Capitolo V - Uno, due, ...

Ormai è ben noto che dopo l’uno continuando a contare viene il due. Purtroppo c’è chi si dimentica questo semplice insegnamento.

Chiarita definitivamente la questione della relazione, la mattina seguente trascorse noiosa fino all’intervallo: a quell’ora il nostro amico passeggiava come sempre per la scuola cercando uno dei suoi compagni, quando incontrò Giulia la quale gli chiese di dare un’occhiata ad un compito di matematica: c’erano problemi del secondo anno, ben concepiti e potevano trarre facilmente in inganno molti, ma non lui; lo risolse senza particolari difficoltà, tuttavia si chiedeva per quale motivo Giulia in quarta avesse un compito di seconda.

- Non è per me. È un favore che mi ha chiesto una mia amica della IIA. Ci siamo incontrate poco fa in corridoio, come d’accordo: avrei dovuto risolverle il compito, ma non ci sono riuscita: per questo ho cercato te... Bene, dovrebbe uscire tra un po’ per ritirare la soluzione, si era detto alle undici e un quarto... Ah, grazie per l’aiuto, mi hai risparmiato una figuraccia... - quando una ragazza vedendola disse:

- Giulia sei qui, ti stavo cercando: il mio tempo è quasi finito! - disse la ragazza, preoccupata di riavere il suo compito prima della fine. Quindi il nostro amico che l’aveva riconosciuta disse:

- Sei Michela, vero? -

- Sì, ma non... -

- Ci siamo visti domenica sera al biliardo: ho fatto il peggior tiro della mia vita! -

- Ah, quello concentratissimo... Scusa, non ti avevo visto bene in faccia. Adesso devo scappare, grazie per l’aiuto- e se ne andò. Il nostro amico salutò Giulia e tornò in classe, dove la lezione proseguì noiosamente.

Così cominciò la nuova disavventura amorosa del nostro amico, destinata ad una brusca conclusione. Poveretto se avesse avuto la sorte dalla sua, non avrebbe incontrato Michela fuori dalla scuola: questa ragazza aveva recentemente cambiato indirizzo e per tornare alla nuova casa prendeva lo stesso autobus del nostro amico, almeno per un lungo tratto. Come spesso accade in questi frangenti lui interpretò un fatto del tutto casuale in maniera errata, accendendo quel fuoco che pian piano lo avrebbe cotto.

Quel pomeriggio ebbe occasione di vedere Luca mentre questi tornava dal suo solito impegno sociale del martedì e del venerdì.

- In questo periodo di cosa ti occupi? Sei ancora dietro al recupero dei drogati? -

- No, ma sono caduto dalla padella alla brace. Per valorizzare la mia conoscenza scientifica, adesso mi fanno aiutare dei ragazzi con qualche problema scolastico. Ovvero gli insegno a fare 1251*727, a leggere numeri come 718503 o 3,14159. Questi ragazzi a undici, dodici anni lavorano o peggio: i genitori se ne fregano o peggio. Sai cosa ho dovuto fare per fargli dividere 7500 per 5? Ho dovuto dargli settantacinque foglietti di carta con scritto “cento lire” e gli ho detto di dividerseli in parti uguali! Non l’avessi mai fatto! -

- Perché? Mi sembra interessante: trasferire un concetto astratto in un’applicazione pratica ben nota. Non ha funzionato? -

- Sì, la divisione, per così dire, l’hanno fatta! Solo che è scoppiata una mezza rissa perché quando ci si divide qualcosa si deve sempre cercare di fregare l’altro, visto che l’altro cerca di fregare te, dicono. Inoltre uno mi ha spiegato che quando va con altri a rubare le autoradio gli danno sempre meno perché è il più piccolo: il più forte vince, pacifico. Così lui si è preso 25 foglietti! Quella era la divisione corretta!! -

- Cominciano davvero presto! Ma non è colpa loro: tu comunque glielo hai detto di non rubare? -

- Pacifico. Gli ho detto che è un crimine e chi lo fa finisce in galera. Mi ha detto che lui ha undici anni e non è imputabile, ha detto proprio “imputabile” - Ovvero non può neppure essere processato, quindi non può subire nessuna misura restrittiva della libertà, indipendentemente dal crimine commesso. La colpa e la pena ricadono, eventualmente, su chi ne era responsabile o su chi lo abbia indotto a violare la legge.

- Un fine conoscitore del diritto penale... E com’è finita? -

- Per poco non mi rubano il borsello! Così ho detto basta! Ho litigato con i “capi”: mi mandino pure da drogati, vecchi, handicappati,  matti, a quel paese, ma io con i bambini delinquenti ho chiuso, con loro non ce la faccio. - concluse sconsolato.

