per madri responsabili e sensibili, i bambini presentano un attaccamento sicuro. Al contrario, una scarsa sensibilità nell’atteggiamento materno conferma un attaccamento insicuro o addirittura evitante presente nel piccolo. Ad ogni modo, la Colin sottolinea che non tutte le misure disponibili nel calcolare la sensibilità materna costituiscono validi predittori dell’attaccamento sicuro. Le osservazioni delle differenze nella qualità del contatto fisico, la facilità nell’elargire le cure materne e la possibile attenzione nell’alimentazione del bambino a tre e a sei mesi non sono sufficienti a distinguere quei bambini che svilupperanno un attaccamento sicuro da quelli che non lo faranno. Come sottolineato precedentemente, la sensibilità e la cooperazione misurate a sei mesi confermano la relazione prevista dalla Strange Situation per l’intero gruppo, ma non per i sottogruppi di ragazze (Colin, 1996, pag. 81). Dalla critica della Colin emerge che la differente significatività tra maschi e femmine sia da attribuirsi alla brevità delle osservazioni, che non riuscirebbero a focalizzare adeguatamente la relazione diadica quotidiana dei soggetti in esame. Tuttavia, in anni più recenti numerosi altri studi longitudinali hanno confemato appieno l’ipotesi di Bowlby inerente alla portata del concetto di sensibilità materna, validando appieno la solidità delle concezioni della teoria dell’attaccamento. Una delle particolarità che caratterizzano l’approccio bowlbiano alla psichiatria e lo dissociano dalla pratica classica è rivelabile da alcuni dati inerenti al metodo di osservazione del comportamento interattivo che lega le madri ai loro piccoli. Ciò che ci proponiamo di evidenziare con questa affermazione è il rilievo assunto dai metodi di ricerca utilizzati dai collaboratori di John Bowlby. In particolare, è doveroso notare il risalto concesso all’ osservazione naturalistica; non solo come metodo di indagine nuovo nella pratica psicologica, ma come fattore concorrente all’espansione della prospettiva relazionale nell’individuazione dell’eziologia stessa del disturbo psichiatrico. Dalla ricerca della Ainsworth emerge che i bambini vengono visitati all’interno delle loro case, a intervalli di tre settimane, in occasioni in cui la madre è invitata ad assumere atteggiamenti molto naturali. Donata Francescato, nel testo "Psicologia di Comunità" (Francescato, 1977), riporta un brano tratto da un lavoro di Haley (Haley, 1971) in cui l’autore descrive particolareggiatamente il clima culturale che presiede all’emergere del "modello relazionale dei disturbi psichiatrici e dei rapporti umani in generale"(Francescato, 1977). Alla metà del secolo le scienze sociali divennero più sociali : si diffuse lo studio dei piccoli gruppi, gli animali vennero osservati nel loro ambiente naturale invece che in laboratorio, gli esperimenti psicologici furono visti come situazioni sociali, le industrie furono studiate come sistemi complessi , gli ospedali psichiatrici furono descritti come istituzioni totali e l’ecologia si sviluppò come una disciplina speciale che concepiva l’uomo e le altre creature come inseparabili dal loro ambiente. Seguendo questo mutamento di prospettiva, ricercatori e terapisti intrapresero l’insolito metodo di osservare direttamente intere famiglie. Invece di dipendere da quello che una persona diceva della sua vita famigliare, il ricercatore cominciò ad osservarla mentre interagiva direttamente con la sua famiglia (Haley, 1971, pag.1). Virginia Colin, nel testo "Human Attachment"(1996) descrive l’importanza assunta dall’osservazione naturalistica (che negli anni settanta si stava estendendo anche ad indagini trans-culturali) associata agli studi longitudinali esprimendosi in questi termini: Oltre ad essere naturalistiche, le osservazioni devono essere anche longitudinali ( prolungate per periodi di mesi o di anni) e durature per acquisire una loro precisa utilità. Una ragione di ciò risiede nel fatto che i ricercatori possono osservare più accuratamente lo sviluppo degli schemi di interazione e la loro evoluzione nel tempo. Una seconda ragione è che la presenza di un osservatore rende, inizialmente, il contesto situazionale innaturale. I bambini, infatti, reagiscono naturalmente alla presenza di un estraneo nella stanza. I genitori tendono a fare in modo che la casa sia pulita, che il piccolo sia ben vestito assumendo inotre comportamenti innaturali (eadem, 1996, pag. 32) La Colin mette dunque in evidenza la necessità di un periodo di tempo più o meno lungo per instaurare un clima confidenziale dove i soggetti sperimentali possano rilassarsi e quindi manifestare un comportamento maggiormente spontaneo e disteso. E’ da sottolineare, inoltre, la variabilità giornaliera del comportamento stesso; è questa un’altra ragione per cui si preferisce utilizzare lo studio a carattere longitudinale. In conseguenza di ciò in America, e successivamente nel continente europeo, come sottolineato da D’Amato (1969), si inizia a parlare di orientamento preventivo. Il termine contiene in sé, oltre all’idea di guida, l’idea di "anticipazione" degli eventi futuri. In questo senso, si fa riferimento all’insieme di conoscenze che dovrebbero essere "spostate" dagli specialisti del settore sui genitori del bambino, in modo da metterli in condizione di comprendere i passaggi evolutivi ai quali i bambini sono sottoposti. La formulazione di attributi, o previsione, quindi, è seguita da qualcosa di simile a un’istruzione, a una guida, all’esercizio, all’osservazione, e alla comprensione, con la speranza e l’assunto che le conoscenze del pediatra possano essere trasferite alla madre, in modo da migliorare le capacità di questa nella sua funzione di guida, per il bene del bambino. (D’Amato, 1969, pag. 14) Haley, in proposito, prosegue le sue argomentazioni evidenziando: Questo tipo di osservazione portò ad un salto di qualità nelle teorizzazioni sui problemi umani, che ebbe molte conseguenze. Una conseguenza fu l’idea dell’intervento terapeutico per cambiare le interazioni tra i membri d’una famiglia (Haley, 1971, pag . 1). Si incentivano, dunque, i contatti diretti con le famiglie, sotto forma di "casework", di terapia di gruppo dei genitori ed, infine, di terapia della famiglia. L’interesse verso le interazioni familiari è comunque presente già da qualche decennio. Bowlby, nel testo "Attaccamento e perdita" (1975), accenna all’originale lavoro di Johnson e colleghi riguardante la fobia scolastica. Allo scopo di sottolineare la dinamica familiare che sottostà al disturbo, la Johnson abbandona l’espressione fobia della scuola per sostituirla con il termine "angoscia di separazione"(cit. in Bowlby, 1975). L’accento posto sulle relazioni familiari concentra un forte interessamento nei confronti del ruolo che l’uno o l’altro genitore svolge nel determinare (e perpetuare) il disagio emotivo. Le principali tendenze teoriche di questi anni individuano alcuni modelli di interazione familiare autorigenerantesi, anticipando i concetti su cui la dottrina relazionale stabilirà i suoi capisaldi. Bowlby, a tal fine, commenta : Quando si considerano questi casi alla luce dei quattro schemi descritti d’interazione familiare, si vede innanzitutto che, una volta che i fatti siano noti e il modello familiare sia identificato, di solito il comportamento di un ragazzo è facilmente intelligibile in base alla situazione in cui egli si trova; in secondo luogo che sono tanto erronei quanto ingiusti gran parte dei giudizi fino ad oggi emessi dai medici su tali ragazzi, che sono stati viziati da eccessiva indulgenza, che hanno paura di crescere, che sono importunamente avidi, che desiderano restare dei neonati per sempre attaccati alla madre, che hanno delle fissazioni e delle regressioni (Bowlby, 1975, pag . 357) D’altro canto, già gli scritti di Sullivan avevano contribuito ad indirizzare la psichiatria verso un modello relazionale di approccio alla sintomatologia psichiatrica. Sullivan, infatti, pensava di poter applicare il metodo scientifico allo studio dei processi interersonali facendo riferimento soprattutto alle componenti non verbali della situazione: il tono di voce, il modo con cui i pazienti articolavano il discorso, l’espressione del viso e gesti. In seguito a questa particolare corrente di pensiero, l’indagine relativa al contesto situazionale e metalinguistico in cui il paziente è inserito assume proporzioni rilevanti. Uno dei contributi più importanti allo sviluppo del modello relazionale di approccio alla sintomatologia psichiatrica è fornito dagli studiosi del gruppo di Palo Alto; l’analisi di Bateson -negli anni cinquanta- degli schemi comunicativi propri del paziente schizofrenico illumina un’area per la quale non si era riconosciuta l’importanza primaria; allargare al gruppo familiare l’osservazione delle dinamiche e delle interazioni conduce i gruppi di ricerca ad una realtà "del tutto inaspettata" (Cancrini, Malagoli Togliatti; 1976, pag. 35). La comunicazione delle schizofrenico, che fino a quel momento era considerata uno dei muri più impenetrabili delle manifestazioni psicotiche, perde -se inserita nel contesto in cui essa prende origine- "la sua incomprensibilità e la sua apparente mancanza di significato" (ibidem, 1976, pag. 35). L’analisi del contesto interpersonale è dunque utilissima per la comprensione dei comportamenti sintomatici descritti nell’ambito della psichiatria clinica. Si presume, in questo senso, che il "sintomo" psichiatrico appartenga ad una classe particolare di canali di comunicazione e sia indiscutibilmente collegato agli schemi di interazione che vengono proposti all’interno della famiglia considerata nel suo insieme. Watzlawick, descrivendo la comunicazione patologica, in particolare, accenna alla disconferma (corsivo mio) subita dal paziente schizofrenico; il concetto si inserisce nella nostra ricerca in maniera privilegiata poichè Bowlby (insieme a Ronald Laing ed altri) è tra i primi psichiatri a coglierne il valore relativo all’eziologia dl disturbo psicologico. La disconferma (che osserviamo nella comunicazione patologica) non si occupa più della verità o della falsità - se ci fossero tali criteri - della definizione che P ha dato di sé, ma piuttosto nega la realtà di P come emittente di tale definizione. In altre parole, mentre il rifiuto equivale al messaggio "Hai torto", la disconferma in realtà dice "Tu non esisti". O, per usare termini più rigorosi, se paragonassimo la conferma o il rifiuto del Sé altrui rispettivamente ai concetti di verità e falsità (cioè ai termini che si usano in logica), in tal caso dovremmo far corrispondere la disconferma al concetto di indecidibilità (corsivo mio) che - come è noto - è di un ordine logico diverso ( Watzlawick, Beavin, Jackson; 1967; pag. 78) Ciò che preme sottolineare, dunque, ai fini del nostro elaborato, è l’interesse indiscusso che gli studi a carattere longitudinale hanno attivato nella ricerca scientifica. Essi sono andati ad inserirsi all’interno di una prospettiva relazionale di cui Bowlby, assieme a numerosi suoi colleghi, ne aveva percepito la validità. In anni molto recenti, i follow-up delle ricerche a lungo termine (Breterthon, 1991; cit. in Holmes, 1996) mostrano che i bambini con attaccamento sicuro all’età di un anno manifestano una maggioresicurezza all’ingresso nella scuola, interagendo serenamente con compagni e professori. E’ vero comunque che le circostanze ambientali negative costituiscono elementi invalidanti l’attaccamento sicuro. Concludiamo facendo riferimento ad un brano del testo "Attaccamento e Perdita" (1969) nel quale l’autore muove alcune affermazioni significative ai concetti di cui noi ci stiamo interessando. Nessun aspetto della psichiatria infantile degli ultimi anni è così significativo come il crescente riconoscimento che i problemi che essa è chiamata ad affontare spesso non sono problemi limitati agli individui, ma in genere derivano dalle modalità stabili d’interazione sviluppatesi tra due, e più spesso tra più membri di una famiglia. L’abilità diagnostica consiste nella valutazione di queste modalità d’interazione, e delle disposizioni che in ogni membro della famiglia contribuiscono a mantenerle; l’abilità terapeutica consiste nel ricorso a tecniche che permettano di apportare dei cambiamenti più o meno concomitanti in tutti i membri di una famiglia, in modo che si possa instaurare e stabilizzare una nuova modalità d’interazione (ibidem ,1969, pag. 421).
2.3.1. Il ruolo della clinica Tavistock nell’espressione del movimento anti-psichiatrico
La clinica Tavistock riveste un ruolo particolare nell’espressione del movimento anti-pichiatrico; alcuni dei fondatori del movimento citato, infatti, hanno costituito una parte integrante delle personalità intellettuali della clinica e dell’istituto ad essa annesso. Secondo quanto riferisce Rayner (1991), il Tavistock Institute e la Tavistock Clinic si ritrova, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, a ricoprire un ruolo primario nella divulgazione dei fondamenti teorici della dottrina relazionale e della psicoterapia ad orientamento psicoanalitico. L’istituzione dunque è fin dai suoi esordi "occhieggiata" scetticamente dai movimenti psicoanalitici e psichiatrici di definizione ortodossa. Oltremodo, il Tavistock Institute è uno dei primi centri di ricerca e consulenza utilizzati dall’industria e da altre vaste organizzazioni. Da questa breve introduzione si evince quella che è la finalità primaria dei due istituti; Trist (cit. in Rayner, 1991) ne chiarisce gli obiettivi attraverso la seguente affermazione: "la psicoanalisi e le scienze sociali lavoravano in stretta collaborazione, come risultato dell’emergere del punto di vista delle relazioni oggettuali; punto di vista che, per noi che facevamo parte del Tavistock Institute, permetteva di unificare l’ambito sociale e quello psicologico"(ibidem, 1991, pag. 290). L’ interesse primo, ai fini del nostro elaborato, è quello di cogliere il valore dei concetti relazionali che dalla Tavistock si diffondono, per essere interpretati da alcuni dei suoi membri in maniera anticonvenzionale rispetto ai classici canoni di approccio della psichiatria tradizionale. Il merito di Bowlby, quindi, è quello di aver evidenziato (insieme naturalmente ad altri scienziati) l’importanza del contesto familiare nella determinazione del disagio mentale, individuando, a tal fine, alcuni modelli caratteristici di interazione ai quali il paziente continua a fare riferimento, nonostante il raggiungimento dell’età adulta e l’acquisizione di nuovi schemi mentali cui corrispondere. In connessione ad uno specifico modello di interazione presentato da un paziente, Bowlby si esprime in questi termini: Per una minoranza di bambini, invece, i dati che li raggiungono da fonti diverse possono essere ragionevolmente e durevolmente incompatibili (.....)In tale caso, l’informazione che raggiunge il bambino da parte del suo genitore non solo è sistematicamente distorta, ma è in netto conflitto con quello che egli deduce dalla propria esperienza diretta. Se egli prende per buona la tesi di sua madre, il modello che si costruirà di lei, che riflette il suo comportamento e le sue motivazioni, e il modello che costruirà di sé stesso, che riflette il proprio comportamento e le proprie motivazioni, saranno in un dato modo; mentre se accetta come giusto quanto sperimenta direttamente, i modelli che verrà a costruirsi saranno completamente all’opposto. In questa situazione il bambino si trova di fronte a un dilemma dei più difficili. Deve accettare il quadro come lui stesso lo vede ? O deve accettare quello che il genitore insiste a proporgli come vero ? (Bowlby, 1973, pagg. 396-397) Il brano sintetizza, in maniera estremamente chiarificatoria, uno dei concetti centrali che la teoria relazionale approfondirà successivamente.
