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RACCONTI

VIAGGIO FACILE

Estação S.ta Apolonia – Lisboa

Bahia, minha preta (Gal Costa)

 

Il mio soggiorno-premio a Lisbona (una settimana, vitto e alloggio pagati dalla Ditta) è stato splendido, e non sarà certo lo spauracchio di un viaggio di ritorno lungo e scomodo a corrompere questo incanto!

Gli spilorci per i quali lavoro, una minuscola agenzia di pubblicità, già in primavera avevano organizzato una gara tra tutti noi venditori, mettendo in palio sei notti di permanenza in un discreto albergo di Lisbona. La gratifica sarebbe andata a chi avesse convinto il maggior numero di clienti a beneficiare dei servigi dell’agenzia nel mese "morto" di agosto, impresa ardua perché si trattava di persuadere seri imprenditori a pianificare una campagna pubblicitaria a città deserta. E guardandosi bene dall’aggiungere alla mercede uno straccio di biglietto aereo in omaggio (furbetti, Lisbona costa molto meno di Parigi o Londra ed è più difficile da raggiungere). Beh, le direttive aziendali hanno sempre visto di buon occhio l’incentivazione della forza lavoro purché seguisse rigidi criteri di oculatezza e parsimonia. Immagino anche che, in fondo, il capo sperasse che il vincitore, scoraggiato dalla mancanza di documenti di viaggio, rinunciasse al premio, così da poterselo accaparrare indisturbato ("bene, ragazzi, ormai è fatta... pazienza, se nessuno vuole andarci lo utilizzo io il voucher per Lisbona…". Nato stronzo!). Comunque avevo vinto io, vent’anni e miglior venditore della Publimedia Advertagency, e, alla faccia loro, ero partito e mi ero divertito moltissimo a Lisbona. A questo punto, memore del faticoso ma esilarante viaggio a mezzo rotaia dell’andata, ero pronto ad affrontare con slancio un Lisboa-Madrid-Barcelona-Port Bou/Cerbére (cambio del treno per differente scartamento dei binari)-Marseille-Genova-Milano... e poi a casa. Certo! In treno! Mica è la Transiberiana, sono solo due giorni di dolce dondolio in mezzo a gente divertente e antropologicamente interessante!

Certo che fa un certo effetto trovarsi solo soletto così lontano da casa dopo avere sempre passato le vacanze in Liguria, tutti gli anni a Varazze coi miei tranne l’anno scorso in campeggio a Moneglia con due compagni di Matura. La mia vita è sempre stata scandita dal ritmo preciso delle mie vacanze, le tre settimane al mare che timbravano lo scorrere degli anni per differenziare gli uni dagli altri con qualche evento caratterizzante: 1989… Irene, 1990 … quell’anno che a momenti affogo, 1991… Marta, 1992… quando ho cominciato a fumare, 1993… Questi periodi, intensi e molto fitti, erano separati tra loro dalle restanti, inutili, 49 settimane dell’anno, che non lasciavano tracce significative nella memoria: scuole elementari, medie, geometra… finché non ho dovuto cercarmi un lavoro, adattandomi a quello che offriva il mercato. Perciò mi sono comprato un giornale di annunci economici, una ventiquattrore, un paio di cravatte e mi sono proposto come "agente di commercio" (figura professionale che spopola tra gli inserzionisti che offrono lavoro). Sono stato accalappiato dalla Publimedia, e grazie a loro ora sono a Lisbona. O meglio, grazie a me stesso! Che poi, rispetto ai tempi della scuola, adesso chiamo le mie vacanze "ferie": se non è da incubo questo! Comunque la settimana-premio è finita e devo tornare a casa.

Sono giunto in stazione esageratamente in anticipo (conoscendomi avrei dovuto prevederlo... ) e, non avendo avuto difficoltà alcuna a trovare il mio treno ("Que linha para Madrid, por favor? Tres? Obrigado!" Che forza! U-na-set-ti-ma-na!) arrivo per primo nello scompartimento dell’Estrela Lusitana, il treno che mi porterà a Madrid entro domattina. Peccato che non possa scegliere il posto, sicuramente non sarò vicino al finestrino. Controllo velocemente il mio biglietto, e l’allegata "Reserva do lugar" mi conferma che possiedo temporaneamente un posto centrale tra i sei disponibili in quello scompartimento. Va bene! Posso sistemare la borsa, sedermi, stappare la birra che mi terrà compagnia per i prossimi tre minuti, ed aprire il libro che ho scelto per il mio "adeus" a Lisbona (Tabucchi, uno che di Portogallo se ne intende!)

Quale sicumera mi avvolge! Che differenza corre tra questo splendido ventenne e quello che, solo otto giorni prima, sul treno che stava per partire da Milano, serrava i pugni in tasca intimorito, e dentro un pugno stringeva il biglietto del treno ("lo tengo stretto così non lo perdo... ma si scalderà troppo?... ustionerà il controllore?"), spaurito ed angosciato da un viaggio in solitaria che, al contrario, si sarebbe rilevato piacevole e spiritualmente corroborante. Era filato tutto liscio, anzi, di più! Incredibile, sono anche riuscito a conoscere una tipa giapponese, conoscere biblicamente, intendo… ci siamo odorati il posteriore per un paio di giorni, finché ieri sera lei si è fermata da me in albergo. E pensare che finora l’avventura più esotica mi era toccata al mare con Marta di Bellinzona, CH. A questo punto sono pieno di ottimismo e baldanza: potrei anche licenziarmi! Avrei già in mente come farlo in maniera eclatante. In mezzo a tutti i miei colleghi, per umiliarmi, il capo ripeterà la solfa che adora: "Non sarebbe ora che tu ti tagliassi tutti quei peli superflui, "barbetta"..." e l’oggetto del suo sarcasmo cadrebbe inesorabilmente sul mio mento villoso e sulle mie favolose basette a triangolo rettangolo. Qualche risata nervosa scuoterebbe i miei servili e timorosi colleghi. Così io, sostenendo senza fatica lo sguardo del Potere, potrei rispondere: "Sì, e poi, già che ci sono, mi raso a zero la testa e indosso il cilicio... addio, capo!". Ci penserò seriamente, appena torno a casa. Intanto mi godo il viaggio.

Alla spicciolata giungono anche gli altri occupanti dello scompartimento, coloro che, per quella notte, sarebbero stati i miei compagni di viaggio, che - certo - mi avrebbero impedito di allungare i piedi sul sedile di fronte, ma con i quali si sarebbero fatte due parole, diamine! E poi lo sapevo già che era tutto prenotato, questo treno. Ho anche dovuto fare la prima classe, non ci sono altri posti! Trenta carte, tradotte in italiano!

Ognuno arriva per conto suo... tutti viaggiatori solitari... la mia trasferta portoghese perde di unicità ed eroismo!

A prima vista i nuovi arrivati sembrano tutti miei connazionali, a conferma del fascino che il Portogallo esercita sugli italiani. Peccato che siano tutti maschi! Adoro fare il cascamorto, spacciarmi per irresistibile seduttore, addirittura innamorarmi in poche ore. Per stavolta: niente da fare! Nessuna ragazza ingentilisce ed abbellisce, secondo il mio personale punto di vista, questo scompartimento, in cui l’aria comincia a farsi pesante. Non si possono aprire i finestrini, però dovrebbe funzionare l’aria condizionata. Comunque qui dentro, relativamente comodi, siamo in sei... non deve più arrivare nessuno.

Io occupo uno dei posti centrali, come già detto, con le spalle rivolte alla direzione di marcia.

Di fronte ho un ragazzo sui trent’anni, dall’aria tristemente pensierosa, troppo afflitta per il suo aspetto giovanilista fatto di zaino con tanto di stendardo tricolore cucito in bella vista, scarpe di tela e jeans tagliati al ginocchio. Bravo, ragazzo, fai il fricchettone radical-chic in prima classe! Solo la penuria di capelli sulle tempie, qualche ruga buttata sulla fronte e l’assenza totale di tracce di acne, evidenziano che non è proprio un teen-ager. Corta zazzera nera residua e viso paffuto. IL MESTO.

Alla sua destra trova posto un altro giovane maschio, qualche anno in meno del precedente forse, molto ordinato, agghindato con pantaloni di tela e polo - di quelle che furoreggiano nella nostra penisola - valigia rigida munita di rotelle e sacchetto di plastica con del cibo (biscotti-patatine-bottiglia d’acqua, il necessario per alleviare il viaggio insomma) che fa capolino dalle trasparenze lucide del contenitore. I capelli, scuri, tagliati a spazzola, ribadiscono la sobria accuratezza del tipo, che completa il suo aspetto con forme vagamente rotonde ed un grosso neo sulla guancia. L’ORDINARIO.

Dirimpetto al suddetto siede - compito e composto - un signore di mezz’età, che legge "Avvenimenti" (una vecchia copia, quella con il concerto del primo maggio in copertina… ). I suoi capelli sono brizzolati, e porta con disinvoltura un paio di baffetti non proprio attuali. Indossa occhiali rotondi con la montatura metallica e legge assorto, il volto estatico - una smorfia a metà tra il profeta di periferia e l’insegnante di discipline orientali. Una figura ascetica, insomma, costretta invece in abiti che sarebbero perfetti per quel demente del mio capo, che probabilmente ha un vestito principe di galles come quello del signore, un paio di scarpe inglesi lucidissime come quelle del signore, un paio di occhiali come quelli del signore e una stilografica (pennino d’oro?) come quella che spunta dal taschino della giacca del signore. No, il giornale del signore non ce l’ha di certo! IL COMPITO-COMPOSTO.

Alla mia destra si posiziona il quinto ospite dello scompartimento, un giovanotto alto e magro, inappuntabile nel suo completo grigio, ma senza cravatta, con una corta barba molto curata, che odora di gradevole acqua di colonia. Capelli biondi pettinati all’indietro, sicuramente svariate volte al giorno con cura maniacale. Entrando dice: "Buonasera!". Visto! Italiano anche lui! L’IMPECCABILE.

Di fronte si trova un tipo strano, sprofondato nel metro quadrato scarso del sedile. Non è giovane, quest’uomo piuttosto corpulento, sciatto e rumoroso di naso e di gola. Più un barbone che un viaggiatore... beh... un barbone che non puzza tanto... odora un po’ di selvatico, come le pelli di volpe che mio nonno appendeva vicino al pollaio per scongiurare attacchi predatorî... o qualcosa di simile. Capello lungo, barba incolta, peli abbondanti anche sulle nocche delle dita, occhiali scuri (è quasi buio, nonno!), abbigliamento molto approssimativo, assenza totale di bagaglio, a parte una busta di carta per il pane che non so cosa contenga. E questo tizio viaggia in prima classe? Sono certo che sia italiano perché, aggiustando continuamente la sua posizione sul sedile nell’improbabile tentativo di trovarne una comoda, ogni tanto borbotta :"Ma cazzo... Oh porca troia... e vaffanculo!" Difficile che sia novegese! IL BARBONE.

Con questo bell’assortimento di varia umanità, all’imbrunire lo scompartimento segue il destino del vagone di cui fa parte, che a sua volta si piega docilmente al volere del treno al quale è attaccato, l’Estrela Lusitana.

Si parte per Madrid.

 

 

In viaggio

Cartão postal (Olodum)

 

Il treno corre spedito verso la frontiera spagnola. I miei compagni di viaggio hanno assunto l’aspetto informe che generalmente contraddistingue i fruitori dei mezzi a lunga percorrenza: trasparenza totale! È strano: quando entra nello scompartimento uno "nuovo" lo squadri, lo esamini, dici buongiorno-buonasera, e dopo alcuni istanti l’attenzione, così faticosamente catturata, svanisce, vagando in chissà quali direzioni. Tutti, me compreso, abbiamo passato alcune ore a leggere, dormicchiare, sbocconcellare, ignorando beatamente gli altri occupanti.

Arrivati a Entroncamento, bivio per la frontiera, il mio dirimpettaio, il Mesto, pensa bene di rompere il ghiaccio: "Vi è piaciuto il Portogallo?" chiede, tutto d’un fiato, dopo avere trovato il coraggio per parlare in una sonora e prolungata schiarita di gola.

Ho l’impressione che sia imbarazzo quello che leggo sui volti di tutti, anzi, abulia. Non vorrei perdere l’occasione per una sana chiacchierata, e allora, come se la domanda fosse stata rivolta a me soltanto, intervengo: "Bellissimo, ho già nostalgia! Tornerei subito a Lisbona, ci metterei le radici! Voialtri che dite?" Ho coinvolto tutti: non possono tirarsi indietro! Finalmente si chiacchiera! Non è un buon motivo per esultare?

"Si... magnifico... sissì... ahhh... già... bel posto... rilassante, riposante direi… emozionante anche, certo… colori differenti… l’oceano… il volto dell’Europa…" Non posso definire il tutto una conversazione particolarmente originale e brillante ma è un inizio, almeno nessuno dissente, e vedo che una scintilla, minuscola, di interesse illumina quella decina di occhi annoiati. Quindi, rivolto a colui che ha dato il via alla socializzazione, continuo: "È la prima volta che vengo qui, ma voglio assolutamente tornarci! E tu?".

"Beh, io c’ero già stato... sono tornato per trovare un vecchio amico..."

Fisso il trentenne in versione Inter-Rail. È ovvio che ha l’esigenza di esporre la sua vicenda. Gli sguardi degli altri sono puntati, curiosi, su di lui. Perciò, attratto dall’atmosfera che si sta creando, coraggiosamente bisbiglio: "Stiamo solo aspettando che ci racconti qualcosa. Sarebbe un bel modo per passare il tempo, no?" Troppo aggressivo?

Lui, incerto, si guarda intorno, e io seguo la carrellata del suo sguardo sugli altri occupanti dello scompartimento: non sembra che la curiosità latiti. Il Compito-Composto annuisce, puntando gli occhi miopi sul protagonista, il Barbone smette di agitarsi e si volta nella nostra direzione. L’Impeccabile e l’Ordinario addirittura incitano l’avvio della narrazione. Spronato da queste inequivocabili manifestazioni di assenso, il Mesto ripropone:

"Sentite... io vi racconto questa storia... ho proprio voglia di farlo. Però se vi annoio …". Intorno non difetta la sincerità: " Ma figurati... per favore... va bene..."

Il treno sferraglia sui binari precariamente connessi, regalando una colonna sonora ripetitiva e allarmante al racconto del mio dirimpettaio.

"Dunque, sono tornato in Portogallo per ritrovare un caro amico, il mio amico Jorge..."

 

 

Jorge

Os Senhores da Guerra (Madredeus)

 

Jorge aveva il suo sogno, un sogno abbastanza ambizioso da tenere occupata la mente sia durante i lunghi mesi sul mare che nei brevi soggiorni a terra: Jorge voleva mettere da parte abbastanza denaro per tornare definitivamente a casa e comprarsi un bar.

Aveva solo ventun'anni ma era già stanco di quella vita sulle navi da crociera, imbarcato come cameriere, ogni tre mesi con una Compagnia diversa. Gli restavano ancora poche ore di quel giorno e la notte intera da passare in Portogallo, poi avrebbe preso servizio sulla Danska Maru: armatore nipponico, itinerario scandinavo e clientela mista, zeppa di crocieristi generosi. Ma non era sicuro che, tra stipendio e mance, avrebbe raccolto la somma che gli serviva.

Quanta acqua doveva ancora navigare prima di poter comprare il suo bar? Il Cafe Oceano di Afife, che era già nei sogni di suo padre... una vita a sognare il bar, a procreare e a bucare i biglietti dell'Elevador di Santa Luzia, a Viana do Castelo, proprio a dieci minuti da quel bar (se viaggi in auto).

Jorge aveva cominciato a diciassette anni a lavorare a bordo delle navi. Dopo tutto questo tempo speso a preparare cocktail e servire tramezzini, dietro il bancone del ponte principale, sarebbe stato un barman eccezionale, anche se dalle sue parti avrebbero tranquillamente tollerato perfino il peggior sguattero. Ma se un giorno fosse arrivato il turismo internazionale anche nell'alto Minho, lui sarebbe stato pronto. Del resto il suo lavoro l'aveva obbligato ad imparare quattro lingue.

Jorge stava facendo la corte al Sogno anche sulla corriera che in quel momento lo stava portando a Lisbona per l'ennesimo imbarco (comoda, la corriera, comoda ed economica: seicentotrenta escudos per la tratta Porto-Lisboa sono davvero pochi).

Erano trascorse in un baleno le due settimane passate a casa per la festa più importante del nord: la Romaria de Nossa Senhora da Agonìa, che culmina nella processione del 15 agosto, troppo tardi per lui, accidenti!

Cullato dal Sogno e dalla strada sconnessa, Jorge si accorse dopo qualche tempo della bella ragazza bruna che gli sorrideva dal posto accanto.

"Isabela, Dio mio, Isabela..."

"Ciao, Jorge" salutò la ragazza, sorridendo.

Lo stupore inteneriva l'espressione di Jorge. Aveva già fatto quel viaggio almeno dodici volte e non aveva mai incontrato alcun conoscente. Ora proprio Isabela, la più bella ragazza del paese, la compagna di scuola dal grembiule candido, quella che parlava piano, quella che tanto tempo fa si era sposata con uno del sud, la figlia di zia Aldara. I pensieri ribollirono nella testa di Jorge esattamente in quest'ordine.

"Tuo... tuo figlio?", mormorò il ragazzo, mentre indicava il bimbo che sedeva sulle belle gambe di Isabela, sperando che lei rispondesse "No, mio cugino, mio fratello, mio nipote, il figlio di mio cognato... quale figlio?"

"Sì, mio figlio... ha tre anni!" confermò invece, involontariamente crudele, la ragazza, con la pacatezza che Jorge ben conosceva.

Il nostro prode marinero era un chiacchieratore valoroso, ai limiti della logorrea, eppure la presenza di Isabela lo intimidiva talmente che a un bel momento, d'un fiato, disse:

"Dio, il tempo che è passato! Dobbiamo raccontarci molte cose..." Già, questo biascicò Jorge, sempre più confuso. Del resto non le aveva mai parlato prima, se escludiamo i saluti all'entrata e all'uscita da scuola e i convenevoli a Natale, dai nonni.

"È della tua vita che dobbiamo parlare, Jorginho. Viaggi, sei sempre in città diverse, incontri tanta gente... io non faccio niente di speciale, lavoro nella pasticceria di mio marito" minimizzò la ragazza.

Allora lui si adattò alla situazione: "Non ho molto da raccontare, Isa... solo mare. È bellissimo tuo figlio, come si chiama?"

"Manuel"

La corriera si fermò a raccogliere i passeggeri di Vilanova de Gaya.

Jorge intanto aveva cominciato a giocare con il bambino. Era molto dolce con lui. Chissà se fu solo per il comportamento affettuoso che Jorge teneva con il figlio che Isabela, in silenzio, prese a fissarlo, con un'intensità che lo accendeva di passione. Lui rispondeva a quegli sguardi con altrettanto ardore. Per una decina di minuti continuarono a conversare di frivolezze, della loro vita da bambini e di quella attuale, finché Isabela mormorò: "Sai, Jorge, è strano incontrare... qui... proprio te... quasi avevo smesso di sperare… ti penserò molto, a casa, è inevitabile"

La ragazza parlava lentamente, quasi cercasse con fatica altra aria per le sue parole. Jorge, accortosi dell’emozione di Isabela, tentava di ricordare se fosse mai stato così innamorato. Non poteva e non voleva più tornare ad una conversazione meno profonda.

"Stai bene, ora, Isabela?"

"Ora sì, Jorge…"

Non si dissero altro.

Si guardarono a lungo, complici, in silenzio.

Si sfiorarono spesso le mani nei momenti in cui il bambino era distratto, in un gioco sottile e tagliente. Jorge si beveva con lentezza quegli istanti che per qualche motivo il destino gli stava regalando.

Sperò che il piccolo si addormentasse.

Ma non dormì.

A Jorge non restava altro che perdersi dietro i suoi pensieri:

"Dio, proprio Isabela, proprio quando credevo di essermi rassegnato… di essermi scordato quanto sia facile per me fantasticare. E adesso mi dice che mi penserà a casa… Isabela, voglio parlarti, voglio raccontarti la mia vita, i miei progetti, voglio dirti perché me ne sono andato… o sei andata via prima tu? Già, io sono partito dopo di te… ma come potevamo sapere? Ora però ho la certezza che sono sempre stato innamorato di te. E anche tu… tu… mi hai detto che adesso stai bene, e adesso ci sono io: allora ti rivelo tutto, Isa, non ti perdo un’altra volta, la sfrutto bene questa coincidenza. Appena il bambino si addormenta… tanto abbiamo tempo, siamo solo a…"

La corriera attraversò l’abitato di Espinho.

Poco dopo il piccolo Manuel, che fino ad allora sembrava non avere la minima intenzione di prendere sonno, crollò improvvisamente nel limbo dei dormienti.

A questo punto Jorge aveva campo libero. Di fianco a lui Isabela carezzava la testa di suo figlio. Aveva mani bellissime. Stonava solo quella fede all’anulare sinistro, pensò Jorge:

"Un anello diverso, meriteresti, Isa. Magari un bel rubino, che stia bene con le tue labbra. Io te lo regalerei, sai? E ti regalerei anche un ciondolo d’ambra che faccia il paio con gli occhi… invece che comprare il bar…"

Jorge stava rimandando la sua confessione, cercando con fatica le parole che avrebbero toccato più profondamente possibile Isabela. Comunque c’era tempo: la corriera, lasciando la superstrada, si diresse verso Figueira da Foz. Non erano neanche a metà del percorso. Jorge poteva permettersi di meditare:

"Voglio cambiare tutto! Basta mare, basta bar, basta solitudine. C’è un’altra vita che mi aspetta, se Isabela è d’accordo… già… ma se non lo fosse? Se, per caso, le bastasse la vita che conduce, se si trovasse bene con suo marito? Innamorata non è, questo l’ho capito… però sembra… rassegnata… e poi c’è il bambino… oh, quante idiozie, adesso le parlo… chiariamo tutto… le dico: Isabela, sono disposto a rivoluzionare la mia vita, per te, pensa un po’!… sì, ma per lei non sarà uno scherzo accettare tutto questo. Eppure dopo che le avrò parlato non avrà dubbi! Passeremo la vita insieme! Giorni, mesi, anni insieme… ma… ma saranno tutti momenti dolci come questo? Non sarà che trovo tutto meraviglioso proprio perché si tratta solo di un attimo? E se tutta questa bellezza poi naufragasse nella banalità? Al momento è così facile trovarsi affascinanti… al momento… Bah… io mi butto, poi vedremo…"

All’altezza di Nazarè, Jorge si decise, finalmente, a parlare. Isabela gli voltava la schiena, sdraiata su un fianco, una guancia appoggiata allo schienale. Jorge le infilò una mano sotto il braccio chiamandola:

"Isabela"

La ragazza rispose con un verso assonnato, prendendo la mano di Jorge fra le sue e continuando beatamente a dormire.