- Davvero ti ammiro: avessi io il tuo coraggio e la tua volontà! Non è facile gettarsi in quell’inferno ogni settimana. -

In seguito il nostro amico raccontò l’episodio della mattina e chiese a Luca un parere su Michela. Quest’ultimo ebbe un sussulto poiché stava per ricominciare la medesima manfrina di due anni prima: tentò di parlare di lei in termini non troppo positivi, ma dal comportamento dell’altro capì che ormai era entrato in una fase irreversibile e non c’era più nulla da fare

. Quando si salutarono Luca si informò su Michela: seppe che aveva appena lasciato Antonio proprio; del nostro amico aveva detto “di cretini ne ho visti tanti, ma quello li batte tutti”. Insomma lei non si  sarebbe mai messa con lui e quest’ultimo era particolarmente reticente ad accettare questo fatto: infatti due anni prima dovettero trattenerlo a forza dal trattar male la ragazza che aveva osato dirgli di no; era un tipo piuttosto permaloso, sempre convinto di avere ragione. Per questo Luca prima di cominciare la terapia anti Michela volle sapere se per un qualche caso lei non fosse sul serio innamorata di lui: in principio si hanno tutte le possibilità. L’esito di questa indagine fu negativo, così telefonò a Giovanni per parlarne. Dopo aver ascoltato la cattiva notizia, questi disse:

- Beh, dovremo dirgli che lei non ha nessun interesse. Tra l’altro lei non metterà mai in chiaro la situazione: lascerà correre fino al dunque. -

- Pacifico, ma come si fa? Lui non ci crederà e se insistiamo si arrabbierà con noi! Sai com’è fatto, no? -

- Già. E non concluderemmo nulla... forse. Ma magari ci crederà e non si incazzerà più di tanto: ultimamente è più ragionevole. -

- Sia! Io non ho alcuna intenzione di accendere un vecchio candelotto di dinamite per vedere se la miccia è ancora buona. Avevo avuto un’altra idea: potremmo chiederlo a Stefania, con lei non si arrabbierà più di tanto. -

- Bah, forse smetterà di parlarle solo per qualche mese. Ricordati che ad Enrico non gli ha ancora rivolto la parola: se lo vede neppure lo saluta. Poi Stefania, come minimo ci prende per matti: penserà che ci stiamo intromettendo in affari non nostri! -

- E allora che ci stiamo a fare? Siamo i suoi amici e lo conosciamo bene: è capace di molte sciocchezze. Pacifico che noi non abbiamo il coraggio di dirglielo, non vedo altre vie.- Così conclusero la conversazione e il giorno successivo provarono a coinvolgere Stefania, senza nessun risultato: infatti questa scoppiò a ridere:

- Non è possibile! Avete fatto tutti i calcoli! Preoccupatissimi! Ma cosa ve ne frega? Che ne sapete del loro rapporto? Potrebbe anche finire bene, no? E se non dovesse essere così io non credo che commetterà qualche sciocchezza: mica è scemo, sa dare ad ogni cosa il suo peso. Al più si rinchiuderà in camera, metterà lo stereo a tutto volume e si metterà a leggere Cartesio... Perché la volta passata che ha fatto? -

- Beh, nulla... si è messo ad urlare contro Silvia per strada e per calmarlo ci siamo presi un sacco di botte! Era impazzito!! Alla fine è anche svenuto: gli avremo dato una botta troppo forte...- Stefania era rimasta impressionata dal racconto, convinta che lui non fosse capace di torcere un capello a nessuno. Tuttavia i due seguirono il consiglio della ragazza e lasciarono perdere limitandosi a qualche insinuazione.

Trascorse una settimana durante la quale il nostro amico non brillò particolarmente, come ogni innamorato: si dimenticava di tutto ed una volta persino di una versione di latino, restituendo il favore a Stefania. Frattanto continuava la storia con Michela: tutti i giorni, finita la scuola prendevano lo stesso autobus e il nostro amico spesso la riaccompagnava fino a casa. In questo tempo la conversazione era varia: parlavano dei fatti della mattina; discutevano l’attuale assetto della scuola e i grandi problemi dell’umanità come chi siamo e perché esistiamo. Michela si mostrava vagamente interessata a questi argomenti: sempre meglio che tornare a casa da sola, pensava. Talvolta lei si chiedeva fin dove sarebbe arrivato: lei gli aveva fatto capire chiaramente quali fossero i limiti del loro rapporto, ovvero trascorrere dieci minuti al giorno sull’autobus. Probabilmente questa ragazza non era una brava comunicatrice perché il nostro amico non comprese mai le continue allusioni: per lui era un nonsenso usare espressioni sfumate che si prestavano a differenti interpretazioni, quando si poteva ricorrere ad altre precise.