Stanno giocando a un gioco. Stanno giocando a non giocare a un gioco. Se mostro loro che li vedo giocare, infrangerò le regole e mi puniranno. Devo giocare al loro gioco, di non vedere che vedo il gioco. (Laing, 1970)
La poesia è tratta da "Nodi", opera di Ronald Laing, psichiatra inglese e membro attivo della clinica Tavistock, nonché "maestro riconosciuto dell’antipsichiatria". Attraverso il messaggio emotivo, rapido e diretto, che il linguaggio poetico rappresenta, Laing conduce il lettore all’estrinsecazione del ruolo dei "nodi" linguistici e relazionali che cristallizzano il malessere psichico. Le dinamiche familiari, ed i processi interattivi cui tali dinamiche sottostanno, vengono approfonditi da Ronald Laing all’interno dell’opera "L’Io e gli altri", frutto di una ricerca basata sui risultati del Tavistock Institute e della Tavistock Clinic e tra i primi documenti di chiara impronta anti-psichiatrica. Esso concerne, fondamentalmente, l’indagine del percorso che conduce alla psicopatologia, focalizzando l’attenzione sul peso determinante che il linguaggio assume nell’impedire l’acquisizione cosciente di "alternative" logiche a situazioni esistenziali che appaiono senza apparenti vie di uscita. Cooper, nel testo "Il linguaggio della follia" (Cooper, 1978), chiarisce il significato che il termine "follia" assume nel linguaggio del movimento anti-psichiatrico: La follia esiste come l’allucinazione, che consiste nell’esprimere una verità indicibile in una situazione di cui non si può parlare. (Cooper, 1978; pag . 124)
L’estrinsecarsi del malessere psichico, quindi, si rivela nell’incapacità di sostenere modalità di comunicazione adeguate ai contesti emotivi e situazionali. La disciplina psichiatrica, in questo senso, non è che un’escrescenza di forme inadeguate di metacomunicazione nelle quali i pazienti finiscono con l’essere "ingabbiati". Cooper chiarisce il significato della situazione paradossale nella quale il paziente finisce con l’essere coinvolto. Se, infatti, egli sostiene la sua verità sarà "distrutto" (Cooper, 1978) dalle tecniche adottate in psichiatria. Se mente, entra in una "situazione collusiva di finzione" (Cooper, 1978) con lo psichiatra, "assassinando", per questo, la sua realtà. Se rimane zitto verrà diagnosticato un catatonico, forse un paranoico e, quindi, "costretto a chiacchierare di accettabili assurdità"(ibidem, 1978). L’acerrima critica sostenuta nei confronti della psichiatria ortodossa è globale; essa finisce con il considerare la quotidianità stessa della vita sociale come una condizione di oppressione e violenza dalla quale il singolo non può sottrarsi se non al prezzo dell’alienazione mentale. L’antipsichiatria inglese muove accuse molto pesanti nei confronti della psichiatria tradizionale; la ritiene, infatti, "infondata nelle sue premesse scientifiche" (Sabbadini A., 1975), responsabile del metodo diagnostico giudicato quale un "processo di imposizione di un’etichetta a metà strada fra l’attribuzione clinica e la condanna a morte" (ibidem, 1975). Si ritiene, in conseguenza, che l’istituzione psichiatrica sia una forma autorizzata di repressione; il ricovero, infatti, spesso coatto è maggiormente simile a forme di carcerazione che non a sistemi terapeutici e ospedalieri quali sarebbero in realtà auspicabili; le terapie adottate, inoltre, (e l’elettroshock è solo uno degli esempi più deleteri) mettono in luce "la falsità tendenziosa di questa ideologia pseudomedica e le sue contraddizioni più evidenti" (Forti L., 1975). Matti semmai siamo noi, i normali, gli integrati, gli efficienti cultori della mens sana in corpore sano, i sostenitori del razzismo, dell’imperialismo, dell’ordine, i distruttori feroci dei nostri simili e del nostro ambiente naturale (eadem, 1975, pagg. 105-106) L’orientamento culturale di John Bowlby, e della clinica Tavistock, nei confronti della genesi del malessere psichico (vicino all’ideologia anti-psichiatrica) è ben illustrato nel secondo volume del testo "Attaccamento e Perdita" (Bowlby, 1973). In particolare, Bowlby illustra l’erronea tendenza di medici, pazienti e loro parenti a non-individuare le situazioni (reali) che sono all’origine delle paure del paziente. Nel definirle, Bowlby dichiara: In molti casi entrano in azione anche altri fattori molto più specifici. Quelli a cui si deve prestare attenzione comprendono: omissione del contesto familiare in cui i sintomi del paziente si sono manifestati e si riscontrano; soppressione di tale contesto; falsificazione di esso (Bowlby, 1973; pagg . 392, 393). L’adozione della prospettiva relazionale accompagna il nuovo movimento culturale denominato "anti - psichiatrico", cui Bowlby accenna in una nota a piè pagina del testo precedentemente citato. La maggior parte delle ricerche nate dall’adozione di questo ordine di idee studia le interazioni nelle famiglie di pazienti schizofrenici. In questa linea sono i lavori di Bateson e altri (1956), Lidz e altri (1958), Winne e altri (1958), Laing e Esterson (1964), Scott, Ashworth e Casson (1970). Le conclusioni indicate dai risultati di queste e di altre ricerche sono, innanzitutto, che il potenziale patogeno della soppressione e della falsificazione così come si manifestano all’interno della famiglia è altrettanto grande del potenziale patogeno della rimozione e della scissione così come si manifestano all’interno di un individuo; in secondo luogo, che questi due tipi di processi interagiscono tra loro. Una ricerca ben programmata intesa a studiare a fondo questa interazione può introdurre orientamenti del massimo valore per la psicopatologia. (Bowlby, 1973, pag . 398) E’ possibile ritenere dunque che la clinica Tavistock, e le conseguenti prospettive teoriche ad essa annesse, si siano inserite quali motori propulsori di nuovi manifesti scientifici. L’orientamento relazionale, l’attenzione dedicata ai processi interattivi che regolano i rapporti affettivi all’interno delle famiglie e l’opera di coinvolgimento della famiglia stessa del paziente nel setting terapeutico (promosso da Bowlby) hanno permesso che la clinica Tavistock e l’istituto ad essa annesso si proponessero come i probabili mediatori nell’espressione delle ideologie "contro" dell’anti-psichiatria. L’influenza che ne è derivata, infatti, ha promosso l’espansione delle tesi di ripudio nei confronti di un sistema giudicato dai promotori del movimento anti-psichiatrico "malato" nelle sue stesse fondamenta. L’opera "Dialettica della Liberazione" (Laing, Bateson, Carmichael, Henry, Gerassi, Sweezy, Goodman, Marcuse, Cooper, 1968) raccoglie dunque gli atti di quello che è stato definito l’ultimo congresso di cultura dell’Occidente intendendo, con una simile affermazione, rappresentare in realtà quello che Jervis (1969) definisce, nell’introduzione al libro, "il primo anti - congresso nella storia dell’Occidente". Nel testo vengono riassunti i postulati esplicativi cui Laing e colleghi fanno riferimento. Nell’ introduzione all’opera David Cooper ne chiarisce i significati: Molti di coloro che vengono definiti "pazzi" e che sono, grazie a questa attribuzione, perseguitati dalla società (venendo reclusi, essendo sottoposti agli elettroshock, all’effetto di farmaci tranquillanti , ad operazioni sul cervello) provengono da situazioni familiari nelle quali vi è un disperato bisogno di trovare il "capro espiatorio": di qualcuno, cioè, che giunga a trovarsi ad un tale punto di tensione all’interno della famiglia, da caricarsi delle inquietudini di ciascuno fino ad assumerne, in un certo senso, la sofferenza (Cooper, 1968, pag. 17). In virtù di una simile impostazione, non è più semplicemente il sistema individuo ad essere considerato l’oggetto malato; egli è solamente l’espressione di un primo livello di complessità della "malattia" in cui finiscono con l’essere coinvolti, insieme al sistema famiglia, il sistema medico per intero.
L’introduzione del "contesto", quale possibile impulso alla manifestazione della patologia, è ben rappresentato concettualmente nell’intervento di Ronald Laing tratto dal Congresso sopracitato e riassunto nel capitolo titolato "L’ovvio" (Laing, 1968). Egli mette in evidenza quanto lo studio delle relazioni sociali ponga alcune difficoltà ritenute insormontabili, in conseguenza della "visibilità" stessa di tali eventi. Laing afferma che "nello spazio sociale l’immediata capacità di ognuno di vedere ciò che accade non va aldilà dei propri sensi". Il contesto dunque sia spaziale che temporale "è spesso tanto necessario, quanto impossibile a conoscersi". Da qui, la critica alla psichiatria tradizionale: La struttura delle relazioni sociali è un insieme di contesti che si intrecciano tra di loro e con altri sottosistemi, di contesti che si intrecciano con metacontesti e metacontesti e così via, finché si raggiunge un limite teorico, il contesto di tutti i possibili contesti sociali, che comprende inoltre tutti i contesti che sono in essi inclusi, e che potrebbe esser chiamato il sistema sociale totale (Laing, 1968, pag . 25). Laing nota, in questo senso, che lo studio della malattia mentale non si definisce quale uno studio di individui, quanto piuttosto di uno studio di "situazioni" (Laing, 1968) cui la psichiatria tradizionale si è avvicinata trascurando alcuni "rapporti", ritenuti fondamentali dall’autore stesso. L’accusa che egli rivolge è indirizzata ai canoni ortodossi di approccio alla malattia mentale. Con troppo semplicismo, infatti, secondo Laing, si preferisce considerare il processo patologico quale il segnale di un malessere che avviene esclusivamente all’interno della persona "malata", relegando a tonalità più opache l’importanza dei rapporti con gli eventi esterni. Laing accusa, quindi, la procedura diagnostica psichiatrica la quale, secondo la sua visione, "autorizza una completa ignoranza del contesto sociale" (ibidem, 1968). Un simile aspetto della teoria e della pratica psichiatrica conduce all’incomprensibilità delle esperienze e dei comportamenti dei "pazienti" da parte della scienza medica ed estende le posizioni del movimento legato all’anti-psichiatria ad una profonda disamina concernente "l’irrazionalità" e la "distruttività" dell’intero sistema psichiatrico, i cui toni si rivelano accesi se non addirittura incriminanti : Quelli che pensano di conoscere bene tutto questo, lo considerano come un sistema di violenza e di controviolenza. In realtà uomini chiamati chirurghi del cervello hanno ficcato coltelli nel cervello di centinaia di migliaia di persone negli ultimi venti anni: persone che probabilmente non hanno mai usato un coltello contro nessuno. Forse hanno rotto qualche finestra, talvolta hanno urlato, ma hanno fatto molte meno vittime del resto della popolazione; molte, molte di meno, se si considerano le distruzioni in massa delle guerre, dichiarate e non dichiarate, volute dai membri "sani" della società (Laing, 1968, pag . 29) Il paziente, nella visione di Laing è semplicemente una sorta di "parafulmine" umano, la vittima sacrificale che la società esige per mantenere equilibri suoi propri. Vicino alle concezioni di John Bowlby, egli considera indispensabile il coinvolgimento di figure affettive più o meno significative nella vita del paziente , per ottenere miglioramenti terapeutici. L’immissione del sociale nel campo psichiatrico (o, viceversa, della psichiatria nel campo sociale) non significa soltanto l’influenza dell’ambiente familiare e sociale sul malato e sulla malattia, ma implica la messa in causa dei valori e dei principi su cui si fonda il gruppo sociale in cui la malattia si manifesta , e soprattutto i limiti di norma da esso definiti (Jones, 1968; pag . 3).
Il proponimento del movimento anti- psichiatrico, in un certo senso, è quindi quello di fornire una "base sicura" all’individuo ritenuto "folle".Egli, infatti, secondo una definizione che ne dà Cooper, costituisce una "fonte sovversiva di creatività e spontaneità"(Cooper, 1978). Intervenire a favore del disagio mentale significa soprattutto fornire un contenimento, un sostegno, lo holding, quale Winnicott definisce il supporto. Iniziare il lavoro di de-psichiatrizzazione significa soddisfare le esigenze quotidiane più elementari dei pazienti, provvedere ad un’alimentazione ed un alloggio adeguati e decorosi. La persona ha il bisogno radicale di esprimersi autonomamente nel mondo e che i suoi propri atti e parole siano riconosciuti come suoi da almeno un altro essere umano (Cooper, 1978, pag . 100). Laing illustra il pericolo derivante da un’incapacità a riconoscersi quali soggetti mentalmente autonomi nel capitolo "Simulazione ed elusione dell’esperienza", tratto da "L’Io e gli altri"(Laing, 1961). Secondo l’autore, l’elusività applicata ai propri processi mentali conduce, nelle forme più disperanti, ad un "ipotetico stato finale di non-entità caotica (corsivo nel testo) e di perdita totale di rapporto con l’altro" (Laing, 1961, pag. 52). Un soggetto è, in primo luogo, il prodotto di ciò che "altri" pensano che lui sia. La definizione con cui gli altri lo caratterizzano può, nel corso degli anni, ed in virtù delle esperienze che si presentano alla persona, venire confermata o disconfermata. Non resta per il soggetto che adeguarvisi, o tentare di "strappare da sé quella identità aliena"(Laing, 1961) con cui gli altri hanno stabilito la sua condanna . Quali che siano le vicende successive, tuttavia, l’identità di un soggetto è, in primo luogo, quella che gli viene attribuita. Si scopre quello che già (corsivo nel testo) siamo. (Laing, 1961, pag . 109) Bowlby sottolinea la tendenza di pazienti, medici e parenti ad individuare erroneamente le situazioni che sono alla base delle paure del paziente; spesso, infatti, si tende a non considerare il contesto familiare in cui i sintomi del paziente prendono consistenza. I genitori del paziente, nella maggior parte dei casi tacciono riguardo al ruolo che essi svolgono attivamente nell’instaurarsi del sintomo; situazioni coniugali conflittuali, su minacce di separazione, di rifiuto del figlio o di suicidio, non giungono nello studio dello psichiatria o, nella peggiore delle ipotesi, non vengono prese in considerazione dallo psichiatra stesso. Per certe famiglie diventa evidente, via che il lavoro procede, che i genitori sono interessati, talvolta quasi a qualunque costo, a presentare il comportamento del paziente come irragionevole e incomprensibile, e sé stessi come persone ragionevoli che hanno fatto tutto il possibile per lui. Un medico perspicace può accorgersi di quanto tali genitori siano sensibili ad ogni segno di critica nei loro riguardi, specialmente se essa proviene dal paziente, e con quale decisione cerchino di difendersi dall’accusa di avere avuto una parte qualsiasi nel creare il problema. Essi sostengono che il comportamento del paziente va inteso esclusivamente basandosi sul paziente stesso: egli è emotivamente disturbato, malato, matto o cattivo ( Bowlby, 1973, pag. 393) A conclusione, riportiamo un brano in cui lo psichiatra americano Thomas Szasz (1970) si esprime in questi termini : Le catene tolte agli infermi mentali da Pinel furono loro rimesse dai grandi nosologi psichiatrici. Le nuove catene, a esser sinceri, si adeguavano alle moderne norme igieniche e umanitarie: non erano fatte di ferro, ma di parole; il loro fine manifesto non era di imprigionare, ma di curare. Ma, come osservò Emerson più di un secolo fa, "di parole si muore. Siamo impiccati, sventrati, e squartati dai dizionari... sembra che la presente era di parole dovrà naturalmente essere seguita da un’era di silenzio, in cui gli uomini parleranno soltanto coi fatti, e riconquisteranno così la loro salute". (ibidem, 1970, pagg. 215-216) Il paziente psichiatrico, dunque, delegittimato dall’esprimere una qualunque opinione personale poiché ritenuto incapace di adempiere ad un simile compito finisce con l’accettare la definizione che altri formulano delle sue emozioni e dei suoi sentimenti. Bowlby è convinto che nessun bambino ama ammettere che uno dei genitori ( o entrambi) abbia torto. Una simile ammissione, infatti, è intensamente dolorosa e crea una paura enorme. Se gli si offre una qualsiasi scappatoia, la maggior parte dei bambini cercherà di vedere il comportamento dei propri genitori in luce favorevole. Questa tendenza naturale dei bambini è facile da sfruttarsi (Bowlby, 1973, pag. 395).