Jorge avrebbe dovuto svegliarla, ma era così bello restarle accanto con la mano mollemente appoggiata sul suo grembo…

Fu un tempo infinito, strano e piacevolissimo, dal gusto agrodolce.

Arrivarono a Lisbona al tramonto.

Isabela doveva tornare a casa, da suo marito. Jorge, confuso, avrebbe cercato una sistemazione per la notte, avendo l'imbarco fissato per l'indomani.

"Isabela, non scordarmi, ti prego...", azzardò Jorge.

"No..."

"Domani mattina passo a prenderti in negozio e facciamo colazione insieme" disse Jorge, che il tempo agli sgoccioli rendeva più audace.

"No..."

"Allora posso telefonarti, quando torno, per sapere come stai… fra tre mesi... sarà tardi?"

"Ciao, Jorge..."

"Addio, Isabela"

Due taxi presero, inopinatamente, strade diverse.

Quello di Jorge si fermò al Rossìo, dovendo egli trovare un albergo. Ma ad agosto, a Lisbona, non è facile scovare camere libere.

Cercando ricovero per la notte Jorge mi incontrò, sulle scale di una qualche pensione, ed ero nelle sue condizioni: stanco, con il cuore gonfio e con la prospettiva di dormire sopra una panchina, zavorrato dal bagaglio. Dalla bandierina cucita sul mio zaino, ché a venticinque anni amavo esibire icone che mi identificassero agli sconosciuti, e dalle Superga d'ordinanza dedusse la mia provenienza.

"Italiano?" si presentò Jorge, la cui voglia di parlare era evidente.

"Sì" - risposi, un po' sospettoso - "Parli italiano?"

"Sìm, sì, ho lavorato per tre mesi su una nave italiana, l'anno scorso. Cercavi una camera, vero? Anch'io, ma qui è tutto completo, prendiamo un taxi e proviamo da qualche altra parte… in periferia... o piuttosto a Benfica, va bene?"

"Sì, ma... io non ho escudos, solo lire italiane e pesetas, perché sono appena arrivato da Madrid in treno e l'ufficio del cambio è chiuso". La luminosità del viso del mio nuovo amico aveva dissipato ogni diffidenza.

"Non preoccuparti, pago io il taxi, tu domattina offrirai la colazione. Come ti chiami?"

"Giorgio."

"Perfetto, io mi chiamo Jorge..."

Trovammo, grazie al tassista, un modestissimo quarto com duas camas sin banheiro.

Prima di prendere sonno scambiammo due parole. Cominciai io:

"Jorge, cosa fai per sopravvivere?"

"Ho un sogno..."

Giorgio prende fiato e fa capire che la sua storia è finita,

Come spesso accade tutto ciò non mi basta, voglio spiegazioni ulteriori, voglio sapere "come va a finire"...

"E allora, Giorgio? Lo hai trovato adesso, il tuo amico?"

E Giorgio: " No, ci ho provato ma non era a casa. Avevo solo il suo indirizzo, non il numero di telefono, sempre che Jorge abbia un telefono... sono stato nel nord ed ho conosciuto sua madre. Lei mi ha detto che ora suo figlio si trova in America, lavora a Fort Lauderdale, e fa sempre il cameriere... niente bar… si sarà stancato, avrà scordato il Sogno, Isabela, me... peccato, perché l’incontro con Jorge mi aveva stimolato mille fantasie anche se i miei sogni poco hanno a che vedere con quello del mio amico... questa volta sono rimasto solo quattro giorni in Portogallo, più due giorni di treno per arrivarci..."

E qualche settimana per smaltire la delusione, aggiungerei.

Giorgio, il Mesto, continua: "Ho rivisto, però, il mio Portogallo... mi sembra sempre più bello... bellissimo e tristissimo... e tutta quella gente discreta e gentile, come Jorge!"

Mah, io ho avuto un’impressione diversa, forse più allegra. Non che Lisbona sia Copacabana, ma tutta quella malinconia io, per fortuna, non l’ho provata. Intanto è calato il silenzio sul nostro scompartimento, ed è innaturale. Mi sembra che nessuno degli occupanti sia sazio di parole, men che meno il sottoscritto, così, visto che per tacita delega unanime mi ritrovo a comandare le danze, mi rivolgo all’Ordinario alla destra di Giorgio:

"E tu sei venuto in vacanza in Portogallo?"

Il ragazzo mi lancia una franca occhiata di gratitudine. Avevi voglia di prendere parte alla kermesse, eh?

"No, sono stato a Coimbra per studiare, sto per laurearmi in lingue e preparo la tesi sulla letteratura portoghese... ma non saprei cosa raccontarvi, ho studiato e basta!".

"Va bene, non ti è successo niente di particolare in questi giorni?"

"... no... beh... no!"

"Allora raccontaci qualcos’altro, che ne so, confessaci la tua infanzia sbandata!" Il mio intento provocatorio deve essere stato frainteso, probabilmente ho dosato male il sarcasmo nel tono della voce, perché ora quasi tutti incitano l’Ordinario a raccontare! Gente strana!

Lui, com’è ovvio, si schernisce: "Mah, non credo che..."

Inaspettatamente interviene l’Impeccabile, che fino a quel momento aveva dato segni di vita solo muovendo gli occhi: "Coraggio, non faccia l’asociale, anche Giorgio era scettico e poi ha stregato la platea."

Queste poche parole bastano per convincere il ragazzo in polo e calzoni stirati. Non sembra timido. Vagamente incerto, forse.

"Non ho niente di straordinario da raccontarvi, (nessun dubbio, bello!) pensate che ci sia davvero bisogno di una storiellina minimale?"

 

Il mio canarino si chiamava Andrea

La vacha malha (Lou Dalfin)

 

 

ANDREA

Ma c'è davvero bisogno di una storiellina minimale?

Non lo so, non sono miei problemi.

Comunque, tanti anni fa, avevamo in casa un canarino arancione. L'ospite cominciò a svolazzare nella sua gabbia che era già un maschio adulto, mentre io, seppure anagraficamente più vecchio, ero in età prescolare. L'avevo chiamato Andrea. Certo è un nome inconsueto per un volatile, e già sento turbe flagellanti di apprendisti chierici scagliarsi contro quell’infantile decisione adducendo l'incontestabile fatto che non sta bene rinnovare il nome del santo ad ics in un miserabile pennuto. Ma io, fin da piccino, odiavo dare agli animali appellativi sciocchi, quali Fido, Fufi, Bobi, Cippi, o qualche altra tra le mostruosità più in voga dalle nostre parti e in quel preciso contesto storico, in un'orgia di puerilità e neologismi anglo-transalpini, tanto esotici quanto onomatopeici. Quel sentimento era dovuto al mio segreto piacere nell'apparire un po' originale, e chiamare Andrea un canarino era senz'altro originale. Lo trovavo un bel nome per un uccello, molto buffo. Intendiamoci, sarebbe stato altrettanto buffo chiamarlo Gianluca, che è il mio nome, ma credo che non faccia piacere nemmeno ai bambini vivere il ridicolo troppo da vicino. Andrea mi faceva ridere perché era un nome da grandi, il mio era, almeno per personale esperienza, un nome da bambini. Vuoi mettere?

Andrea prosperava nelle sue due spanne cubiche di ferro a sbarre becchettando mangime e un osso di seppia bianchissimo, nutrito, dissetato e riverito grazie ad una bravura canora senza eguali nel nostro condominio. Pensavo, è vero, che fosse un po' troppo intellettuale, come canarino, dato che aveva sempre il capo chino sul foglio di giornale che, dal fondo della gabbia, gli fungeva da cloaca, ma se trovava piacevole tenersi informato sui fatti del mondo non sarei certo stato io ad impedirgli l'innocente sollazzo. Così ogni mattina, alle sette e trenta, Andrea aveva una nuova latrina consistente nella prima pagina del quotidiano locale. Se gli piegavamo in fondo alla gabbia una pagina del giornale del giorno prima, smetteva di cantare. Una volta, per sbaglio, utilizzai la pagina dei necrologi; se ne accorse subito, producendo in pochi minuti una quantità di guano tale che dovetti eliminare subito quel fogliaccio fetido.

Quali sconvolgimenti interiori - non solo in senso figurato! - può provocare il pensiero della morte negli animi più sensibili! Eppure la morte era lontanissima da Andrea, che se ne sarebbe andato molti anni dopo, con le piume ormai diventate rosa pallido.

Ma i tempi, più prossimi a noi, dell'Andrea scolorito, dovevano ancora venire. Intanto aveva necessità di cinguettare per una compagna.

E la compagna, nel senso più romantico e meno politico del termine, arrivò una mattina dal cielo bianchissimo di una primavera che faticava a decollare. Sul davanzale della finestra della mia camera trovammo la Gialla.

 

LA GIALLA

Probabilmente in fuga dai giostrai che sostavano in una piazza poco distante da casa nostra, la Gialla si posò sul davanzale decisa, altera e indipendente come sarebbe sempre stata. Venire da noi fu sicuramente una sua libera scelta, e fummo felici di accoglierla, preparandole una gabbietta senza sportello, dalla quale poteva volteggiare tra le pareti della cucina quando le pareva (almeno un paio di volte al giorno). Deducemmo il suo sesso dal fatto che fosse un po' più piccola di Andrea, dalla lunghezza delle sue ciglia (che addolcivano il suo sguardo, inequivocabilmente femminile), e dalla constatazione che, essendo Andrea un maschio, ci serviva per forza una canarina!

I nostri sospetti vennero confermati quando la Gialla cominciò a deporre le uova. Nessuna di esse si schiuse mai, né della prima, né della seconda, né tantomeno delle successive covate. Nulla di strano! La Gialla e Andrea vivevano in due gabbiette separate; provai una volta a lasciarli in gabbia assieme e poco ci mancò che si uccidessero! Istinto uxoricida congenito, forse... aggravato dalla cattività e dalla forzata convivenza in spazi angusti... Magari non era la stagione degli amori... (che ne so! Non sono mica Konrad Lorenz!). Comunque i due si ignorarono reciprocamente per tutti i ventiquattro mesi di permanenza della Gialla in casa nostra. Quando la femmina si concedeva la sua ora d'aria, Andrea se ne stava immobile nella sua gabbia a leggere il giornale (ma Andrea non usciva mai dalla gabbia di sua sponte). Un bel giorno la Gialla ci gabbò tutti quanti. Ultima ora d'aria: mentre si esibisce nelle sue evoluzioni, e tutta la famiglia è riunita in cucina ad ammirarla, dopo un tonneau magistrale si incastra tra le tende del balconcino e, approfittando del clamore suscitato tra coloro che cercano di liberarla, sbattendo le ali come impazzita, si divincola dai tendaggi e punta decisa verso il soffitto. Quindi planando discende quasi all'altezza del pavimento e vira velocissima verso la porta del balcone, mirando il vetro doppio a velocità folle. Non avrei sopportato di vederla sfracellarsi contro la sua meta di vetro, perciò non mi restò altro da fare che aprire la porta, col respiro mozzato in gola.

Porta che fu diligentemente infilata dalla testa della Gialla, e dopo la testa tutto il resto, fuori, libera come quando era arrivata. Alcuni sostengono che cinguettò anche un grazie. Era fatta così: indipendente, furba e burlona. Sapeva che avrei aperto, il diavoletto giallo...

La gabbietta della Gialla non poteva restare vuota a lungo, perciò il giorno dopo andai a comprarmi due criceti.

 

TANGHERO E CAFFELATTE

Tanghero era un maschio tutto bianco, mentre Caffelatte, la femmina, era di un beige molto chiaro, tipicamente anni settanta. I topi erano felici nel monolocale che era stato della Gialla, almeno così mi sembrava, e a tutt'oggi non ho motivo di dubitarne. Ogni tanto me li portavo in giro per la città, quando andavo a spasso insieme ai miei genitori, infilati nelle tasche del cappotto "col doppio fondo" (che era poi un normalissimo cappotto con le tasche scucite, per cui la fodera fungeva da sacca occulta, nella quale far viaggiare i criceti e conservare, celate da occhi indiscreti, le ghiottonerie depredate al supermercato. Ogni pomeriggio, alle quattro, avevo appuntamento con il mio amico Arsene Barzo per fare merenda... biscotti, cioccolata, torroncini, una volta persino una scatola di tonno... ma questa è un'altra storia).

Allora, Tanghero e Caffelatte viaggiavano quotidianamente attraverso le vie della città; a volte li prendevo anche tra le mani, o li appoggiavo sulle spalle. Non fecero mai nulla di insensato, tipo mordermi o darsi alla macchia, o alle fogne: del resto, quanto sarebbero durati all'aperto? Cinquanta grammi di cervello li avevano anche loro! Credo sapessero benissimo che fuggire o mordere la mano che li nutriva (sic!) avrebbe solo avvicinato il momento fatidico. E il momento venne... ne sono sicuro... non ho più criceti in casa... non ricordo come fu... Pardon... Probabilmente ci morirono in uno di quei periodi della adolescenza (la mia!) nei quali la testa non è mai tra le pareti domestiche, e tutto ti scivola addosso con noncuranza, occupato come sei a meravigliarti di essere quasi adulto e spesso innamorato, scosso dalla preoccupazione di modellarti addosso un personaggio piacevole e credibile (piacevole per te e credibile ai tuoi occhi, naturalmente). Sì, dai, tra i dodici e i quattordici anni!

Di tutti gli animali ch'ebbero la sventura di passare da noi in quegli anni non ne ricordo più nessuno, obliati, rimossi, insieme ad una notevole quantità di altre faccende e centinaia di facce di persone, risucchiate dal vortice dell'indifferenza. I criceti atto primo si sono stampati nella mia memoria, sopravvivendo al saccheggio dell'acne, solo perché cominciarono la loro convivenza con me in tempi precedenti la comparsa della peluria sotto il naso e l'ispessimento vocale. E dunque torniamo ad occuparci di epoche più remote.

 

I GIRINI

I ricordi più vivi sono quelli del periodo scuole elementari. Ricordo, per esempio, che una volta mio padre ci portò, tutti e tre fratelli, al fiume. Beh, ci portava spesso al fiume, o comunque a spasso, la domenica mattina, a godere il sole tiepido della nostra primavera inoltrata, magari in bicicletta, ma quella volta scoprimmo i girini. Stavamo esplorando una pietraia con qualche pozza d’acqua che inevitabilmente sarebbe evaporata al calore del pomeriggio: guidava l’improbabile carovana mia sorella (cinque o sei anni di sana curiosità), armata di una canna di legno lunga più o meno come lei che la faceva apparire ancora più temibile di quanto non fosse, subito dietro stavo io (diciamo otto anni?) e, in coda, mio fratello, più giovane di me di un anno, che essendo fisicamente il più prestante ci copriva le spalle (trattandosi di esplorazione). Chiudeva il quadretto familiare lo sguardo vigile di mio padre, che all'epoca doveva essere alto tra i sette e i nove metri per quattro tonnellate di peso, probabilmente armato e sicuramente invincibile. Praticamente un semidio... e tutto questo in tempi non contagiati da Power Rangers.

Eccoci, quindi, a slalomare tra pozze d’acqua maleodorante e putrida quando la perspicace sorella si blocca e dice: "Ma se oggi pomeriggio l'acqua si asciuga mi muoiono tutti 'sti animali!" (Diceva proprio così: "mi muoiono", precoce stimolo al possesso... ). Ci fermammo, perciò, ai bordi di una pozzanghera, tutti e tre accovacciati in posizione defecatoria, ad osservare che cosa viveva dentro quella poca acqua sporca: in effetti, la bambina aveva ragione, quel microcosmo brulicava di vita, insetti acquatici, ragni, formiche, e degli animaletti allungati tanto graziosi, che mio padre spiegò essere girini (mai visti prima!), una sorta di larva di rana, tipo il bruco e la farfalla, solo che il bruco fa schifo e la farfalla è bella, mentre questi cosi sono carini e le rane no. Decidemmo di salvarne una manciata da morte sicura per prosciugamento idrico dello stagno. Ci procurammo un barattolo e pescammo una dozzina di girini, tutti regolarmente provvisti di coda (un paio la persero nell'operazione, come perdono la coda le lucertole, così vennero rigettati nel loro luogo di origine, condannati certamente ad una morte atroce).

Prima di mezzogiorno il barattolo di vetro con i superstiti troneggiava sul tavolino del balcone in casa mia! Per venti minuti andammo ad accertarci, a turno, che i nostri ospiti stessero bene. Andavamo in due per volta, mentre il/la terzo/a si occupava di blandire mia madre, furibonda per quella trovata geniale dell'adottare dei girini. Poi ci stancammo di controllare il barattolo e ci restò il compito di calmare la mamma. Debito che non abbiamo ancora saldato, dato che, ad un certo punto - e quanto tempo sarà passato? Tre ore? Due giorni? - non trovammo più nessun girino, ma una dozzina di raganelle avevano invaso la cucina. Si infilarono ovunque, e scovarle fu durissimo, dato che le raganelle hanno le dita a "ventosa" e si arrampicano su qualsiasi superficie. Volarono parole grosse, spintoni e qualche pugno, ma alla fine della giornata avevamo disinfestato la casa. Non contenti, decidemmo che un allevamento "controllato" di anfibi sarebbe stato il compito della domenica seguente. In un clima di cospirazione preparammo la spedizione successiva.

Il giorno fatidico non faticammo a trovare un piccolo stagno ancora saturo di girini evidentemente in ritardo di maturazione. Solita storia del barattolo e del tavolo del balcone; questa volta però ci assicurammo che il contenitore restasse chiuso da un coperchio, in modo da evitare una fuga in massa nel caso, ai limiti della possibilità certo, che ci fossimo nuovamente scordati dei nostri obblighi di anfitrioni. Tranquilla, mamma, abbiamo pensato a tutto, stavolta! Purtroppo non calcolammo con sufficiente precisione l'ermetismo della chiusura, così che il barattolo diventò praticamente una camera a tenuta stagna, dove l'aria faticava anche solo ad essere immaginata. Naturalmente, tra l'ansia del pranzo e la terza puntata di un qualche sceneggiato, ci scordammo completamente di quanto lasciato al sole sul balcone, che intanto raggiungeva una temperatura notevole. L'assenza d'aria fece il resto, e così trovammo, tempo dopo, una poltiglia cotta nel barattolo, che scoprimmo solo rimettendo piede sul balcone grazie all'odore formidabile che il coperchio non riusciva a contenere. Da allora la smettemmo con le rane, con le lucertole, e con qualsiasi animale troppo facile da dimenticare in giro...

 

LE TARTARUGHE

... se escludiamo, naturalmente, due minuscole tartarughe acquatiche che mi vennero donate, in quarta elementare credo, dal mio compagno di banco. Preparammo una vaschetta di plastica che consentisse loro una certa libertà di movimento, la riempimmo d'acqua e al centro piazzammo un bel pezzo di polistirolo che doveva servire da terraferma, e che effettivamente veniva adoperato come punto d'approdo dalle due tartarughe ogni volta che si sentivano stufe di stare in ammollo. La tragedia si consumò in un pomeriggio invernale. Probabilmente le tartarughe vanno in letargo, o comunque rallentano il loro metabolismo durante la stagione fredda, perché dormivano continuamente, rintanate nel carapace, in quell'inverno (l'unico, ahimè, della loro breve esistenza). La loro vaschetta era stata parcheggiata sullo stesso tavolino all'aperto (sul balcone) che aveva visto, qualche tempo prima, la triste saga dei girini. La temperatura era quella che era, perciò i due cheloni sonnecchiavano sott'acqua, dove potevano godere di qualche centigrado di tepore in più rispetto all'esterno. Il mio compagno di banco era venuto a fare merenda da me e mi chiese notizie del suo regalo. Lo portai perciò sul balcone per fargli controllare le tartarughe e, per mostrargli che sott'acqua non c'erano solo due corazze vuote (questa era l'immagine che le tartarughe davano di se stesse, infagottate nei loro desolanti gusci), svegliai gli inquilini, che pigramente tirarono fuori le zampe rugose e la testa assonnata. Tranquillizzati da quella prorompente vitalità, posammo i rettili sul loro simulacro di scoglio in polistirolo e tornammo alla nostra cioccolata con la panna. Inutile precisare che, quando mi recai nuovamente sul balcone per accertarmi dello stato di salute delle minuscole testuggini, le trovai pietrificate sul polistirolo: ghiacciate dall'acqua nella quale si erano inzuppate poco prima, non erano riuscite a tornare in ambito liquido, e avevano trovato la morte per assideramento, no, proprio per surgelamento, su quel finto lembo di terra, bianco e tossico. Le seppellimmo in un vaso di gerani...

E poi ci fu la tartaruga dell'estate seguente, comprata ai baracconi per poche migliaia di lire. Quella era una tartaruga regolare, né grande né piccola, lunga più o meno due spanne, che non sguazzava nell'acqua. Naturalmente le fu assegnato il balcone. Per qualche giorno fu tollerata. Non faceva rumore, non correva, non saltava, non si faceva le unghie sulle tende e non lasciava peli in giro. Ma cagava... cagava tantissimo! Faceva degli stronzi grossi come i miei, il che era sorprendente se pensiamo che mangiava un decimo di quello che mangiavo io! Eppure, nella calura di quell'estate cittadina, i suoi siluri attiravano gli insetti di tutta la provincia. Sciamavano stormi di mosconi violacei, sul mio balcone, e la tartaruga continuava pigramente a ruminare foglie di lattuga che, col senno di poi, suppongo fossero imbevute di Guttalax, indifferente e per nulla infastidita dalla presenza dei ditteri. Dovemmo perciò sbarazzarci di lei, e così la lasciammo nel grande orto di una casa vicina al nostro condominio. Non era proprio come lasciare un cane in autostrada, ma ne soffrimmo ugualmente, e ci consolava solo la certezza che la tartaruga "andava a star meglio", come noi, del resto. Sarà un caso, ma sono passati quasi vent'anni da quel giorno e da vent'anni non trovo più mosche in casa. In compenso l'orto dei vicini è ancora adesso considerato il paradiso dei muscidi e di ogni specie coprofaga.

 

E POI?