Il nostro amico si dimenticò anche del libro sfascicolato e del suo “L’equilibrio”, per altri scritti che descrivono in modo cristallino quale fosse il suo stato d’animo.


Questo sei  tu per me Michela

 

Com'io posso parlar di te?

Com'io posso parlar di te,

mia cara e dolce Michela,

senza deturpar la tua persona?

Come posson delle semplici parole,

descriver il tuo meraviglioso corpo?

Neppur il più perfetto scrivere

può non rappresentare

la tua infinita bellezza.

A chi non alla mente,

balzerebbero parole davanti a te?

Mai nessuno e niente potrà

descriverti degnamente

e allora,

come poss'io parlar di te?

Il tuo leggiadro volto,

i tuoi dolci occhi,

i tuoi soffici capelli,

rovin'io, ma eppure

non posso non parlar di te.

 

Mia dolce Michela...

Mia dolce Michela,

il tuo parlar m'incanta,

la tua visione mi stordisce,

il tuo volto mi ammalia.

Sì che quando sono solo con te,

circondato da un mare di gente,

non riesco neppure

a parlar del tempo,

di questo dicembre tempestoso,

che pur non scalfisce

la tua infinita bellezza;

riesco solo a guardarti,

come se null’altro esistesse.

 

Come fra...

Come fra le tante gocce del mare,

una è sempre più limpida,

come fra le infinite stelle del cielo,

una è sempre più splendida,

così sei tu, persa tra la gente,

 Michela.

 

Mentre io son qui

 

Mentre io son qui,

pensando al tuo sguardo.

Tu dolce Michela,

spensierata e felice,

dove sei?


 

Follia dell’amore! Comunque non era nuovo a questo: anche la volta passata scrisse delle poesie che fecero ridere tutti. Per questo non avrebbe ripetuto quegli errori e si sarebbe comportato più prudentemente...

- Non vorrai mica fare la figura della volta scorsa? - chiese Giovanni

- No, no. Queste le ho scritto a mio uso e consumo. Stavolta non gliele spedirò assieme ad un mazzo di rose rosse. Gliele farò leggere dopo. -

- Dopo? - bisbigliò Giovanni tra sé e sé. Poi aggiunse - Comunque attento a non fare mosse false: potresti trovarti di fronte ad una reazione imprevista. Non sai quanto lei... - purtroppo fu interrotto.

- Ti sembro il tipo da fare mosse false? -

- No! Sei un tipo molto accorto... generalmente - cercò inutilmente di far trasparire che questo non era il caso. Il nostro amico lasciò quindi cadere su questo la conversazione.

La sera seguente Stefania stava rientrando a casa verso l’una di notte con il suo scooter: lo sapeva guidare piuttosto bene, quando vide qualcosa per cui inchiodò, fin quasi a cadere. Possibile fosse lui? Non poteva proprio essere quella persona che aveva intravisto. Così non senza qualche timore inseguì questo tizio: era proprio il nostro amico e non ci volle molto per capire che doveva aver bevuto un po’ troppo, come minimo. Lo salutò, ma non rispose, così gli disse:

- Ehi, non mi riconosci sono Stefania! -

- Questa si che è nuova... Non l’av...avevo mai trovata una per persona che era stefania. Ah, ah, ah... buffo... Però mi piace, credo di essere anch’io stefania. - e bevve un sorso.

- No! No,  io sono Stefania... Tu no! - rispose aiutandosi con gesti, poi aggiunse a sé - Non l’ha presa troppo bene... Ora che faccio? - intanto il nostro amico ribatté arrabbiato:

- Ma come solo tu sei stefania! Che sa... sarebbe? Che... che vuoi es... essere la stefainità in persona! Nes... nessuno è... è... è proprietario di un sentimento. - e bevve un altro sorso, Stefania allora gli strappò la bottiglia dalla mano, ma il nostro amico non era d’accordo - Ri... Ridammi la bottiglia... È è mi... mia. -

- Ti fa male. Poi io sono Ste-fa-nia. È il mio nome, non è un sentimento come la felicità. - poi tra sé - Dio mio, sto discutendo con un ubriaco. Dunque va riaccompagnato a casa, meglio all’ospedale. Ma come? Sta a dieci chilometri da qui e non ce lo posso portare con lo scooter! - Perciò pensò di rintracciare Giovanni che aveva incontrato quella sera in un pub. Trascinando con sé il nostro amico raggiunse il telefono pubblico, a pochi metri da lì, telefonò al pub, sperando che Giovanni avesse l’auto e soprattutto fosse abbastanza lucido. Dopo una rapida discussione con il barista riuscì a farselo passare al telefono al quale disse, senza neppure salutarlo:

- Sei lucido? Voglio dire non è che hai bevuto abbastanza? -

- Come? - disse l’altro stupito

- Rispondimi! - quasi gli gridò. Lei non aveva molto sangue freddo.