2.4. Gli studi a trasmissione intergenerazionale. Le concezioni di Bowlby che tra le altre maggiormente hanno influenzato la psichiatria infantile riguardano la trasmissione intergenerazionale del disturbo psicopatologico. Bowlby ricava la tesi sopra esposta dalla formulazione delle concezioni riguardanti i modelli operativi interni. In base ad essi, l’autore giustifica la possibile trasmissione di schemi rappresentativi del mondo e di sè, attraverso i quali modellare le esperienze interiori ed i rapporti con il mondo esterno. Diviene quindi plausibile l’ipotesi che l’attivarsi di particolari dinamiche nella vita degli individui derivi da modelli di apprendimento sviluppatisi nel passato, con i quali i pazienti continuano ad affrontare gli eventi del presente. Bowlby (1972), infatti, attribuisce un ruolo determinante alle esperienze reali; riportiamo, a testimonianza di ciò, un brano tratto da "Attaccamento e perdita" (1973) in cui i toni dell’autore sono estremamente chiarificatori. Probabilmente nessuno di coloro che hanno lavorato a lungo in una clinica per la terapia familiare, in cui i bambini disturbati vengono trattati con i loro genitori, conserva ancora il punto di vista tradizionale secondo cui l’esperienza reale non ha grandi conseguenze. Quando si lavora in tali cliniche si constata invece ripetutamente che, quando ci si è procurata l’informazione sulle esperienze avute da un bambino nell’interazione con i genitori e le figure parentali (di solito si ricava tale informazione in parte dall’osservazione diretta dei membri della famiglia che vengono intervistati insieme e in parte dalla storia della famiglia così come la si viene a ricostruire, pezzo per pezzo, spesso solo lentamente e da più fonti diverse), le previsioni che il bambino fa sul modo in cui le sue figure di attaccamento si comporteranno verso di lui sono delle deduzioni tutt’altro che irragionevoli tratte dalle sue esperienze circa il loro comportamento verso di lui in passato, e forse anche al presente. Così, quale che sia il contributo dato alle variazioni della personalità dalle predisposizioni genetiche e dai traumi fisici, il contributo dell’ambiene familiare è cetamente sostanziale (Bowlby, 1973, pag. 265) La personalità adulta è quindi il prodotto delle interazioni che l’individuo ha assimilato durante gli anni dell’infanzia. Diventa evidente che, se un bambino è cresciuto in una famiglia dove l’affettività ed il rispetto reciproco hanno costituito componenti essenziali per i membri della famiglia stessa, le aspettive che il fanciullo crea nei confronti del mondo esterno, si allontaneranno difficilmente dai modelli che ha appreso durante l’infanzia. Se ne determina, conseguentemente, una inconscia fiducia nella disponibilità all’aiuto, nonchè una profonda sicurezza e naturalezza nell’attivazione della ricerca dell’aiuto stesso. Bowlby sottolinea: Altri, cresciuti in circostanze diverse, possono essere stati assai meno fortunati. Per alcuni è addirittura sconosciuta persino l’esistenza di figure che accudiscano e aiutino; per altri è stato costantemente incerto il luogo dove tali figure potessero trovarsi. Per molti di più la probabilità che una figura che li accudiva reagisse aiutandoli è stata nella migliore delle ipotesi incerta, e nella peggiore nulla. Non vi è da sorprendersi se questi individui, una volta diventati adulti, non credono alla possibilità che esista mai una figura veramente disponibile e fidata che si curi di loro. Ai loro occhi il mondo appare sconsolato e imprevedibile; ed essi reagiscono evitandolo o lottando contro di esso. (ibidem, 1973, pag. 266) Fraiberg, Adelson e Shapiro (1975; cit. in Colin, 1996) notano che i conflitti infantili irrisolti della madre si riflettono emotivamente nella relazione che ella instaura con il bambino. Gli stresses, i disturbi ed i conflitti ascrivibili alla relazioni dell’infanzia materna scrivono il copione della vita del bambino (cit. in Colin, 1996, pag. 200) E’ quindi necessario che ogni madre esorcizzi i "fantasmi" interiori che le hanno accompagnate durante l’infanzia. Solo in questo modo esse diventano capaci di ristrutturare i loro modelli operativi interni e individuare modalità adeguate nell’interazione con il bambino. La pregnanza del concetto di trasmissione intergenerazionale del disturbo psichico è da cogliersi alla luce della visione teorica sopra esposta. L’ipotesi dell’autore prevede che i sentimenti ed i comportamenti di una madre nei confronti del figlio siano influenzati da quelle che sono state le esperienze emotive personali della stessa madre, specialmente nei confronti delle sue figure genitoriali (Bowlby, 1988). Gli studi promossi durante gli anni settanta si sono rivelati essere lo stimolo per una ricerca più approfondita. Ad ogni modo, hanno messo in grande risalto la solidità concettuale della teoria dell’attaccamento. Zahn-Waxler, Radke-Yarrow e King (1979) hanno rilevato come l’aiutare e l’elargire conforto alle persone in difficoltà sia uno schema di comportamento che si sviluppa intorno al secondo anno di vita del bambino, la cui forma viene influenzata dal modo in cui la madre tratta il bambino. Non infrequentemente, inoltre, ciò che un bambino fa in tali circostanze è una chiara replica di quello che ha visto fare e/o sperimentato da parte di sua madre. Sarebbe molto interessante il follow-up di un gruppo di bambini che mostri queste influenze originarie.(Bowlby, 1988, pag. 15) Uno studio condotto da Frommer e O’Shea (1973) dimostra che le donne esposte a traumi emotivi nel corso dell’infanzia sono particolarmente soggette al rischio di avere difficoltà sia coniugali che psicologiche dopo la nascita del figlio. L’importanza dei due autori è da ricondurre al fatto che essi sono stati i primi a definire una misurazione diretta dei patterns delle cure genitoriali durante l’infanzia del bambino. Il punto che desidero sottolineare è che lo studio fornisce una chiara dimostrazione del fatto che le donne la cui infanzia sia stata disturbata tendono a instaurare meno interazioni con i propri bambini di quanto non facciano le madri che hanno avuto un’infanzia più felice in un periodo della vita del loro bambino in cui la quasi totalità delle interazioni è determinata dalla madre.(...) Non è sorprendente che queste ragazze siano cresciute sviluppando un’angoscia continua per la paura che il marito o l’innamorato le abbandonasse, che considerino la violenza fisica come parte di un ordinamento naturale, e che si aspettino poco o niente, nel senso dell’amore o del sostegno, da parte di qualsiasi ambiente (Bowlby, 1988, pagg. 15, 16) Gli studi a conferma della tesi sostenuta da Bowlby sono numerosi. Rutter& Madge (1976) evidenziano come le persone cresciute in famiglie disgregate e infelici abbiano forti probabilità di avere figli illegittimi, di divorziare, di diventare madri in età adolescenziale. Le ricerche di Isley & Thompson (1961) avvalorano questa tesi. In uno studio su tremila giovani donne di Aberdeen, la possibilità che esse avessero figli illegittimi o divorziassero era doppia per quelle che avevano vissuto esperienze simili nelle famiglie di origine. Gli studi più proficui si sono concentrati sulle modalità di trasmissione intergenerazionale dei comportamenti maltrattanti. Gli studi di Spinetta & Rigler (1972) evidenziano che i genitori che picchiano i loro bambini hanno a loro volta subito percosse, rifiuti e violenze. Studi peraltro avvalorati da una grande quantità di indagini scientifiche sia in Inghilterra, Irlanda e Stati Uniti d’America. Appare chiaro dunque quanto forti siano i legami tra i vissuti infantili e gli atteggiamenti genitoriali. La ricerca psichiatrica, in questo senso, ha diretto la sua attenzione all’approfondimento della forza delle associazioni nei meccanismi coinvolti. Si riscontra infatti una difficoltà enorme, da parte dei genitori i cui figli sono sottoposti a cure psichiatriche, ad uscire dalle dinamiche attivate. Wolkind, Hall e Pawlby (1977) osservando l’interazione madre-bambino notano che le donne che hanno un vissuto infantile emotivamente disturbato interagiscono meno con il loro figlio (in termini di modelli operativi interni, Bowlby sostiene che esse non hanno interiorizzato le modalità adeguate di interazione e dunque si rapportano al bambino in virtù del loro schema mentale). E’ molto difficoltoso per queste donne riconoscere il figlio nella sua individualità e quale persona con diritti propri. Si rileva inoltre quanto scarso sia stato l’interesse della psichiatria tradizionale nell’indagare le dinamiche sotterranee al comportamento parentale; per anni i clinici hanno preferito intervenire sulla relazione diretta genitori-figli senza approfondire le possibili influenze educative e comportamentali che condizionavano il comportamento stesso dei genitori. L’approfondimento delle tematiche vicine alla teoria dell’attaccamento ha condotto clinici e teorici ad indagare le probabili connessioni tra la patologia infantile e variabili legate all’atteggiamento genitoriale che l’approccio classico della psichiatria tradizionale non aveva sufficientemente considerato. L’opera di Bowlby ha dunque messo in evidenza l’influenza determinante delle esperienze genitoriali nella reiterazione di modalità educative non sempre adeguate ad uno sviluppo "sano" della psiche infantile. Tra i meriti di John Bowlby vi è proprio l’attenzione dedicata alle esperienze che i genitori hanno vissuto durante la loro infanzia. Detto interessamento ha avviato lo studio di numerosi autori, sia negli ambienti europei che in quelli americani. Tuttavia, il rilievo della teoria dell’attaccamento nell’influenzamento della psichiatria dell’ultimo secolo resta indiscutibilmente legato all’indagine degli effetti della separazione. Alcuni studi ad opera di Klaus, Kennell, Leiderman e colleghi (1972; 1975; cit. in Rutter, 1976) hanno reso tangibile la dimostrazione che eventi traumatici nel periodo post-natale possono influire negativamente sulla formazione del legame di attaccamento. Si evince, infatti, da queste ricerche che le madri costrette a separarsi dai loro bambini nel periodo neonatale mostrano evidenti difficoltà ad interagire con il loro bambino nella maniera armonica e personalizzata che caratterizza le prime fasi di conoscenza dei due soggetti. La maggior parte di esse non riesce a maturare un atteggiamento di confidenzialità con il bambino ed inoltre sembra non acquisire alcune competenze nell’accudimento al bambino nei mesi successivi alla nascita. Bowlby ha dunque approfondito la ricerca nel settore della "early holding situation", ottenendo il riconoscimento del valore degli studi intrapresi da Winnicott, che nel 1970 ha espresso il suo parere nei seguenti termini: John Bowlby ha contribuito più di chiunque altro a concentrare l’attenzione del mondo scientifico alla sacralità della holding situation nei primi anni di vita e sulle estreme difficoltà che appartengono al lavoro di coloro i quali cercano di approfondire l’argomento (cit. in Hopkins, 1987, pag. 5) L’importanza del sostegno materno nei primi anni di vita è stata illustrata da Juliet Hopkins. Il contatto fisico assume dunque un carattere determinante nella formazione del legame di attaccamento. Juliet Hopkins (1987) evidenzia in proposito quelli che sono gli effetti di un rifiuto fisico del bambino nella creazione del legame di attaccamento e nell’esperienza interiore del bambino stesso. La Hopkins sottolinea, infatti, che la risposta affettiva di alcune madri, per quanto presenti, può essere percepita dal bambino come un segnale di rifiuto. Il tema è di grande originalità all’epoca del suo esordio, poichè nel 1958 (anno di pubblicazione dell’opera di Bowlby "Cure materne e igiene mentale del bambino") la psichiatria psicodinamica preferisce ascrivere la patologia del bambino a difficoltà nel soddisfacimento delle pulsioni orali, allo svezzamento e all’apprendimento del controllo degli sfinteri. Il merito di Bowlby sta nell’aver condotto l’attenzione del mondo scientifico alla sensibilità della risposta materna alle peculiarità individuali delle esigenze del bambino. Tematiche, come già accennato in precedenza sviluppate, all’epoca, già da Donald Winnicott. Winnicott si propose di porre rimedio alla omissione freudiana delle tematiche legate all’holding ; egli sviluppò idee molto originali riguardanti la relazione madre-bambino ed il suo parallelo nella situazione analitica. Nel 1952 egli scrisse che "l’ansietà primaria è correlata all’essersi sentiti non sostenuti in maniera adeguata. Questa, infatti, è forse l’unica maniera in cui una madre può dimostrare al bambino il suo amore" (cit. in Hopkins, 1987, pag. 5).Appare evidente che un bambino che non si sia sentito adeguatamente sostenuto nei primi momenti della sua vita sviluppi sentimenti di inadeguatezza e ansia nei confronti delle relazioni affettive. L’angolatura da cui Bowlby analizza il concetto di holding è leggermente diversa rispetto a quella winnicottiana. Nel testo "la Natura del legame del bambino alla madre", egli sofferma la sua attenzione sulle cinque risposte istintive che costituiscono il fondamento biologico della costruzione del legame di attaccamento. Bowlby suggerisce che è la risposta materna all’aggrapparsi e al seguire del bambino a determinare l’evoluzione o meno di un’eziologia a carattere psichiatrico. Le indagini sul ruolo dell’holding sono state approfondite da Mary Ainsworth e Mary Main; esse hanno sviluppato la ricerca empirica di quello che loro chiamano "physically rejecting", intendendo con ciò l’incapacità materna di sintonizzare l’ emotività sulle esigenze del bambino (in particolare attraverso l’aggrapparsi e il seguire) (Ainsworth, 1982; Main, 1977). La Ainsworth classifica dunque i bambini con madri fisicamente rifiutanti con il termine "ansiosi-evitanti". Madri sensibili, infatti, tendono a rispondere ai segnali del bambino cercando di interpretare qualsiasi tipo di indicazione che esse ritengono il bambino stia inviando loro e, nel caso non considerino tali manovre sufficienti, prendendo il bambino in braccio e cullandolo amorevolmente. La suddetta "sindrome rifiutante" si caratterizza con connotazioni peculiari. Le madri illustrate dalla Ainsworth mostrano un’avversione profonda per il contatto fisico, da scoraggiare il bambino ad utilizzare una comunicazione a carattere affettivo basata sull’interazione corporea. Gli effetti del rifiuto di un contatto fisico dunque non possono essere considerati separatamente dagli effetti di una carenza della relazione affettiva (Hopkins, 1987). Le ricerche in questo senso, ad ogni modo, mostrano risultati contraddittori. Il divario nasce in conseguenza dell’interpretazione riguardo la persistenza degli effetti legati a tale sindrome. Klaus e Kennell, infatti, constatano che gli effetti di tale carenza investono periodi piuttosto duraturi nell'insieme delle interazioni madre-bambino (1975); il bambino dunque subirebbe le conseguenze di una mancata affettività fisica per periodi di tempo molto lunghi. Bowlby, infatti, sostiene che le rappresentazioni interne che un individuo forma di sé e dell’ambiente a lui circostante tendono a mantenere una stabilità nel corso del tempo. La Heard (1974), in proposito, nota che: Gli schemi per le azioni future di ogni individuo sono influenzati dal successo o dal fallimento delle situazioni che hanno caratterizzato l’infanzia dei pazienti. E’ noto quanto le rappresentazioni formate in età precoce tendano a mantenersi estremamente stabili; questo ci porta a spiegare perché il processo di crescita sia così difficile; esso rappresenta, infatti, la rinnovata raffigurazione dei modelli precoci di apprendimento, ai quali sono annessi limiti biologici nella costruzione di nuovi schemi mentali. (Heard, 1978, pag. 72) Il comportamento parentale è quindi, in primo luogo, diretto al mantenimento della vicinanza con il bambino; tutto ciò conduce naturalmente alla ricerca delle forme più adeguate di interazione che permettono al piccolo di affrontare le situazioni che ritiene ansiogene. I comportamenti che promuovono a gestiscono la ricerca di vicinanza permettono al bambino di sviluppare una "fiducia di base"; elemento questo indispensabile per attivare il comportamento esplorativo. Bowlby considera l’attività complementare di questi due sistemi una delle funzioni più importanti per la sopravvivenza delle specie, umane e non. La tesi di Bowlby è molto semplice; egli è convinto che la pre-programmazione biologica alla vicinanza e all’interazione con individui familiari permetta un atteggiamento di esplorazione verso l’ignoto da una base che l’individuo possa giudicare "sicura", il che contribuisce ad aumentare le possibilità di sopravvivenza degli esseri umani (cit. in Heard, 1978). Gli studi condotti da Leiderman, Seashore (1975)e Whiten (1977), al contrario, sembrano mettere in discussione i risultati della Heard riguardo alla stabilità delle rappresentazioni formate in età precoce. Gli autori rilevano, infatti, effetti disturbanti che essi reputano relativamente transitori. Si ritiene plausibile concludere dunque che gli eventi caratterizzanti il periodo neonatale abbiano conseguenze inevitabili nella costituzione della relazione madre-bambino; tuttavia la gravità di stress precoci nella vita del bambino è strettamente correlata alla persistenza del malessere affettivo ed emotivo nell’ambiente di vita del bambino (Rutter, 1979). E’ vero comunque che esistono peculiarità caratteriali innate, determinate geneticamente, che contraddistinguono lo stesso bambino e lo pongono in maniera assolutamente caratteristica e personale nelle sue interazioni con l’ambiente. Ciò che colpisce l’attenzione della psichiatria, in particolare, è "l’invulnerabilità" mostrata da alcuni fanciulli che, nonostante crescano in famiglie ritenute gravemente disturbate e fonti di situazioni fortemente tensive, sembrano caratterizzarsi per uno sviluppo psichico fondamentalmente stabile. La domanda sul perché questi bambini non soccombano agli effetti della deprivazione materna non ha (intorno agli anni settanta) una risposta certa. Esistono fattori protettivi in grado di tutelare il bambino dagli stresses ambientali ? Se si, quali sono ? Gli studi condotti in questi anni isolano cinque grandi aree principali che vengono considerate potenziali fattori di rischio. Naturalmente, il sesso, il temperamento e le caratteristiche genetiche del bambino risultano essere peculiarità determinanti. E’ riconosciuto, per esempio, che i maschi sono più vulnerabili delle femmine agli stress fisici (Rutter, 1970) ed inizia a delinearsi una tendenza similare per gli stress di origine psicosociale. Modelli familiari caratterizzati da discordia coniugale e disarmonia si sono rivelati fortemente correlati ai disordini nella condotta (Rutter, 1972). Altro fattore di interesse rilevante è il temperamento stesso del ragazzo. Atteggiamenti di scarsa malleabilità, umore negativo, incostanza sembrano consoni allo sviluppo di disturbi a carattere psichiatrico. Gli studi legati al temperamento del fanciullo hanno attirato in maniera imponente l’attenzione degli psichiatri. Tra le cause scatenanti il malessere psichico la compresenza