Certamente ebbi altri compagni di viaggio non umani, attraverso la mia infanzia: per esempio una minuscola cagnetta meticcia che mio padre recuperò da qualche parte e che prontamente battezzò "Laika". In quel periodo molti cani di sesso femminile portavano il nome della tragica eroina dello Sputnik II, e mio padre non possedeva la mia intransigenza quando si trattava di mettere il segno di riconoscimento, insomma il nome, ai nostri animali. Certo è che non mi spiego ancora adesso come si possa essere così tetri da chiamare un cane con un nome che ricorda un evento tanto tragico. É come se un allevatore chiamasse i suoi tori con i nomi dei migliori esemplari trucidati nelle corride. Anche verso i propri figli gli esseri umani hanno questa abitudine perversa (avevo un compagno di scuola che si chiamava Sebastiano, e, con orrore, me lo vedevo continuamente trafitto da dardi pagani). Laika restò solo pochi giorni in casa nostra, prima che l'atroce amministratore del condominio la scoprisse e ci obbligasse a cederla ad un amico che viveva in campagna. "Il regolamento parla chiaro! Niente cani o gatti, in condominio, turbano la quiete del vicinato, che ha i vostri stessi diritti, e poi con un nome così (laica?) agita il sonno del signore del terzo piano, che ha un allevamento di mantidi religiose" Spesso il nostro amministratore veniva pubblicato su Risate a denti stretti de La settimana enigmistica...

Ogni tanto ci riusciva di introdurre in casa cuccioli di cani o gatti, ai quali ci affezionavamo da morire e che regolarmente venivano ceduti al buon amico di campagna, che aveva tanto posto... Una volta possedetti persino un pulcino, che andò a razzolare nell'aia del buon uomo allorché raggiunse le dimensioni di un pollo. Razzola un giorno, razzola due, alla fine il pollo diventò una gallina nera imponente (seguivo passo passo la sua vita...), che fedelmente procurò centinaia di uova fresche al nostro amico e a noi, e che finì in pentola in età avanzata, facendo, naturalmente, un ottimo brodo. Una brutta storia operaia, insomma. Giuro, però, che non sapevo che nel piatto c'era il mio ex-pulcino, mentre spolpavo una coscia con voracità inusitata.

Mi sarei sentito un po' primitivo a crescere degli esseri viventi per poi nutrirmene, quando era così semplice passare dal macellaio! Come mi sembrò crudele il destino riservato al coniglio che, un giorno, mio nonno ci portò a casa (destinazione balcone, of course... ). Che bello, un coniglio come animale domestico! Altro che gatti, cani o frivoli pesci rossi! I miei fratelli ed io ci giocammo tutta la mattina, in preda ad un entusiasmo folle, sennonché, dopo la pennichella del pomeriggio, recatici sul balcone non trovammo più nessun coniglio (al quale non avevamo neanche fatto in tempo a dare il nome, che da noi equivaleva al certificato di esistenza in vita), ma una pelle messa ad essiccare al sole, impagliata, ci tolse ogni speranza. La sera non mangiammo (il menù era prevedibile), tanto il magone ci occludeva la gola, e nessuno di noi volle indossare, sul cappotto, il colletto di pelliccia che confezionò la mamma l'inverno seguente. Si legava al collo con un bel paio di orecchie. Sì, sì, originale, certo... un po' tetro, se vogliamo...

Un'altra volta avvelenammo casualmente una decina di vitelli che stabulavano beatamente nei pressi della vecchia casa dei nonni in collina. Mio padre si era dato al revisionismo vegetale, ed abbatté un vecchio oleandro che, con la sua mole, impediva la crescita di ortaggi magari meno ornamentali, ma certamente più utilizzabili in cucina. Noi tre fratelli stavamo vivendo un periodo di estasi faunistica, ed avevamo fatto amicizia con i vitelli anzidetti. Ci sembrò naturale, perciò, regalare le foglie dell'oleandro ai giovani bovini, che utilizzarono il tutto per variare la loro consueta dieta a base di erba medica e fieno che odorava di letame. Morirono dopo qualche giorno. La proprietaria delle bestie naturalmente si infuriò, e si trasformò in un batter d'occhio da simpatica donnina che ci faceva trastullare con animali estranei ai nostri sensi cittadini in feroce vendicatrice dei suoi interessi (i vitelli sarebbero stati portati al macello il mese seguente, e il danno economico fu rilevantissimo, a sentire lei). Ella voleva essere risarcita del danno. A noi dispiaceva di aver perso degli amici. Comunque non fu mai provato che i vitelli fossero periti in seguito ad avvelenamento per oleandro, ma la strega fiammeggiante si vendicò ugualmente, infierendo sulla nostra vecchia casa, vandalizzandone a sassate i vetri e compiendo atti innominabili sulla porta del cancello (non m'incanti, carina, è cacca umana quella!). Noi abitavamo il cascinale solo durante i fine settimana e ci risultava impossibile sorvegliarlo. Fu così svenduta tutta la proprietà, perché con vicini simili non è facile andare d'accordo, e non potevamo avvelenarci tutte le domeniche. A proposito di avvelenamento, chissà se i vitelli morirono proprio a causa dell’oleandro, o se piuttosto non furono nutriti a funghi, che mio padre aveva espiantato attorno alla pianta, dalla soave padrona che aveva così visto un buon espediente per risparmiare sul foraggio, o si era improvvisata un istinto Lucreziaborgesco vitellicida (della quale si era evidentemente presto pentita, dando a tre innocenti pargoletti la colpa delle sue sventure, oh, infingarda!). Di sicuro non avevano una bella faccia, quei funghi, e a me piace pensare di non avere responsabilità alcuna circa l'atroce fine dei vitelli (che poi, avvelenati o macellati, per loro era lo stesso...).

 

LA FINE DI ANDREA

Come avevo promesso, racconterò della fine del nostro Andrea. É bene precisare che - escluso i presenti - dopo di lui nessun'altro, volatile, quadrupede o bipede, è più entrato nelle nostre vite (beh, un giorno mia sorella portò a casa una busta di plastica con due pesci rossi. Li travasò in una brocca che venne appoggiata sulla pesantissima credenza in salone. La brocca si rovesciò quasi subito ed il contenuto scarlatto finì dietro il mobile. Impossibile fu il recupero. Gli operai che anni dopo vennero per un trasloco trovarono ancora macabre tracce di vetro e di squame).

Quando giunse l’ora fatale Andrea faceva ormai fatica a reggersi sulle zampette, non riusciva a leggere senza occhiali (e perciò, non possedendo occhiali, deponeva spesso guano sulla radio, surrogato ideale dei suoi quotidiani), e trillava roco come Ray Charles.

Un giorno mio nonno lo trovò stecchito nella gabbia, e mi venne propinata la storia che, avendo egli aperto inavvertitamente lo sportellino, Andrea se ne era volato via. Chi? Andrea? Andrea che non sapeva volare, che non era mai uscito in perlustrazione nemmeno in cucina? Andrea pantofolaio all'inverosimile? Impossibile abboccare ad una fandonia del genere! Eppure ci credetti per una dozzina d'anni... finché non mi misero al corrente della realtà dei fatti, ritenendomi abbastanza maturo per sopportare l'idea della morte. Quando seppi la verità fu per me un sollievo. Andrea era morto come era vissuto e non dovevo più accusare il povero nonno di sbadataggine.

Andrea, Andrea... mio Andrea, cigno e confessore della mia infanzia.

Per rinnovarne ai posteri la memoria, decisi di adottare le abitudini del canarino. Cominciai a prendere lezioni di canto e a leggere al cesso.

Oggi fischietto discretamente e mi sono fatto una cultura.

 

Gianluca ha finito di vagare, ordinatamente, fra i suoi ricordi. Bravo, però, niente male per un "ordinario"! Un ordinario, poi, che si trova a studiare lontanissimo da casa, libero come non mai, affrancato - magari per la prima volta nella vita - da una quotidianità probabilmente insulsa. È una bella incongruenza, voglio dire, per un tipo che ti sembra la quintessenza della banalità. Ed ora deve tornare al suo dovere qualsiasi, quando forse ha chiaro in testa che sarebbe meglio prolungare all’infinito questa vacanza, nel senso di "vacante" dalla solita vita. E invece, duttile ad ogni situazione , Gianluca fa ritorno a casa, magnificamente ordinario.

Per quel che riguarda i suoi occasionali compagni di viaggio, noi, siamo rimasti tutti ad ascoltarlo bevendoci senza sosta le minuzie con le quali ci catturava. Veramente il presunto barbone si è bevuto anche tutta la birra che mi restava (stoltamente gli avevo porto la bottiglia offrendogliene un goccio... ehi, ho detto un goccio!), ed ora da segni di approvazione diretti a Gianluca con un bel grugnito soddisfatto. Il Compito-Composto sorride. Giorgio è il primo a parlare: "Bella storia... coinvolgente...".

Interviene allora l’Impeccabile seduto alla mia destra, che sospira e dice: "Già, bel racconto, come era bello il suo, Giorgio. Ora però tocca a me. Volete sentire una storia che comincia molto tempo fa?".

Si gioca duro! Vuoi vedere che sono capitato in uno scompartimento stimolante? Comunque manca ancora molto a Madrid, perciò riprendo il controllo di questo stravagante puzzle di storie al quale sembra che ognuno di noi, senza eccezioni, debba prendere parte come protagonista di turno: "Certo, ora tocca a lei, signor... ?"

"Allevi, mi chiamo Marcello Allevi... la storia che voglio raccontarvi ha inizio nell’estate del 1937..."

 

 

Numeri

Carizzi r’amuri (Agricantus)

1. IL PRIMO APPUNTAMENTO

La sera sudava umidità, tanto era caldo quell'agosto 1937.

Eppure la signorina Garoppi gelava, nonostante fosse avvolta in panni morbidi e caldi, lana ed ermellino sulle spalle (neanche fosse una principessa! In effetti il titolo di cui si fregiava, la nostra Edda Garoppi, era quello di duchessa Delbrique).

Stava rannicchiata accanto ad una vecchia stufa di ghisa, la signorina Garoppi, tremando di freddo e di paura: freddo perché sentiva freddo (banale ma coerente) e paura perché si rendeva conto che non era ammissibile avere i brividi con 36 gradi di temperatura nell'ambiente, l'estate più calda a memoria d'uomo, la stufa accesa e tutti quei vestiti addosso!

Cosa stava succedendo, alla signorina? Covava qualche malanno? Eppure non era ammalata, la tosse non le torturava i polmoni come aveva fatto per tutto l'inverno e neanche il più piccolo starnuto turbava l'immobilità della stanza, né provocato da raffreddamento tantomeno di natura allergica. Neanche poteva temere insidie d'altro genere, nella tranquillità della sua casa, ove si sentiva sicura e protetta dagli spessi muri; nulla poteva spaventarla nel luogo che la ospitava ormai da settantadue anni nella pace più assoluta. Cosa le stava succedendo, dunque?

Cercò allora di mettere a frutto quelle poche nozioni scientifiche che ancora le restavano nel cervello, provando a razionalizzare la situazione: temperatura regolare + assenza totale di patologie o timori più o meno fondati + sensazione fisica di gelo ingiustificabile = ... con uno sforzo d'intuizione che quasi le costò l'ispessimento istantaneo delle arterie, improvvisamente capì. Comprese in quel momento che un unico motivo poteva farla rabbrividire in pieno agosto: erano quelli i sintomi tipici dell'ansia da innamoramento senile. Infatti, quella sera era atteso a Casa Garoppi l'uomo che ella bramava, che le aveva sconvolto l'esistenza al punto di farle indossare, sotto i pesanti abiti che curiosamente la proteggevano dallo sferzante gelo interiore, lingerie di pizzo profumata al gelsomino. Attendeva l'uomo che le aveva ridato la gioia del turbamento dei sensi: il signor Gaminella!

Il signor Gaminella era quasi pronto. Era una sera speciale per lui, che non aveva quasi toccato cibo a cena, tanta era l'emozione, e voleva essere perfetto.

Davanti allo specchio ammirava la riga, dritta e sicura come un ufficiale a cavallo, che, partendo sei dita sopra l'orecchio, divideva in due parti la sua folta capigliatura corvina, tre quarti a destra e un quarto a sinistra, emulando la chioma del condottiero di Braunau che dava certezze in tempi di precarietà. Il signor Gaminella, in un eccesso di patriottismo, una volta aveva provato a modellare la sua pettinatura cercando di somigliare al Supremo Palafreniere di casa nostra (l'Italia non è uno stivale, è un cavallo domato...), ma aveva troppi capelli per riuscire nell'intento. Così aveva ripiegato sul suo eroe tedesco, facendo di necessità virtù. E quale virtù si annidava in quella zazzera scolpita dalla lozione d’acqua e zucchero perché non un solo capello fosse fuori posto! Terminata la cura dei capelli passò all'abito!

Dio, come scendeva bene la giacchetta di velluto sulle brache corte di tela leggera!

Aggiustò con cura i fiocchi dei calzettoni e lucidò per la quarta volta i sandali, nell'estasi maniacale che ormai l'aveva fatto suo.

Un'ultima controllata, signori. Sì, era tutto a posto! Ora poteva presentarsi senza alcun timore agli occhi dell'amata. Scese in cucina per salutare la madre:

"Mamma, io vado!"

"Ma cosa hai messo, Genuflesso, il vestito della festa? E se lo sporchi cosa metterai domenica?"

"Non preoccuparti, mammina: starò attento..."

La madre si tranquillizzò: il signor Gaminella era molto giudizioso, nonostante avesse solo dieci anni!

L'incontro fu splendido!

Due poli che si calamitavano! Attrazione intellettuale ed affinità epidermica!

Dopo quel primo appuntamento ne venne un altro, e poi altri ancora...

I due cominciarono a considerarsi vicendevolmente indispensabili, scoprendo con dolcezza di non potere più fare a meno del piacere di stare insieme.

Parlavano, parlavano, si confidavano, si confidavano, e si consolavano, e si consolavano... e il freddo, che ogni volta assaliva la signorina nell'attesa dell'amante, lasciava il posto ad un estatico tepore. Il signor Gaminella, da parte sua, era sempre più affascinato dai modi e dalle forme della sua donna. Non confidò mai nulla agli amici, temendo di rompere l'incanto.

Mammina invece sapeva, lui ne aveva parlato, ma faceva fatica a concentrarsi sulla faccenda.

Fintanto che il ragazzo studia, che si distragga come preferisce...

 

 

2. SIMILITUDINI

La signorina Garoppi, anziana romantica sovrappeso, cosa poteva avere in comune con il giovane, pragmatico ed efebico signor Gaminella?

A lei piaceva leggere Rabelais, a lui gli albi a fumetti; lei ascoltava Puccini al grammofono, lui qualsiasi cosa passasse alla radio a tre valvole di mammina. Non c'era la minima relazione in tutto ciò! Certo, Rabelais, per essere uomo di lettere del XVI secolo, era abbastanza visionario, spiritoso e licenzioso da poter essere considerato (con molta buona volontà) progenitore dei fumetti. Ma tra la Tosca osannata nei teatri e Cosa farai di me di Belleli (un ebreo... mammina assicurava che non sarebbe durato altri dodici mesi) trasmessa dall'EIAR... qual era il nesso?

La signorina Garoppi si portava addosso qualche chilo in più rispetto allo standard estetico dell'epoca. Era piacevolmente morbida e rotonda... forse un po' troppo rotonda, ma se fosse stata secca e ossuta avrebbe certamente dimostrato un’età più avanzata. Invece era prorompente nella sua sana abbondanza. E, in un certo senso, anche sensuale... come può essere sensuale un vaso arrotondato e un po' sbreccato se paragonato ad una brutta riproduzione di qualche statua votiva etrusca, di quelle filiformi e dalla figura eterea.

Di certo il signor Gaminella la trovava piacevole, anche se non avrebbe saputo spiegarsi quale strana forza lo attirasse verso l'anziana signorina.

"Cosa mai ci legherà? Affetto? É possibile che essere affezionati significhi invischiarsi in questa paraffina sentimentale?" si domandava il signor Gaminella. Provò allora a soddisfare la propria curiosità prendendo in esame i cinque sensi:

"Vista... udito... tatto... gusto... olfatto... Sì, il nostro odore è molto simile!". A differenza della signorina Garoppi, quando Gaminella razionalizzava andava ben oltre l’aritmetica...

Effettivamente entrambi avevano addosso una fragranza animale molto piacevole e assolutamente naturale, ché il signor Gaminella non usava effluvi, irritanti per la sua cute, e la pelle dell'amata conosceva al più qualche aroma dozzinale, quasi sempre di gelsomino. Non c'era bisogno di profumarsi quando il loro odore li rendeva così interessanti!

Avevano, i nostri, in comune anche il sapore. Qualche effusione furtiva l'avevano pure scambiata, anche se entrambi non ne decifravano con precisione la natura, e si erano accorti che il loro sapore naturale, identico, aveva un che di liquirizia, ma più dolce, molto piacevole e conturbante. Naturalmente l'alito della signorina presentava ogni tanto punte di rancido, mentre quello del signore era più fresco, in ragione dell'età e del consumo costante di foglie di menta.

Ma in sostanza è bene ribadire che i due sapori erano pressoché identici, al pari degli umori.

Poteva dunque bastare così poco perché i due sentissero un’attrazione così forte? Potevano stimoli e sensazioni così primordiali accomunare due esseri in realtà così distanti l'una dall'altro?

Sicuramente tutto ciò era bastato perché i due scordassero che un'avventura così impegnativa li avrebbe probabilmente schiantati, in primo luogo perché era, è, e sarà un legame considerato sconveniente agli occhi di tutti (un po' anche ai loro), e poi perché tanti e tali impegni tenevano normalmente occupate le loro menti che trovare il tempo per stare insieme sarebbe stato arduo. Il signor Gaminella doveva studiare, almeno sei ore al giorno, italiano, latino, matematica, storia, geografia, scienze naturali e pianoforte. Inoltre c'era la partita di volano, la domenica dopo la messa, con i compagni di scuola. E non poteva per questo trascurare gli amici. Infine c'era il catechismo...

Da parte sua la signorina Garoppi aveva l'onere di accudire circa settanta gatti ed era membro del circolo letterario cittadino (fondato dalla buon'anima di suo padre, Dio l'abbia in gloria... tutti i giovedì dalle 20.30 in poi...). C'era poi la cerimonia del tè delle 17 (irrinunciabile!), per la quale si riunivano in casa sua una dozzina di coetanee.

Insomma... s'è capito! Non era stata la solitudine a far scattare la molla fatale dell'idillio.

A questo pensavano i due amanti, mentre, a modo loro, consumavano felici e turbati uno dei loro appuntamenti, sullo scomodo canapè nel salone della signorina, filosofeggiando sull'amore perfetto e valutando l'esibizione dell'ultimo soprano che aveva azzardato l'Un bel dì vedremo al Carlo Felice (ne parlavano tutti: si era presentata in scena avvolta nella bandiera del Sol Levante!).

I due amanti s’incontrarono, con una certa frequenza e sempre minore prudenza, per tutta l'estate. Ovviamente avevano buon gioco a fingersi nonna e nipote, quando venivano sorpresi da estranei. Quando il loro rapporto fu sulla bocca di tutti e decisero di fare a meno di vedersi in segreto, la loro storia divenne ancora più intensa e commovente. Così decisero di darsi del tu. Quei rendez-vous, sempre meno furtivi, erano i momenti più dolci e sinceri delle loro giornate.

Tra i due esisteva un’invidiabile parità.

La violenza era, per forza di cose, sconosciuta.

"Ti amerò per sempre, Edda..."

"Per sempre lascialo dire a me, mio adorato!"

 

 

3. UN FIGLIO

La signorina Garoppi, pur essendo stata oltraggiata dalla menopausa da oltre quindici anni, non conosceva senescenza nella libido. Certo, in quegli ultimi tre lustri aveva, con infinita tristezza, accettato che qualcosa in lei cambiasse irrimediabilmente: quella fastidiosa riduzione della peluria pelvica, che invece di incanutire come quella del capo semplicemente scompariva; il ciclo mestruale che, dopo averla fatta penare per tanti anni, non arrivava più (dopo tutto quel tempo una si affeziona, diamine!) e le ghiandole di tutto il corpo che secernevano liquido con estrema parsimonia. Tutti segni della vecchiaia, ahimè! Per qualche anno era stata assolutamente neutra dal punto di vista olfattivo, con le ascelle secche ed il sudore che diventava un ricordo perso nel tempo; poi, quasi miracolosamente, aveva riacquistato quel suo odore naturale che tanto affascinava il signor Gaminella, ben distinguendosi dalle sue coetanee, che potevano al più vantarsi di puzzare di cipria ammuffita.

Insieme all'odore la signorina aveva ritrovato anche quel soave stato dell'anima proprio degli innamorati, nella forma della forte passione che le scatenava il pensiero del signor Gaminella: una passione simile, era certa, non l'aveva mai conosciuta prima, pur avendo avuto altri amanti, in gioventù, sentimentalmente instabile com'era.

A 18 anni, nel 1881, conobbe Lodovico Mombello, di nobile stirpe e proprietario della terra che dalle colline scendeva fino al fiume. Lodovico era ben visto in casa Garoppi, ed i preparativi per il matrimonio già fervevano quando il mascalzone pensò bene di eclissarsi, seguendo le lusinghe di una nave destinata a sbarcare in America. Non essendo egli un eroe dotato di grande spirito d'avventura partì dopo avere venduto tutte le sue proprietà e depositato i genitori dalla sorella (ben accasata a Torino), carico di denaro come un nababbo. In America il Mombello fece fruttare bene il già ingente capitale procurandosi un'agiatezza che la sua ex-fidanzata non poteva certo immaginare. Le proprietà vendute dallo sciagurato giovanotto furono rilevate da un certo Manlio Pozzengo, nel 1886. Era costui un allevatore che aveva fatto fortuna commerciando disinvoltamente con prussiani ed austriaci, procurandosi un po' di rancore da parte dei concorrenti e una quantità spropositata di denaro dai clienti teutonici. La signorina non ci mise molto tempo a far innamorare di se il Pozzengo, forte com'era della purezza del suo sangue (l'allevatore bramava il blasone, che avrebbe santificato la sua inarrestabile ascesa sociale) e fortissima degli attributi fisici: a 23 anni la signorina Garoppi non era certo più una bimba, ma i suoi occhi azzurrissimi, la sua corporatura snella e due seni golosi avrebbero incantato chiunque. Ma la sventurata storia con il Mombello girava velenosa per il borgo, perciò il buon Pozzengo, che voleva sì una moglie nobile e bella ma la voleva anche vergine, si ritirò in buon ordine, pagando una penale alla famiglia Garoppi e sposandosi, in vecchiaia, con la signora Paola Avola-Mazza, vedova Boiron, che venne dalla capitale per conoscere il futuro consorte e presentarlo ai suoi due figli. Allora il Pozzengo aveva 57 anni e non faceva più storie (in compenso era una "potenza" economica).