- Sì, sì. Insomma abbiamo bevuto qualche birra, ma ragiono quasi perfettamente. -

- E hai l’auto? -

- Ma certo che ho l’auto. Qual è il problema? - Quando gli fu detto salutò gli amici, senza dare troppe spiegazioni e corse da Stefania.

Mentre Giovanni si precipitava, i due proseguivano nella loro conversazione: stavano litigando perché il nostro amico voleva indietro la sua bottiglia.

- Perché non... non vuoi restituir... restituirmela! È mia... è una mia proprietà personale: tu non lo... lo sai, ma... ma stai vio... violando i miei diritti civili! È grave... tanto grave. - e barcollò fin quasi a cadere così che Stefania lo prese sottobraccio e gli restituì la bottiglia dopo averla vuotata. Il nostro amico felice cercò di bere ancora senza ovviamente riuscirci e disse:

- Non... non fa più ef... effetto. Prima funzionava: l’hai rotta! -

- No, è solo vuota. È finita, f-i-n-i-t-a, non c’è più niente da bere. -

- No! La... lasciami: sto in piedi da solo! - e le dette una forte gomitata svincolandosi; fece appena qualche passo che inciampò su sé stesso: stava cadendo quando Stefania lo afferrò al volo. Lei non era abituata a queste situazioni, tratteneva appena le lacrime e mormorò:

- Stupido... che hai combinato... -

- Ecco... Non so... so co... come, ma sento una voce int... intorno a me. Non so.. forse... forse qualcuno di voi sta parlando con me. - quindi gridò - Qualcuno sta parlando con me? -

- Io! Io sto parlando con te, calmati - e lo accarezzò dolcemente sulla guancia.

- Mi... mi pa... pareva infatti che... che ci fos... fosse qua... qualcuno di voi due gemelli che... che... che mi stava parlando... Lo sapete: siete proprio buf... buffi: sembrate qui quo qua. Una pa... parola la... la... la dice uno, una l’altro. -

- Ma io sono una sola! - poi tra sé - Acciderba adesso vede anche doppio! - quindi nuovamente rivolto a lui - Davvero non mi riconosci? Sono Stefania: siamo amici, siamo compagni di banco... Dividiamo i compiti... Non mi riconosci? - A questo punto il nostro amico assunse un’espressione quasi lucida e replicò:

- Ecco è davvero bello essere stefania: non... non mi ero mai sentito così...proprio bello... - questo fece crollare Stefania a cui sfuggì una lacrima; intanto il nostro amico continuò - Mi pare che... che stefania sia anche qualcos’altro... ecco ora ricordo! - esclamò sbalenando gli occhi e alzando la faccia e l’indice della mano destra - Dev’esserci qualcuno che conosco che si chiama così... - poi riprese un’espressione apatica a capo chino - Che schifo, non... non mi sono mai piaciuti le persone chiamate con... con uno stato d’animo: porta sfortuna! Pensa se Allegria fosse triste! - si mise a ridere, poi continuò - Però Stefania mi piace, non... non so per.. perché... È bella... anche brava... me ne ero proprio innamorato, ci sarei stato volentieri, me la sarei fatta volentieri... ma ecco lei non era d’accordo... non importa. Io.... io non me la prendo per così... non siete d’accordo anche voi... - ed ebbe un attacco di vomito che per poco non investiva l’amica, invero commossa e spaventata: il nostro amico stava proprio male.

In quel mentre arrivò Giovanni segnalando la sua presenza con il clacson, senza preoccuparsi di svegliare mezzo quartiere; Stefania gli sarebbe volentieri corsa incontro, ma non poteva lasciare il nostro amico: sicuramente sarebbe caduto.

Dopo un rapido colloquio decisero di portarlo al pronto soccorso e discussero per un attimo se fosse il caso di avvertire i genitori, ma nessuno dei due aveva il coraggio e per il momento lasciarono perdere. Partirono verso l’ospedale; il nostro amico protestava un po’, ma restava tutto sommato calmo, finché:

- Io mi.. mi sento male. Dov’è che... che mi avete portato? Io voglio scendere... - e cercò di allungare la mano verso la portiera che la nostra amica, nella fretta, non aveva bloccato. Comunque non si lasciò certo sorprendere e con l’ultimo barlume di sangue freddo che le era rimasto riuscì a bloccarlo. Intanto Giovanni, che aveva sentito e visto dallo specchietto, aveva frenato con violenza, fino quasi a fermare l’auto. Poi vedendo che la situazione era sotto controllo ripartì dolcemente. Dopo pochi minuti arrivarono al pronto soccorso: Giovanni andò a parcheggiare l’auto, Stefania trascinò il nostro amico all’interno, poiché nel frattempo era svenuto. Questa non se ne era accorta: non ragionava quasi più neppure lei, non sapeva restare fredda. Non appena entrò, un signore con il braccio piegato, forse lo aveva rotto, corse a chiamare qualcuno. Poco dopo arrivarono due infermieri con una barella e portarono via il nostro amico, mentre il signore abbracciò Stefania, la fece sedere e cercò di consolarla: piangeva a singhiozzi e tremava balbettando qualcosa di indecifrabile, finora non le era mai capitato nulla di simile e lei era molto sensibile, molto meno forte e sicura di quello che sembrava e talvolta era più fragile di uno stelo d’erba.

- Coraggio, vedrai che non è niente... - diceva il signore il quale le strinse una mano e per un po’ la lasciò sfogare; poi quando cominciò a controllarsi le porse un fazzoletto per asciugarsi le lacrime, le passò una mano tra i capelli, quasi per riaggiustarli e aggiunse - Forza! -

Intanto arrivò un medico il quale dopo aver appreso chi fossero lei e il nostro amico chiese qualche chiarimento a Stefania:

- Niente, credo, deve aver bevuto un po’ troppo. È un mio amico, l’ho trovato mentre tornavo a casa. Poi ho chiamato... - si guardò in torno cercando Giovanni senza vederlo - ...ho chiamato un mio amico e lo abbiamo portato qui. Ora come sta? -

- Sotto controllo, ma ce ne stiamo ancora occupando. Ha solo bevuto o c’è anche qualcos’altro? -

- Lui in genere non beve molto: una birra al mese, ma oggi deve aver avuto una brutta delusione, dev’essere molto giù. -

- Io veramente volevo sapere quali droghe ha preso? -

- Droghe? Lui? No, non è possibile... Su questo lui e' molto severo, estremamente intransigente... - rispose sbigottita

- Sarò più chiaro Stefania: le ha prese, io volevo sapere quali. Sai com’è: ci sono le analisi, ma sarebbe meglio avere una conferma. - lei era bianca come un cencio lavato, così quello aggiunse - Mi pare di capire che non sai nulla... Va bene... non preoccuparti: niente di irrimediabile... Adesso puoi andare, la avvertiamo noi la sua famiglia. -

- No! Cioè... preferiremmo...  dirglielo noi. - Si guardò ancora intorno cercando l’amico senza ancora vederlo. Queste notizie verranno sopportate meglio se sentite da un conoscente, pensava.

- Va bene. Purché lo facciate nei prossimi minuti... -

Quindi Stefania si alzò per andare da Giovanni: dove sarà mai stato il parcheggio? Chiese informazioni e il signore con il braccio rotto le indicò la via verso la quale quindi si diresse con passo affrettato.

Il parcheggio era deserto, c’erano solo poche auto qua e là, tra cui riconobbe quella dell’amico. Questo era ancora all’interno dell’auto, con la fronte appoggiata sul volante: stava piangendo. Anche lui che fino ad allora aveva mantenuto quella dose di sangue freddo necessario alla circostanza, era crollato: non solo per la paura, ma anche perché si riteneva in parte responsabile dell’accaduto. Stefania lo vide, entrò in macchina e si sistemò sul sedile anteriore accanto a lui, gli appoggiò una mano sulla spalla e disse, mostrando una forza che non aveva:

- Dai, non fare così! Non è colpa tua... non è colpa di nessuno. -

- Tu non capisci! - le rispose, poi la guardò in faccia e proseguì - Tu proprio non capisci: era un mio amico, non una persona qualunque! Ho delle responsabilità nei suoi confronti! Io sapevo verso cosa andava incontro e non ho fatto nulla. -

- Ma cosa dovevi fare? - rispose Stefania arrabbiata - Non puoi mica impedirgli di provarci? È lui a dover decidere della sua vita, non tu! -

- Ma cosa dici! Tu non ti rendi conto: lo so bene che la vita è la sua, ma noi tutti sapevamo benissimo che a lei di lui non gliene fregava nulla! Nulla, lo sapevano tutti! -

- Infatti abbiamo cercato di farglielo capire in tutti i modi, cosa dovevamo fare? -