nell’ambiente di vita quotidiano di numerosi episodi stressanti sembra assurgere a categoria privilegiata. Gli psichiatri tuttavia rilevano che se il bambino è sottoposto a stress isolati può non sviluppare disturbi caratteriali (Berger, 1975). Secondo quanto affermato da Bowlby (1969), esiste nel bambino la tendenza ad emettere comportamenti di ricerca di vicinanza in situazioni che egli ritiene ansiogene, o paurose, o comunque di difficile prevedibilità riguardo agli esiti stessi delle condizioni ambientali. La discordia parentale, di nuovo, sembra porsi in primo piano. I bambini diventano dunque i catalizzatori del malessere genitoriale; i disturbi psichiatrici, infatti, diminuiscono di intensità quando si verificano cambiamenti positivi nel ménage familiare. Allo stesso modo, si ritengono eventi fortemente stressanti anche gli improvvisi cambiamenti di vita. Se il bambino non è sufficientemente sostenuto può non comprendere (emotivamente) la transitorietà del cambiamento e sentirsi non contenuto in quelle che sono le sue paure. La ricerca scientifica ha dunque validato ampiamente l’importanza della deprivazione materna nello sviluppo psicologico. Le argomentazioni originarie di Bowlby hanno lentamente conquistato l’attenzione delle psichiatria contribuendo ad incrementare l’importanza del modello relazionale della mente umana. La separazione è stata interpretata dalla psichiatria come un fattore causale e non il fattore cruciale nello sviluppo di un’eziologia a carattere psicopatologico. Di grande importanza è il ruolo assunto dalle esperienze reali nella vita del bambino; le relazioni interpersonali tra il bambino ed i suoi genitori acquistano dunque una funzione protettiva ed educativa. Strategie di attaccamento sicuro nei confronti di altri significativi sono volte a conservare e sviluppare ulteriormente la coerenza e l’integrità emotiva della persona (Main et al. 1985). Gli attaccamenti insicuri implicano modelli alternativi di interazione: una strategia evitante, ambivalente o disorganizzata. Queste differenze, anche quelle sfumate, sembrano contrassegnare differentemente il tipo di vita emotiva di una persona. E’ probabile che strategie di attaccamento insicuro, utilizzate in uno stato di pressione o di tensione, rendano più vulnerabile la salute psicologica di una persona (cit. in Parkes, Stevenson-Hinde, Marris, 1991, pag. 109) La famiglia assume le sembianze di un sistema omeostatico al cui interno sono inseriti gli individui a stadi differenti dello sviluppo. Obiettivo primario di detto sistema è, secondo la prospettiva di Bowlby, il raggiungimento di una serie di "goals" finalizzati alla modulazione del comportamento di ricerca di prossimità. Un simile punto di vista ha favorito l’approccio teorico alla cui base si è strutturata la terapia della famiglia. Essa, infatti, non è che il tentativo di ricostruire gli esistenti modelli operativi -con i quali la famiglia interagisce- sulla base di rappresentazioni interne ritenute più consone ad esprimere relazioni affettive in una maniera più armonica tra i membri della stessa famiglia. Il compito della ricerca sull’attaccamento, allora, è presentare dei modelli e dati empirici di supporto del processo tramite cui la coerenza emotiva e la fiducia nel sostegno da parte degli altri aiutano l’individuo in circostanze di vita avverse. E’ necessario approfondire la ricerca sul funzionamento dei modelli operativi e sul loro valore adattivo in circostanze impreviste della vita nel corso dello sviluppo individuale ( Grossman & Grossman, 1991, pag. 110) Morton Schatzman sottolinea il rilievo dei danni provocati da modelli familiari patogeni nel libro "La famiglia che uccide" (1973). Egli illustra, in questa sede, uno dei casi più famosi di schizofrenia nella storia della psichiatria: il caso Schreber; nel quale si ipotizza una relazione causale molto specifica tra l’eziologia a carattere psicotico del paziente ed i metodi educativi del padre. E’ uno dei primi casi in cui, vicini tra l’altro alle ipotesi di Bowlby, si considerano i probabili modelli a trasmissione intergenerazionale della sintomatologia psichiatrica. Schatzman si esprime in questi termini: Propongo che le esperienze da lui ritenute soprannaturali e considerate dai medici come sintomi di una malattia mentale siano viste come trasformati (corsivo nel testo) del trattamento a cui il padre l’aveva sottoposto. Suggerisco inoltre che il padre gli abbia insegnato, quando era bambino, dei modelli con cui operare in base alla propria esperienza cosicché, in seguito, egli riteneva proibito (o si proibiva) di vedere come nella sua straordinaria relazione con Dio rivivesse la sua relazione infantile col padre. (...) La mia attenzione qui è rivolta principalmente a due intelletti, quello del padre e quello del figlio, e alle relazioni tra loro ( Ibidem, 1973, pag. 11) Sono questi gli anni in cui si riconosce alla sindrome schizofrenica l’esistenza di un contesto in cui la "malattia" prende forma e si sviluppa. Contesto che si evolve in seguito alla trasmissione di modelli intergenerazionali perpetuantesi nel tempo e che l’individuo finisce col riconoscere come le uniche risposte legittimamente possibili per la sopravvivenza. In questo senso, si registra una controtendenza rispetto alla tradizione classica degli ambienti psichiatrici; né Bleuler né Kraepelin, all’epoca, infatti, erano interessati alle esperienze dei membri delle famiglie di schizofrenici. Schatzman prosegue la sua disamina evidenziando: Non mi occupo qui di eventi traumatici isolati che possono essere accaduti una o due volte nell’infanzia di Schreber, ma di modelli (corsivo nel testo) di avvenimenti che si verificarono periodicamente e che possono essere collegati a modelli di avvenimenti da lui vissuti ripetutamente durante la sua "malattia di nervi" (Schatzman, 1973, pag. 20). L’esempio proposto ci permette di individuare il passaggio concettuale in cui la scienza psichiatrica inizia a considerare le modalità comunicative essenziali nella trasmissione del sintomo psicotico. Si rende evidente il rilievo assunto dalla teoria dll’attaccamento nel considerare di primaria importanza la trasmissione intergenerazionale del disturbo psichico, nonchè le modalità di interazione linguistica tra i membri di una stessa famiglia. Thomas Szasz (1961), nel sottolineare il rilievo del linguaggio nell’evoluzione della patologia psichica, attribuisce la "cosiddetta malattia mentale" all’uso distorto della comunicazione linguistica: Benché il concetto di psichiatria come analisi della comunicazione non sia una novità, non tutte le implicazioni dell’idea che le cosiddette malattie mentali possano essere considerate come linguaggi, non già come malattie somatiche, risultano abbastanza esplicite... Noi siamo abituati a pensare che le malattie abbiano "cause", che comportino "trattamenti" e siano suscettibili di "cura". Se, tuttavia, un individuo parla una lingua che non è la nostra, di solito noi non ci mettiamo alla ricerca della "causa" del suo particolare comportamento linguistico. Sarebbe sciocco e, va da sé, inutile, occuparci dell’eziologia" del fatto di parlare francese; per comprendere il comportamento relativo, dobbiamo pensare in termini di apprendimento e di significato ... Se un cosiddetto fenomeno psicopatologico è più affine a un problema di linguaggio che a una malattia, ne consegue che non possiamo parlare sensatamente di "trattamento" e "cura". Per quanto sia ovvio che, in determinate circostanze, può essere desiderabile, per un individuo, passare da una lingua all’altra- ad esempio, smettere di parlar francese e cominciare a parlare inglese-, tale mutamento di solito non è formulato in termini di "trattamento". Parlare di apprendimento anziché di eziologia dà modo di constatare come ognuna delle diverse forme di comunicazione abbia la sua propria raison d’^etre....( ibidem, 1961, pagg.15-16) Szasz interviene sostenendo che "ciò che viene chiamato oggi malattia mentale un giorno apparterrà al dominio dei linguisti e degli studiosi della comunicazione". Alla luce dei dati riportati possiamo desumere che lo studio della trasmissione intergenerazionale del disturbo psichiatrico ha dato impulso a nuove forme di indagine dove il disturbo mentale non viene più considerato in termini monadici. L’individuo e il suo malessere vengono interpretati all’interno del contesto situazionale, fisico ed emotivo nel quale sono inseriti. La teoria dell’attaccamento ha dunque permesso di estendere l’ottica scientifica al malessere generazionale, ancor prima che individuale, presentato dal "paziente". La terapia familiare è forse l’esempio meglio caratterizzante il concetto esposto. Bowlby è stato tra i primi, in Inghilterra, ad intervistare, insieme al paziente, l’intera famiglia dello stesso paziente. Fraiberg (1980, cit. in Hopkins 1987) ha sviluppato il metodo proposto da Bowlby evidenziandone la validità terapeutica. Ho trovato molto efficace l’utilizzo dell’intervista familiare nei genitori e bambini con problemi di attaccamento. Ad ogni modo, qualsiasi tipo di approccio terapeutico venga utilizzato, appare chiaramente essenziale includervi i genitori; in questa maniera essi riescono a divenire maggiormente disponibili e responsabili ad instaurare un contatto con il bambino ( cit. in Hopkins, 1987, pag. 15) Dorothy Heard (1978), nell’articolo "From object relations to attachment theory: A basis for family therapy" , descrive i contenuti dell’applicazione tella terapia familiare nell’ottica propria alla teoria dell’attaccamento. La famiglia, secondo la sua opinione, può essere interpretata come "un sistema omeostatico di interrelazioni fra i suoi membri a differenti stadi dello sviluppo". La terapia familiare diviene , quindi, un processo di reinterpretazione di rappresentazioni mentali già esistenti che agiscono in maniera distorta. L’azione del terapeuta è quindi diretta a reinterpretare adeguatamente la ricerca di prossimità, il comportamento esplorativo e quello parentale per promuovere l’autonomia, la creatività e la maturità individuale. Nel concludere, facciamo riferimento ad un testo di Lucia Carli, di recente pubblicazione, in cui l’autrice nell’introduzionesottolinea, in proposito, l’importanza della riorganizzazione adattiva di quella che definisce la "fase" di trasferimento delle funzioni dell’attaccamento infantile ad attaccamenti più maturi (eadem, pag. XV). Il vecchio legame familiare, ed il connesso schema di attaccamento, viene riproposto all’adulto sotto forma di nuovi investimenti affettivi che, se il modello di attaccamento è insicuro o ambivalente, rischiano di riproporsicon le medesime modalità con cui l’adulto ha sperimentato la propria infanzia (Carli, 1995).
CAPITOLO 3
La figura allontanante che ho sempre incontrato non è quella che dice: "Io non ti amo", ma quella che dice: "Tu non puoi amarmi, per quanto tu lo voglia, tu ami infelicemente l’amore per me, ma l’amore per me non ama te". Per conseguenza, è errato dire che ho fatto esperienza della frase: "Ti amo", io ho sperimentato soltanto l’attesa silenziosa che avrebbe dovuto essere interrotta dal mio "Ti amo", di ciò soltanto ho fatto esperienza, di niente altro. ( Franz Kafka, Diari, 12 Febbraio 1922)
3.1. L’intepretazione del sintomo agorafobico nelle interazioni familiari patogene E’ importante anche, agli effetti dei problemi studiati in questo lavoro, lo stretto legame esistente tra agorafobia e depressione. Innanzitutto, i sintomi dell’agorafobia e quelli della depressione tendono a cambiare simultaneamente e nella stessa direzione, o peggiorando entrambi o miglirando entrambi (Roth, 1959; snaith, 1968). In secondo luogo, i pazienti agorafobici sono, rispetto alle altre persone, molto più esposti al rischio di essere colpiti da una depressione (cit. in Bowlby, 1973, pag. 388)
Il 30 agosto 1934, al XIII congresso Psicoanalitico Internazionale di Lucerna, Edoardo Weiss definisce l’agorafobia "una manifestazione dell’isterismo d’angoscia" (Weiss, 1936). Con questo termine si fa riferimento ad una patologia segnalata da Morel nel 1866 (cit. in Weiss, 1936) "per cui, chi ne è affetto, prova angoscia nell’attraversare, specialmente da solo, piazze e vie larghe e, in genere, nell’allontanarsi da un dato punto fisso di appoggio per inoltrarsi nello spazio aperto" (ibidem, pag. 7). In realtà, il sintomo agorafobico non concerne soltanto il timore di attraversare o permanere in spazi aperti; esso ricopre un gruppo molto vasto di fobie che sembrano comunque generalmente caratterizzate dalla paura di allontanarsi dalla propria dimora, interpretata dal soggetto agorafobico quale un punto fisso e rassicurante di appoggio. L’angoscia, o per meglio dire, la paura della paura sembra prevaricare in questi soggetti ogni possibile elaborazione cosciente del disagio e provocare conseguentemente gli stati psichici che accompagnano la manifestazione del sintomo nevrotico. Spesso gli individui nevrotici affermano di provare sentimenti di depersonalizzazione, di estraneità verso sé stessi, nonché manifestazioni fisiologiche che vanno dal capogiro ad altre strane sensazioni spiacevoli che l’agorafobico descrive in maniera "colorita", intendendo con ciò la descrizione, a volte fantasiosa e senza dubbio metaforica, del sintomo stesso. Secondo l’opinione di Weiss: L’angoscia è la reazione dell’Io di fronte a questi stati psichici che, secondo me, hanno tutti i caratteri di traumi psichici veri e propri, e che io designerei come traumi psicogeni (ibidem, pag. 15) Bowlby rintraccia l’eziologia del disturbo agorafobico nell’attaccamento ansioso originantesi nei primi anni di vita. Riferendosi agli studi di Jack e Jeanna Block (cit. in Bowlby, 1969), egli descrive due dimensioni della personalità direttamente connesse all’importanza dell’Io; di particolare rilievo nel determinare i disturbi a carattere nevrotico. Ne descriviamo brevemente i contenuti poichè riteniamo possano essere esplicativi dei concetti che andiamo analizzando. Gli individui, dunque, secondo l’opinione degli autori possiedono caratteristiche di controllo ed elasticità dell’Io che, in misura più o meno accentuata, possono contribuire alla maniferstazione del sintomo nevrotico. Tra le caratteristiche del soggetto ipercontrollato sono le risposte innaturali ed inibite, una ridotta espressione delle emozioni e una stretta limitazione della quantità di informazioni da elaborare. Tra le caratteristiche dell’individuo ipocontrollato sono l’impulsività, la facilità a confondersi , la libera espressione delle emozioni e un insufficiente limitazione della quantità di informazioni da elaborare (Bowlby, 1969, pag. 437) Allo stesso modo descrive le caratteristiche di ciò che definisce "elasticità dell’Io": L’elasticità dell’Io indica la capacità di modificare il proprio livello di controllo secondo le circostanze. Tra le caratteristiche del soggetto dotato di grande elasticità sono l’adattabilità al mutare delle situazioni, l’uso flessibile del proprio repertorio comportamentale e la capacità di elaborare informazioni che appaiono in concorrenza o in conflitto tra loro. Invece una persona fragile, dotata di scarsa elasticità dell’Io, appare poco flessibile e reagisce alle situazioni di cambiamento o di tensione perseverando rigidamente nella reazione originaria o piombando in uno stato di disorganizzazione. Le informazioni in concorrenza o in conflitto la rendono indebitamente ansiosa (Bowlby, 1969, pagg. 437-438) Le due concezioni -di controllo e di elasticità- legandosi strettamente al concetto di attaccamento ansioso forniscono una delle interpretazioni maggiormente accreditate nella manifestazione della sintomatologia agorafobica. Soggetti considerati nevrotici, infatti, non sono in grado di modulare, ad un livello cosciente, l’intensità dei meccanismi che fanno capo alle due dimensioni mentali. Stutte (1969) sostiene che il bambino, a causa della sua immaturità e della dipendenza dall’ambiente, è molto esposto alle influenze che il mondo circostante esercita sulla sua psiche. E’ proprio per questo motivo, dichiara Stutte, che egli è maggiormente soggetto alle sindromi psicoreattive rispetto all’adulto. I risultati della psicologia comparata dell’età evolutiva, della scienza del comportamento, della psicologia del profondo, come pure le cognizioni della pedagogia sull’influenza dell’ambiente e le molteplici esperienze cliniche, rilevano concordemente che l’influenza negativa di certi fattori ambientali è condizionata all’origine sociale del bambino. Le condizioni geografiche, razziali e sociali, inoltre, determoniano talora una specifica tolleranza oppure una selettiva sensibilità nei confronti di determinate influenze embientali. La classificazione eziologica qui adottata si riferisce perciò soprattutto ai bambini della nostra civiltà. Infatti, nelle culture primitive a base delle sindromi psicoreattive infantili possono riscontrarsi fattori determinanti del tutto diversi (Stutte, 1969, pag. 9) Secondo l’opinione di Stuttte, dunque, l’affetto materno costituisce un "valido impulso evolutivo" nonchè una "profilassi delle deviazioni e delle difficoltà educative dell’infanzia". L’ansia e la paura acquistano dunque un significato particolare nell’evoluzione delle reazioni nevrotiche. In accordo con Bowlby, Stutte sostiene : A reazioni ansiose abnormi sono predisposti i figli illegittimi e i figli di diorziati (ansia di fronte alla perdita dell’unico rapporto personale), e così anche i figli nati da matrimoni disarmonici in cui la continua lotta tra i genitori si traduce in una sorta di perdita della sicurezza di fondo, oppure i figli di un padre ubriacone, irascibile, dispotico. La paura della scuola ha la sua base emotiva nell’investimento fobico, determinato dalle nuove multiformi esigenze con cui l’ambito sociale, ora tanto più ampio, pesa sul fanciullo, ma non raramente deriva anche dalle minacce insensate di genitori del tutto carenti dal punto di vista pedagogico. La paura della strada, specie quando diventa vera e propria agorafobia, ha spesso come esperienza interiore si fondo un’ansia conflittuale ubiquitaria ed anche la paura di non essere capaci di affrontare le esigenze di un’esistenza extrafamiliare quale l’età raggiunta comporterebbe (Stutte, 1969, pag. 36). Bowlby traccia in maniera molto chiara quelle che ritiene essere le linee conduttrici caratterizzanti la condotta agorafobica: Quando una psichiatra abituato a trattare i bambini e le loro famiglie esamina il problema dell’agorafobia è subio colpito dalla sua somiglianza con la fobia della scuola. In antrambi i tipi di casi risulta che il paziente ha paura di andare in un posto in cui vi è dell’altra gente; in entrambi i casi il paziente ha paura anche di altre situazioni; in entrambi egli è esposto ad attacchi di angoscia, depressione e sintomi psicosomatici; in entrambi lo stato viene precipitato spesso da una malattia o da una morte; in entrambi il paziente risulta "iperdipendente", risulta figlio di genitori (uno o entrambi) che soffrono da lngo tempo di nevrosi, e spesso anche è sotto il dominio dui una madre "iperprotettiva". Infine un numero notevole di pazienti agorafobici da bambini rifiutavano la scuola (Bowlby, 1973, pag. 367).
