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    Cammino solo attraverso questa landa desolata. I miei vestiti sono fradici (ha appena smesso di piovere), e delle gocce d'acqua scivolano giù dai miei capelli, per rigare il mio viso e confondersi con le lacrime che sgorgano copiose dai miei occhi. Il sole è tramontato da tempo, ma un insolito chiarore sembra emanare dal mio corpo e illuminare avanti a me la nebbia, che mi impedisce di vedere in lontananza. Il terreno su cui poso i piedi nudi è molliccio: sembra essere fango, ma l'odore mi rivela che sto camminando su una distesa di escrementi.
    Ad un tratto odo avanti a me qualcuno che chiama il mio nome bisbigliando. Serro le palpebre nel tentativo di scorgere attraverso la nebbia e le lacrime colui o colei che mi chiama, ma inutilmente. Sento ancora la voce: ora è più forte, e capisco che appartiene ad una donna. Questa volta viene dalla mia destra. Giro la testa in quella direzione, ma non riesco a vedere
niente. Mi chiama ancora: da sinistra. Poi alle mie spalle. Sempre più rapidamente, da tutte le direzioni, sento ripetere il mio nome, e mi guardo intorno, smarrito. "Chi sei?" chiedo, ma la voce continua a chiamarmi, vicina eppure lontana, sempre più forte, sovrapponendo le sillabe del mio nome. Mi copro le orecchie con le mani, ma la voce sta ormai gridando, e
riesco a sentirla anche così. Urlo. Chiudo gli occhi e cado in ginocchio tra le feci, con il mio nome che echeggia nel mio cervello. Resto in questa posizione per alcuni minuti, che sembrano non passare mai.
    Apro infine gli occhi. È giorno. La nebbia è scomparsa, e sono inginocchiato su di un prato fiorito e profumato. Ho smesso di piangere, e i miei vestiti sono ora asciutti. Di fronte a me vedo una casa. Un coniglietto dal pelo fulvo mi guarda dalla soglia muovendo rapidamente il musino. Alle sue spalle sopraggiunge... una ragazza, vestita di bianco. Mi osserva intenta con i suoi grandi occhi scuri. I capelli neri, di media lunghezza, le sfiorano gentilmente la candida pelle del viso. Le sue labbra formano un incantevole sorriso. La conosco. La amavo, una volta, tanto tempo fa. Prende in braccio il coniglietto e mi viene incontro. Lentamente mi rimetto in piedi. Ora è a un paio di metri da me. Sorride ancora, ma una lacrima corre giù lungo la sua guancia. La terra trema. Il coniglio tra le sue braccia è diventato un grosso ratto, che salta in terra e scappa via. Lei tende le sue braccia verso di me e piange, mentre la pelle del suo viso comincia a staccarsi. Osservo la scena impotente, incapace di muovere anche solo un dito. La casa alle sue spalle crolla. Il suo corpo si decompone, mettendo in breve a nudo le ossa, e si trasforma in una rivoltante poltiglia gialla. Il sole smette di brillare lassù nel cielo. Le sue ossa si riducono in polvere. Di lei è rimasto solo il vestito bianco, che una raffica di vento porta via, lontano. Crollo per terra, carponi. Scende la nebbia. Sento sotto le mani che l'erba del prato ha lasciato il posto agli escrementi. Piango.
    Piango perché ho capito che la amo. Che non ho mai smesso di amarla. E l'ho persa. Per la seconda e ultima volta.
 
 
 
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