- Ha ragione lui porca puttana! Se tu sai qualcosa non devi farla intendere, devi dirla! Altrimenti a cosa cazzo serve parlare! A fare delle vaghe allusioni? Allora scambiamoci segnali luminosi, gesticoliamo, abbandoniamo del tutto l’uso della parola, se tanto abbiamo così paura di usarla! Perché noi abbiamo paura: paura di parlare, di comunicare in questa che è l’era di internet. Ma... forse... di qua, di là... di sotto, di sopra... ecco... potrebbe... anziché un bel chiaro “gli fai schifo!” Con il primo non avrà nessuna reazione plateale, con la seconda sì e siccome non vogliamo vederlo star male davanti a noi, optiamo per la prima. Se deve soffrire lo faccia quando non ci sono: questo è il nostro pensiero! Vigliacchi e ipocriti, ecco cosa siamo! - per un attimo mantenne uno sguardo indiavolato, poi si piegò leggermente verso il basso e riprese a piangere aggiungendo - Come farò a guardarlo in faccia. -

Per qualche secondo restarono tutti e due lì immobili, poi Stefania disse:

- Sai, sta peggio di quel che immaginavamo... Ha preso anche qualche droga... - a queste parole Giovanni ebbe come uno scatto, girò le chiavi e accese l’auto.

- Io lo ammazzo. - riferendosi allo spacciatore, un ragazzo della loro scuola che tutti conoscevano - Io lo ammazzo quel bastardo. - e partì, senza che neppure Stefania chiudesse lo sportello. Questa spaventata da quelle parole si gettò su di lui, lo costrinse a fermare l’auto e tolse le chiavi dal quadro. Giovanni con due occhi di fuoco gridò - Ridammele! Ridammi quelle maledette chiavi! Dammele puttana!! - Stefania uscì e scappò, Giovanni le corse dietro urlando - Io lo devo riempire di botte! Quel bastardo! - quindi la raggiunse e la fece cadere a terra, Stefania lanciò qualcosa che somigliava alle chiavi oltre il recinto del parcheggio, in mezzo alle sterpaglie; lui le dette un violento schiaffo, tanto che le fece uscire il sangue dal labbro, poi si alzò, tornò in sé e cominciò a piangere. Stefania scappò via spaventata e cercò di fermare il sangue mentre tornava al pronto soccorso, rimuginando:

- Che cretino! Ed io che credevo che fosse un ragazzo con i nervi a posto, invece è peggio di me... Ci sarà qualcuno con i nervi a posto in questo mondo? -

Proprio all’entrata trovò il signore dal braccio rotto, finalmente steccato che le disse, sorridendo a mala pena:

- Io ho finito... Il tuo amico è ancora dentro, credo - poi notando che teneva un fazzoletto sul labbro, aggiunse - Cosa è successo? -

- Ho nulla, sono inciampata. - quindi lo salutò e lo ringraziò per l'aiuto.

- Fatti medicare, è meglio non scherzarci con le ferite, anche piccole. -

- Sì, ma credo non ce ne sia bisogno. Ormai non esce più sangue. -

Appena entrata vide un telefono pubblico e cominciò a riflettere su cosa dire: non sapeva proprio da che parte farsi, poi pensò che prima di telefonare era meglio informarsi sullo stato si salute del compagno.

- Ah, Stefania finalmente ti ritrovo: ti cercavo. Hai avvertito la famiglia? Lo dobbiamo ricoverare. - disse il medico.

- Perché lo dovete ricoverare? Non... - allora il dottore con un tono amichevole, ma deciso rispose:

- Senti, lo so qual è la prassi in questi casi: l’amico che si è ubriacato dopo che si è un po’ ristabilito viene dimesso, senza far sapere nulla ai genitori, venti anni fa capitò anche a me. Ma questa non è la solita sciocchezza: è anche svenuto! Capisci lo dobbiamo tenere sotto osservazione per un giorno o due. Se non te la senti di avvertire i suoi, non ti preoccupare, lo facciamo noi ed useremo il dovuto tatto. Se vuoi non diremo nulla di te: diremo che qualcuno che lo trovato e lo ha portato qui. - per un attimo restò in silenzio, poi aggiunse - Allora facciamo così? - Stefania fece segno di no, scrollando la testa e disse:

- Comunque mi lasci un attimo. -

- Dieci minuti, poi li dobbiamo chiamare noi! -

La ragazza tornò al telefono quando dopo un paio di minuti arrivò Giovanni, visibilmente provato. Quasi senza guardare Stefania in faccia chiese:

- Come sta? -

- Bene! Pensa non è neppure morto! - rispose sarcastica - Io sono arcistufa di vivere in questa gabbia di matti! Sai adesso che fai? Visto che ti senti così in debito verso quel pazzo, dai la bella notizia ai suoi! - e gli dette in mano due monete per la telefonata.