La tesi su cui Bowlby poggia le sue argomentazioni vuole che siano proprio le "esperienze reali a scuotere la iducia di una persona nelladisponibilità delle sue figure di attaccamento ogni volta che le desidera" (ibidem, 1973, pag. 272). Eventi traumatici legati alla perdita, all’ospedalizzazione o comunque a una separazione reale, anche temporanea, che il bambino è stato costretto a subire, possono contribuire ad innestare un segnale di angoscia che il bambino tenderà a riattivare in situazioni future che - in qualche modo- richiamano l’evento traumatico. Tra i meriti di John Bowlby vi è dunque quello di aver posto l’accento sulle dinamiche distorte che la famiglia attiva nella comunicazione. Egli ha rintracciato quindi quattro modelli specifici di interazione familiare e ne fornisce una descrizione dettagliata nel secondo volume della trilogia "Attaccamento e Perdita" (1973). Riportiamo, in breve, i concetti cardine sui quali la teoria fa perno, al fine di avere una illustrazione più esaustiva delle linee principali che hanno mosso il pensiero relazionale di John Bowlby. Modello A. La madre, o più raramente il padre, soffre di angoscia cronica nei riguardi delle figure di attaccamento, e in passato o al presente ha trattenuto o trattiene il paziente a casa per avere una compagnia.Modello B. Il paziente teme che qualcosa di male possa accadere alla madre (o eventualmente al padre) mentre egli (il paziente) è lontano da lei; pertanto o rimane a casa con la madre oppure insiste perchè lei lo accompagni ogni volta che lui esce. Modello C. Il paziente teme che gli possa capitare qualcosa di male quando è fuori casa, e quindi resta a casa per evitare che ciò si verifichi. Modello D. Un genitore teme che per la salute del bambino e quindi lo tiene a casa. Nathan Ackerman (1972) sottolinea quanto l’insorgere del disturbo psichiatrico sia preceduto, di regola, da un conflitto familiare. Egli puntualizza: Il disturbo psichico in un soggetto in età evolutiva è una espressione funzionale dell’adattamento emotivo di tutta l’intera famiglia; ma una volta che il conflitto viene interiorizzato, la progressiva interazione reciproca bambino-famiglia influenza la progressione dei disturbi del bambino. La psicologia evolutiva del bambino è una reazione non solo ad ognuno dei genitori, ma anche ad una distorsione nella rappresentazione che il bambino si fa della coppia parentale (Ibidem, 1972, pag. 537)
Ackerman prosegue sostenendo che è la famiglia che "fa o distrugge" la personalità del bambino. Essa è il contenitore in grado di modulare e sorreggere la tensione alla crescita del bambino, permettendo il passaggio di alcuni impulsi ed emozioni e restringendo altre aree non ritenute compatibili con gli schemi di interazione della famiglia stessa. E’ dunque l’analisi della famiglia il mezzo primario attraverso il quale accedere ad un esame critico sulle cause dei disturbi di personalità
E’ tipico il ruolo che la madre assume in queste famiglie; esternamente essa mostra un "profondo amore" accompagnato ad un atteggiamento "servizievole" verso il figlio o la figlia, ma simultaneamente è possibile cogliere impulsi ostili e seduttivi. il suo desiderio inconscio più grande è quello di mantenere il suo adulto-bambino perennemente dipendente e narcisisticamente legato a lei (ibidem, 1985, pag. 360) La figura paterna appare marginale ed estremamente ambivalente; da una parte, egli appare come una immagine onnipotente ed idealizzata, dall’altra ricorda un adolescente bisognoso di attenzioni e gratificazioni. Barlow & Seidner (1983) notano che l’inclusione di un membro della famiglia nella pratica terapeutica produce significativi miglioramenti nell’esito della sindrome agorafobica. Lo studio pilota condotto dagli autori avvalora la tesi proposta. Non solo; si evidenzia, infatti, che nel trattamento degli adolescenti è determinante coinvolgere una figura parentale, ed inoltre si coglie dai risultati del lavoro che, nel caso di coniugi, è significativo l’ingresso del coniuge "sano"; cambiare i modelli di interazione nella coppia e nella famiglia è il passo primo verso la risoluzione del sintomo nevrotico. Bacciagaluppi (1985) riferisce che l’agorafobia nasce in conseguenza di schemi interazionali invertiti nella relazione genitore-figlio. L’ansietà da separazione del bambino è dunque il riflesso dell’ansietà del genitore stesso, rappresentata secondo un copione camuffato, in cui gli slanci verso l’autonomia manifestati dal bambino sono continuamente frustrati. Il genitore elicita, dunque, nel bambino un comportamento parentale inappropriato attivando un tratto "altruistico" presente nel bambino ad uno stato potenziale. Il comportamento altruistico è stato descritto da Bowlby in termini evoluzionistici e rintracciato in alcune ricerche di Hoffman, Yarrow & Zahnwaxler negli anni settanta (cit. da Bacciagaluppi, 1985). Il bambino si trasforma in una fonte di sicurezza e amore per la figura materna frustrata (durante l’infanzia) nel suo bisogno di amore parentale. Bacciagaluppi (1985) riferisce un caso clinico che riteniamo possa illustrare in maniera chiarificatoria i concetti sopra esposti. Riportiamo un tipico caso di agorafobia in cui , in accordo con la visione di Bowlby, è evidente la relazione genitoriale invertita. La paziente è una giovane donna di 21 anni, non coniugata. Arriva al suo primo appuntamento accampagnata dalla madre e dal suo fidanzato. L’incontro con il ragazzo è avvenuto quando la paziente aveva 17 anni, mentre ancora frequentava la scuola. Dopo circa un anno, e dopo aver iniziato ad avere contatti sessuali con il ragazzo, inizia a manifestare i primi attacchi ansiosi che gradualmente si trasformano in una tipica sindrome agorafobica che non le permette di uscire da casa senza essere accompagnata. Terminati gli studi inizia a lavorare, ma in maniera discontinua a causa della gravità del sintomo. Sia lei che la sorella gemella (dizigote) nascono premature e sono costrette a rimanere in ospedale per qualche tempo. Non sono mai state allattate al seno materno.Poco tempo dopo la loro nascita, la madre è vittima di un "esaurimento nervoso" e le sorelle sono assistite da diverse figure sostitutive quella materna. Durante una seduta, emerge una interazione familiare significativa.Il fidanzato le ha suggerito il matrimonio; quando lo annuncia ai genitori, il padre replica: "Se ti sposi, non fare ritorno a casa". La madre ribatte: "Sembri spaventata". La paziente rivela al terapeuta che era veramente impaurita, ma per gli effetti che la sua decisione poteva avere sulla madre, laddove la madre pensava che la paziente fosse impaurita per sè. Nei giorni successivi l’ansia della paziente cresce. In questo interscambio, entrambi i genitori contribuiscono a scoraggiare l’autonomia della paziente e ad incrementare la sua ansia: a) il padre crea ciò che la Mahler definisce un problema di "riavvicinamento"; quando il bambino attraversa una relativa fase di autonomia, il genitore boicotta il pieno sviluppo della stessarifiutandosi di soddisfare gli eventuali residui di dipendenza; b) la madre ridefinisce lo schema dell’interazione familiare spostando l’attenzione da quella che è una sua debolezza attribuendola alla paziente. Ciò che originariamente era un pattern di tipo B (il bambino ha paura che qualcosa di spaventoso possa accadere alla madre durante la sua assenza) si trasforma in un pattern di tipo C (il bambino ha paura che qualcosa di terribile possa accadere a lui se si allontana da casa). In aggiunta a questo misterioso ruolo materno richiasto dalla madre della paziente, il ruolo in questione si estende ad altri membri della famiglia. In passato le si è richiesto di accudire la sorella e, al presente, il padre le domanda di lavargli i capelli.Nel corso del trattamento la paziente rivela, a sorpresa del terapeuta, che anche la madre del suo ragazzo soffre della sindrome agorafobica. Si presume, dunque, che lo sviluppo della relazione tra i due abbia permesso a lui di indurre inconsciamente in lei un ruolo al quale lei era stata predisposta dalle caratteristiche proprie della sua famiglia. (Bacciagaluppi, 1985, pagg. 371-372) Aderendo alla visione relazionale, si ipotizza l’esistenza di una correlazione tra agorafobia e discordia coniugale. Le ricerche di Goldberg e Easterbrooks (cit. in Colin, 1996) rintracciano associazioni positive tra l’armonia coniugale e la sicurezza nell’attaccamento di bambini di venti mesi di vita. Allo stesso modo, Lewis, Owen e Cox (eadem, 1996), in una ricerca sulle reazioni di bambine di un anno alla Strange Situation, notano che nelle famiglie dove l’affiatamento tra i coniugi è buono è molto più alta la probabilità che le bambine mostrino reazioni tipiche dell’attaccamento sicuro. Buglass et al. (cit. da Marks, 1987) sostengono che, rispetto alla popolazione normale, le donne agorafobiche hanno attività minori nei grandi gruppi sociali e praticano meno frequentemente lo shopping; per quanto riguarda i contatti con la famiglia e le amicizie, invece, non si registrano differenze di sorta. Isaac Marks(1987), facendo riferimento a ricerche effettuate alla fine degli anni sessanta, osserva che gli agorafobici hanno (per ordine di nescita, età dei genitori e numero dei membri familiari) grosse affinità con i soggetti che presentano i disturbi conseguenti alla deprivazione. Una ricerca di Julian Hafner (1979) evidenzia come le donne agorafobiche abbiano la tendenza a riprodurre modelli patogeni relazionali sposando partners che egli definisce "abnormally jealous". Frazier & Carr (1967) interpretano questo atteggiamento come un tentativo di esercitare un controllo su sé stessi : "non puoi perdere il controllo se c’è qualcuno presente che ti può controllare (cit. in Hafner, pag. 52). La relazione che intercorre tra il fobico ed il suo partner è descritta da Fry nei seguenti termini; egli sostiene che il sintomo fobico manifestato dalla paziente contribuisce a permettere una sorta di "infossamento" delle problematiche inerenti al marito. Si tende a credere che la risoluzione del sintomo fiobico metta a repentaglio il matrimonio stesso (Marks, 1972). Al riguardo, numerosi studi sconfermano questa idea. I matrimoni dei soggetti agorafobici tendono a rimanere invariati dopo i miglioramenti dei pazienti. Oltre al disaccordo coniugale, l’agorafobia può manifestarsi in seguito a difficoltà finanziarie correlate alla perdita del lavoro, abuso di alcool e farmaci. Si ipotizza inoltre che la madre del soggetto agorafobico sia eccessivamente protettiva. Le indagini di Snaith, Parker e Buglass (cit. in Marks, 1973) effettuate in Inghilterra hanno messo in evidenza una scarsa affettività e una profonda ambivalenza nell’atteggiamento delle madri degli agorafobici. La dipendenza mostrata dall’agorafobico può essere interpretata dunque come una conseguenza della pressante richiesta di affetto non soddisfatta. Nel tracciare una possibile correlazione tra gli anni dell’infanzia e lo sviluppo della personalità adulta, Marks riporta un particolare interessante: La fobia scolastica sembra correlarsi maggiormente alla nevrosi adulta in generale, piuttosto che all’agorafobia in particolare. Neppure la separazione in età precoce (opposta all’ansietà da separazione) può essere correlata specificamente ai disturbi ansiosi successivi. Le separazioni risultanti da malattie parentali o dell’infanzia, dalla discordia coniugale o deportazioni in tempo di guerra sono maggiormente collegate alla depressione piuttosto che ai disturbi ansiosi. Tuttavia, una storia di paure infantili di qualsiasi tipo diventa un predittore della sindrome agorafobica (ibidem, pagg.348-349).
3.1.1. Il ruolo della perdita e delle minacce di abbandono nell’eziologia del disturbo La disamina proposta da Weiss riguardo l’eziologia dell’agorafobia evidenzia particolari di importanza determinante nelle ipotesi analizzate da John Bowlby. Weiss dedica infatti un’attenzione peuliare alle perdite affettive subite dai pazienti agorafobici. L’autore si esprime in questi termini: Ho notato che molti agorafobici sono rimasti orfani del padre o della madre in giovanissima età. Dapprima mi sembrò vedere il fattore più nocivo di questa grave perdita nell’abbandono prematuro del bambino da parte di quella persona da cui più esso diperndeva affettivamente, moralmente e talvolta anche materialmente; come se si fosse trattato di una spinta troppo brusca e troppo intempestiva all’emancipazione. Ma l’analisi di questi casi mi ha fatto poi conoscere un altro fattore ben più importante, inerente ai sentimenti di ambivalenza del bambino nei riguardi dei genitori, sentimenti che generarono in lui la paura di subire la stessa sorte del babbo, o rispettivamente della mamma. La stessa importanza acquista spesso la morte di un latro prossimo congiunto, freatello, nonno, zio, che abbia fortemente impressionato il bambino o il ragazzo. Il sentimento di essere abbandonato sorge invece piuttosto qualora il bambino si senta respinto dalla mamma o dal babbo, o incompreso nelle sue manifestazioni affettive ed istintive, o , ancora, non si senta preso sul serio. Da allora la mamma prede per lui valore, essa è da lui detronizzata (Weiss, 1936, pagg. 36-37). Appare evidente quanto l’interpretazione di Weiss si avvicini alle concezioni concezioni riprese qualche decennio più tardi dallo psichiatra inglese John Bowlby. "Nell’ultimo decennio -scrive Bowlby nel testo "Attaccamento e Perdita" (1973)- la sindrome agorafobica ha richiamato vivamente l’attenzione degli psichiatri britannici" e le ricerche che si sono succedute nel corso degli anni hanno fornito numerose chiavi. Secondo ciò che riferisce Bacciagaluppi (1985) nel British Journal of Medical Psychology, è possibile distinguere una minoranza di fobie specifiche agli animali nelle quali i pazienti conservano ampie aree della personalità distanziate dalla sintomatologia nevrotica, ed una maggioranza di pseudo-fobie, quali agorafobia e fobia scolastica- in cui si sospetta la mancanza di una figura di ataccamento sicura nell’età infantile. Bowlby ritiene che esista, nei pazienti agorafobici e nei bambini che rifiutano la scuola, un elemento comune. Egli nota, infatti, che un’alta proporzione di casi con sintomatologia acuta sono scatenati da "una perdita, da una grave malattia o da qualche altro importante cambiamento verificatosi nella situazione familiare (Bowlby, 1973, pag. 387). La perdita dunque sembra svolgere un ruolo specifico e non solo incidentale. Il quadro del comportamento di attaccamento -considerato come una componente "sana" e normale del corredo istintivo dell’uomo- considera anche l’angoscia di separazione come una risposta naturale ed inevitabile nel caso in cui una fiura emotivamente significativa venga a mancare. Alla luce di questa ipotesi vengono spiegati gli attacchi di panico a cui le persone colpite da una perdita sono notoriamente soggette. Ad avvalorare questa tesi vi è la frequente presenza del sintomo depressivo nei pazienti con disturbo da attacchi di panico (Kaplan & Sadock, 1972, pag. 444). Il divorzio, in questo senso, assume nell’ottica della teoria dell’attaccamento il carattere di una perdita (comunque) traumatica. La risposta alla separazione tra i coniugi si presenta nella stessa forma assunta dall’elaborazione del lutto. Uno degli studi più famosi sull’argomento risale al 1977, condotto in California ad opera di Wallerstein e Kelly (cit. in Colin, 1996). Le sessanta famiglie campione intervistate dagli autori nei mesi successivi alla separazione mostravano sentimenti di colpa, depressione, paure conscie o inconscie e incapacità di razionalizzare l’evento. Parkes e altri evidenziano come individui che hanno subito una perdita siano più inclini a manifestare sintomi di angoscia e attacchi di panico. La causa di ciò è da ricercarsi nelle motivazioni che vedono l’attaccamento ansioso all’origine della reazione di paura. L’individu sicuro avrà la tendenza a reagire in maniera meno ansiosa di fronte a situazioni generanti ansia poichè si stente sicuro e fiducioso nella disponibilità delle figure di attaccamento. Colpisce inoltre che i due terzi dei soggetti agorafobici siano donne di età compresa tra i 15 e i 35 anni. La paura di rimanere soli simbolizza dunque l’ansia di essere abbandonato dalle figure emotivamente significative. Gabriele Thomson (1986), nell’articolo "Agoraphobia: The Etiology and Treatment of an attachment/separation disorder" individua l’eziologia del sintomo agorafobico nella paura della perdita o semplicemente dell’assenza della figura di attaccamento. La paura, secondo l’autore origina nella mancanza di accessibilità delle figure di attaccamento, che creano un sottostrato cronico di ansia nell’equilibrio psichico del bambino. Kaplan e Sadock (1972) ipotizzano che siano proprio le separazioni traumatiche subite durante l’infanzia ad "intaccare il sistema nervoso del bambino in via di sviluppo, in maniera tale che il bambino diventa più suscettibile a tali ansie in età adulta" (ibidem, 1972, pag. 443). A questo proposito, Bowlby evidenzia la possibilità che le minaccedi abbandono possano costituire un elemento di profonda angoscia nell’equilibrio psichico del bambino. L’ipotesi era comunque già stata rilevata da Suttie (1935) e Fairbairn (1941); tali minacce trarrebbero il loro potere dal fatto che per il bambino piccolo "la separazione è di per sè stessa un’esperienza o prospettiva molto angosciosa e spaventosa (cit. in Bowlby, 1973, pag. 273). Tra le cause scatenanti gli atteggiamenti fobici Bowlby annovera, oltre alle citate minacce di abbandono, quelle di suicidio e le minacce di ritiro dell’affetto, che sproondano il bambino iln uno stato di assoluta solitudine e incapacità di elaborare mentalmente l’enorme carico di angoscia che segue un così grande timore. Le ricerche sugli effetti che la separazione provoca in un bambino sembrano dunque dirigere la loro attenzione proprio su questi dati. Ciò che in passato poteva apparire difficile da decifrare diviene molto più interpretabile in questo senso. E’ possibile asserire che, non solo tali minacce provocheranno conseguenze tangibili, ma che i loro effetti tenderanno a presistere. Bowlby dichiara:
Se si tiene conto dell’alta incidenza di tali minacce nella vita dei bambini, degli effetti cumulativi delle separazioni reali, delle minacce di separazione, di cure sostitutive instabili e di una vita familiare instabile, diventa spiegabile il fatto che molti bambini crescono con un attaccamento ansioso. Alla luce di questi risultati, inoltre, si possono comprendere numerose sindromi cliniche (Bowlby, 1973, pag. 301). Thomson (1986) descrive l’enorme difficoltà per l’agorafobico di individuare e distinguere i propri sentimenti. Non esiste, in questi soggetti, la capacità di acquisire la consapvolezza delle loro emozioni. Il controllo, dunque, diviene primario nel tenere distintamente separato l’affetto dall’evento emotivamente significativo. Frances e Dunn (1975) descrivono il sintomo agorafobico come una manifestazione del conflitto di attaccamento-autonomia che molte famiglie attivano per sopperire a vuoti emotivi non adeguatamente elaborati. Le fantasie ripetitive, le ruminazioni , gli amici immaginari e le allucinazioni sono spesso rappresentazioni interiorizzate in maniera incompletadi una relazione oggettuale salvifica. (...) In effetti, il paziente sembra immaginare "non posso avere mia madre per salvarmi, ma posso sentire la sua voce o avere una fantasia che possa richiamare la sua figura alla mia mente, e in questo modo sentirmi salvo". (Frances & Dunn, 1975, pag. 438).