Tornando alla nostra povera signorina Garoppi, ormai, con due quasi-matrimoni alle spalle, era impensabile per lei sposarsi, avendo oltretutto varcato l'età che la decenza considerava accettabile per maritarsi. Nel 1889 conobbe un tapino qualsiasi, tal Osvaldo Morsingo, stalliere. Bel tipo, giovane, robusto, infaticabile amante, molto passionale. Fu lui ad insegnare alla signorina che alcuni piaceri passano attraverso vie secondarie e bussano alla porta di servizio. Furono amanti per circa quattro anni, vedendosi nei fienili di casa Garoppi o possedendosi lungo il fiume, le cui anse riparavano gli sfrontati da sguardi indiscreti. Poi tutto scemò, agonizzando per qualche mese tra frequenti scenate in vernacolo e rari coiti stanchi, e i due presero a vedersi più raramente, finché le ruote di un carro senza controllo non stroncarono le smanie amorose del giovane. Il fatto suscitò una certa impressione: all’epoca gli incidenti mortali sulla strada non erano così frequenti. Si moriva del Brutto Male, di tisi, di parto, in guerra, a volte d’inedia; raramente di morte naturale o, appunto, a causa di un incidente stradale...

Passarono molti anni prima che la signorina potesse godere ancora delle gioie della carne, finché 1901 fece la conoscenza di Agonay Samim Kantuntzury, un suddito asiatico dello Zar che faceva il commesso viaggiatore, che ronzò attorno (e tra) le sottane della signorina per un paio di volte. Anche quel signore olivastro e educato, come già il giovane stalliere, fece fremere (ed appagò) i sensi della signorina senza che l'amore, inteso come batticuore piuttosto che come amplesso, facesse capolino nell'avventura. La signorina Garoppi credette allora di essere sentimentalmente diversa da tutti gli altri suoi conoscenti, e fu per lei una conferma la forte passione che la infiammò - siamo ora nel 1909, quarantasei anni d’età - per la bella Margherita Zenevreto, figlia adolescente dello scambista di una vicina stazione ferroviaria. Margherita, che la signorina chiamava leziosamente Daisy, era gentile e disponibile con la sua nuova amica, la benefattrice che le insegnava tante cose e le comperava scarpe e scialli. Edda Garoppi, che fraintese gentilezza e gratitudine, credette proprio di essersi innamorata! A questo punto la signorina doveva osare, doveva prendersi delle confidenze che confermassero le sue brame amorose. Portò con se una volta la ragazza a spasso in città, su richiesta di quest'ultima. Il cuore in tumulto, la signorina non osava sperare che i suoi sentimenti, ritenuti quantomeno stravaganti dai più, fossero condivisi dall'oggetto del suo amore. Infatti, ad un bel momento, si presentarono alle donne due tizi corpulenti: il primo poteva avere vent'anni e il secondo una cinquantina. La nostra disgraziata signorina seppe allora che si trattava del fidanzato segreto di Margherita e del di lui padre, vedovo, che avrebbe volentieri conosciuto l'amica della morosa del figlio. Per i successivi tre mesi non seppe più nulla di questi personaggi. In seguito qualcuno, maliziosamente, le fece sapere che i due giovani si erano sposati. Finì così il periodo di presunta omosessualità della nostra sventurata eroina. Che, come si è potuto costatare, non era certo indifferente al richiamo dei sensi, e nemmeno all'attrazione per la gioventù.

Poi, da quel triste 1909, non ebbe più altre relazioni, e con immensa fatica ne stette volontariamente lontana... fino all’estate 1937, fino al signor Gaminella.

I due stavano deliziosamente fondendo anima, corpo e intelletto in uno dei loro furtivi e intensi incontri, quando dalle labbra della signorina Garoppi sgorgarono spontanee le parole fatali: "Genuflesso, voglio un figlio". Utopia da vecchia zitella.

Gaminella restò interdetto, come è ovvio che sia. Non aveva la più pallida idea di come si facessero i figli - se escludiamo qualche leggenda che s’insinuava fra i banchi di scuola - e anche se lo avesse saputo non sarebbe ancora stato in grado di concepire un pargolo, e poi come avrebbe mai potuto accontentare una donna in menopausa da quindici anni? Queste sono naturalmente domande che si pone il cronista e che, al momento, non vennero in mente a Gaminella. Ma lui aveva la certezza che esaudire il desiderio dell'amata sarebbe stato il suo unico scopo per l'avvenire. Allora azzardò: "Cerchiamo sotto il cavolo... dai... oppure chiediamo a qualche cicogna". Questo era quanto era riuscito a strappare a mammina in fatto di procreazione. Ad informazioni così approssimative faceva da contraltare la sua assoluta decisione: "Dobbiamo avere un figlio, Edda". Era così teneramente innamorato!

La sua compagna, altrettanto dolcemente infatuata, sorrise e lo prese per mano, decisa a portare alla fine quel gioco magico, ben cosciente che di gioco si trattava.

Stava facendo sera, una sera di inizio autunno, e i due uscirono verso il campo dei cavoli dietro casa Garoppi, dove, per tutta la notte, e con diversi stati d'animo, attesero il lieto evento. Gaminella non aveva mai passato una notte lontano da mammina, ma non lo sfiorò neppure il pensiero che la sua assenza poteva atterrire l'intera famiglia. Fu una notte di dormiveglia e sussulti. Al sorgere del sole i due si addormentarono, risvegliandosi dopo una sola ora con le ossa fradice e l'irrefrenabile desiderio di tornare a casa. Sulla via del ritorno attraversarono una zona limacciosa del fiume dove nidificavano dei trampolieri. Cercarono affannosamente il loro bambino fra le cicogne, ma non era nemmeno lì. Gaminella cominciò a sospettare che cavoli e cicogne c'entrassero poco con i figli. I due amanti non si parlavano più, tanta era la delusione che occludeva loro la gola. Certo, la signorina sapeva che lì non avrebbero trovato nulla, ma era così bello sognare... "Eppure DOBBIAMO avere un figlio, tu ed io..." affermò deciso Gaminella, serrando i minuscoli pugni, giunto quasi sulla soglia di casa Garoppi. Fu allora che si accorsero del piccolo fagotto depositato sull'uscio. Il fardello conteneva un pupo e un biglietto che, con grafia incerta e grossolana, diceva "Abbiatene cura - che Dio vi benedica - siete la Provvidenza", o qualcosa di simile. Senza passare in visita alla ruota degli esposti dell'abbazia di San Fortunato i due innamorati avevano ricevuto un figlio in adozione!

"Ci sono riuscito!" gridò Gaminella, saltellando davanti l'involto che sarebbe diventato il loro bambino.

"... già, ci siamo riusciti..." mormorò la signorina, che un po' ci credeva..

Il Cielo aveva beatificato la loro unione donando loro un figlio, quel maschietto denutrito di circa otto giorni. Decisero su due piedi che si sarebbe chiamato Ovidio Tito Livio, in onore alla romanità imposta dalla moda (e dal regime) dell'epoca. Poi la signorina, con un guizzo di realismo e memore di un viaggio a Napoli, pregò il signor Garoppi di aggiungere un nome al loro bambino (che perciò fu in seguito battezzato Ovidio Tito Livio Esposito Gaminella, ma tutto ciò venne in seguito... erano tempi d’incertezza, quelli... provvisoriamente Esposito era noto solo a loro due e, come vedremo, alla madre di Gaminella).

Genuflesso salutò la sua donna e tornò a casa con il trovatello. Lì rinvenne mammina in lacrime, con un bastone a portata di mano. Il legno stava per abbattersi sul volto estatico del piccolo quando quest'ultimo spiazzò il braccio vendicatore della madre urlando: "Ti ho fatto nonna!"... e rideva, l'incosciente. La madre stramazzò al suolo.

 

 

4. COMPLICAZIONI

Quando la signora Gaminella si riprese, il figlio saltellava ancora intorno alla cesta, in preda ad un'euforia che la madre faticava a riconoscere nel suo bambino. Sistemarono il neonato nella culla che fino a pochi anni prima aveva ospitato Genuflesso e lo nutrirono del latte di balia di Matilde, la figlia del casaro.

"Dai, mamma, teniamolo, tanto Amedeo è partito e la sua camera è vuota... è mio figlio!".

La madre, disperata, raccolse il viso tra le mani e sospirò: "Non è un cucciolo, Ge, e non è neanche tuo figlio... ma... e la madre?".

"La signorina Garoppi, la mia fidanzata!" esultò il piccolo Gaminella.

"La signorina Garoppi? Dio del cielo! È... è... è orribile, Genuflesso, è orribile!!!" ormai la donna singhiozzava: "Tutti uguali, voi Gaminella, sempre a cercare sottane più vecchie...già tuo padre, Dio non voglia che ora ci guardi, mi sposò che era più giovane di me di tre anni. Tuo fratello Amedeo, prima di partire, ha messo incinta la nostra povera Matilde, che ha quasi ventun'anni, due più di lui, e dovrà sposarsela al ritorno... e ora anche tu, bambino..." la poveretta rischiava di soffocare tra i singulti.

"Mamma, dobbiamo tenerlo, è mio figlio... dì a Matilde di preparare la camera di Amedeo!" Gaminella irradiava una luce vivida dal volto.

Fu impossibile contraddire un'affermazione così perentoria e contemporaneamente serena. La decisione era presa. Esposito venne sistemato nella camera di Amedeo e da quel momento fece parte a tutti gli effetti della famiglia Gaminella, conquistando poi il diritto a considerarsi unico effettivo inquilino della stanza in quanto il legittimo proprietario non fece più ritorno a casa per parecchi anni.

Amedeo Gaminella, 19 anni in quel 1937, fratello di Genuflesso, era partito per la Spagna con le brigate nere a sostegno di Francisco Franco (era un vero combattente lui, già distintosi l'anno prima in Abissinia). Era partito con tutta la classe del liceo G. B. Perasso di Genova, tutti con le camice nere tranne uno, tal Sauro Fabiano, che era andato, insieme al padre Fabiano Fabiano e tre zii, a combattere insieme agli anarchici, sempre in Spagna ma dall'altra parte della barricata. Nessuno di loro tornò a casa (eccetto Amedeo, ma, rocambolescamente, dopo molti anni e cantando Valsesia) risparmiandosi così Albania, Grecia e Russia gli uni e il confino, l'esilio e i lager gli altri, nonché parecchi mesi in montagna a fare i ribelli, e lì avrebbero combattuto tutti dalla stessa parte, se non si fossero scannati a vicenda a Guadalajara. Conobbero le note di Ay Carmela senza fare in tempo ad intonare Fischia il Vento.

Dunque Esposito aveva trovato la sua provvidenziale sistemazione.

Il giorno dopo, di mattina presto, Edda Garoppi si presentò da mamma Gaminella, assicurandola che avrebbe senz'altro provveduto al mantenimento economico del pupo, nella maniera più discreta e meno sconveniente possibile. Inoltre le sarebbe tanto piaciuto salutare Genuflesso... Naturalmente non le fu permesso di vedere il precoce ragazzino, che nel frattempo era stato relegato in camera sua con le gelosie sprangate. La nostra Edda fece allora mestamente ritorno a casa, tantopiù che, disse a mammina Gaminella, le doleva parecchio il capo ed accusava una certa nausea.

"Avrà preso freddo, stanotte, signorina Garoppi!" osservò ironica la ben più giovane signora Gaminella.

Effettivamente da qualche giorno, alla nostra sventurata Edda, doleva la schiena.

Sulla strada di casa venne assalita da un tremendo dolore al basso ventre che quasi la piegò in due!

Salì i gradini di casa di corsa, diretta in bagno. Quando si fu chiusa dentro e si fu spogliata rabbrividì alla vista di tutto quel sangue che le inzuppava il sottogonna. Tamponò quell'impossibile emorragia come da oltre quindici anni più non faceva e, lentamente, lo sbigottimento prese il posto dell'orrore primordiale che la visione di un mestruo incomprensibile le aveva provocato.

Fu invece repentino il passaggio dallo sbigottimento all'euforia. E fu un'euforia incontrollabile: non era possibile! Era tornata in possesso della sua antica femminilità! Corse a guardarsi allo specchio: le rughe regredivano, la cartapecora del volto si stirava, lasciando spazio al bel profilo-pesca della Edda d'antan, invidiata per anni in grazia del suo splendore. In testa si facevano largo alcuni robusti fili neri tra la massa dei capelli bianchi, con sempre maggior prepotenza, e tra le gengive un tempo vizze erompevano denti candidi (il tutto era molto doloroso, ma la Garoppi piangeva di gioia, sopportando quel male miracoloso). Si osservò le mani, rosee e prive di quelle picchiettature marroni che facevano tanto vecchia saggia. Questa sorta di gioiosa metamorfosi, che durò alcune ore, fece provare alla signorina Garoppi un brivido di piacevole terrore descritto perfettamente nelle prime parole ch'ella pronunciò, esausta, quando il tutto fece per calmarsi: "Quando mi vedrà Genuflesso!"

Come detto il signor Gaminella era stato confinato nella sua stanza, privato della luce e della radio di mammina, a tempo indeterminato, nutrito ad ore stabilite dalla Matilde attraverso la porta socchiusa, onde impedirgli di procurare ulteriori danni.

Misurava con i suoi passi la stanza, vestito solo di un enorme camicia da notte che già era stata di Amedeo, quando un rumore sordo ruppe il silenzio imperante nella camera, buia e ovattata. Era caduto qualcosa sul pavimento. Carponi il signor Gaminella tastò, cieco, in direzione della mattonella sulla quale doveva essere caduta la cosa, e fra le mani si trovò la borchia metallica che chiudeva in vita il camicione, saltata perché la cintura non riusciva più a contenere un fisico che stava crescendo velocemente. Gaminella fu colpito da una fortissima vertigine, tanto che dovette sdraiarsi a terra. Si dibatteva sul pavimento come fosse epilettico, mentre il vortice nella sua testa aumentava di intensità e un fuoco interiore gli ardeva il corpo, e dopo il fuoco un lieve prurito su tutta la pelle, e dopo il prurito un'onda calda gli scuoteva le gambe e l'addome. Tutto durò circa un'ora. Quando, ancora intontito, si alzò per dirigersi in bagno e nettarsi del sudore che l'aveva avvolto, notò, nella penombra, che il letto si era abbassato! Davanti al lavabo stentò a riconoscere come suo il volto malrasato che lo specchio gli rimandava. Il riflesso di un bel giovane, accidenti!

"Quando mi vedrà Edda!"

I due non si incontrarono per altri due giorni, durante i quali si ripeterono questi attacchi miracolosi che stabilizzarono le loro fattezze. Se per Edda Garoppi fu facile evitare di essere vista, in quei giorni, inventando malesseri sussurati attraverso la porta alle amiche in visita, più arduo fu per il signor Gaminella convincere Matilde a lasciargli i pasti sul tavolo senza entrare nel bagno, dove lui si nascondeva. Ma le stranezze di Gaminella non impressionavano certo più la donna che cresceva in grembo il figlio di Amedeo.

Al terzo giorno Gaminella decise che era giunto il momento di prendere il toro per le corna. Scese dalla sua stanza verso la cucina. La madre lo vide ed esclamò: "Amedeo!"

Una bella voce baritonale rispose: "Sono Genuflesso, mammina".

Per la seconda volta, in pochi giorni, la donna svenne.

Genuflesso si presentò a casa Garoppi che era circa mezzogiorno. Gli venne ad aprire una ragazza molto graziosa. Lui la riconobbe subito: "Edda...".

"Ti aspettavo, amore...".

Naturalmente non c’è da stupirsi del fatto che i due amanti avessero dato per scontato che la benedetta faccenda fosse accaduta ad entrambi, ed avessero atteso con bramosia il trascorrere di quei tre giorni: non poteva essere altrimenti!

Crollarono l'uno nelle braccia dell'altra, e poi l'uno sotto le coltri dell'altra, e poi l'uno, intimamente, nell'altra.

Pur non avendo fatto in tempo ad erudirsi circa l'arte amatoria, Gaminella, istintivamente, fu perfetto. Restarono praticamente avvinghiati per quasi quattro mesi.

Al quinto mese la signorina Garoppi scoprì di essere incinta.

"Partiamo, Genuflesso, facciamo nascere nostro figlio lontano da qui..."

"Si, Edda, saremo noi tre soli... mia madre ormai si sarà fatta una ragione della mia assenza, spero..."

"Ma, Genuflesso, ed Esposito?"

"Mia madre ha bisogno di un piccolo da accudire, hai dei soldi da lasciargli?"

"Ne ho per lui e per noi, e tanti!"

Non si seppe più nulla di quella stravagante coppia, ma si immagina siano vissuti, come si dice, felici e contenti...

 

 

A questo punto Marcello inarca le sopracciglia e si concede una bella pausa. Salta il tappo di una Schweppes. Evidentemente questa storia ha messo sete a Gianluca. A me invece ha messo una grande curiosità! Come c’entrano quei personaggi nella vita dell’Impeccabile? Anche gli altri mimano belle espressioni a punto interrogativo. Evidentemente conscio di non avere appagato il suo pubblico, Marcello si slaccia un bottone del colletto della camicia e riprende:

"Non è finita qui: la fanciullezza di Esposito trascorse senza ulteriori traumi. Mammina Gaminella lo accudì fino ai sei anni di età del piccolo, quando una polmonite la schiantò, non prima, però, ch'ella avesse, con regolare testamento, assegnato al piccolo tutte le sue proprietà, che venivano a sommarsi al denaro lasciato dalla signorina Garoppi prima della sua fuga d'amore. Alla fine della guerra, con la confusione a regnare sovrana, venne dato per acquisito lo stato di legittimità del cognome Gaminella sul capo di Esposito (ormai tutti lo chiamavano così) Nel frattempo era tornato a casa anche Amedeo, che gli eventi bellici avevano condotto a diventare un rispettato capo del CLN. Esposito perse così il potere sulle terre dei Gaminella in favore del legittimo proprietario, Amedeo appunto, la cui sola ricomparsa rendeva nullo l'effetto del lascito di mammina in favore di Esposito (interdizione postuma, fu detto). Allora a ventun'anni Esposito si sposò, dopo avere venduto tutte le proprietà lasciategli dalla signorina Garoppi, le poche che gli furono concesse per grazia di Amedeo che, da abile uomo d'azione qual era, riuscì a dimostrare con un colpo di mano magistrale l'indissolubilità del lascito Garoppi verso le terre dei Gaminella. Esposito decise che il suo destino non poteva consumarsi in quel borgo di provincia, e, con la moglie, cominciò a peregrinare per un'Europa attonita. Era il 1959. L'anno dopo nacqui io. Mia madre aveva allora trent'anni ed Esposito, mio padre, ventitre. Viaggiarono per un paio d'anni grazie al denaro Garoppi, stabilendosi poi a Évora (a Salazar piacevano gli stranieri danarosi, o presunti tali, che venivano incentivati ad insediare aziende in Portogallo), ed acquistando un cotonificio. L'azienda fallì subito, e subito tornammo in Italia, prendendo residenza a Torino, dove mio padre trovò occupazione in fabbrica. Intorno al 1967 tutti e tre andammo in un borgo sulla collina, a trovare un signore, più vecchio di mia madre, e che mi venne presentato come Zio Amedeo. Poi, insieme, mi raccontarono la storia, più o meno come io l'ho riportata.

All'inizio la visita fu piacevole, trasudante di affettata cortesia. Poi qualcosa si guastò. Credo che mio padre avesse programmato la visita ad Amedeo Gaminella nella speranza che potesse, e volesse, risollevare la nostra disastrata situazione economica, in virtù di chissà quale affetto familiare. Invece Zio Amedeo, che amministrando con saggezza il patrimoni di Casa Gaminella era diventato un agiato viticoltore, sposato con una donna molto giovane che chiaramente non si chiamava Matilde, con due figlie e due figli, respinse le pressanti richieste di mio padre, intimandogli di non farsi più vedere. Quando una delle sue bambine gli chiese chi mai fossimo noi, lui rispose sprezzante: "...operai...classe in estinzione...". Così mio padre non tornò a fare il possidente e nemmeno il benestante. Finì la sua carriera di operaio sopravvivendo a licenziamenti e cassintegrazioni. Ora si ritiene fortunato ad essere pensionato FIAT con quiescenza maturata dopo trentacinque anni completi di fabbrica.

Di Zio Amedeo, non ho mai più sentito parlare; da quel momento in casa nostra fu vietato anche solo accennare al distinto agricoltore. Nel 1975 cambiammo cognome in Diotallevi, e poi semplicemente Allevi.

Però una delle figlie del Gaminella, la prima, quattro o cinque anni più di me, era proprio bella, con due seni che facevano sognare anche il fanciullo che allora ero (sarà l'aria della collina che modella quelle forme?)

Magari un giorno passo a trovarla..."

Ora l’Impeccabile ha davvero finito, e io trovo il tempo per meditare un po’ su quanto si stia rivelando impagabile questo viaggio. Che personaggi!.

Ogni volta che qualcuno smette di raccontare mi accorgo che intorno l’atmosfera è calda e familiare, sa di camino acceso e tappeto morbido, vecchie sedie a dondolo e pioggia contro le finestre.

In effetti fuori piove, e le gocce rigano con discrezione il vetro, disegnando traiettorie violente come bufali impazziti in una prateria smerigliata.

Ma sto divagando solitario, e sento il preciso dovere di riprendere il filo con gli altri, macchinista di questo fiume di parole viaggianti.

"Allora, signor Marcello, lei è tornato in Portogallo perché ha ancora qualche affare a Èvora?" dico, memore del cotonificio paterno fallito.

E Marcello: "No, non ho più niente in Portogallo, tranne forse qualche fratellastro o sorellastra...sa, mio padre era molto attivo all’epoca, e non si formalizzava riguardo al letto dove passava la notte, né tantomeno - non proprio lui - circa la legittimità della prole… no, sono stato in villeggiatura!"

No, eh no, cazzo, no! Villeggiatura! Ferie, vacanze, viaggio, turismo piuttosto, ma non villeggiatura, che mi ricorda quando morì mia nonna e la mamma mi disse: "È andata in villeggiatura..." e io risposi: "Sì, e dove? In montagna?", indicando il cielo con un dito. Ero piccolo ma perspicace, e macabro, come direbbe Gianluca.

Comunque Marcello Allevi vuole che qualcuno continui a raccontare, perciò, rivolgendosi al Compito-Composto chiede: "E lei signore, non ha nulla da raccontarci? Dal suo aspetto la si direbbe una persona con un’infinità di storie da narrare..."