- E che gli dico? Io sono appena arrivato. -

- Che vuoi dirgli: che hanno un figlio talmente idiota che per una cazzata si è ubriacato, così lo abbiamo dovuto portare all’ospedale... No, no... digli magari che sta benissimo: lo vogliono solo tenere in osservazione per un giorno o due...... Per primo di’ che sta bene e non corre nessun pericolo, ma... come dire... lo devono ricoverare, ma non essere brusco... e poi... e poi dillo solo a suo padre, se risponde sua madre riattacca: la consuetudine vuole che gli uomini siano più forti... Poi parla veloce, ma chiaro, mi raccomando: non tentennare altrimenti è la fine! E ricordati di dire che siamo al San Paolo! Ma te la senti vero? - la sua espressione non era una garanzia di sanità mentale. Questi senza porsi troppi problemi accettò e telefonò. Stefania si allontanò: non voleva sentire nulla.

- Cosa gli hai detto? -

- Che suo figlio sta benissimo, ma lo devono ricoverare perché sembra abbia bevuto un po’ troppo. Ormai sono destinato a fare l’annunciatore delle disgrazie altrui, un compito triste, ma qualcuno deve pur farlo. - Infatti gli era già capitato.

- Va be’. Forse avresti potuto usare un po’ più di tatto, ma l’importante era avvertirli: io non avrei mai trovato il coraggio; sai quasi non li conosco. Grazie per l’aiuto... -

- Ringrazi uno psicopatico come me? Beh, ti chiedo scusa io. - e continuarono così per un po’.

Dopo circa un quarto d’ora arrivarono i genitori, i nostri amici gli illustrarono brevemente la situazione e li salutarono: non era il momento per chiacchierare! Giovanni si pose il problema di come tornare a casa, poiché non c’erano più le chiavi dell’auto, almeno credeva.

- Ta-Dà! Eccole qua! - esclamò Stefania prendendo le chiavi dalla borsetta - Non avrai mica pensato che ero talmente stupida da gettare davvero tra le erbacce le vere chiavi. Devo averci buttato un pacchetto di fazzoletti di carta. - disse ridendo.

- Per fortuna tu sai mantenere la calma e non ti fai prendere dal panico. Ti riaccompagno a casa... Andiamo a vedere se c’è ancora il tuo scooter? -

- Uno scooter nuovo di zecca abbandonato in centro? Per te c’è ancora? -

In effetti c’era ancora: nessuno lo aveva toccato:

- Il bello di questo mondo è che sa sempre stupirti: ogni volta che pensi di aver raggiunto una verità sugli uomini ti accorgi che non è giusta. -

Il giorno seguente Giovanni fu svegliato verso le dieci da una telefonata: era Luca che aveva sentito dire in giro che il nostro amico era all’ospedale:

- ...dovremo andare a trovarlo, no? Poveraccio ha avuto una crisi di nervi tremenda, forse un po’ troppo esagerata, ma sai com’è fatto lui. - disse Giovanni

- Pacifico... Comunque prendersela così per una ragazza... - fu interrotto

- Già... poveraccio - si mise a ridere - E pensa che non si è solo ubriacato, si è anche fatto vendere da quel pezzente un po’ di roba. E per fortuna che ha avuto l’accortezza di vendergliela leggera. Quel bastardo figlio di puttana - il solito spacciatore. - Tu solo sai com’è andata? - Luca non rispose: era esterrefatto, allora Giovanni proseguì - Pronto, c’è qualcuno? -

- Sì, sì. Ci sono. Sconvolto, ma ci sono... No, non lo so com’è andata... -

- Beh, comunque non chiediamolo a lui... non mi sembra il caso! -

- Pacifico... - e continuarono la telefonato discutendo del come e del quando andarlo a trovare.