3.2 : La depressione (...) La depressione, come stato d’animo sperimentato in deteminate occasioni pressochè da chiunque, è un inevitabile accompagnamento di qualsiasi condizione in cui l’organizzazione del comportamento diminuisce, com’è probabile che accada dopo una perdita: "Fintantochè sussiste uno scambio attivo tra noi stessi e il mondo esterno, consista esso in pensieri o in azioni, la nostra esperienza soggettiva non è di depresione: si possono sperimentare speranza, paura, rabbia, soddisfazione, frustrazione, o qualsiasi loro combinazione. E’ quando lo scambio è cessato che fa la sua comparsa la depressione ( la quale persiste) fino al momento in cui si sino organizzati nuovi modelli di scambio diretti a un nuovo oggetto o fine..." (Bowlby, 1980, pag 298) Bowlby descrive lo stato d’animo depresso come "potenzialmente adattivo"; l’individuo attraversa, infatti, in questo periodo, una fase transitoria in cui gli viene richiesto di smantellare modelli comportamentali divenuti obsoleti ed acquisirne di nuovi in grado di rimodellare adeguatamente altre modalità di interazione con l’ambiente. Lo stato di passaggio è contraddistinto da un periodo in cui il soggetto depresso deve sopportare la "disorganizzazione" dell’attività psichica che accompagna lo sindrome depressiva. "E’ tipico delle persone mentalmente sane il fatto di poter sopportare questa fase di disorganizzazione e di depressione emergendone dopo un tempo non troppo lungo, allorchè il pensiero e il sentimento cominciano ad essere riorganizzati, pronti per interazioni di nuovo tipo" (Bowlby, 1980). Emmy Gut (1989), membro attivo della clinica Tavistock, nel saggio dal titolo "Productive and Unproductive Depression", descrive il significato che, secondo il suo parere, la depressione viene ad assumere nell’ottica bowlbiana. La tesi sostenuta individua nella sintomatologia a carattere depressivo il primo segnale di un malessere che, al momento, resta complessivamente inespresso ed al quale il paziente non sta dedicando l’attenzione che meriterebbe (eadem, 1989). La depressione, in questo senso, è dunque una risposta potenzialmente adattiva che l’individuo attua al fine di mantenere il sistema psichico in equilibrio. Esiste poi una forma di depressione più grave, nella quale l’individuo non riesce a trasformare il sintomo depressivo in un processo produttivo atto ad innescare un potenziale creativo di cambiamento psicologico. L’autrice attribuisce la differenziazione (più significativa) tra i due tipi di sintomatologia nella capacità del paziente di acquisire la consapevolezza dei sentimenti inconsci. Nei nostri pazienti, nei nostri amici e in noi stessi possiamo osservare che le reazioni depressive più o meno persistenti svaniscono quando emergono il dolore, il risentimento, lo struggimento, la paura o altri sentimenti molto intensi. La loro insorgenza è connessa con pensieri e ricordi significativi o nuove informazioni che, adesso, possono essere connesse le une alle altre in modalità nuove e diverse. Parte dei nuovi modi di reagire è dovuta all’acquisizione della consapevolezza ( Gut, 1989, pag. 36). Nel processo che conduce alla risoluzione della sintomatologia depressiva, l’autrice ipotizza che una componente determinante sia da attribuire al significato che il paziente conferisce al contesto sociale nel quale risulta inserito. La psichiatria ortodossa, in questo senso, sembra non cogliere il valore delle esperienze familiari dell’infanzia, così come quello della deprivazione. Si osserva, infatti, che "nella pratica clinica attuale, la diagnosi di depressione comprende una o più sindromi in cui si trovano persistenti cambiamenti affettivi anormali associati a sentimenti di indegnità, colpa, impotenza, disperazione; ansia, pianto, tendenze suicide, perdita di interesse nei confronti del lavoro o di altre attività, impedimento a compiere funzioni sociali quotidiane; ipocondria, accompagnata da alterazioni fisiche come anoressia, modificazioni del peso, costipazione e rallentamento psicomotorio, oppure agitazione, mal di testa e altri disturbi fisici" (eadem, 1989). Klerman e Weissman (1984), al proposito, notano che "persino l’osservatore inesperto può cogliere l’aspetto patologico degli stati depressivi gravi, per la loro intensità, pervasività e persistenza, e per come essi ostacolano le normali funzioni sociali e fisiologiche" (ibidem, 1984, pag. 30). La Gut prosegue nei seguenti termini: Nel momento in cui si rende necessaria una diagnosi al fine di istituire un trattamento, non esiste la possibilità di individuare le complesse dinamiche risultanti dall’intreccio degli eventi verificatisi in età precoci e le relazioni interpersonali, nonchè i loro effetti sullo sviluppo della sindrome depressiva e sull’impatto che la continua ripetizione di tali eventi può avere nella manifestazione della stessa sintomatologia (eadem, 1989, pag. 123) Nell’esporre le problematiche relative alla depressione, Bowlby preferisce utilizzare il termine "disturbi depressivi", riferendosi a quelle condizioni cliniche che prendono il nome di "depressioni cliniche", "stati depressivi clinici" o "malattia depressiva". Tale scelta è dettata dall’esigenza di allontanarsi, secondo la visione di Bowlby, da un modello medico che i termini "clinico" o "malattia" tendono ad enfatizzare. Ciò che colpisce nell’anamnesi del paziente depresso non è soltanto il senso di tristezza generalizzato e la solitudine; il paziente depresso, nella maggior parte dei casi, si percepisce come indesiderato, indegno d’amore e impotente. Gli individui inclini ad un disturbo di tipo depressivo sembrano non aver mai instaurato un rapporto stabile e sicuro con le figure genitoriali; spesso, sono stati accusati di non essere amabili, di essere inadeguati o inetti. Ed inoltre, si registra nella maggior parte dei casi una perdita reale avvenuta durante l’infanzia di una figura emotivamente significativa per il paziente. In questa direzione si colloca uno studio di Burbach, Kashani e Rosenberg (1989) sul ruolo che il legame parentale ha nell’evoluzione del disturbo depressivo. La ricerca si rifà a precedenti lavori di Parker (cit. in Burbach, 1989) che, utilizzando il PBI, notò che i soggetti adulti depressi riferivano dei loro genitori come fondamentalmente privi di affettuosità e fortemente iperprotettivi nei loro confronti. I risultati dell’indagine evidenziano che il "controllo anaffettivo" può costituire un fattore di rischio nell’eziologia e nel mantenimento della sindrome depressiva. Si evince, inoltre, dai dati a disposizione che tale dinamica si presenta con una frequenza significativamente maggiore nelle famiglie con al loro interno un adolescente psichiatricamente disturbato. Tuttavia, la ricerca non permette di dimostrare se il controllo anaffettivo, di fatto, sia una causa o semplicemente una conseguenza della psicopatologia adolescenziale. Tra i primi studi a carattere scientifico volti ad indagare il ruolo dei fattori psicosociali nell’insorgenza della depressione, ricordiamo lo studio Walthamstow, condotto a Camberwell nella metà degli anni Settanta. Inizialmente diretto a pazienti psichiatrici, è stato successivamente esteso a campioni della popolazione generale e si rifà ad un modello etologico della depressione (Brown & Harris, 1978). Si focalizza, dunque, nella perdita "l’agente scatenante" della depressione. In concomitanza a ciò, il paziente depresso mostra un fattore di vulnerabilità. Lo studio rintraccia quattro fattori di vulnerabilità, di cui due assumono un’importanza cruciale per la teoria dell’attaccamento: a) l’assenza attuale di un rapporto di fiducia con il partner b) la perdita della madre verificatasi prima dell’undicesimo anno di età del paziente. Lo studio, condotto su un campione di soggetti donne, ipotizza che il disturbo depressivo insorga in conseguenza di una mancanza nella corretta definizione dei ruoli femminili. Si riscontra, infatti, che donne con una immagine di sè negativa hanno una probabilità maggiore di sviluppare il disturbo depressivo. Invocando dunque il concetto di identità di ruolo, si nota che le donne che riescono ad intercambiare i ruoli femminili con attività che non sono strettamente limitate alla famiglia hanno maggiori probabilità di recuperare un generale "senso di speranza" (cit. in Parkes, Hinde, Marris, 1991). Il concetto di fiducia in sè stessi è di fondamentale importanza nell’ottica dell’attaccamento; esso trova origine in un ambiente familiare "sufficientemente buono" e promuove la capacità di recupero a livello psicologico. Lo studio di Walthamstow individua sia fattori esterni che fattori intrapsichici nella formazione dei disturbi depressivi; si considerano quindi quali elementi scatenanti, l’invio ad istituti, l’essere costretti a rimanere all’interno delle mura domestiche senza poter frequentare la scuola, oppure la tendenza ad essere aperti o diffidenti, risentiti o arroganti e livelli di autostima alti o bassi). Harris e Bifulco (1986) rilevano che: Diverse misure delle caratteristiche dell’accudimento dopo la perdita della madre erano associate ad una depressione di questo tipo. Le caratteristiche più importanti implicavano però un’accentuata o moderata indifferenza o un controllo trascurato da parte del sostituto genitoriale per almeno un anno. Se si utilizzano queste caratteristiche per formare un indice della "trascuratezza dell’accudimento", una simile trascuratezza accomunava chiaramente le donne che avevano perduto la madre, era meno frequente nel caso in cui la perdita riguardava solo il padre e rara nei soggetti che non avevano sperimentato la perdita di nessuno dei genitori (ibidem, 1986, pag. 248). Sembrano quindi le cure non adeguate alle esigenze del neonato a stabilire l’associazione con il disturbo depressivo; non è esclusivamente la perdita in quanto tale a provocare la reazione depressiva, la percezione della perdita sembra scatenare la stessa reazione patologica. Lo studio di Camberwell identifica inoltre le gravidanze prematrimoniali quali fattori ad alto rischio patogeno. In particolare, viene rilevata una mancanza di fiducia profonda nei confronti del partner, in seguito alla marcata inaffidabilità dello stesso. E’ un circolo vizioso autoperpetuantesi che intravede all’origine dell’attaccamento ansioso una scarsa capacità relazionale dimostrata da queste giovani donne nella gestione della loro vita affettiva. Parkes (1991) asserisce: I fattori di vulnerabilità includono paura appresa, impotenza appresa, mancanza di fiducia in sè stesse, mancanza di fiducia negli altri, presenza di un partner considerato "dipendente", compulsivo affidamento su di sè, anzianità ed isolamento. Questi fattori di rado si presentano isolatamente ed interagiscono l’un l’altro nell’influenzare il modello di reazione alla perdita (ibidem, 1991, pag. 299) Parkes specifica, inoltre, in termini più concreti, quali sono i differenti tipi di influenza che innestano un particolare tipo di accudimento da parte dei genitori e particolari reazioni di fronte alle perdite subite in età adulta. Le sequenze causali che, secondo la sua opinione, meritano ulteriori attenzioni sono le seguenti : 1. Genitori ansiosi e conflittuali predispongono i figli a reagire alla perdita con insicurezza e forte ansia. 2. Genitori assenti o rifiutanti predispongono i figli alla depressione dopo la perdita nella vita adulta. 3. Influenze genitoriali negative interferiscono con lo sviluppo della fiducia in sè e/o negli altri. Una scarsa fiducia in sè predispone al "lutto eccessivo" dopo la perdita e lascia la persona insolitamente vulnerabile alla morte di un genitore. Una bassa fiducia negli altri predispone alla tendenza ad evitare gli altri ed a minimizzare il processo del lutto dopo la perdita. 4. Conflitti tra genitori durante l’infanzia aumentano il rischio di conflitti coniugali quando i figli si sposano e li rendono vulnerabili al "lutto conflittuale" quando i genitori muoiono. I risultati dello studio Walthamstow riflettono dunque la forza con cui i modelli di attaccamento che gli individui formano nel’infanzia agiscono sulla formazione della patologia nei legami emotivi della vita adulta. Bowlby, in proposito, scrive: Un’osservazione ben nota, che nel mondo della psicoterapia è stata forse data troppo per scontata senza che si prestasse sufficiente attenzione alle sue implicazioni teoriche, è la costante interazione del modelli di comunicazione, verbale e non, che operano nella mente di un individuo e dei modelli di comunicazione esistenti tra lui e le persone di cui sente di potersi fidare. Tanto più è completa l’informazione che una persona è capace di comunicare a qualcuno di cui ha fiducia, tanto più egli stesso diventa capace di trattarlo, di comprenderlo e di vederne le implicazioni. Un processo ben semplificato dall’adagio: "Come posso sapere cosa penso se non sento quel che dico?". Quanto più invece una persona è in grado di elaborare per proprio conto in modo adeguato l’informazione, tanto più potra comunicarla a qualche altra persona. Una parola chiave, qui, è fiducia. Senza la fiducia che la persona con cui ci confidiamo sarà in grado di capire e rispondere in maniera utile, la comunicazione tra sè e l’altro è bloccata, con un corrispondente blocco a livello della comunicazione intrapsichica (cit. in Parkes, Marris, 1991, pagg. 306-307). La relazione esistente tra le perdite subite nell’infanzia e la depressione nei soggetti adulti è stata ampiamente trattata da Parkes in numerosi scritti. Riportiamo qui uno studio condotto dall’autore in collaborazione con Vijaya Manicavasagar (1986) e pubblicato dal British Journal of Medical Psychology. L’indagine assume connotazioni particolari poichè sconferma i dati precedentemente esposti. L’indagine è attuata su un campione di settantanove donne le cui madri sono decedute all’epoca della loro infanzia e i cui padri si sono risposati successivamente. Secondo gli autori, le ricerche sui legami tra lutto infantile e depressione adulta sono "inconsistenti e conflittuali" (ibidem, 1986, pag. 287). I dati su cui la ricerca fonda i risultati, infatti, si basano su resoconti retrospettivi dell’infanzia delle donne; il rischio di una distorsione dovuta a ricordi erronei è dunque elevato. Oltremodo, si evince dall’esito della ricerca la non-esistenza di alcun legame tra depressione adulta e lutto infantile. Emerge quale particolare interessante il rapporto tra disturbi psicopatologici e classe sociale non elevata. L’indagine sugli effetti della perdita si è estesa ai bambini deprivati della figura paterna. Le pubblicazioni di Marris, Wimperis e Wynn (cit. in Miller, 1973) hanno evidenziato che i bambini orfani di padre, specialmente quelli che ne sono privi sin dai primi anni di vita, non riescono a sviluppare una relazione significativa attraverso la quale poter attivare il processo di identificazione. Inoltre, se, come del resto accade, la madre è costretta a sostenere economicamente il nucleo familiare, essi sono oltremodo privati del contatto con la figura materna. Da tale mancanza di sicurezza emerge conseguentemente il quadro clinico che conduce il professionista ad ipotizzare un attaccamento ansioso nel paziente. Sono queste modalità ad indurre il paziente stesso a percepirsi come indesiderato, indegno di amore ed impotente. La ragione di ciò è da ricercarsi, a detta di Bowlby, nelle seguenti motivazioni: Io credo che una delle forme più intrattabili si ha quando un genitore implicitamente o esplicitamente proibisce a un bambino, magari con la minaccia di sanzioni, di prendere in considerazione qualsiasi modo di concepire sè stesso e i genitori che non sia appunto il modo voluto dal genitore stesso. In tal caso il bambino, e in seguito l’adolescente e l’adulto, non sarà in grado di modificare o riesaminare i propri modelli di rappresentazione del genitore e di sè stesso; non solo, ma sentirà come vietato il comunicare ad altri qualsiasi informazione o idea da lui eventualmente posseduta che ponga i genitori in una luce meno favorevole e sè stesso in una luce più favorevole ( Bowlby, 1980, pag. 301) L’analisi di Bowlby chiaramente estende la reazione depressiva a una prospettiva etologica; egli paragona infatti la risposta depressiva del bambino a quella che si osserva nel corso di esperienze di separazione in certi primati. Le reazioni che ne conseguono (il pianto, le modificazioni dell’espressione facciale, corporea e della postura) sono ampiamente documentate da numerosi studi relativi alla separazione negli animali. Ricordiamo, per tutti, gli studi di Harlow sulle scimmie Rhesus. Holman (1973), in un articolo dedicato alle "Vicende familiari in relazione allo sviluppo della personalità" sottolinea che l’igiene mentale del bambino si conserva mantenendo un buon equilibrio tra ansia e senso di colpa che madre e bambino provano inevitabilmente in maniera reciproca. Una relazione "calda, intima e continuativa" (ibidem, 1973) è il presupposto primo per una corretta igiene mentale. Il rilievo assunto dalla separazione nello sviluppo della sindrome depressiva è stato approfondito da Rutter (1972), che ha sottolineato come anche i rapporti che il bambino instaura con figure diverse da quella materna possano creare veri e propri vincoli di attaccamento. La possibilità che tali vincoli vengano distrutti aumenta la probabilità che il bambino sviluppi una sintomatologia a carattere depressivo. Rutter (1972) nota che il disturbo depressivo è estremamente comune nei soggetti adulti che hanno subito una perdita in età adolescenziale e Loyd osserva che i risultati, per quanto al momento piuttosto conflittuali, si pongono a conferma dell’ipotesi quantitativa. Birtchnell (cit. in Parkes, 1983) sottolinea che la ricerca dovrebbe dirigere la sua attenzione verso la qualità dell’interazione genitore-figlio piutosto che sugli effetti della perdita e della separazione. Bowlby suggerisce che i genitori "patogeni", ovverosia quelli caratterizzati da un atteggiamento irresponsabile e che tendono ad invertire la relazione parentale, contribuiscono a creare un attaccamento ansioso nel bambino.