L’estatico signore si toglie gli occhiali e, levando gli occhi al cielo dopo esserseli abbondantemente stropicciati, sussurra: "Bene, signori, sapevo che sarebbe toccato a me, prima o poi, e ne sono felice... felice. Mi chiamo Alberto, ed il mio compito è cercare la felicità... la FE-LI-CI-TA’... bello, vero? L’ho trovata? Errando solitario l’ho certamente intravista, sono scivolato, facendomi fluido, in una quantità impressionante di vite, e da ognuna ho sbocconcellato brandelli di felicità, cercandola assoluta e immutabile..."

Alberto l’estatico mi sta facendo venire un crampo alle mandibole per evitare lo sbadiglio!. Vorrei sentire storie curiose, non paranoie metafisiche. Devo riprendere in mano la situazione. Meglio metterlo alle strette, così ci caviamo il dente: "Allora, signor Alberto, lei è felice?"

 

Briciole di felicità

Boeves Psalm (Lars Hollmer)

Vorrei che mi chiedeste se sono felice... e quale meraviglia provereste, figli miei, constatando che le lagrime mi bagnano le gote al sol pensiero della felicità.

No, non sono felice, e faccio peccato, e questo mi angoscia, perché avrei ben donde d'esserlo. Invece mi sento schiantare le ossa dall'orrore, anche se lavoro e guadagno molto denaro, spendendo una giusta parte dei miei averi e del mio tempo portando sollievo a chi soffre, e continuamente studio con profitto, anche se ho una moglie amata e bellissima, una robusta salute e voi, figli miei, mi riservate solo gioie e soddisfazioni... ma come posso essere felice, odorando i mali del mondo?

Felice io?

Certo che lo sono!

E chi sta meglio di me? Non ho un lavoro fisso e posso spendere la maggior parte del mio tempo all'osteria (il mio luogo di ritrovo preferito, secondo solo al bordello di Madame, che però frequento di rado perché non ho mai soldi... del resto non sento più attrazione per la carne), non ho una moglie rompiscatole tra i piedi, ché la mia mi abbandonò molto presto e, se Dio vuole, anche la salute va benino, eccetto beninteso questa fastidiosa escrescenza epatica e la tubercolosi.

Certo, a volte mi rammarico per i tre figli che marciscono in galera, i due disoccupati e per quello che ho perso in guerra, ma almeno ho una tomba sulla quale piangere e scolare bottiglie di sambuca!

Dio, se sono felice.

Beh, felice... proprio felice forse no... tranquillo, ecco, tranquillo sì!

Sai, non capita niente che ravvivi le mie giornate, qualcosa di importante, da ricordare. Però se non capita niente non c'è neanche nulla da temere, no?

Ora mi spiego: ho fatto fatica a trovare lavoro, ho penato per sposarmi e per assicurarmi la fedeltà di mia moglie, forse ci sarà un figlio in programma per l'anno prossimo e quest'estate andiamo in vacanza all'estero. Già, non è molto, ma c'è di peggio, vero?

Massì, sto bene...

Eh? Cos'è? Una specie di intervista! Guarda che se mi devi vendere le biro dei drogati io l'ho già prese l'anno scorso! Felice? No, mi chiamo Umberto, non conosco nessun Felice... Ah, vuoi dire contento? Beh... aaah... mah... forse sì...che ne so? Dai, che ci ho da fare!

Sì, sarei veramente felice se, anche quest'anno, mi venisse l'influenza! Oh, dieci giorni a letto, tranquillo, col naso otturato e la gola moderatamente indolenzita, ogni tanto un po' di mal di testa; coccolato e al caldo, lontano mille miglia dai clamori dell'universo che, perennemente, mi assillano.

Volendo potrei anche morire, così da raggiungere l'unico posto che mi compete. Ma temo che Caronte, o chi per lui, difficilmente accetterebbe di traghettarmi nel limbo, e se mi portasse altrove, addio riposo!

Perciò aspetto una breve malattia che non danneggi troppo il mio corpo (è così volubile che tra breve tornerà allegro e voglioso di vita), ma che, sorella della morte, ristori per breve tempo il mio spirito agonizzante.

Sapete, è la mia professione a rendermi felice! Io lavoro col ferro, ma non sono nella siderurgia, tantomeno gioco a golf e nemmeno sono un killer. Il ferro con il quale lavoro non mi serve per stirare o per lavorare a maglia... io sono un divertissement des femmes, amici...

Io di mestiere faccio il giullare, non posso essere triste se devo far ridere gli altri!

Già, allegria e felicità non sono proprio la stessa cosa ma il buon umore c'entra sempre, no? Come faccio a non essere di buon umore se la gente che ride per quello che faccio o dico è più ridicola della mia immaginazione?

Lo so, il roshi continua a ripetermi che dovrei essere felice, che dovrebbe bastarmi la passione che ho per la pittura per vivere bene e farmi sentire in armonia col mondo, anche quando non posso prendere i pennelli in mano. E consolarmi, quando sono impegnato nel mio lavoro ripugnante che nulla ha a che vedere con la pittura e che mi obbliga a starne lontano, pensando al momento in cui mi metterò davanti alla tela. Ma non ci riesco. Non sono ancora pronto. Perché, vedi, il resto della giornata incombe, nero avvoltoio, volteggiando sulla mia testa…

A domanda sciocca…

 

Le schizofreniche farneticazioni del signor Alberto hanno strappato un sorriso beffardo persino allo pseudo-barbone seduto accanto al finestrino, il ciucciatore di birra (la mia).

Mi avvedo solo ora che ha una dentatura strana, candida e completa ma particolare. Ha piccoli incisivi aguzzi e grossi canini.

Il suo sguardo incrocia il mio, mentre il treno continua a dondolarci in questa notte insonne, e non è uno sguardo che mi lascia tranquillo.

L’uomo comincia a parlarmi, lentamente, e per la prima volta non sento sgorgare imprecazioni dalla sua bocca, ma un discorso coerente:

"Non temere, ragazzo. Hai visto giusto: sono un poco diverso da voi, e definirmi "uomo" sarebbe una forzatura, ma ho ben altro da fare piuttosto che importunarvi, poveri compagni di un viaggio facile. Mi piacerebbe solo raccontare una storia, del resto l’avete fatto tutti... posso?"

Sono scosso, ma ad una richiesta fatta con tale garbo non si può certo dire di no. Guardo gli altri che, impietriti, annuiscono col capo, e - coniglio - rispondo: "Signore, mi sembra il minimo, dopo avere avuto la pazienza di ascoltare le storie di tutti, che anche lei ci conceda il privilegio di..."

Mi interrompe, l’uomo-canide, con una fermezza assolutamente priva di aggressività: "Per favore, ragazzo, bando alle formalità; chiamami Ramon e niente "signore"... quanto agli altri... ascoltate solo questa storia e non abbiate paura... spaventa solo me, di solito!"

 

Una serena notte d’estate

Ussa sà (Acquaragia Drom)

 

Quella che vi sto per raccontare è una leggenda terrificante.

Ma piena di fascino... fa venire i brividi a tutti i lupi del mondo, anche a quelli vecchi e pieni di cicatrici come me. Siamo noi i primi a raccontare o ad ascoltare questa storia a fauci spalancate, inebriati dall’orgasmo che solo la paura sa regalare. Io, per esempio, ogni volta che la racconto perdo il sonno per tutta la notte, leggenda o verità che sia... non c’è niente da fare... non riesco più a dormire!

La vicenda narra di un giovane lupo che, attardatosi e lasciato indietro dal branco, perse la via di casa e venne sorpreso dalle tenebre in mezzo al bosco, molto lontano dalla tana. Era una notte estiva molto luminosa, eppure un’oscurità innaturale aveva improvvisamente disorientato il cucciolo, facendogli perdere il contatto con i suoi compagni. La notte, come dicevo, era luminosa, se escludiamo la zona buia dove, improvvidamente, si era cacciato il lupacchiotto, luminosa e molto calda per i lupi, con la luna piena a rischiarare un cielo altrimenti nero come il futuro del pianeta. Inutilmente il giovane ululò ai compagni di aspettarlo: il branco aveva fretta di tornare alle tane e tutti i lupi, saziati da una battuta di caccia molto fortunata, scherzavano tra loro, non prestando attenzione alcuna a quei disperati ululati. Troppa era la voglia di tornare, al più presto, tra le fresche, nude pareti della tana, al riparo da quella malefica luna piena (che, è noto, provoca una fastidiosa allergia, un’eruzione cutanea che indurisce il pelo e irrita la pelle... )

Ebbene, ciò che non poterono gli ululati del disperso poté un secco colpo di fucile, che venne distintamente percepito da tutti: all’istante il branco si immobilizzò.

"Cazzo è ‘sto colpo?" disse allora il capo branco irrigidendosi, prontamente imitato dagli altri (l’emulazione del condottiero non è prerogativa solo delle pecore.) che, a pelo ritto, cominciarono a mormorare:

"Cos’è stato?... Chessuccede?... Checc’è?... Da dove viene?... Cosa sarà stato?... Un colpo... un colpo... un colpo... (sembrava la valle dell’eco)... Uno sparo... uno sparo... uno sparo! Uno sparo? Un uomo! Un uomo? Un uomo! Cazzo, un uomo!"

La prospettiva di trovarsi braccati da un uomo armato gettò il branco nella confusione più totale. Qualcuno suggerì la solita ritirata a rotta di collo, e tutti erano assolutamente d’accordo, quando il Bigio, che da giovane aveva fatto il partigiano spingendosi fino agli ovili del villaggio ("Noi lupi siamo brutti/ma la fame ancor di più", cantava allora il Bigio), si accorse che non c’erano TUTTI!

" Fermi, manca il Piccolo!"

Perplesso il branco si squadrò e si contò... eh, sì, mancava proprio il Piccolo:

Ma lui aveva urlato la sua disperata solitudine, e voi non sentivate!

Il fatto che mancasse qualcuno contribuì ad incrementare il terrore che aveva ormai invaso tutti. Il branco ruppe le file e, disordinatamente, prese a salire in direzione delle tane.

Tutti, tranne il Capo, il Bigio e Bécassine, la madre del piccolo, una svampita che solo ora si accorgeva dell’assenza di suo figlio (e dire che tra i lupi le cure parentali sono sacre).

Prudentemente tornarono sui loro passi, ventre a terra, scambiandosi rapide occhiate mentre strisciavano guardinghi. Sudavano nell’afa notturna, ed era un sudore freddo, di paura, che li faceva tremare in modo incongruente. Ulularono a bassa voce per chiamare il Piccolo ma nessuna risposta fece eco alle loro invocazioni. Ululavano talmente piano che avresti potuto scambiarli tranquillamente per dei partecipanti al raduno delle volpi afone, altro che i tre splendidi esemplari di lupo quali in effetti erano!

Dopo un po’ di tempo la loro ricerca venne premiata, sempre che si possa considerare un premio lo spettacolo al quale dovettero assistere: il corpo del Piccolo, ormai senza vita, giaceva a terra, buttato in mezzo alla radura buia, con la testa fracassata da un proiettile di grosso calibro.

"C’è un uomo qui intorno!Solo gli uomini…" disse il Capo, digrignando i denti.

"Figlio... figlio mio..." pianse la madre soffocando un guaito di dolore.

"Bastardi, assassini, vigliacchi, bestie immonde..." inveì il Bigio, torcendo il muso in una smorfia di disgusto.

I tristi lamenti furono interrotti da un altro sparo, e questa volta il proiettile scalfì il pelo del Capo, andando a piantarsi nel tronco di un grosso albero.

"È ancora qui... è ancora qui!" i tre si dispersero disordinatamente nel bosco. Una volta trovato riparo fra i fusti centenari, cercarono di individuare donde provenisse il colpo.

Furono istanti interminabili, con il respiro che saliva a fatica la gola, occlusa dal tambureggiare frenetico delle vene del collo.

Toccò al Bigio avvistare il cacciatore che, nascosto dietro un masso, continuava a puntare davanti a sé la canna del fucile, con l’occhio incollato al cannocchiale del mirino.

"Un altro colpo non lo sbaglia di sicuro!" deglutì mentalmente il vecchio eroe, prima di passare all’azione. Con un balzo fu alle spalle dell’uomo e l’istante seguente, prima ancora che il cacciatore potesse avvertire il fruscio dietro di sé, gli fu addosso, facendogli perdere l’arma e scaraventandolo a terra. Cominciò così un corpo a corpo furibondo, e le cose si misero subito male per il Bigio. L’uomo infatti era di una stazza paradossale, con muscoli di roccia e pelle dura come l’osso. Afferrò il Bigio per il collo e lo scosse come una foglia al vento, cercando, contemporaneamente, di recuperare la sua arma micidiale. Il Bigio stava per svenire quando un urlo immane scosse il bosco: era l’uomo a gridare, avendo nelle gambe i denti del Capo e di Bécassine, che intanto erano venuti in soccorso dell’amico. Ehi, allora le zanne dei lupi sono più dure dell’osso!

In tre, dopo scambi di morsi e zampate violente, riuscirono ad avere ragione di quella specie di gigante che, sanguinando, si diede alla fuga.

I lupi gli si misero subito dietro - il Piccolo stanotte, domani noi? - ma l’uomo correva troppo forte per loro. L’avevano quasi perso quando, stupiti, lo videro bloccarsi improvvisamente, proprio nella radura dove giaceva, poc’anzi, la sua vittima.

Ad impedire la fuga dell’uomo erano tornati gli altri lupi del branco, che ora gli si paravano davanti, ringhiando e maledicendolo. Ci fu un attimo soltanto di esitazione, dopodiché una dozzina di lupi saltarono, contemporaneamente, addosso all’essere mostruoso che sapeva leggere e scrivere. Pur essendo molto forte, l’uomo perse la sua partita in pochi minuti, con la carotide squarciata. Si mosse, come epilettico, nella pozza del suo stesso sangue per qualche interminabile secondo, finché, dopo un gorgoglìo raccapricciante, si irrigidì. I lupi si guardarono immobili. Tremavano tutti: una caccia così non l’avevano mai nemmeno sognata nei loro incubi peggiori. Ad un tratto furono attratti da uno strano movimento del cadavere dell’uomo, e gli fecero un cerchio attorno, un cerchio sudato di lupi attoniti. Lentamente il cadavere cambiò forma... scomparvero le fattezze umane e un folto pelo rossiccio, tanto familiare da risultare inquietante, cominciò a coprire quello che restava del povero corpo... cambiarono le orecchie, il naso, i denti... e il branco si ritrovò ad accerchiare il corpo senza vita di... un lupo!

ERA UN UOMO MANNARO!

Pare che del corpo del Piccolo non si sia più trovata traccia, ma altri lupi furono in seguito abbattuti, senza pietà, da altri uomini, non so se mannari o meno...

Sono passati molti anni... ora non c’è più il branco, e nemmeno il bosco...

Non so se la storia sia vera, fatto sta che ogni volta che la racconto mi fa una paura!

 

Alla fine dell’audace racconto siamo tutti - naturalmente - impressionati, e per esorcizzare il timore ci prodighiamo in cortesie tipiche da viaggio, forse per trovare nella consuetudine qualcosa di familiare che il lupo - o quello che cazzo è - ci ha gentilmente portato via.

"Vuoi un grissino?"

"Un po’ d’acqua?"

"Chi vuole una banana?"

"Qualcuno ha una sigaretta?"

"Ma non si può fumare qui!"

"Beh, esco cinque minuti..."

Alberto cava dal taschino una pipa, pigia dentro al fornello qualche presa di tabacco ed esce in corridoio.

Il treno continua a sferragliare scostante verso Madrid,, riducendoci a corpi balbettanti e incerti.

Lentamente ritroviamo una certa serenità.

Molto lentamente…

Molto…

 

 

Ora non provo nessun sentimento sgradevole nei confronti di Ramon, tipo paura o ribrezzo, odio o semplicemente imbarazzo, soltanto una grande curiosità.

Che tipo!

Del resto, a parte il corpo massiccio e quei denti affilati, non ha un aspetto temibile, non sembra per nulla feroce. E poi la bottiglia di rhum, mezza vuota, che spunta dal sacchetto di carta, suo unico bagaglio, e dalla quale ogni tanto tracanna avide sorsate, mi fa capire tante cose. Sarà, il mio Ramon, un beone fantasioso a cui un dentista malpagato ha fatto un pessimo lavoro!

Ma certo. Sono sicuro che Ramon sia vagamente alticcio, e ha tirato fuori questa storia sghemba! Non molto più delle altre sentite finora, del resto.

Comunque vengo prosaicamente riportato a terra dal cigolio del carrello delle vivande che si sta approssimando lungo il corridoio del vagone. Lo stomaco barrisce, suggerendomi entusiasta uno spuntino fuori programma. L’uomo delle cibarie, vestito come un barista del centro, fa capolino nello scompartimento. Con che moneta pago? Pesetas? Va bene! Trovo un doppio tramezzino orrendo, una merendina secca e una lattina di acqua tonica, strapagando il tutto. Il mio stomaco smette di barrire, un po’ deluso.

Ramon mi osserva sornione, ma non ho comprato birra, amico…

Deluso tanto quanto il mio stomaco, Ramon scola l’ultima goccia della sua bottiglia e mi dice:

"Che ne pensi, ragazzo?"

Rispondo: "Mah... una storia molto suggestiva..."

"Suggestiva?... non ci avevo mai pensato... comunque io sono arrivato, buon viaggio signori!"

A questo punto mi accorgo che il treno sta decelerando per entrare nella stazione di Madrid Chamartin. Capolinea. Dobbiamo scendere tutti. Fuori albeggia.

Il più lesto ad abbandonare il suo posto è proprio Ramon che, non avendo bagaglio, con due salti è già fuori nel corridoio.

Gli grido: "Ma cazzo, Ramon, e la mia storia non la racconto? Non vuoi sentirla?"

"La prossima volta, ragazzo, devo prendere un aereo, adesso!"

Il treno si ferma e lui scatta fuori di corsa sulla passerella. Bell’amico!

Intanto gli altri quattro compagni di viaggio si preparano a loro volta ad abbandonare lo scompartimento. Evidentemente nemmeno a loro interessa la mia storia, così recupero la valigia, mi infilo la felpa e mi incolonno nel corridoio, preparandomi a scendere, prossimo a terminare il mio viaggio, un viaggio che mi ha esaltato. Potrà sembrare allucinante che così poco basti per rendermi euforico! Sapeste quanto poco ci vuole per deprimermi ai limiti del suicidio! La fine del mio viaggio, e il mio racconto che nessuno pare voglia ascoltare mi stanno intristendo in maniera intollerabile.

Sulla passerella siamo ancora in cinque. Giorgio dice: "Io mi fermo a Madrid qualche giorno, poi andrò a Parigi, ho ancora quindici giorni di ferie... voi?"

Gli risponde subito Alberto, l’estatico: "Com’è ovvio che sia, io salgo sul treno che mi riporterà a Lisbona. Sto sperimentando la felicità del viaggiatore iberico, e per ora..."

Giuro che questo si è cotto il cervello!

"Io devo tornare a casa." faccio io.

"Anch’io." dice Gianluca, il finto ordinario.

"Anch’io." gli fa eco l’impeccabile Allevi.

Ci ritroviamo perciò in tre davanti ai tabelloni orari per cercare il treno che ci riporterà a casa. Sono solo le sette del mattino, qualcosa ci sarà!

Scrutiamo il tabellone ma il primo "Talgo" per Barcellona parte alle sei di sera. Allevi scatta: "OK! Per me va bene!" e si mette in coda allo sportello della biglietteria.

Io guardo perplesso Gianluca. Mi soffermo sul tabellone, poi, illuminato, dico: "Guarda, Gianluca, tra mezz’ora parte un treno per S.Sebastian... lì possiamo prendere la coincidenza per Irùn/Hendaye (cambio di treno per differente scartamento dei binari? Claro!) e proseguire fino a Bordeaux. A Bordeaux prendiamo il treno che ci porta diretti a Milano e siamo a casa prima di Allevi. Che ne dici?"

Gianluca viene certamente allettato da questo insperato cambiamento di programma, che a lui deve sembrare ancora più affascinante di tutte le storie che abbiamo ascoltato stanotte. Ma ha ancora una remora: "E facciamo viaggiare Allevi da solo?"

Ho la risposta a fior di lingua: "Mi sembra che abbia deciso lui di fare a meno di noi; non hai visto come ci ha piantati per trovare il suo biglietto per Barcellona?"

"Hai ragione... vada per S.Sebastian... così avrai il tempo di raccontarmi la tua storia... come ti chiami?"

"Lasciamo perdere..."

"D’accordo "Lasciamoperdere", a che ora parte il nostro treno?"

 

É scomodo il treno che ci porta a S.Sebastian.

Le nostre prenotazioni, pagate a caro prezzo, non servono a nulla se non vuoi calpestare i corpi ammassati nei corridoi. Di chiedere aiuto ai controllori inferociti non se ne parla nemmeno (visto come hanno trattato quella ragazza francese che esigeva il suo posto?).

Quindi Gianluca ed io ci ritroviamo, in piedi, schiacciati tra un gruppo vociante di giovani baschi, che scendono a Bilbao. Il treno si svuota? Nossignori! A Bilbao scendono in cento e salgono in mille. perciò ci tocca l’inscatolamento fino a S.Sebastian.

Arrivati in stazione dobbiamo correre per prendere la coincidenza per la frontiera. Ci ritroviamo così su di un trenino che, lentamente, ci porta a Irùn, troppo stanchi per parlare.

Scendi a Irùn. Sali sull’altro treno. Passa Hendaye, passa Biarritz, passa Bayonne, passa Dax... mi addormento.

Mi risveglia Gianluca, o mi risveglia la fame, non so.

"Ehi, "Lasciamoperdere", siamo a Bordeaux, dobbiamo scendere!"

Ora che siamo a Bordeaux avremo un po’ di tempo per cercare del cibo, naturalmente presso i chioschi della stazione, perché la città non sorge proprio qui intorno! Comunque troviamo di che sopravvivere, oltre al treno che ci porterà a Milano. Prima di partire Gianluca telefona a casa, tenero: "Ciao mamma, sono io... sì, a Bordeaux... sarò a Milano domattina presto. Mi vieni a prendere? Ah, viene la zia? Va bene, ciao... sì, tutto bene, ciao..."

Ora siamo calmi e seduti, con i posti prenotati l’uno accanto all’altro (del resto il treno è semivuoto).

"Allora, adesso mi racconti qualcosa di te o devo riprendere la storia del canarino?"

Per tutto il viaggio non ho aspettato altro, ma un attimo di esitazione mi sarà pur concesso, no?