Nel pomeriggio diverse persone andarono a trovare il nostro amico il quale non ricordava esattamente cosa fosse accaduto quel sabato. La domenica sera, l’ultima che avrebbe dovuto passare in ospedale, poiché non riusciva ad addormentarsi, si mise a pensare a “L’Equilibrio”. Aveva avuto un’altra idea interessante sulla narrazione della storia: non voleva un solo punto di vista, ma voleva crearne una varietà, difformi tra di loro, per risaltare la mancanza completa di obbiettività nelle descrizioni. Come ottenere un simile risultato, senza creare caos? Quale meccanismo creare? Ci pensò un bel po’ ed alla fine ebbe l’idea dei narratori multipli: un narratore, un qualcosa di integrato con gli uomini del posto e non un essere in grado di osservare tutto dall’alto: questo seguiva solo un personaggio come una spia, come un amico, come un giornalista e narrava la sua storia così come la vedeva. Questo non corrispondeva con la realtà, ma veniva da essa mediata due volte: la prima in quanto il narratore raccontava ciò che lui vedeva e sentiva, la seconda in quanto lo scriveva nel modo che lui preferiva. Ovviamente doveva esistere un narratore sopra gli altri, onnisciente, in grado di dire quale fosse la verità, detto “il Narratore”, gli altri li avrebbe chiamati con il nome del personaggio che raccontavano. Solo così, pensava, si poteva rappresentare l’idea di apparenza, difforme dalla realtà. Se ci fosse stato un solo narratore ogni descrizione, ogni qualvolta non si lasciava parlare direttamente il personaggio con un dialogo o riportando il suo pensiero così com’era, sarebbe risultata errata, avrebbe rappresentato solo ciò che il narratore, anche se onnisciente, vedeva e riusciva a descrivere: era infine apparenza. Con la sua idea non si eliminava il problema, non era possibile, ma si creava il contrasto, si comprendeva come la narrazione non fosse affatto realtà, ma solo una sua brutta rappresentazione. Non si poteva sanare questo contrasto, se non riportando solo e soltanto le parole e i pensieri di ogni personaggio, ma lui non voleva scrivere un libro di fantasmi. Oltre al metodo doveva decidere anche l’ambientazione: si era proposto di inventarsi più o meno completamente i nomi dei luoghi, gli usi e i costumi del luogo in cui avveniva la narrazione. Avrebbe creato delle appendici in cui inserire queste “Etimologie”. Ecco quello che scrisse quella sera:

“Archeologie, etimologie, spiegazioni di sigle, luoghi, strani esseri.

d.A.I. : sigla con cui vengono indicati gli anni : dall'Attimo Ignoto. Esisteva an­che una sigla in lingua antica : p.T.I.M. (post Temporis Ignotum Momentum), che per brevità si è preferito abbandonare anche nei documenti ufficiali, unica occasione in cui a questa data viene fatta seguire questa sigla : infatti non c'è nulla datato p.A.I. (prima dell'Attimo Ignoto). Allora, sarebbe lecito chiedere, perché questa sigla inutile? Perché nei libri antichi  esistono molte date p.A.I. o meglio a.T.I.M. (ante Temporis Ignoto Momento).

Foresta Ignota ed il Serpente Alato: il nome Ignota, riportato nei libri antichi, è quello ufficiale, ma questa foresta ha anche altri nomi : degli Spettri, della Morte, del Serpente. Questi provengono dalle diversi tradizioni dei tre popoli confinanti con questa foresta. Inoltre bisogna ricordare il vento che da queste parti soffia sempre da occidente a oriente. Il popolo confinante ad ovest sente provenire dalla foresta rumori spettrali por­tati dal vento, creati dagli alberi, da cui “Foresta degli Spettri”; quello confinante a sud la chiama “Foresta del Serpente”, sottinteso Alato, creatura mitologica, fomentatore del male che risiede, custode dei suoi tesori, in una grotta di questa foresta; gli ultimi hanno scelto il nome più lugubre, “Foresta della Morte”, perché sono gli unici che possono accedere a questa foresta, nella quale si entra, ma non si esce. Il nome Ignota vuol significare proprio sconosciuta: nes­suno può tornare da lì e nessuno può raccontarla.

Monte Altismus e leggenda sul Serpente Alato: il nome Altismus è una forma sincopata di altissimus, altissimo, il più alto monte della sua catena. Due sono però i nomi usati comunemente Monte Nebbioso, con riferimento alla continua nebbie e nuvole che lo avvolgono e Monte Spuntato o anche, vol­garmente, Spunto, poiché non ha una punta ed è facile trovare storielle sulla punta di questo monte. Viene anche chiamato Morte degli Audaci, riferito agli scalatori od anche Inquistal [pron. I'nquistal] forma abbreviata di Inconquistabile. Ecco un famoso  detto e una fila­strocca su Altismus: "L'Inquistal si prende solo dagli Spettri" e "Il monte divenne Spunta­to,/ così si rifugiò l'Alato,/ per non esser scovato,/nella sua selva irato.". Il primo riferito ov­viamente alla foresta, significa che l'impossibile si ottiene solo dall'impossibile, la seconda è in breve una delle storie su Altismus, il serpente alato e Ignota. Il serpente si rifugiava al sicuro nella cima di Altismus, quando ancora aveva la punta, nessuno lì lo infastidiva, e da lì compiva terribili spedizioni ovunque, così un giorno l' eroe, ogni tradizione ha il suo, ma­gicamente tolse la cima al monte e costrinse il serpente a scappare nella "sua" foresta. “

Quindi spense la luce e si mise a dormire: oramai era quasi mezzanotte.

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