3.2.1. La personalità dipendente nella sindrome depressiva Nel 1972, Chodoff esprime un’opinione negativa riguardo allo stato corrente degli studi sulla sindrome depressiva ed i probabili interventi terapeutici. Egli sostiene che non è ancora possibile rintracciare gli elementi distintivi delle caratteristiche di personalità premorbose, che si associano logicamente con depressioni cliniche. Viene puntualizzato, infatti, che le formulazioni inerenti alle peculiarità personologiche dei pazienti si riferiscono ai periodi in cui il paziente è depresso; conseguentemente ne deriva un insieme riguardante le caratteristiche di personalità (fondamentalmente) distorto. La letteratura scientifica quindi non raccoglie informazioni sulla personalità del depresso, ma su un potenziale depressogenico di una personalità dipendente. Chodoff, nel tentativo di creare un legame tra il sintomo depressivo e la personalità dipendente, definisce la dipendenza stessa come un particolare stato psichico per cui l’autostima di un individuo è strettamente funzionale a ciò che altre persone pensano di quello stesso individuo, in termni di approvazione o di supporto. Il significato del termine dipendenza è "mal interpretato", secondo Bowlby, da psichiatri e psicoanalisti. L’autore rivendica, infatti, l’assoluta rilevanza del comportamento dipendente (anche nell’età adulta), in grado di mantenere la prossimità alle figure di attaccamento. La dipendenza dagli altri nei soggetti depressi è dunque funzionale alla ricerca di conferme di vicinanza e di sostegno. La persona normale non infrequentemente subisce attacchi al proprio senso di autostima in seguito a situazioni od eventi che possono minacciarlo ; ad ogni modo riesce a ripristinare il proprio equilibrio analizzando i fatti secondo una prospettiva propria, bilanciando gli insuccessi in determinati campi con i successi conseguiti in altri settori. La persona che è estremamente dipendente dagli altri si trova in difficoltà nelle situazioni che possono minacciare la sua autostima: "Nella relativa assenza di risorse interiori attribuisce ad altri il supporto e la rassicurazione, e spesso necessita di costanti supplementi di forze esteriori per mantenere il suo instabile equilibrio" (Birtchnell, 1984, pag. 217). Mc Cranie (1971) sostiene che per comprendere la depressione sia necessario analizzare le cause di un’autostima a livelli così bassi. Bowlby ne colloca le motivazioni nell’insicurezza tipica dei soggetti con attaccamento ansioso, dedicando un’attenzione particolare al lavoro di Stendler. La paura che le figure di attaccamento non faranno ritorno nasconde il timore di non essere amato sufficientemente. Ciò è dovuto ad una inadeguata interiorizzazione dell’amore parentale; per questa ragione, sostiene Bowlby, una volta adulti (i soggetti depressi) ricercheranno continuamente la vicinanza quasi ossessiva delle figure emotivamente significative, manifestando pressanti esigenze di sostegno. La possibilità di sviluppare relazioni affettive adulte soddisfacenti è legata infatti ad un ben definito senso dei confini del proprio Io ed alla capacità di vivere serenamente la propria libertà nel rispetto della libertà del partner. Secondo un’interpretazione fornita da Birtchnell (1984), i concetti di dipendenza e di sindrome depressiva si muovono su binari paralleli. E’ possibile rintracciare un comune background nella definizione delle due entità, ma è oltremodo vero che il termine dipendenza racchiude un’elusività di fondo che non consente di collocarlo all’interno di una definizione soddisfacente (ibidem, 1984).
3.2.2. Il sintomo nel rapporto di coppia Le ricerche sull’impatto emotivo che il depresso ha sui soggetti non affetti dalla sindrome depressiva illustrano risultati molto interessanti. Kreitman, Collins e altri (1971) hanno studiato gli effetti delle convivenza matrimoniale con un coniuge depresso. Si intervistarono, allo scopo, sessanta pazienti ambulatoriali con le loro mogli utilizzando un gruppo di controllo. I risultati delle ricerca hanno evidenziato percentuali più alte del previsto di malattie mentali e disturbi affettivi. La patologia sembra aumentare con il perdurare del matrimonio stesso (ad avvalorare la tesi relazionale dell’"interazione patogena", per cui uno dei coniugi adegua le proprie attività sociali a quelle del partner psichiatricamente svantaggiato). Brown & Harris, in uno studio del 1978, procedono alla verifica del ruolo che eventi emotivamente significativi svolgono nell’insorgere della depressione, in conseguenza del verificarsi o meno di perdite subite nel corso dell’infanzia (cit. in Bowlby, 1980). "La perdita (corsivo mio) e la delusione -secondo Brown & Harris- sono le principali caratteristiche della maggior parte degli eventi che sono alla base di una depressione clinica". La perdita assume all’interno della ricerca il carattere di un agente provocante, in grado di aumentare il rischio legato all’insorgere del disturbo. Non solo, essa è oltremodo un fattore di vulnerabilità poichè la sensibilità verso un certo tipo di eventi risulta maggiore negli individui che hanno subito una perdita e quindi conseguentemente diviene un fattore che influisce sulla gravità e sulla forma del disturbo depressivo. E’ necessario puntualizzare che, ad ogni modo, la perdita non costituisce l’unico elemento causale allo sviluppo del disturbo depressivo. Eventi familiari stressanti con una durata piuttosto lunga nel tempo, la mancanza di rapporti personali intimi e la presenza di bambini in tenera età sembrano confermare il loro peso nella fissazione del disturbo in questione. Paykel e colleghi (cit. in Malagoli Togliatti, 1991) rilevano inoltre l’importanza delle difficoltà coniugali nell’insorgenza del disturbo depressivo. Le osservazioni di Schless (eadem, 1991) sembrano confermare questa ipotesi; si nota, infatti, una notevole vulnerabilità del depresso alle difficoltà create da rapporti di coppia non ritenuti salutari. Briscoe & Smith (eadem, 1991) rilevano in uno studio sperimentale che esiste una notevole frequenza di episodi depressivi nelle donne sposate, per cui viene ipotizzato che il disaccordo coniugale possa precedere o predisporre alla sindrome depressiva. Si analizzano dunque le modalità di comunicazione dei membri della coppia con un soggetto depresso e si evince dai dati a disposizione che i due partners utilizzano schemi interattivi distorti.
3.2.3. Il terapeuta come base sicura All’interno di un simile contesto la funzione del terapeuta assume un ruolo importantissimo. Essa è, secondo Alastair J. Mackie (1981), finalizzata a costruire un legame di attaccamento che il paziente possa individuare come positivo; tutto questo assume il preciso significato di ricreare un tentativo di sostituire figure genitoriali ritenute dal paziente ansiogene ed incapaci di generare quella stabilità che è alla base di ogni attaccamento sicuro. Bowlby sottolinea, infatti, che l’essere umano è biologicamente portato a ricercare la prossimità con gli altri individui nel corso di tutta la vita -non solo durante l’infanzia- poichè è proprio la vicinanza il mezzo attraverso il quale costituire una fonte di sicurezza da cui poter esercitare il comportamento esplorativo. Mackie ( 1981 ) dunque puntualizza : Fondamentalmente, ciò che è importante nel rapporto tra il paziente ed il suo terapeuta è la relazione reale o non-transferale. Questa relazione non-transferale, come si mostrerà successivamente, è una parte integrale dell’alleanza terapeutica. Non c’è nessun intento qui di sminuire l’importanza dell’interpretazione nel corso della terapia; nondimeno, il terapeuta è visto e sentito dal paziente come un individuo reale, genuino, vicino ed in contatto con il suo stress ( ibidem, 1981, pag.203 ).
Jeremy Holmes, in un passo del testo "La teoria dell’attaccamento" (1993), sintetizza in termini molto semplici il senso di relazione sicura nel rapporto transferale: Lo stesso fatto che qualcuno chieda aituo psicoterapeutico implica che egli debba aver avuto difficoltà nello stabilire una base sicura nel passato. Il paziente porta con se stesso in terapia tutti i fallimenti, i sospetti, le perdite che ha sperimentato nella propria vita. Le forme difensive dell’attaccamento insicuro (evitamento, ambivalenza, disorganizzazione) entreranno in gioco nella relazione con il terapeuta. Ci sarà una lotta tra questi pattern abituali e l’abilità del terapeuta nel fornire una base sicura: la capacità di essere in grado di reagire in modo sensibile e di essere in sintonia con i sentimenti del paziente, di ricevere proiezioni e di trasformarle in modo che il paziente possa affermare le emozioni in esse contenute fin qui non trasformabili. Nella misura in cui ciò avviene il paziente lascerà andare gradualmente l’attaccamento al terapeuta mentre, simultaneamente, costruisce una base sicura all’interno di se stesso. Il risultato di tutto ciò, mentre la terapia si avvia alla sua conclusione, è che il paziente è più capace di formare relazioni di attaccamento meno ansiose nel mondo esterno e si sente più sicuro dentro di sè. Quando il concreto attaccamento al terapeuta si affievolisce, contemporaneamente nel mondo interno si stabilisce on più fermezza la capacità di essere sintonici e reattivi con se stessi (Holmes, 1993, pag. 158) Il terapeuta, quindi, deve possedere qualità che possano essere percepite dal paziente come basi sicure per mezzo delle quali poter sostituire i modelli operativi interni che il paziente non ritiene ormai più adeguati per il proprio equilibrio psichico. Bowlby (1975) sostiene che lo psichiatra debba essere sensibilmente attento ai bisogni del paziente, così come una buona madre dovrebbe esserlo con i propri figli. Egli infatti evidenzia come gli individui che sviluppano disturbi psichiatrici non riescano a strutturare e consolidare legami affettivi duraturi ( Bowlby, 1977), ed inoltre registra la frequenza con cui un disturbo nel consolidamento dei legami affettivi dell’infanzia determini successivamente un disturbo psichiatrico. Secondo Bowlby, infatti, le persone che soffrono di disturbi psichici, psiconevrotici, sociopatici o psicotici mostrano sempre un "deterioramento della capacità di strutturazione dei legami affettivi, deterioramento che è spesso grave e duraturo" (Bowlby, 1979). Esso può essere di tipo primario o secondario e dipende da "uno sviluppo anomalo verificatosi in un’infanzia passata in un ambiente familiare atipico" (ibidem, 1978). Bowlby prosegue affermando che sia la sindrome psicopatica che quella depressiva ( e la sintomatologia ad esse collegata) sono precedute da rotture dei legami affettivi nell’infanzia. Per persone del genere la capacità di sviluppare e mantenere legami affettivi è sempre disturbata e non di rado assente. L’infanzia di questi individui appare per lo più fortemente turbata da morte, divorzio o separazione dei genitori, o da altri eventi aventi come risultato la rottura di legami affettivi e la frequenza di tali disturbi è di gran lunga più alta di quella riscontrata in gruppi di controllo tratti dalla popolazione generale o da soggetti affetti da disturbi psichici di altro genere. Earle ed Earle (1961), ad esempio, in uno studio su più di un migliaio di pazienti psichiatrici dimessi sotto i sessant’anni, ne diagnosticarono 66 come sociopatici e 1357 come affetti da altri disturbi. Considerando come variabile un’assenza della madre delle durata di sei mesi o più, prima del sesto anno, Earle ed Earle ne rilevarono una frequenza del 41 per cento per i sociopatici e del 5 per cento per i rimanenti ( Bowlby, 1979) Il concetto è convalidato dalle posizioni della Heard ( 1978 ) che rintraccia negli studi con pazienti depressi, ansiosi e con tentativi di suicidio alle spalle l’assenza di solidi legami di attaccamento e numerose esperienze di separazione con figure di attaccamento significative dei primi anni di vita. Studi condotti presso la Columbia University in anni più recenti convalidano appieno le ipotesi trattate. Una ricerca di Farber, Lippert & Nevas (1995) afferma che il lavoro terapeutico deve focalizzarsi sulla creazione di un ambiente di sostegno per le esperienze del paziente. La costanza, la consistenza e la netta definizione dei confini terapeutici sono gli elementi indispensabili per la costruzione di una corretta alleanza di lavoro. I pazienti che hanno sperimentato attaccamenti precoci insicuri inizialmente possono non nutrire sentimenti forti e consistenti verso il terapeuta; il lavoro terapeutico consiste in questi casi nello sviluppare una relazione stabile e fiduciosa, in grado di compensare della mancanza, in anni precoci, di una relazione fondata su un attaccamento percepito come sicuro dal paziente stesso ( Farber, Lippert & Nevas, 1995, pag. 208). Concludiamo facendo riferimento alle parole di Bowlby che, nel testo "Una base sicura" (1988), si esprime in questi termini: Non ci sono in effetti tra un essere umano e l’altro comunicazioni più importanti di quelle espresse a livello emotivo, e non esistono informazioni più vitali per la costruzione e la ricostruzione dei modelli operanti del sè e degli altri che le informazioni riguardo ciò che ciascuno sente nei confronti dell’altro. Nei primi anni della vita, in verità, l’espressione emotiva e la sua ricezione sono gli unici mezzi di comunicazione che abbiamo, così che la fondazione dei nostri modelli operanti del Sè e delle figure di attaccamento è necessariamente basata sull’utilizzo di informazioni provenienti da quell’unica fonte. Non c’è molto da meravigliarsi se, nel passare in rassegna le sue relazioni d’attaccamento nel corso della psicoterapia e nel ristrutturare i suoi modelli operanti, la parte cruciale viene svolta dalle comunicazioni emotive che il paziente ha con il suo terapeuta (ibidem, 1988, pag. 151).