"Io ho qualcosa da raccontare... ma..."

"Dai, ti crei dei problemi dopo quello che abbiamo sentito, dopo che tutti si sono inventati qualcosa?"

Un po’ stizzito replico: "Non è una storia inventata, quella che vorrei raccontarti!"

"E allora? Hai paura che non ti creda?"

"No, ho paura che tu pensi che voglia prenderti per il culo... se sapessi..."

"Ma io voglio SAPERE! Muoio dalla voglia di ascoltare la storia dell’unico che non si è fatto impressionare dai racconti degli altri!"

"Va bene, Gianluca, ma ti prego di un paio di cose: non puntualizzare quelle che ti sembreranno incongruenze temporali della storia che riguarda me, che risale a trentacinque anni fa..."

"Ma se hai vent’anni!"

"Non puntualizzare! Se ti dico che trentacinque anni fa io c’ero, e ascoltavo i Clash, cerca di comprendere che trentacinque anni fa io stavo in un posto dove c’era la musica dei Clash, tra le altre. E poi se sei convinto che la dimensione nella quale viviamo sia l’unica possibile, fermami! Non avrebbe senso continuare il racconto. Se vuoi ascoltarmi devi prendere per buono quello che ti dico!"

"Ti credo, "Lasciamoperdere"... dai, racconta, come si stava trentacinque anni fa?"

 

POP-SONG

Spanish Bombs (The Clash)

 

1. PRELUDIO

Non si stava poi così male trentacinque anni fa.

Fino al giorno in cui incontrai Josita.

Sapevo che sarei nato solo quindici anni dopo e stavo tranquillamente facendomi i fatti miei all'incrocio tra l'Oblio dei Defunti e il Limbo Prenatale quando scorsi l'esile figuretta avvicinarsi ondeggiando in maniera impressionante: quella era Josita, ubriaca fradicia. Quando mi parlò un odore nauseabondo mi violentò le narici e difficilmente sarei stato indotto a pensare che quello stesso odore in seguito mi sarebbe stato piacevolmente familiare.

"Vorrei raccontarti la mia storia, piccolino..." così mi disse l'ubriaca, scandendo bene le parole per camuffare la lingua spessa.

"Cara, fai pure, tanto devo aspettare ancora un sacco di tempo prima di nascere... ed ho finito le sigarette..." acconsentii rassegnato.

"Oh, io nasco l'anno prossimo, pensa, potrei essere tua madre..." continuò lei, sognante.

"Speriamo di no!" interruppi maleducatamente. Non mi sarebbe piaciuto nascere da una mamma adolescente, per giunta alcolista!

Per tutta risposta Josita mi diede una bastonata tra le scapole da farmi bestemmiare forte. Poi mi sorrise e continuò: "Scusami, tesoro, non sono così violenta di solito, ma ho avuto delle esperienze che mi hanno indurita un poco, così mi infiammo facilmente. Mi chiamo Josita, e tu?" era molto dolce mentre mi massaggiava la zona che poco prima mi aveva percosso.

"Traveggola" risposi, mentendo senza pudore. Mi veniva spontaneo...

"Bene, sono stata troppo tempo in Boulevard de l'Anicagis, nel limbo prenatale. Sai chi abita quella zona?"

Annuii ridacchiando. In quel postaccio, tutto tarme e topi, ci vivevano (ma il termine è improprio) degli strani tipi che non vedevano l'ora di nascere; piangevano sempre per essere pronti ad affrontare il mondo. Per anni e anni se ne andavano a spasso con gli occhi lucidi e gonfi. Ironia della sorte poi nascevano quasi sempre morti; in alternativa venivano abortiti durante la gravidanza.

Josita continuò impaziente, con la loquacità tipica degli avvinazzati: "Per un po’ mi sono prostituita lungo il Boulevard. Ero abbastanza a buon mercato: un'ora del mio corpo per un paio di spiccioli".

"Oh, chissà quante botte hai preso..." mi annoiavo un po', così cercavo di fingermi interessato intervenendo con qualche ovvietà,.

"Certo! Ma mi sono sempre difesa bene". Indubbiamente le mazzate tra le scapole non erano la sua sola arma di difesa perché, sorridendo con gli occhi, mi fece vedere una stupenda Colt Python che teneva nascosta in petto. Ed io che pensavo avesse tre tette! Nel nostro Settore il possesso delle armi era stato contingentato da anni così era estremamente difficile procurarsene una nuova, specialmente bella ed educata come quella Colt che, in seguito, seppi si chiamava Romy. Avrei dato una o due vite solo per potere tenere con me qualche ora quel ferro superbo. Sì, l'arma doveva essere mia!

Comunque Josita continuò il suo racconto, con una vocetta che mi ricordava le nenie biacsicate in chiesa da piccolo, mentre io escogitavo il metodo per carpirle l'arma.

"Come dicevo, sono passata fra le mani delle creature più abbiette e ripugnanti, gente noiosissima che mi ha sfruttato senza pietà. Poi ho incontrato Vero Eroe. É lui che mi ha strappato dalla strada: ci siamo subito amati alla follia. Vero Eroe era un uomo meraviglioso: di rado mi ha picchiata e pochissime volte mi ha fatto veramente male. Per il resto è sempre stato dolcissimo, con me. Purtroppo ha una peculiarità che è anche la sua sfortuna: conosce il modo per viaggiare tra le Dimensioni"

Avevo sentito parlare dei Viaggiatori, ma pensavo fossero una leggenda.

Josita riprese: "Il telepredicatore ufficiale, Hos Berlicche del Mare Tribolato, da anni sta cercando di ammettere Vero Eroe nella sua rete di vendita, convinto che con un "Viaggiatore" nel suo staff nulla gli impedirebbe di vendere le sue porcherie in tutto l'universo. Un orrore. Vero Eroe non si è mai voluto piegare ai meschini voleri di quel figlio di un paio di corna, perciò è stato rapito dalla Polizia Politica e portato su Tribola, l'isola fortezza di Hos Berlicche."

Hos Berlicche, ufficialmente un telepredicatore, era in realtà il potentissimo signore del nostro Settore, il Mare Tribolato. Da novantadue generazioni dominava le nostre terre, grazie alla discendenza regale e alla sua Polizia Politica. Contava, nel Settore, un miliardo e mezzo di anime a libro paga. Su tutto il resto degli abitanti aveva diritto di vita, di morte e di prima notte. Difficile che potesse sfuggirgli un "Viaggiatore", merce preziosa, a quanto mi era dato di capire.

Josita continuò nella sua elegia:

"Da qualche parte ho saputo che l'unica persona in grado di riportarmi il mio Vero Eroe è l'Inverosimile, del quale Hos ha una paura inenarrabile. Pare che stazioni da queste parti ma sono due giorni che chiedo di lui e..."

A questo punto Josita scoppiò a piangere, gridando, come ad evocare un'apparizione medianica, il nome dell'uomo che stava cercando, questo diavolo di Inverosimile del quale non avevo traccia nella mia memoria...

Guardai famelico la Colt che spuntava dalla scollatura di Josita, l'arma che avrebbe cambiato la mia vita rendendomi temibile nelle risse, e tentai il colpo:

"Io troverò l'Inverosimile per te!... è mio amico... lo conosco" (avrei inventato anche che conoscevo Noè e Papa Giovanni, se fosse servito... )

Josita mi fissò con una dose di tenerezza negli occhi da far sciogliere il più polare dei cuori, perciò sbottai:

"Naturalmente in cambio della pistola!". Il mio cuore era di una freddezza non quantificabile.

Da buon meschino quale sono cercai anche di giustificare la mia richiesta:

"Sai, cara Josita, io posseggo solo un vecchio Winchester oramai buono solo a fare la clava e non potrei imbarcarmi in un'avventura come la ricerca dell'Inverosimile praticamente disarmato!" Da quel giorno il mio Winchester mi odia cordialmente...

Bene, avevo ottenuto una magnifica pistola che, essendo femmina, mi faceva anche le fusa, in cambio dell'improbabile promessa di trovare una persona di cui non sapevo nulla. Che stronzo! Eh, no! A tutto c'è un limite! Avrei trovato questo signor Inverosimile per Josita ( e un po' anche perché la Colt minacciò di farmi molto male nel caso non l'avessi cercato). Bon courage, mon frére!

 

2. INFERNO VIDEO-GAMES

Se volevi trovare qualcuno dalle nostre parti, il primo posto da visitare erano le sale giochi, perciò passai dal Bancomat a prosciugarmi il conto e mi addentrai nella più grande Sala Giochi del nostro Settore: l'Inferno Video Games. Le sale giochi erano divise in locali di diverso colore che distinguevano la qualità delle giocate.

Trovai subito il Salone Nero, dove il gestore era uno zombie bruttarello vestito da gerarca. Lo avvicinai: "Uè, losco camerata, sto cercando l'Inverosimile..."

Il tipo, cordialmente, mi rispose: "Fottiti! Gioca o fottiti! Sieg Heil!"

"Ma che sigàil e sigàil, stronzo!" continuai io infilandogli la canna della pistola in una narice. Immediatamente scesero un tot di caccole in divisa da SS, che mi circondarono in otto secondi. Mitragliatrici puntate, urlavano ordini gutturali e sicuramente stavano facendosi beffe della mia razza (non credo di essere ariano).

Mi stufai subito di quella parata e li eliminai con un fazzoletto di carta intriso di Vicks Vaporub.

Il gestore era diventato molto più docile, soprattutto perché, nel frattempo, gli avevo sparato un colpo nel naso (non si sa mai, potevano esserci truppe nelle retrovie).

Il povero scemo sanguinava copiosamente ma io non mi commossi:

"L'INVEROSIMILE!!!" urlai facendogli saltare un timpano.

Lui annuì disperato e sussurrò "Sapevo che sarebbe arrivato un duro, prima o poi...", Curiosamente la chiaroveggenza del gerarca non mi impressionò affatto. Pensai solo alla mia leggendaria buona sorte. Il tipo mi porse un biglietto che nascosi in tasca, anche perché tutti i nazi-videogiochi mi si stavano facendo incontro molto minacciosamente.

Ne scartai due o tre, sparai ad un altro, poi trovai una porta. E la varcai.

Nel nuovo locale rimasi abbagliato da una luce fortissima ma intermittente.

Un' Odalisca Virtuale cominciò a sbottonarmi la patta.

Ero senz'altro entrato in una delle sale bianche dell’Inferno.

"Un po' di carne, cow-boy?" disse la signora, leccandosi le labbra e sventolandomi sul viso un paio di tettone modello Dolly Parton.

"Sono vegetariano, grazie..." risposi, rollandomi un cannone.

La femmina sintetica sapeva il fatto suo: mi saltò addosso infilandomi le sue sette mani dappertutto.

"Piano... piano... non ho tempo!" mi sembrava una pessima idea respingere così l'Odalisca ma volevo subito un posto tranquillo per leggere il foglio che mi era stato dato dal nazi-zombie.

"Non ho tempo-non ho tempo! Dite sempre così e poi in due secondi ZAC! finito! Che ne dici, ci facciamo una sveltina?".

Touché! La tipa sapeva come farmi incazzare!

"Senti cara, io ti posso sfiancare, posso farti provare piacere per otto-dieci ore e resistere senza problemi...".

L'Odalisca rise forte: "Perché non hai le palle! Ecco perché resisti: sei scoglionato dalla nascita!!!".

Probabilmente in precedenza aveva prestato servizio nelle sale gialle, le sale degli insulti gratuiti, e quello era il suo primo turno nella sala del sesso. Ad ogni buon conto allontanai la puttana (con garbo, giuro! Le diedi anche due gettoni per il flipper... ) e, individuato il cesso, vi entrai per leggere il biglietto. Per fortuna di cesso si trattava, dato che dopo la lettura di quel foglietto unto passai circa un quarto d'ora chino sulla tazza a vomitare. Quella che si dice una lettura da voltastomaco! Ma torniamo a noi.

Convinsi a calci e sputi un distributore automatico di bibite a darmi una limonata calda (dovevo farmi passare la nausea) ed individuai l'uscita dalla sala bianca.

Entrai così nella Sala Oro. Era quello un luogo pericolosissimo, il cui ingresso era consentito esclusivamente ai titolari di Credit Golden Absolut Card. Dentro c'era di tutto. sesso, droga, rock'n'roll, lavori part-time, speculazioni edilizie...

Naturalmente io non avevo la carta di credito e venni subito individuato da un "segugio di sala" che si ravvivò la frangia sulla fronte e mi urlò: "Che cazzo ci fai qui, ignorante!" Mi soffermai allibito a considerare la gratuità di quell'insulto (ignorante?) mentre il segugio continuava a vomitarmi addosso le più stravaganti offese e mi strattonava isterico. Lo riconobbi: era il cane Sgorbio, spesso ospite di vari programmi televisivi, che tra una sparata al vetriolo e l'altra lavorava alla sala-giochi del suo padrone (il solito Berlicche). Ebbi molta pena di lui e lo risparmiai. Però un po' di nervoso addosso ce l'avevo... Mi ricordai allora di una granata che tenevo da qualche parte. La lanciai contro la Centrale di Controllo della sala, che esplose in un gioioso scintillio di gettoni d'oro. Il segugio mi apostrofò duramente: "Terrorista!"

"Sì!" risposi e mi avviai soddisfatto all'uscita.

Avevo di fronte a me un'ennesima porta. Poco cautamente la oltrepassai...

 

3. LA SALA ROSSA E BIANCANEVE

Una vampata di calore mi arrostì il volto. Poteva davvero essere la fine: ero entrato nel temutissimo salone rosso dell'Inferno Video-Games. Ma non me accorsi subito e questo mi permise di non restare paralizzato dall'orrore:

Dopo pochi passi avevo già perso una gamba e la spalla sinistra, mentre duecento satanelli si accanivano con rudimentali laser a spappolarmi i testicoli. Scendevano in formazione compatta, colpivano, e risalivano a riorganizzare l'attacco.

Spazientito afferrai la fedele Romy e scaricai i sei colpi contro:

A) la centrale video (due colpi)

B) il gestore polacco (tre colpi)

C) un satanello fuggito dal video (un colpo... un grosso spreco... come schiacciare una mosca con un mattone... )

Tutto cessò all'istante. Schizzi di sangue e silicone ovunque.

Ebbi il tempo necessario per entrare in un Rigeneratore Totale (la cui presenza era obbligatoria nelle sale particolarmente violente) e ne approfittai per attaccarmi due palle enormi. Per un attimo pensai di tornare nella sala bianca a fare visita all'Odalisca, poi decisi di andare oltre: avevo pur sempre una missione da portare a termine.

Lasciai alle mie spalle una sorta di Beirut e una vocina sintetica che ripeteva: "Record! Top Player! Bonus Game! Press the button!" ma non mi faccio mai fregare più di una volta.

Lasciata la sala rossa entrai in quella rosa: il Giardino di Biancaneve: Immediatamente i sette nani mi corsero incontro come cagnolini eccitati per sodomizzarmi. Era il loro benvenuto. Li lascai fare con pazienza in quanto potevano a malapena raggiungermi i polpacci. Bussando alla porta di Biancaneve mi scrollai di dosso Gongolo, Eolo, Pisolo e Dotto che tenacemente resistevano attaccati agli stivali; Cucciolo e Mammolo intanto si erano appartati per i fatti loro e Brontolo cercava di arrampicarsi lungo le mie cosce.

Lo feci scendere con una gomitata e lui, cadendo, offese irreparabilmente mia madre, quella santa donna...

Mi sentii perciò in dovere di sfigurarlo a calci. Mentre procedevo nel mio lavoretto la porta si aprì e apparve lei: era bellissima, più bella di quanto avesse immaginato Walt Disney.

Scostai quello che restava di Brontolo con il calcio del Winchester, senza distogliere lo sguardo dagli occhi color ambra di Biancaneve. Avevo letto troppi porno-fumetti per non sapere quanto fosse facile infilarsi nel letto profumato di quella fata; purtroppo avevo fretta, anche se l'unico nano che rispettavo, Bigolo, avrebbe eluso questo particolare.

Riuscii a balbettare: "Bia... Bia..nca-neve... suppongo..."

"In persona, bell’uomo, cosa desidera?"

"U... Un... c-v-ll... cavà..un cavallo!" gorgogliai.

"Oh, anch'io vorrei un bello stallone!" Biancaneve pronunciò questa frase come Marilyn quando diceva "tu-tu-pa-tu-aah". Io con la morte nel cuore, riuscii a sbavare:

"No, no cerco un cavallo vero... per un viaggio... pagando, s'intende! Non vedi che porto gli speroni?"

"Ah" fece lei "Credevo fossi un sado-maso... comunque un cavallo lo vende mio marito... te lo chiamo... Joey... Joooey!!!"

Un brivido mi percorse la schiena e il mio ragionar fu fulmineo: se il marito di Biancaneve, Joey, si fosse rivelato Joey Newton, il cavallo sarebbe stato... Furia? La mia storia stava assumendo connotazioni bizzarre!

4. VERSO TOPEKA

Andavo molto d'accordo con Furia

Certo aveva l'alito un po' pesante (fumava moltissimo) e beveva più tequila di un peone la sera della paga, ma la sua conversazione era divertente e conosceva milioni di barzellette: su tutte ricordo ancora divertito quella di Edward Mani di Forbice che non sapeva come fare la pipì e quella del balbuziente che stappa una lattina di birra, sorseggia e sente un gusto strano, poi legge l'etichetta sulla lattina ed esclama "E-E-Ecco pe-pe-perché aveva un sapo-sapo-sapore d'ortaggi: è una Pe-pe-pe... PE-PERONI!" Sembra che le divertenti storielline le avesse ascoltate da un certo Monte quando ancora lavorava in fabbrica...

Cavalcammo per tre settimane verso ovest senza mai annoiarci. Per essere all'altezza della conversazione pirotecnica del mio destriero inventai storie di mari tempestosi e isole incantate, streghe innamorate, giganti monoculati e donne bellissime. Quando, mentendo, gli dissi che mi chiamavo Ulisse, fu colto da un'ilarità così devastante che fu costretto a fermarsi. Si piegava in due dal ridere, cosicché dovetti smontare. E se, appena smetteva di ridere, gli capitava di posare lo sguardo sul mio volto attonito, riprendeva a singhiozzare euforico: "Ulisse! Che bugiardo! Ohi, ohi, ohi... che divertente bugiardo che sei. Ma la conosco anch'io quella vecchia barzelletta dell'assedio! Ah, ah! Bugiardo! Tutti i cavalli la conoscono, specie quelli di legno, figurati se ci casco io che sono un'enciclopedia vivente di barzellette che neanche Cossiga... dai, bugiardone, dimmi come ti chiami! Oramai siamo vecchi amici" concluse con una poderosa pacca (di coda) sulla mia spalla.

"Pinocchio..." mentii piano. Mi sembrò una buona trovata.

Tanto fu il cavalcare che arrivammo a Topeka prima del previsto. Topeka, metropoli tentacolare con otto milioni di abitanti, quasi tutti cinesi o greci, con una sparuta minoranza di abruzzesi, mollemente distesa sulle rive del fiume Yang-tze.

A quel punto di Furia non sapevo più cosa farmene e provai ad ingannarlo con lo stesso trucco che mi aveva permesso di liberarmi di Pegaso, altro cavallo strambo, anni prima.

"Senti, Furia, adesso facciamo il gioco che ti eri azzoppato ed io, piangendo, dovevo finirti con un colpo alla tempia e poi ti seppellivo e ti portavo i fiori e..."

Furia era stravagante ma non scemo: "Naah! Facciamo il gioco che tu eri condannato per furto di bestiame e ti impiccavano su un cavallo al quale non fregava assolutamente niente della tua fine... Ma per chi mi hai preso, Pinocchio! Ti ho capito subito, tu sei proprio un pezzo di merda! Se non hai più bisogno di me liquidami stipendio, tredicesima e ferie non godute ed io me ne ritorno da Joey e Biancaneve... e niente scherzi! Altrimenti ti rispedisco a casa con un bel timbro a forma di zoccoli tra naso e zigomo!"

Gli scroccai l'ultima sigaretta e pagai senza fiatare. Chissà ora che fine ha fatto quel diavolo di un nero destriero? Conoscendo la reputazione di Biancaneve lo starà sfruttando nel ruolo duplice di animale da soma e amante, bestia da tiro insomma. Un po' lo invidio...

Così potevo agire da solo ma ero anche appiedato. Avevo ancora qualche spicciolo con me e decisi di acquistare una bella Harley-Davidson, 3500 di cilindrata, dodici marmitte cromate e bucate, con tanto di fodero per il Winchester e mitraglietta puntamento infrarosso sopra l'abbondante fanaleria anteriore. Gomme lisce e trombe che suonavano la Marsigliese, naturalmente. La sparai subito a dueottanta sulla tangenziale interna della città per assicurarmi che effettivamente consumasse tre litri al chilometro, non di più, ma non ero ancora arrivato al ponte sullo Yang-tze che venni affiancato da una pattuglia della stradale. Mi fece cenno inequivocabilmente di accostare, sparandomi alle gomme. Mi fermai illeso solo perché il poliziotto non era un gran tiratore e aveva centrato le gomme della propria auto invece delle mie. Dai rottami dell'auto uscì il terribile agente: alto quasi tre metri (il doppio di me), torso coperto solo dalle bandoliere incrociate a X, bandana viola legata intorno alle tempie e guanti in lega di titanio.

Timidamente provai a fare l'ingenuo: "Ce l'ha con me, agente? Qualcosa non va?"

Mi sferrò uno schiaffone che mi scaraventò lontano una dozzina di metri!

"Ce l'ho con te, vaccaro! E sai bene che cosa non va!" sibilò spruzzando saliva amara come il fiele.

"Non capisco" replicai massaggiandomi la mandibola "Gomme lisce? Marmitta rumorosa? Eccesso di velocità? Guida in stato di ebbrezza? (no, sono astemio, per ora... )"

L'agente sbuffò come un vulcano ed urlò:

"Non dire stronzate, imbecille! Ti avrei mai fermato per così poco? No, no, peggio, peggio... NON HAI IL CASCO, CRETINO!!!" tempestò, premendomi un dito sul naso.

"Ma... non va bene questo?" dissi con naturalezza, mostrando il mio cappello a larghe falde.

Contemporaneamente lo centrai perfettamente in mezzo alla fronte con il piombo della mia Colt. Per sua fortuna la pallottola lo passò da parte a parte, senza restare nella scatola cranica (il piombo è un metallo pesante e in quanto tale tossico) e gli lese una parte del cervello che non veniva utilizzata. Praticamente se la cavò con un forte mal di testa ed un terribile spavento.

