Appunti di PsicologiaCopyright 1995-1996-1997 by Dr. Salvatore ManaiTutto o niente:Dr. Salvatore Manai (Psicologo - Psicoterapeuta)"... in questo momento... mi sento così depressa e triste... e non ho nessun motivo valido per sentirmi così ..." "... ho una relazione meravigliosa con il mio ragazzo... siamo fatti l'una per l'altro... eppure mi sento così sola..." "... il dottore mi ha detto che il mio peso è normale ora, le mie amiche mi invidiano per questo... Dio, quanto mi odio! Proprio per questo vorrei morire... Mi sento così spaventata..." "... so che tutte le persone che si danno da fare per me non mi stanno aiutando... eppure non riesco a fare a meno di loro..." "... sento tutta la seduzione della mia malattia... lei non può capire..." "... perchè desidero morire, se ho tantissime ragioni per vivere?..." Spigolature, raccolte nelle sedute di terapia, in momenti disperati di richiesta di aiuto, in diari segreti di giovani ragazze diagnosticate come anoressiche e bulimiche. Etichette che cercano di dare un nome al paradosso vivente del disturbo alimentare grave. Si ha talvolta una strana sensazione nel superare le certezze delle varie bilance, degli indici di massa corporea, dei vari diari alimentari, delle usuali categorie diagnostiche e nell'immergersi nel mondo del corpo, del cibo, delle emozioni di chi ha un disturbo alimentare ritenuto grave. La sensazione è quella che si prova quando si ha a che fare con il desiderio, l'impulso, la necessità di una missione da compiere. Una missione cosmica, che trascende la persona, i familiari, gli altri, per dissolversi in uno spazio esterno senza parole, in una profondità interna senza fondo, nell'incanto e nello stupore del sentirsi pieni-vuoti, del voler essere pieni-vuoti, del sentirsi vivi-morti, del voler vivere-morire. L'incanto, lo stupore, la seduzione del sentirsi "altrove", la sofferenza, l'angoscia, il senso di morte del sentirsi soli. Se la religione può essere definita come l'insieme delle cose a cui una persona in ultima analisi attribuisce il maggior valore nell'esistere, ecco che la missione da compiere è una missione religiosa, con uno stato di grazia irragiungibile (il peso zero?), con il peccato mortale (l'abbuffata? l'interruzione del digiuno?), con il tentativo di espiazione (l'intensa attività motoria e intellettuale?), con la purificazione (i lassativi, i diuretici?), con l'esorcismo (il vomitare?), con il rimorso (la tristezza, il senso di morte?). Al cospetto di una ragazza con i suoi trentasei chili e duecento grammi, in una corsia di ospedale, arrabbiata con il medico di guardia perchè l'ha tradita (ha introdotto nella flebo qualche cosa che la nutrirà), le perline colorate e gli specchietti scintillanti del "colonizzatore della normalità", dell'ambasciatore della "vera fede", del "guaritore di anime" si frantumano in una sensazione di impotenza, di inevitabilità, di rispetto. Di seduzione? Questo continuo oscillare tra pieno e vuoto, tra vita e morte, tra "spazio esterno" e "profondità interna", tra tutto e nulla, questa impossibilità ad accettare l'imperfezione, il parziale, il mezzo-pieno o il mezzo-vuoto, questo corpo che per poter essere toccato deve avere consistenza, ma se ha consistenza può essere toccato, trascina come la voce delle Sirene di Omero. E poi il ritorno, la vita: il tempo può nuovamente consumarsi. Lo spazio si restringe fino a racchiudere questa immagine di corpo imperfetto, ora quasi sopportabile. La ragazza dell'ospedale, con i suoi quarantadue chili e i suoi due-tre pasti quotidiani, con la soddisfazione del genitore e il sorriso rassicurante del medico di famiglia, getta dalla finestra le sue impossibili tabelle dietetiche, ma non sa staccarsi dallo spazio della cura, da quelle persone che, pur sapendo forse di non poterla aiutare, sono rimaste con lei accettando senza condizione l'incommensurabilità dei suoi spazi esitenziali. La ragazza vuole crescere, crescere dentro. Bene. Si può continuare a lavorare.
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