CONCLUSIONI Nel tracciare le conclusioni relative al nostro elaborato, nessuna affermazione sembra essere più corretta di quella riportata da Kuhn nel testo "La struttura delle rivoluzioni scientifiche". Nell’opera l’autore afferma che "Nessuna teoria ha facili inizi". L’intento della tesi proposta, infatti, è stato proprio quello di evidenziare come i primi anni di esordio dei concetti legati alla Teoria dell’Attaccamento abbiano subito modificazioni, rielaborazioni e valutazioni da parte del mondo scientifico che non sempre hanno confermato le ipotesi del nostro. Non solo, il proponimento dell’elaborato ha voluto ampliare la prospettiva considerata agli eventi storici che, in quegli anni, sono andati modificando l’intera ottica psicoanalitica e psichiatrica. Gli anni settanta, infatti, si sono rivelati essere un momento di grande transizione da un’ottica prevalentemente monadica a quella relazionale nella teorizzazione del disturbo psicologico. Inevitabilmente, i concetti analizzati in questa sede hanno risentito dei nuovi impulsi intellettuali. A tal fine, si è potuto evincere come alcune delle ricerche effettuate non abbiano preso nella giusta considerazione il valore della separazione e della perdita nell’evoluzione del sintomo psicopatologico (saranno gli anni ottanta, infatti, a validare appieno i meriti degli studi bowlbiani). Allo stesso modo, la Teoria dell’Attaccamento si è proposta quale elemento nodale nel sostenere il rilievo della situazione reale nell’emergere della patologia. In virtù di questo, numerosi scienziati hanno accordato interessi e attenzioni agli studi longitudinali; determinanti inoltre, poichè attuati nel contesto quotidiano di vita delle famiglie, nell’ incentivare un rilievo crescente all’intero nucleo familiare per la risoluzione del sintomo; particolare peraltro già evidenziato da Bowlby. La Heard, al proposito, ha considerato l’autore il primo ad avere formulato una primordiale terapia della famiglia. Si è potuto constatare, quindi, nell’elaborato proposto, l’indiscusso valore della trasmissione intergenerazionale della psicopatologia e, conseguentemente, dell’accordo (o disaccordo) coniugale nell’evolversi di particolari modelli operativi di sè e degli altri attraverso i quali interpretare gli eventi della vita stessa. In ultimo, è dunque emerso quanto atteggiamenti di costanza, disponibilità, rispetto e sensibilità siano determinanti nell’instaurare una personalità libera da conflitti interiori e quanto l’attaccamento sicuro costituisca una fonte di generale benessere. Lo spaccato analizzato qui non ha che messo in evidenza ciò che Mary Ainsworth aveva già teorizzato alla fine degli anni sessanta quando sosteneva che la Teoria dell’Attaccamento era semplicemente una guida, una teoria soprattutto esplicativa e che poteva essere colta nel suo valore di suggerimento per nuove ricerche e modelli. E’ quindi fondamentalmente uno stato di passaggio quello che è stato illustrato nel nostro elaborato, colto nel suo valore di potenziale creativo per ulteriori approfondimenti.
BIBLIOGRAFIA
Ackerman N. "Il ruolo della famiglia nella etiologia dei disturbi del comportamento infantile". In: Fondamenti di psichiatria infantile.Piccin Editore, 1973. Ammaniti M., Stern D. (1992) Attaccamento e psicoanalisi. Biblioteca di Cultura Moderna, Laterza Ainsworth M., Blehar M., Lieberman A. "Early face-to-face interaction and its relation to Later infant-mother Attachment" Child Development, 1977, 48, 182-194.Alaistar J. Mackie "Attachment Theory: its relevance to the therapeutic alliance" British Journal of Medical Psychologist, 1981, 55, 203-212 Atkinson L., Zucker K.J. (1997) Attachment and Psychopathology. The Guilford Press, New York London Bacciagaluppi M. "Inversion of parent-child relationships: A contribution to Attachment Theory". British Journal of Medical Psychology, 1985, 58, 369-373. Barlow D.,& Seidner A. "Treatment of Adolescent agoraphobics: Effects on Parent-Adolescent relations". Behavioural Research Therapy, 1983, 21, 519-526. Bateson G., Laing R.D., Marcuse H. (1968) Dialettica della liberazione Einaudi, Torino Birtchnell J. "Dependence and its relationship to depression" British Journal of medical Psychology, 1984, 57, 215-225 Bowlby J. "The influence of early environment in the development of neurosis and neurotic character". International Journal of psychoanalisys, 1940, 21, 1-25. Bowlby J. (1969) Attaccamento e Perdita.Volume 1. Tr. it. Bollati Boringhieri 1972 Bowlby J. (1973) Attaccamento e Perdita. Volume 2. Tr. it. Bollati Boringhieri 1975 Bowlby J. (1979) Costruzione e rottura dei legami affettivi. Tr. it. RaffaelloCortina Editore, 1982 Bowlby J. (1980) Attaccamento e perdita. Volume 3. Tr. It. Bollati Boringhieri 1983 Bowlby J. "Developmental Psychiatry Comes of Age" American Journal of Psychoanalisys, 1988, 145, 1-10 Bretherton I. "The origins of Attachment Theory: John Bowlby and Mary Ainsworth" Developmental Psychology, 1992, 28, 759-775 Brown J., Brolchain M., Harris T. "Social class and Psychiatric disturbance among women in an urban population" Sociology, 1975, 225-254 Bruch I. "Parent education or the illusion of omnipotence" American Journal of Ortopsychiatry, 1954, 24, 723-732. Burbach D. J., Kashani J.H., Rosenberg T.K. "Parental Bonding and Depressive Disorders in Adolescents". Journal of Child Psychology and Psychiatry, 1989, 30, 417-429. Burlingham D. (1971) La psicoanalisi infantile e la madre. In: Trattato di Psicoterapia infantile, Piccin Editore Padova 1974 Cameron K. "Past and present trends in child psychiatry". Journal of Mental Science, 1956, 102, 599-603. Cancrini L., Malagoli Togliatti M. (1976) Psichiatria e rapporti sociali. Argomenti Editori Riuniti Carli L. (1995) Attaccamento e rapporto di coppia. RaffaelloCortina editore Chess S. "Child and Adolescent Psychiatry come of Age: A fifty year Perspective" Journal American Acad. Child Adolescent Psychiatry, 1988, 27, 1-17 Chodoff P. "The depressive personality: A critical review" Archives of general psychiatry, 1972, 27, 666-673 Colin V. (1996) Human Attachment. Temple University Press, Philadelphia Cooper D. (1968) Al di là delle parole. In: Dialettica della liberazione. Einaudi Torino Cooper D. (1978) Il linguaggio della follia. Tr. It. Feltrinelli Milano D’Amato G. (1969) Verso una nuova psichiatria infantile. Napoli Idelson Farber B., Lippert R., Nevas D. "The terapist as Attachment Figure" Psychotherapy, 1995, 32, N.2 Forti L. (1975) L’altra pazzia. Mappa antologica della psichiatria alternativa. Feltrinelli editore Frommer E.& O’Shea G. "Antenatal identification of women liable to have problems in managing their infants". British Journal of Psychiatry, 1973, 123, 149-156. Foucault M. (1963) Storia della follia. Tr. It. Biblioteca Universale Rizzoli, 1976 Frances A., Dunn P. "The Attachment-Autonomy conflict in agoraphobia". International Journal of Psychoanal., 1975, 435-439. Francescato D. (1977) Psicologia di comunità. Feltrinelli milano Freud A. "Discussion of Dr. Bowlby’s paper" Psychoanalitical Study of the Child, 1960, Xv, 53-62 Geissman C. (1992) Storia della psicoanalisi infantile. Tr. it. Borla 1994 GrossmanK.E.& Grossman K. (1991) Il tipo di attaccamento come organizzatore delle risposte emotive e comportamentali in una prospettiva longitudinale. In: L’attaccamento nel ciclo di vita. Il Pensiero Scientifico Editore 1995. Gut E. (1989) Productive and Unproductive depression. Tavistock Publications. Hafner J. "Agoraphobic women married to Abnormally jealous men". British Journal of Medical Psychology, 1979, 52, 99-104. Halverson J.& Waldrop F. "Maternal behaviour toward own and other preschool children: the problem of owness". Child Development, 1970, 41, 838-845. Harris T., Brown G., Bifulco A. "Loss of Parent in childhood and adult psychiatric disorder: The role of lack of dequate parental care". Psychological Medeicine, 1986, 16, 641-659. Heard D. "Crisis intervention guided by Attachment concepts: A case study" Journal of Child Psychology and Psychiatry, 1974, 15, 111-122. Heard D. "From object relations to Attachment Theory: A basis for family Therapy". British Journal of Medical Psychology, 1978, 51, 67-76. Heard D. "The relevance of Attachment Theory to Child Psychiatric practice". Journal of Child and Psychology and Psychiatry, 1981, 22, 89-96. Heard D. "The relevance of Attachment theory to child Psychiatric practice: An update" Journal of Child Psychology and Psychiatry, 1987, 28, 25-28 Hellmann I. "Work in the Hampstead nurseries". International Journal of Psychoanalisys, 1983, 64, 435-439 Herman I. (1943) L’istinto filiale. Tr. It. Feltrinelli Editore 1972 Hersov L. "Child Psychiatry in Britain: The Last 30 Years". The Journal of Child Psychology and Psychiatry, 1986, 27, 781-801. Hinde R.& Hinde J. "Interpersonal Relationships and Child Development". Developmental Review, 1987, 7, 1-21. Hinde R.& McGinnis "Some factors influences the effect of themporary mother-infant separation: some experiments with rhesus monkeys". Psychological Medicine, 1977, 7, 197-212. Hinde R. "Attachment: Biological, Cultural and individual Desiderata" Human Development, 1990, 33, 62-72. Holmes J. "Attachment Theory: A biological basis for Psychotherapy?" British Journal of Psychatry, 1993, 163, 430-438. Holmes J. "The clinical implications of Attachment theory" British Journal of Psychotherapy, 1994a, 72-76. Holman P. "Vicende familiari in relazione allo sviluppo della personalità". In: Miller E. Fondamenti di psichiatria infantile, Piccin Editore 1973 Holmes J. (1993) La teoria dell’attaccamento. Tr. it. RaffaelloCortina editore, 1994 Holmes J. (1996) Attachment, Intimacy, Autonomy. Using ttachment Theory in Adult Psychotherapy. Jason Aronson Inc. Northvale, New Jersey, London. Hopkins J. "Failure of the holding Relationship: some effects of physical rejection on the child’s attachment and on his iner experience" Journal of Child Psychotherapy, 1987, 13, 5-17 Isaacs S. (1932) La psicologia del bambino. Dalla nascita ai sei anni.Tr. It. Newton 1972 Isaacs S. (1936) Figli e genitori. Tr. It. Newton Com. 1973 Isley R., Thompson B. "Women from broken Homes". Sociological review, 1961, 9, 27-54 Jervis G. (1975) Manuale critico di psichiatria. Feltrinelli Editore Jones Parry W. "Annotation. The History of Child and Adolescent Psychiatry: Its Present day relevance" Journal of Child Psychology and Psychiatry, 1989, 30, 3-11. Kafka F. (1953) Diari. 1910-1923. Biblioteca Moderna Mondadori 1962. Kaplan H.I., Sadock B.J. (1972) Manuale di psichiatria. Tr. It. Edises, Napoli 1993 Klein M. (1961) Analisi di un bambino. Tr. It. Bollati Boringhieri 1971 Klerman, Weissmann (1984) Psicoterapia interpersonale della depressione. Tr. It. Bollati Boringhieri editore. Laing R.D. (1968) L’ovvio. In: Dialettica della liberazione. Tr. It. Einaudi torino 1969 Laing R.D. (1970) Nodi. Tr. It. Einaudi Torino 1974 Laing R.D. (1959) L’Io e gli altri. Psicopatologia dei processi interattivi.Tr. It. Bur Supersaggi 1996. Lebovici S. "John Bowlby" Psychiatrie Française, 1989, 2, 29-35. Newcombe N. Lerner J. "Britain between the wars: The historical context of Bowlby’s theory of Attachment" Psychiatry, 1982, 45, 1-12. Malagoli Togliatti M. Telfener U. (1991) Dall’individuo al sistema.Manuale di patologia relazionale. Bollati Boringhieri Editore Marks I. (1987) Fears, phobias and Rituals. Panic, anxiety and other disorders". New York, Oxford University Press. Mc Cranie E. "Depression, anxiety and hostility" The Psychiatric quarterly, 1971, 45, 117-133 Miller E. (1973) Fondamenti di Psichiatria infantile. Tr. It. Piccin Editore Padova 1976 Parker G., Manicavasagar V. "Childhood bereavement circumstances associated with adult depression". British Journal of Medical Psychology, 1986, 59, 387-391. Parkes C. (1972) Bereavement: Studies of grief in Adult Life. London, Tavistock Publications Parkes C., Stevenson-Hinde, Marris P. (1991) L’attaccamento nel ciclo di vita. Tr. It. Il Pensiero Scientifico Editore 1995 Rayner E. (1991) Gli indipendenti nella psicoanalisi britannica. Tr. It. Raffaello Cortina Editore 1995. Robertson J. (1971) Il trauma della separazione dei bambini ricoverati in ospedale. In: Trattato di psicoterapia infantile. Bierman, Piccin Editore 1974 Roper R., Hinde R. "Social Behaviour in a Play Group: Consistency and Complexity" Child Development, 1978, 49, 570-579. Rossini R. (1977) Trattato di psichiatria. Cappelli Editore Rutter M. "Parent-Child separation: psychological effects on the children" Journal of Child Psychology and Psychiatry, 1971, 12, 233-260. Rutter M. (1972) Maternal deprivation reassessed. Penguin Books, London. Rutter M. " Maternal Deprivation, 1972-1978: New Findings, New Concepts, New Approaches". Child Development, 1979, 50, 283-305. Rutter M. "Child Psychiatry: Looking 30 years ahead". Journal of Child Psychology and Psychiatry, 1986, 27, 803-840. Ryle a. "Holmes on Bowlby and the future of Psychotherapy: A response". British Journal of Psychotherapy, 1995, 11(3), 448-452. Sarteschi G. (1982) Psichiatria. Goliardica Editrice. Schaffer R. (1977) L’interazione madre-bambino: oltre la teoria dell’attaccamento. Tr. It. Franco Angeli Ed. 1984 Schatzman M. (1974) La famiglia che uccide. Tr. It. Feltrinelli editore 1977 Schur M. "Discussion on Dr. Bowlby’s Paper" The Psychoanalytical Study of Children, 1960, XV. Spitz R. "Discussion on Dr. Bowlby’s Paper" The Psychoanalytic study of Children, 1960, Xv. Sroufe A. "Appraisal: Bowlby’s contribution to Psychoanalitic theory and Developmental Psychology" Journal of Child Psychology and Psychiatry, 1986, 27, 841-849. Sroufe A. "Attachment classification from the Perspective of Caregiver Relationship and Infant Temperament" Child Development, 1985, 56, 1-14. Stutte H, Benda C., Poeck K. (1969) Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza. Tr. It. Tipografia P.U.G. Roma 1971 Szast T.S. (1961) Il mito della malattia mentale. Fondamenti per una teoria del comportamento individuale. Tr. It. Il Saggiatore Milano 1969 Szast T.S. (1970) Disumanizzazione dell’uomo. Ideologia e psichiatria.Tr. It. Feltrinelli, Milano Thomson G. "Agoraphobia: The Etiology and Treatment of an Attachment/Separation Disorder". Transactional Analysis Journal, 1986, 16, 11-17. Tizard B., Cooperman O.,Joseph A "Environmental effects on language development: a study of young children in long-story residntial nurseries". Child Development, 1972, 43, 337-358. Tizard B.& Joseph R. "A cognitive development of young children in residential care: a study of children aged 24 months". Journal of Child Psychology and Psychiatry, 1970, 11, 177-186. Tizard B.& Rees J. "The effects of early institutional rearing on the behaviour problems and affectional relationships of four-year-old children". Child Development, 1974, 45, 61-74. Walk A. "The Pre-history of Child Psychiatry" British journal of Psychology, 1964, 110, 754-767 Watzlavick P., Beavin J.H., Jackson D.D. (1967) Pragmatica della comunicazione umana. Tr. it. Casa Editrice Astrolabio 1971 Weiss E. (1936) Agorafobia. Isterismo d’angoscia. Tr. It. Cremonese Roma 1969 Winnicott D.H. (1989) Esplorazioni Psicoanalitiche. Tr. It. RaffaelloCortina Editore 1995 Zahn-Waxsler, Cummings, Mc Knew, Radke-Yarrow "Altruism, Aggression and Social interaction in Young Children with a manic-depressive patient". Child Development, 1984, 55, 112-122.
|