"Non va bene questo?" ripetei lentamente.

"Va... va benissimo signore, mi scusi... non mi ero accorto... il... il... sombrero!"

"Non è un sombrero!"

"Si, certo, certo, il... il..."

"Cappello a larghe falde"

"Si, ecco, lo sapevo, cappello a... si, mi scusi... comandi, agli ordini..."

"Riposo, agente" gli permisi di svenire.

Questa gente mi fa schifo! Fanno i gradassi e poi appena uno gli spara in fronte ecco che viene fuori la loro natura meschina e vermiforme... Questi giovani arruolati non valgono proprio una beata fava! Del resto non valgono molto nemmeno gli arruolatori...

Comunque avevo fame ed ero senza "contante". Bisognava darsi da fare. Saltai su Mario, così si chiamava la mia moto, e via! Vaya con Dios, amigo!

 

 

5. UN VECCHIO AMICO

Avevo già in mente come guadagnare onestamente i soldi che mi servivano a vivere. Mi appostai, appena fuori città, sul sentiero percorso dalla diligenza che arrivava da Mantova carica degli stipendi dei "Topeka Miners", la squadra di foot-ball. Mi si spezzava il cuore a derubare stipendi di onesti lavoratori (sono stato anch'io socialista!) ma... la fame è brutta! e anche Mario reclamava la sua razione di benzina.

Fu un lavoretto facile-facile e non danneggiai molto il robot autista e i robot scorta della diligenza.

Mario ed io ci allontanammo soddisfatti.

Poteva filare tutto così liscio? Naturalmente no e ci imbattemmo dopo pochi metri in una robo-pattuglia di vigilanza. Capite? Non la Stradale: la Vigilanza! Eravamo perduti!

Non tentai nemmeno di immaginare una fuga e consigliai Mario di fermarsi senza fare storie. Fermandomi alzai le mani e chinai il capo all'agente che mi barcollava meccanicamente incontro, quando questo, sorridendo a trentadue fusibili esclamò:

"Felipe! Oh, questa poi... Felipe Zavorra "El Pequeñito" a Topeka !!!"

"Robocop !" risposi stupefatto. Ma il mio stupore durò poco. Beh, in questa storia avrei dovuto immaginare che, dopo avere derubato una robo-diligenza con tanto di robo-postiglione e robo-scorta, altri non avrei potuto incontrare che la... robo-pattuglia di Robocop.

Ci eravamo conosciuti giocando a bowling qualche tempo prima, all'epoca in cui mi facevo chiamare Felipe...

"Robocop !" ripetei, "Que pasa, amigo?"

Oramai ero certo della fortuità dell'incontro. Roboc... Roby... Bobo... sì lo chiamavo così: Bobo! Bobo certo non mi cercava per la rapina.

Continuai in un idioma che da tempo non usavo (siamo tutti figli di Speedy Gonzales): "Todo bien, Bobocito?"

"Certo, mi va bene, non vedi?" rispose indicando le mostrine "Ora sono maresciallo spaccista qui a Topeka. Ma tu che ci fai qui, diavolo di un messicano?" Bobo sembrava realmente contento di rivedermi, memore forse di tutte le lattine di syntiax bevute assieme.

"Trabajo, hombre, trabajo..." sorrisi allargando folkloristicamente le braccia... forse mi crebbero anche un paio di baffi... Improvvisai alla grande: "Yo ahora tengo una empresa de cosméticos y viajo todo el west por trabajo... y si usted quiere yo presento algo a su muy hermosa chica, señorita Wonderwoman !"

Una nuvola di tristezza velò i diodi di Bobo: "Non c'è più mia moglie... sono quattr'anni ormai..."

"Oh, pobrecita... la tisi? Tu novia tenìa una brutta tosse... como la mujer del toreador Paco Camino!"

"Ma no! É scappata con un altro!"

"Oy! Como la mujer de Miura el toro, quella vaca!"

"Già, amico mio... comunque ora sto bene... vivo con una donna splendida... forse la conosci... si chiama Minnie..."

"Por los quinientos nombres del diablo! Minnie??? Y Topolino?" stavo cercando di sdrammatizzare, così scherzavo ipotizzando che la Minnie di Robocop fosse la fanciulla di Topolinia... ma il mio imbarazzo crebbe a dismisura quando capii che si trattava proprio di quella Minnie lì!

"Beh, Topolino - continuò la faccia da meccano - si è messo con Clarabella, che era stufa delle corna che le metteva Orazio, e Orazio ora vive con Pippo, quel gay schizofrenico che si impasticca di arachidi..."

Ero annichilito.

Conclusi: "Bien Robocop, ahora tengo proprio que ir via! Encantado de haberte encontrado! Saludos a la señora... Hasta!"

"Vieni a trovarmi a casa, Minnie sarà contenta di farti assaggiare la sua marmellata di cedri!"

"Non mancherò!" dissi allontanandomi, mentre in realtà pensavo "fossi scemo!".

Cominciavo veramente a stufarmi della pochezza di contenuti della mia stramba avventura! In fin dei conti ero un intellettuale, mica un clown!

 

6. IL CODA

É giunto il momento di rivelare il motivo della mia presenza a Topeka: avrei trovato qui il mio "contatto", la meta a cui mi conduceva quel famoso bigliettino che tanto aveva stimolato i miei succhi gastrici. Si trattava di un bob-tail che si faceva chiamare Bob Coda (l'originalità non è patrimonio dei cani), in possesso di informazioni utili alla mia ricerca dell'Inverosimile.

Stavo battendo la zona del porto fluviale quando lo trovai, accucciato a guardia di una casamatta sul molo tre.

Ho sempre pensato che tutti i cani della specie del Coda fossero molto pittoreschi, invariabilmente acconciati con dread-locks e ampia cuffia giallorossoverde, incrollabile fede rasta, fumatori accaniti di erba e con una teoria di parassiti ad infestare l'abbondante mantello, inneggianti alle comuni radici africane.

Il Coda invece era rasato a zero, il corpo scolpito a forza di tatuaggi e palestra, coperto con un chiodo nero zeppo di svastiche e pins calcistiche. Lo riconobbi solo perché canticchiava: "Yoyoyò... yoyo-yoyò... yoyo-yoyo-yo-yo-yo-yò... Buffalo Soldier... General Rasta... stolen from Africa... in the heart of America..." Già, basta un attimo di disattenzione, un solo istante trascorso sopra pensiero e l'orgoglio di razza fa capolino, rendendo vani i più arditi tentativi di simulazione.

"Coda..." sussurrai arrivandogli alle spalle come una faina "Ti ho trovato, finalmente! Mimetizzazione impeccabile! Ma non è servita a nulla, ti ho riconosciuto quasi subito... già, basta un attimo di disattenzione, un solo istante trascorso sopra pensiero e l'orgoglio di razza fa capolino, rendendo vani i più arditi tentativi di simulazione..."

Come è vero che penso sempre prima di parlare!

Il Coda si voltò lentamente, sorrise e mi rispose: "Eh, quanto tempo... da mo' che t'aspetto! Sei quello dell'Inverosimile, vero? Mi hanno avvertito che saresti arrivato; non ti si vedeva così ho pensato di canticchiare Bob Marley... non mi ricordo bene... come finisce la canzone?"

L'amico era di una cordialità che rasentava la presa per il culo... umiliato domandai : "Ma perché ti sei travestito da skinhead, tu, che mi eri stato descritto come uno dei più fedeli a Jah in tutta Topeka?"

"Eh, i casi della vita, fratello... i Ganjia Prophets hanno trovato un altro bassista e mi hanno mollato così ora suono nei Manganello Power... un po' stavaganti... ma hanno un sacco di ingaggi... vabbè, comunque il reggae mi aveva stufato, sai che fatica seguire quel ritmo in levare... e mi avevano stufato anche i riccioloni e le canne... ora si va di rasoi e coca... tu, piuttosto... tu sei... non mi ricordo il nome... suonavi il sax nei Dexter's Memories..."

Non la finiva più! Tirai fuori la voce più roca che possedevo:

"Dacci un taglio, Lady Coda! Non sono qui per parlare di musica..." e mostrai il biglietto che mi aveva portato fino a lui.

Coda lesse enfatico: "Ulteriori informazioni

l'ovest te le fornirà

cerca il can dai boccoloni

ti dirà quello che sa

Coda Bob si è battezzato

in Topeka è residente

se non è tanto fumato

vai tranquillo, lui non mente"

Appena terminata la lettura di quella nauseabonda filastrocca, Coda vomitò. Ma mi aspettavo una reazione del genere.

Si riprese quasi subito. In fondo era un duro:

"Oddìo... che schifo... io sopporto la vista di tutto: mani mozze e giugulari a fontanella, cacche di topo e persino la tua faccia, ma questi versi... questi versi sono criminali! Comunque io devo solo darti questa chiave. E non chiedermi di più..."

Mi porse una vecchia e grossa chiave a cui era attaccata una targhetta. Vi si leggeva "V086".

"Chi te l'ha data, Coda?" ero molto serio.

"Ti ho detto di non chiedermi altro..." era un po' sgomento.

"Che cosa vuol dire "V086"?" ero vagamente irritato.

"Vattene ora, non ho altro da dirti!" era chiaramente spaventato.

"Perdio, parla Coda!" lo strattonai esasperato.

"Ma-io-non-so-gnente..." piagnucolò atterrito.

"Parla! Parla!" ero così infuriato che scordai le buone maniere e gli scaricai Romy in corpo. Sono troppo impulsivo!

"Ades-so... non... te lo di-co... più... faccia di... di culo..." e spirò insultandomi.

Mi pentii subito di essere stato così avventato. Avevo ucciso l'unico legame che avevo con l'Inverosimile. Tante volte mi ero ripromesso di imparare ad essere meno istintivo ma ci ricascavo ogni volta...

Mi guardai attorno. L'eco degli spari era sfumato nel riverbero naturale del porto. Tutto sembrava calmo. Troppo calmo. Quanti film avevo visto in cui il dritto dice al compare: "Silenzio! Senti qualcosa?" - "No, tutto è tranquillo!" - "Già, troppo tranquillo!" e viene fuori il finimondo. Per cui mi sembrò una buona idea inforcare Mario e cercare un posto più sicuro.

Allontanandomi guardai nel retrovisore: tutto restava calmo-troppo-calmo. Deluso constatai che stavolta il colpo di scena non c'era stato. Tutta tensione sprecata, idiota di uno sceneggiatore.

 

7. V086

Chiuso nella mia stanza d'albergo mugolavo sulle mie sventure. "V086". Mi scoppiava la testa!

Avevo sottomano il computerino da taschino e centinaia di microfloppy nei quali cercare quella maledetta sigla. Ma sembrava che nessun archivio contemplasse quell'insulsa combinazione. VI-ZERO-OTTO-SEI ? No! VI-O-OTTO-SEI? Nemmeno! Mi venivano offerte solo queste possibilità di interpretare quello schizzo tracciato a matita, V086, ma nessun numero di telefono, nessun numero civico, nessun codice di nessun tipo corrispondevano a quell'orribile scarabocchio.

Provai perfino ad anagrammare all'infinito i quattro segni, randomizzai tutte le sequenze possibili che comprendessero altri numeri arabi e lettere latine (non si sa mai, che si fosse cancellato qualcosa?) con l'unico risultato che mi si aprì un ventaglio di possibilità talmente ampio che, sconfitto dal mal di testa, dissi: "Vaffanculo!".

Così, stravolto, mi buttai sul letto con quella maledetta chiave in mano.

La giravo e rigiravo (e i più attenti avranno notato la citazione colta da Baglioni), la giravo e rigiravo, dicevo, sperando che mi parlasse, che mi svelasse la sua funzione all'interno della mia diabolica vicenda. In questa storia parlano tutti: parlano i cani, parlano i cavalli, parlano anche le moto ma non le chiavi, maledizione!

Ad un certo punto... FLASH!... mi capitò di leggere il cartellino al contrario!

Che coglione! L'avevo sempre visto storto. Non c'era scritto Vi-086 ma 980-Lambda (maiuscolo)! Capite? Non V086 ma 980L.

Quello era senz'altro un numero civico, il numero di qualche strada di Nea Moussaka, sobborgo greco-cipriota alla periferia nord di Topeka.

Balzai al computerino da taschino ed inserii le cifre! Dio mio! Che idiota! Novecentottanta-lambda. Solo una strada a Nea Moussaka arrivava ad una numerazione così alta! Digitai più e più volte le cifre alla tastiera, per sicurezza. Ma oramai non avevo più dubbi. Quella maledetta chiave apriva una porta al 980-lambda di Odos Macarios, la via principale di Nea Moussaka, Topeka, Kansas, Settore del Mare Tribolato.

Senza indugiare mi vestii in fretta, caricai Colt e Winchester ed uscii sul balcone. Fischiai per chiamare Mario che all'istante giunse sotto di me scalpitando... ehm, rombando!

Mi gettai dal balcone ed atterrai sul morbido sedile di Mario. Con un colpo di speroni sulla testa del motore lo spronai a partire.

"Ohi!" si lamentò "Dove andiamo, Capo?"

"Nord!" esclamai puntando platealmente il dito di fronte a noi.

Mario allora fece una bella inversione di marcia e si fiondò nella direzione opposta a quella indicata dal mio dito:

"Nord è da questa parte, Capo!"

 

8. NEA MOUSSAKA

Arrivammo a Nea Moussaka che albeggiava.

Le strade erano deserte e soffiava un vento gelido, alzando un polverone molto fastidioso. Rovi sradicati rotolavano per la strada, grossi e leggeri palloni, ed il rumore delle porte malferme di un saloon che ballavano al vento mi rendeva nervoso.

Quel saloon era aperto.

Legai Mario al paletto di parcheggio e, per maggior sicurezza, gli svitai anche le candele.

Entrai.

Il pavimento di legno scricchiolava sotto i miei stivali.

L'anziano barista mi guardò stanco.

Sarò stato l'ultimo cliente di ieri o il primo di oggi?

"Gia sou" - mormorò il vecchio - "sei l'ultimo cliente di ieri, straniero..." evidentemente l'uomo aveva doti medianiche oppure una fortuna sfacciata.

"Kalimera, un caffè, parakalo... e mi dia anche una schedina prestampata" considerando che non credo nel paranormale, come la mia avventura sta a dimostrare, ero convinto che il barista avesse un culo clamoroso. Un bel tredici mi avrebbe fatto felice...

La brodaglia nera mi fu servita, insieme ad una tre doppie più una tripla e una mazzetta di "gratta e vinci".

Uscii dal bar. Dopo pochi minuti Mario ed io eravamo davanti alla porta del 980-lambda di Odos Macarios. Era una misera casupola in disfacimento; mi sembrò di capire che in passato doveva essere stata una libreria o qualcosa del genere, probabilmente devastata nel periodo delle Grandi Perquisizioni.

Infilai la chiave nella toppa e girai con decisione la maniglia. Dentro era troppo buio per distinguere delle forme, ma udivo un cigolio. Accesi lo zippo ed illuminai fiocamente la scena: al centro di una grossa stanza qualcuno si stava dondolando su una sedia. Portava occhiali scuri.

"Chi è là!" bofonchiò il tizio. Era veramente vecchio, quel povero cieco...

"Chi è là!" ripeté deciso. Poi si tolse gli occhiali. Non era cieco. Era solo un po' scemo...

Accese una lampada, illuminandomi il volto.

"Chi è?" disse per la terza volta.

A questo punto dovevo svelarmi...

"Sono T.T." finalmente non dovevo mentire.

"Titì? Sì, e io sono Gatto Silvestro!" il vecchio doveva avere avuto un passato da cabarettista...

Con decisione affermai: "Sono T.T., Triste Tenebra!"

E qui ci vorrebbe una colonna sonora adeguata!

 

9. NIKOS, CANNAMOZZA E LO SBREGO NEL MURO

"Oh, Triste Tenebra" si sciolse il vecchio

"Una vita che ti aspetto! Ma non pensavo che saresti arrivato improvvisamente, alle sei e mezza del mattino, senza farti annunciare dalle sponsorizzazioni e dagli spots televisivi previsti dal D.L. 666 dell'anno scorso..."

"Taglia, vecchio!" interruppi sprezzante quella litania e contemporaneamente sputai per terra.

"Mi chiamo Nikos, e ho solo sessantasette anni..." masticò tristemente il vecchio.

Una lacrima mi rigò la guancia. Mi si bagnano sempre gli occhi quando sbadiglio.

Portai l'indice della mano destra a chiudere una narice e scaricai violentemente il contenuto dell'altra per terra. Poi alzai di due dita l’onnipresente cappello a larghe falde sugli occhi, mi accarezzai il mento splendidamente incorniciato da due giorni di barba e - gambe ben piantate a terra - continuai:

"Perché sono qui, vecchio?... oh, pardon... anzian... ehm... Nikos! Sì Nikos. (Nikos!)".

"Ti spiego tutto subito figliolo; spero che tu fin ora sia stato prudente..."

In quel momento crollò una parete.

Dal magnifico sbrego a forma di danno alluvionale non indennizzabile entrarono quattro loschi figuri con la divisa della Polizia Politica (quasi segreta - ma non abbastanza da non fare paura).

L'uniforme prevedeva: gessato grigio con panciotto, scarpe scure lucide con ghette bianche, calze scure (con presa d'aria in corrispondenza dell'alluce, optional), cravatta nera a piccoli pois bianchi, borsalino pendente a destra, anello sovradimensionato al mignolo sinistro, unghia appuntita di cm. 3,7 al mignolo destro, occhiali scuri, stuzzicadente tra canino e incisivo, otturazioni auree in tutti i molari, orecchino-auricolare di diamante stampato in un lobo. Naturalmente non possiamo dimenticare la lupara-laser da diciottomila pallettoni al secondo che i quattro esibivano con disinvoltura.

Il vecchio era terrorizzato e, riconoscendo il comandante dei quattro, che si fregiava dei galloni di capo-mandamento, alitò: "Cannamozza..."

Era questo il nome del temutissimo comandante della Polizia Politica, che si presentava a noi in compagnia di due bravacci e un inquisitore di terza categoria.

Cannamozza si passò la lingua sui denti poi disse:

"Minchia, Nikos, qua stavi? Baciamo le mani a la billizza di Don Niculì, che ora ci spiega che minchia ci fa acca' inzemmula a ‘stu minchia di finocchio fituso alto come una minchia piccola"

Restai immobile, nell'attesa di capire cosa minchia stesse capitando.

Nikos intanto tremava come una foglia. Del resto la sola parola "minchia" detta dalla Polizia Politica delle nostre parti avrebbe fatto rabbrividire un panettiere mentre sforna a ferragosto nel Sahara.

Il minchiofono fece un passo in avanti e contemporaneamente fece cenno agli altri di tenerci sotto tiro, ordine che i tre accolsero con grossi sorrisi.

Poi bofonchiò: "Nikos, treggiorni fa ti convocammo pi l'intirrugatorio mensile nella nostra cantina ma tu non ci venisti. Ora ti trovo nel Covo Ufficioso n.7, dove una volta sequestrammo pubblicazioni oscene e sovversive oltre ad un imprecisato numero di cosi, di dischi… tutta musicaccia ribelle non consentita. Ora vogliamo parlare, ah?"

Il vecchio era paralizzato dall'orrore.

"Tu lo sai che ce lo devi dire a chi ti devi incontrare, quando e pirchì, vero è?"

Nikos mi stava indicando con gli occhi.

Cannamozza, avvolgendomi con uno sguardo che mi faceva venire in mente le sabbie mobili, proseguì piacevolmente sorpreso:

"Nooo! Issu? ‘sta sputazza? Troppa grazia, Santu diavuluni binidittu!"

In quel momento capii che le cose si stavano dilungando oltre il lecito ed io avevo una missione da portare a termine.

"Caro signore, non so cosa lei voglia da me, ma mi permetta di dissentire dai suoi modi poco urbani. Non si apostrofa in questa maniera un povero vecchio a mio parere innocuo, terrorizzandolo con chiare allusioni a torture o peggio. Non vedo altresì quale miracolo potrebbe farle discernere la validità di pubblicazioni letterarie o musicali delle quali vaneggia senza costrutto..."

Uno dei picciotti si rivolse al capo che intanto mi guardava con la bocca spalancata:

"Capitano, lo possiamo torturare?"

Non mi venne in mente subito a quale pirata pubblicitario appartenesse questa battuta, finchè un secondo masnadiero (probabilmente oriundo) non disse: "Ma porta pasiensa...", rifilandomi un cazzottone sulle gengive. Sentii così in bocca il mio sangue, ed aveva il sapore dolciastro di sciroppo d’amarena. Allora realizzai che la dialettica poteva ben poco contro cervelli saturi d’ignoranza.

Afferai repentinamente la fedele Colt puntandola verso i quattro. Lei disse: "Click... click... click... click... caricami, bello, sennò non riesco a lavorare!"

Sui volti dei quattro si dipinsero maschere di soddisfazione e quelle tipiche facce di cazzo di chi pregusta uno scempio.

Cannamozza sibilò: "Cu minchia sei? Non fammelo spiare un’atra volta, dimmelo tu, prima di morire, così risparmio tempo magari a questi amici miei."

"Mario!" dissi deciso.

"Mario?" ripetè lo sgherro "E cu minchia è 'stu Mario?"

"Lui!" affermai indicando la provvidenziale Harley che intanto era sgusciata alle spalle di quel poker di stronzoni.

Mario attese solo che i quattro si girassero, poi li investì con una raffica di piombo che ne ridusse tre a materia elementare. Cannamozza invece agonizzava incredulo in una pozza di sangue.

Avrei potuto risparmiarlo, dimostrando magnanimità estrema ed ottenendo il plauso degli animi più sensibili. Invece esclamai: "Al fin della licenza io non perdono e tocco!" e lo scorticai lentamente con l'Opinel n.12 che tenevo negli stivali, lasciando assaporare a Cannamozza in mezz'ora tutta la gamma di patimenti a cui aveva sottoposto le sue vittime in circa dodici anni di onorato servizio. Quando ci vuole, ci vuole!

Nikos riacquistò per incanto la parola e la facoltà del movimento:

"In poco tempo sono invecchiato di trent'anni, ma ne valeva la pena!" così disse, dopo il mio accurato lavoretto, scotennamento e ululato conclusivo compresi.

La voce gli tremava dalla gioia:

"Sei… sei stupendamente barbaro! Ora, Triste Tenebra, a noi! Seguimi!"

Scendemmo nel sottoscala della libreria.

C'erano tantissimi libri di filosofia, pubblicazioni d'arte, e narrativa a non finire, poesia Haiku, fiabe africane e leggende andine. In un angolo erano accatastati dischi in gran quantità: riconobbi qualcosa di Daniele Sepe e un titolo dei Sonic Youth, dischi dei Gang e cassette di musica maghrebina, cd di Sakamoto e 78 giri di Billie. Addossate ad un muro trovavano posto centinaia di bobine della cinematografia essenziale di tutti i tempi. C'era una grossa fetta di civiltà nascosta in quel sottoscala, insomma.

C'era anche un grosso tavolo, al quale ci avvicinammo.

Sul tavolo troneggiava un voluminoso libro, molto polveroso.

Oltre che satura di polvere l'atmosfera odorava molto di cospirazione.

A Nikos tremava la voce:

"Tu stai cercando l'Inverosimile, caro Triste Tenebra!"

"E tu sai dov'è, Nikos..."

"Guarda questo libro, amico mio."

 

10. L'ALBUM

Era l'album con le figurine dei calciatori di trent'anni prima.

Pensai che il povero vegliardo fosse impazzito e la cosa mi sembrò perfettamente naturale.

"Non sono impazzito, Triste Tenebra, ancora un attimo di pazienza"

Evidentemente il barista del saloon non era l’unico telepate della zona.

Aprì con una lentezza esasperante la prima pagina. La concentrazione di polvere nel mio naso diventò insopportabile.

Indicò con un sorrisetto malizioso la squadra raffigurata. Era "A Seleçao Globàl", il team di all-stars autorizzato a giocare le partite planetarie comprese in schedina, dalle inconfondibile maglie a strisce verticali color indaco e violetto.

Non capivo il perché di quella patetica sceneggiata.

Per pura curiosità, ma di mala voglia, cominciai ad esaminare la pagina che Nikos, gongolante, mi indicava. Vidi facce che non mi dicevano nulla. Del resto: lo sport da una parte, io dall'altra! Sempre!

Poi mi catturò la figura... la figurina... la foto... l'immagine, insomma, di un uomo che mi era familiare... ma molto familiare... PORCO MONDO, ERO IO!

"Nikos, cosa vuol dire?"

"É possibile che tu non ricordi?"

"Cosa mi dovrei ricordare?"

"Sei tu, Triste Tenebra, sei tu! O meglio, eri tu. La stella dei "Globàl" di trent'anni fa, prima che ti spedissero al centro coatto del Limbo Prenatale per fine carriera... sai, un brutto incidente alla quarta di campionato... ma davvero non ricordi nulla?"

Nikos tirò fuori un vecchio giornale sportivo.

LA QUARTA DI CAMPIONATO

"Una cocente sconfitta ha umiliato, in casa, la nostra squadra che si sta battendo per conquistare, anche quest'anno, il titolo di Campione Totale. É importante che lo scudetto rimanga cucito sulle maglie dei nostri prodi atleti che ne incrementerebbero così il numero a 257. Ma la sorte è stata doppiamente beffarda nei confronti degli indaco-violetto, che hanno subìto il primo stop in campionato ad opera dei Gabon Vastatrix, attualmente al comando della classifica.

Infatti dobbiamo anche registrare l'incidente occorso al minuscolo ed indispensabile goleador dell'attacco di casa (e sapete chi intendiamo... ) che in un contrasto con Magilla Gorilla III, temibile stopper dei Vastatrix, si è procurato la lesione contemporanea dei legamenti crociati anteriori e posteriori di entrambe le ginocchia. Curioso lo svolgersi del fatto: Magilla ha fermato l'incursione dell'attaccante dei Globàl che si stava involando verso la rete con il rasoio da barba di suo zio Fidel, lacerando così in più punti il corpo del nostro, tra cui i preziosi legamenti. I padroni di casa si sono così scomposti subendo l'iniziativa degli ospiti, che al 90' finalizzavano (su rigore) con lo stesso Magilla. Notizie ancora da confermare dicono che la carriera del nostro attaccante sia terminata.

Una prece..."

Finii di leggere e chiesi a Nikos:

"Come finì il campionato?"

"Vinceste voi, e Magilla Gorilla fu beccato positivo ad un controllo antidoping dopo qualche partita..."

 

11. ENNESIMO COLPO DI SCENA

Tornai ad esaminare la mia figurina per accertarmi che ci fosse scritto proprio il mio nome.

Ad alta voce, accompagnato dal movimento ondulatorio della testa di Nikos che intanto annuiva, lentamente lessi:

"Centravanti titolare, 19 presenze e 73 reti nello scorso campionato, sig. Travejola Dexter Ulysse Pinocchio Pepezavorra Tristetenebra Arantes do Nascimento detto L'INVEROSIMILE."

Balzai sul tavolo e gesticolando urlai:

"Detto L'INVEROSIMILE? L'Inverosimile, io? L'INVEROSIMILE?"

"Sì, caro, sei proprio tu l'Inverosimile che stai cercando..."

"Occazzo, Nikos, è impossibile... questa storia è una cagata... non è assolutamente verosimile, e..." Mi bloccai.

Cominciavo a capire qualcosa.

Nikos continuò, sempre con un sorriso che tirava le botte stampato sulla faccia:

"Sissì... sei l'Inverosimile, ma sei anche Triste Tenebra e tutti gli altri personaggi che hai creduto di inventarti"

"E tu come sai che ho il vizio di inventarmi dei nomi?"

"Non sono diventato vecchio per niente!"

L’unico lato consolante della vicenda era che, finalmente, avevo trovato l’Inverosimile. A questo punto il mio compito era finito, avevo estinto il mio debito con Josita e potevo tornare a bighellonare nel mio "incrocio" preferito...

"Bene, Nikos, grazie di tutto... mi presti la cassetta di De Andrè dal vivo con la PFM ? Ora io vado, ho un mucchio di cose da fare..."

"Bravo, ragazzo" disse Nikos cingendomi con un braccio le spalle "Vai su Tribola, libera Vero Eroe e fagliela vedere a quella canaglia di Berlicche!".

"Ma non ci penso nemmeno, vecchio mio!" figuriamoci se avevo voglia di imbarcarmi in un’altra impresa stravagante. Avevo trovato l’Inverosimile? Stop! Finito! Basta!

"Tu ci pensi eccome..." disse allora Romy, la fedele Colt - fedele a Josita, mica a me! - puntandomi la canna dalle parti del basso ventre. Scommetto che stavolta era carica, la fedifraga! E io che credevo di averla conquistata...

Giocai la mia ultima, patetica, carta: "Ma non so come arrivare su Tribola, amici..."

"Ti ci porto io, Capo!" scoppiettò Mario. Era una cospirazione.

In preda all’ansia saltai sull’Harley e diedi di speroni, senza nemmeno salutare Nikos, che comunque, sono certo, mentre mi allontanavo sorrideva...

12. TRIBOLA

In effetti Mario sapeva il fatto suo (e non ne dubitavo; dubitavo semmai delle mie capacità di affrontare il temibile Hos). In quattro giorni di viaggio, tra rapine, soste ai Motel, pieni di carburante e centinaia di chilometri scroccati ai vagoni dei treni-merci (che faceva molto Guthrie padre) arrivammo sulle spiagge del Mare Tribolato, proprio di fronte all’isola di Tribola, tanto da distinguerla ad occhio nudo. Quello che si vedeva non era proprio rassicurante: l’isola era un enorme scoglio che sbucava dal mare, con pareti altissime e scoscese, alla cui sommità vi era costruito un castello. Il tutto mi ricordava la dimora di Dracula, una villa dei Narcos di Medellin, Alcatraz, la corazzata Yamato e la Morte Nera di Guerre Stellari messe assieme!

"Mario, dove mi hai portato?"

"Dove dovevi essere, Capo. Quella è Tribola! É lì che Hos Berlicche tiene rinchiuso Vero Eroe... e la coscienza del mondo...".

Siamo a posto! La Harley filosofa...

Con infinita pazienza obiettai: "Ho capito, Mario, ma come facciamo a sbarcarci, come potremmo mai entrare in quel castello? Suoniamo il campanello e diciamo "Buongiorno a tutti, sono il signor Inverosimile, quello che turba il sonno del vostro boss. Dovrei portare via Vero Eroe, e magari distruggere questo posto... nessun disturbo, vero?" e poi ce ne andiamo via tranquilli..."

"Sai Capo che a volte sei davvero spiritoso?"

In quel mentre fummo avvicinati da un ragazzotto bruno e brufoloso, che vendeva cocco sulla spiaggia. Già, la spiaggia era deserta, noi esclusi, ma era pur sempre una spiaggia, e la coreografia ufficiale impone i venditori di cocco sulle spiagge!

"Cocco, cocco fresco, cocco di mamma, coccooo... uè, che bella motocicletta ca tinite, signò... la vulite ‘na bella fettariella ‘e cocco fresco fresco, signò?"

"Sparisci!"

"Ah ih... e nun fate l’ntusscoso cummè, signò. Io tengo tanta altra rrobba, si vulite pruvà... ve vulite accattà na autoradio, vulite accendini... fazzulett’e carta... dicite... dicite pure signò..."

Il mio sguardo bieco non lo scoraggiò.

"Vulite na stecca e marbòro, vulite a sorema, vulite a me? Eruì, cocaì, pasticche? Uardate, signò, cumm’è bello chisto biglietto pe la festa in maschera de dummane a sera rint’a villa e dottò Bberlicche..."

Spalancai gli occhi: "Fa vedere, fa vedere!". L’articolo mi interessava!

"Chiano chiano, signò, chessa costa assaje. L’aggio arrobbato rint’a sacca ‘e nu ministro che me vuliva fòtte l’atra notte. Nun me volle pajà e accussì ci arrobbai e poi l’accisi... ma però lu biglietto costa assaje, signò...".

"Fammelo vedere bene... guarda, Mario, che dici, sarà autentico questo biglietto?"

"Per quello che ci costa, Capo...".

L’ambulante cominciò a gesticolare e, tenendosi il viso con entrambe le mani, urlò: "PÈ la maronna, e chessa parla! Tenite ‘u motore ca parla! Allora pe’ stu biglietto voglio la motocicletta, in cambio, e manco ‘na lira!".

In cambio gli diedi il calcio del Winchester sulla faccia! Piccolo delinquente! Voleva prendersi il mio amico Mario!

Ora avevamo il "pass", e potevamo penetrare nella fortezza di Hos Berlicche, addirittura venivamo invitati a farlo!

La sera seguente venimmo traghettati con tutti gli onori dal panfilo ufficiale del padrone di casa, insieme ad una moltitudine di VIP estremamente selezionata: i massimi esponenti del Governo, i capi dell’opposizione, i più alti vertici della mala planetaria, capitani d’industria e d’esercito, i responsabili supremi della Polizia Politica, l’intera gerarchia delle otto maggiori religioni del nostro Settore, il Solenne Inquisitore di stato, rag. Gianni Torquemada, l’allenatore della Nazionale, qualche divo della televisione, un paio di anchor-men amici e centinaia di aspiranti stelline del cinema. Logicamente, essendo l’occasione dell’allegro convivio la festa mascherata annuale offerta da Berlicche, si potevano contare sette zorro, undici principessine, un Re Sole con tutta la sua corte, sceriffi in quantità, indiani, arlecchini, pulcinelle ed un tipo vestito da Easy-Rider, con tanto di custom. Quello ero io.

L’imbarco venne funestato da un piccolo intoppo: mentre presentavo il mio "pass" agli addetti alla sorveglianza, saltò fuori il moccioso cui avevo deturpato i connotati il giorno prima. Cominciò ad inveire:

"Fermi, fermi! Chillu è nu ladrone, chillu fetiente ‘e mmerda m’arrubbò ieri e me facette ‘na faccia tanta! Chillu è nu ‘mbruglione!".

All’istante il tappo venne azzittito da una guardia, che mi si avvicinò scusandosi per l’accaduto... non riusciva proprio a capire come potesse essere arrivato fin lì il malvivente a disturbare il signore... Ma, mentre con noncuranza stavo finalmente per imbarcarmi, si avvicinò Leo Cayenna, il capo della sicurezza in persona (mascherato da Nerone, con tanto di cetra e cerini), amico personale di Hos.

"Un momento! Vorrei verificare..." e, rivolgendosi direttamente a me: "Prego, signore, mi faccia vedere il suo invito".

Sul biglietto inalterabile c’erano scritti nome e cognome del legittimo proprietario. In codice a barre. In quel momento pensai: "Sono fottuto!" e stavo già allungando la mano su Romy, quando Cayenna, dopo avere passato la sua penna ottica sul mio biglietto, riprese: "Ma certo! Che stupido equivoco... ma non ti avrei mai riconosciuto, così ben agghindato... certo che la statura e quello sguardo inconfondibile... scusa, scusa, ma capirai, caro, la prudenza... diavolo che bel costume che hai! Forza, lasciate passare il signor ministro!".

Così avevo delle caratteristiche fisiche del tutto simili all’effettivo destinatario di quell’invito.

Pensa proprio a tutto il mio burattinaio personale!

 

13. LA FESTA

Nel salone dei ricevimenti del castello trovai il classico, pallosissimo, clima delle feste dei ricchi. Mi ingozzai di tartine e bevvi un paio di gazzose per farmi coraggio. Non avevo un piano. Per prendere tempo ballai un po’ con Mario, ed era curioso vedere volteggiare una moto tra papillon e crinoline. Bevvi un altro paio di gazzose. Ad un certo punto, mentre faticavo a dissimulare un rutto, venni avvicinato da una signora vestita da Feldmaresciallo che mi fa:

"Ci conosciamo?"

Non avrei potuto immaginare un abbordaggio più volgare! Risposi annoiato:

"Non credo, signora..."

"Si che ci conosciamo, piccolino..."

Piccolino? Solo una donna, una volta, mi aveva chiamato così:

"Josita!" esclamai stupefatto.

"Traveggola!" rimandò lei raggiante. Ci abbracciammo.

"Ma che ci fai qui, Josita!"

Queste sei parole diedero il via all’inarrestabile monologo jositiano, cantilenante ed imbecille, che mi risultava sopportabile soltanto per l’affetto e la gratitudine che provavo per lei in quel momento (avete mai provato a sentirvi soli e imbarazzati, fra mille estranei, finché un volto familiare non viene in vostro soccorso?)

"Traveggola, Traveggola! Sono una delle ospiti d’onore, io! Non vedi che bel vestito che mi sono fatta confezionare? Collezione Göring primavera-estate... e guarda che bei gioielli che mi hanno regalato... e che bella fiaschetta di grappa-soccorso alpino! Tu, piuttosto, come mai ti trovi al ricevimento... lavori come guardia del corpo per qualcuno? No, no, sei troppo minuto! Sei una comparsa, fai l’animatore, fai il cameriere? Ma non importa! Sai la novità? Vero Eroe ha accettato! É diventato top manager-area vendite di Hos Berlicche".

Il tono di Josita non mostrava irritazione, delusione, disperazione... anzi la ragazza sembrava piuttosto soddisfatta... poco coerentemente direi. Comunque feci finta di nulla; non potevo accettare con facilità un cambiamento di umore così netto! Continuai per la mia strada:

"E così Berlicche ha convinto il tuo uomo a collaborare con lui! Come ha fatto a piegare la volontà di Vero Eroe? Lo ha torturato? Ha torturato te? Ritorsioni sui familiari?".

"Ma cosa dici, piccolino? Gli ha semplicemente affidato un’intera Dimensione in esclusiva, fisso mensile e provvigioni del 35%! Siamo ricchi, capisci? Ricchi! Il lavoro deve ancora cominciare e già siamo ricchi, famosi, belli, abbronzati... quasi mi invidio da sola!".

Una volta ancora restavo spiazzato. Che finale di merda, che fine ingloriosa per una storia così avvincente! Dovevo fare ragionare Josita: "Ma Josita, vi siete arresi... Berlicche il telepredicatore è il nemico! É un farabutto, un sacco di gente si aspettava...".

Josita mi squadrava perplessa, e compresi che non parlava più la nostra lingua.

"A te resta solo un altro anno da passare con noi!" mi ricordai improvvisamente.

"Certo, ma sarà un anno meraviglioso... senza battaglie... e Vero Eroe mi ha promesso che verrà a cercarmi, quando nasco. Continueremo la nostra storia dall’altra parte. Lui è un Viaggiatore, no? Dio, come lo amo!". Molto superficialmente continuò: "A proposito, Traveggola, hai poi trovato l’Inverosimile?".

Esitai solo un istante: "No, non l’ho trovato... ho cercato tanto sai, ma...".

"Certo, certo... beh, non importa... c’era un bel contratto anche per lui, nel caso si fosse fatto vivo... puoi restituirmi Romy, allora!".

"Col cazzo che ci torno con te, io resto col Capo!" era stata Romy a parlare, e per la prima volta mi chiamava "Capo". Questo improvviso slancio di giusta devozione mi commosse molto.

"E allora resta con chi vuoi, stronza, non so cosa farmene di un vecchio ferro arrugginito!" disse Josita, più schifata che irritata.

In quel momento apparve lui, il Berlicche.

Scese al centro del salone da una grossa scalinata di marmo che improvvisamente si era materializzata davanti a noi. Josita era estasiata e continuava a mormorare : "Quanto è bello…" con la stessa voce rotta dall’emozione di un’adolescente al concerto del cantante belloccio.

"Andiamo, Capo, sta partendo il vaporetto per i camerieri che hanno finito il turno..." questa volta a parlare era stato Mario.

"Si, certo, è tardi, andiamo ragazzi... beh, ciao Josita"

"Ciao piccolino".

 

14. NIENTE VUOL DIRE NIENTE

Tornato sulla spiaggia pensai, con tristezza, che era giunta l’ora di accomiatarsi dagli amici e tornare a casa, in attesa, un giorno, di nascere.

Anche Romy e Mario erano molto tristi. La moto addirittura singhiozzava sommessamente, un po’ scarburata. Romy invece aveva un’espressione molto dura, ma era chiaro che sarebbe bastato poco per farla sciogliere in miliardi di lacrime.

"Ci dobbiamo salutare," dissi, con la morte nel cuore, "dobbiamo dividere le nostre strade, compagni. Anche Vero Eroe, l’ultimo uomo che resisteva alle prepotenze e alle lusinghe di Berlicche si è arreso. É anche contento, credo. Chi resta?".

Romy allora sbottò: "Ma giudaporco! Ci sei tu! Sei o non sei l’Inverosimile? Il terrore di Hos Berlicche, ricercato dalla Polizia Politica di tutto il nostro Settore e dall’allenatore della Nazionale? Non so quale potere tu abbia, ma prima o poi gli farai un culo grosso così al supremo bastardo! O no?". Ora anche Romy piangeva.

Ci guardammo, tutti e tre carichi di lacrime, per qualche secondo.

Il tempo sembrava non avere nessuna intenzione di passare, come quella maledetta nuvola sulle nostre teste che ogni tanto secerneva qualche goccia di pioggia.

Un calore bruciante mi infiammò le tempie e mi gonfiò il cuore. Lentamente ripresi il controllo di me stesso… estrassi Romy, la accarezzai, la riposi nella fondina e sibilai:

"Affanculo tutti quanti!"

Saltai su Mario, che, incredulo, sprizzava gioie da tutte le valvole e incitai: "Vai, fratello!".

Lungo la strada estrassi Romy e le parlai: "Prima o poi, cara, il verme ed io ci incontreremo... e la resa dei conti è vicina... molto vicina..."

"Vuoi dire che combatteremo ancora, Capo?"

"Si, presto... molto presto...".

"Quando Capo, adesso?".

"Adesso no! Non ne ho voglia..." (pigro di natura!).

Via! Ci lanciammo così in qualche direzione per un’altra manciata di stagioni!

 

15. IL FINALE

Non si stava poi così male, trentacinque anni fa.

A quel tempo vivevo in una Dimensione molto diversa da quella in cui sto adesso. Qui ho trovato una quantità impressionante di piccoli Berlicche da combattere, ma non c’erano Mario e Romy con me. La prossima volta che "cambio aria" voglio regolare un conticino che ho in sospeso, per questa e l’altra Dimensione, per me, per Mario, per Romy, per Nikos e per tutti gli altri, accidenti!

Adeus

Adius (Piero Ciampi)

Da un pezzo siamo in Italia, anzi, siamo quasi a Milano. Il treno si è riempito, nel frattempo. Gianluca si alza, mi appoggia per qualche secondo una mano sulla spalla ed esce, a fatica, nel corridoio. Mi stavo giusto chiedendo se non sentisse mai il bisogno di pisciare! Ora sono "solo" tra perfetti sconosciuti, tra odori di ascella, di vino, di cibo malconservato, di estate sporca in generale, perciò decido di estraniarmi isolando almeno l’udito grazie alle cuffiette del walk-man, Non voglio ascoltare cassette: radio, ché ormai siamo a casa! Tempo otto secondi e la frequenza è sintonizzata su Radio Popolare, come al solito disturbata dal mantra isterico e smozzicato di Radio Maria (che prepotenza!). Ogni tanto sposto la testa e il segnale si fa più nitido: evidentemente fungo da antenna! Immagino di essere buffo, mentre torco il collo nella ricerca di una perfetta ricezione, ma è inutile cercare curiosità, o smorfie di scherno al limite, sui volti degli altri viaggiatori: vedo noia, solitudine, giornali... la mia radio... comunque ognuno, me compreso, se ne sta rintanato in sé stesso.

Dopo poco torna Gianluca, e riprende posto vicino a me. Un’altra pacca sulla spalla...ma perché mai gli ho raccontato la mia storia?

"Gianluca, pensi che io sia pazzo, vero? Mi giudichi come tutti abbiamo giudicato Ramon, ti stai chiedendo quale scopo abbia io ad impressionarti con le mie panzane..."

"No, Inverosimile, no davvero..."

"Dai, non prendermi in giro... e va bene, mi chiamo Enea..."

"Non importa Inverosimile, scendiamo?"

Il treno si ferma. Milano Centrale. Dovrò cercare il treno interregionale che mi riporterà al paesello...

Gianluca invece è atteso dalla zia.

"Quella donna aspetta un uomo, il suo uomo, da sempre..." precisa il nipotino...

La vediamo mentre ci prepariamo a scendere. Una donna piacente di certo, meno di quarant’anni, direi. Sta barcollando visibilmente sbronza.

Ho trovato! Gianluca in quella sua presunta ordinarietà cerca scampo all’imbarazzo che gli procura la parentela viziosa!

O no?

"Uehi, ciao Gianluca" dice la donna, appena le siamo di fronte, quasi gridando in faccia al nipote. Come avrà fatto a guidare in questo stato? Gianluca saluta, poi si volta verso di me:

"Ti presento mia zia..."

"Piacere, mi chiamo Enea..."

"Piacere, Josita."