La Giusta Esperienza


A cinque minuti dalle ore diciassette dell'ultimo giorno lavorativo della settimana, Tom Growin riuscì finalmente a pensare. Alla donna che lo stava aspettando, al week-end, alla spiaggia dove sarebbero andati. E a quanto era vero il fatto che non c'è niente di meglio di un buon affare concluso a cinque minuti dalla fine della giornata. Chiuse accuratamente la porta dell'ufficio, già alle prese con il programma che si stava sviluppando nella sua mente (partenza subito, la sosta lungo la strada per il rifornimento, l'arrivo entro le ventuno, l'abito di Paula che scivolava con misurata lentezza a rivelare il costume aderente e poi la corsa insieme sulla sabbia fino all'acqua deliziosamente fresca...) e si incamminò rapidamente lungo il corridoio.
Era rimasto in bilico per tutto il pomeriggio come un condannato che attende da un istante all'altro l'esecuzione e non sa se la richiesta di grazia verrà accolta in tempo. Il suo martirio era consistito nel rimanere con il fiato sospeso a schiacciarsi le chiappe sulla sedia più scomoda della sala riunioni in compagnia di quel crucco della Bayern che lo aveva fatto impazzire con la storia della fidejussione. Ma alla fine era riuscito a farlo cedere. Alle sedici e cinquantacinque, dopo quattro giorni di febbrili consultazioni telefoniche e quasi sei ore di riunione incentrata su futili cavilli, colmo di rassicurazioni sulle coperture bancarie il cocciuto discendente di Bismark aveva posato la sua maledetta penna tedesca sulla tanto indegna carta americana e aveva firmato il contratto. Bene, ora il fine settimana si preannunciava decisamente in discesa. Con questi pensieri, fischiettando sommessamente e appena consapevole di essere rimasto tra gli ultimi a lasciare il grande complesso direzionale, Tom si infilò nell'ascensore vuoto. Lui e la sua valigetta, quella moscia come la chiamava Paula prendendolo in giro, erano prontissimi per essere traghettati dal ventiduesimo al piano terreno.
Mary Busy non aveva nulla di cui essere lieta. Il terzo colloquio della giornata era finito in merda e la prospettiva di un altro sabato passato a piangere sulla pagina degli annunci di lavoro, in un replay della settimana precedente, di quella prima e dell'altra prima ancora, era veramente troppo per lei. Mentre l'ascensore si fermava al diciottesimo piano e la porta scorrevole si faceva da parte per farla entrare, pensò che qualunque cosa sarebbe andata bene, pur di guadagnare soldi. Anche aggredire a rasoiate quel tipo in giacca e cravatta per scoprire se nell'elegante borsa in pelle c'era del denaro o soltanto cartaccia. Come se avesse letto i suoi pensieri, l'uomo distinto si appiattì alla parete, continuando a guardare con insolita curiosità la lampada ad neon fissata al soffitto. 'nculo, un altro con la puzza sotto al naso, pensò lei.
Al sedicesimo piano, nuova fermata. Ralph Chister era pronto a balzare sulla sua spider per raggiungere la ragazza che lo aspettava al club. Poi insieme sarebbero partiti per due giorni di totale relax, come le aveva promesso. Era così allegro che non fece neppure caso a chi si trovava già nell'ascensore, ne all'uomo che entrò con lui.
"Dovrà fermarsi ancora molte volte?" La lucina bianca sopra le loro teste si era accesa di nuovo, ad indicare che anche al dodicesimo piano qualcuno stava attendendo la cabina. Ultimi ritardatari, pensò Ralph. Aveva dato un'occhiata alla strada prima di uscire dall'ufficio e come ogni venerdì la folla immensa degli impiegati di New York si era riversata nelle avenue come una marea incontrollabile. Manchiamo solo noi quattro, si disse. Anzi, cinque. La porta si era riaperta, facendo apparire una persona sull'attenti davanti a loro. Mary lo vide entrare, lo squadrò attentamente e stabilì che si trattava di un anziano avvocato. O qualcosa del genere.
"Tutti al piano terreno, vero?" domandò l'uomo con la borsa senza aspettarsi veramente una risposta. La cabina ripartì verso il basso con lentezza, destinazione lo zero.
Lo scossone successivo colse tutti di sorpresa. Nessuno aveva richiesto la fermata, l'indicatore era spento e si trovavano all'altezza del decimo piano, a occhio e croce. Ma non si erano fermati per fare salire o scendere.
Si erano fermati e basta.
"Che cosa sta succedendo?" Il signore brizzolato, quello che Mary aveva stabilito essere un avvocato, chiese lumi al giovane vicino alla pulsantiera, ma quello alzò le spalle. "Prema il bottone del piano terra, forza" Tom non si fece impressionare dal tono autorevole e con calma premette il tasto blu. Il rumore dei cavi riprese a invadere la cabina e lo scorrere in basso mise d'accordo i cinque. Così andava meglio.
Quando scoccano le diciassette del venerdì, New York si mobilita al suono di una tromba che nessuno può sentire e migliaia di persone sbucano dai palazzi luccicanti delle assicurazioni, dei cambi e di ogni altra società sciamando in strada come insetti che migrano dal loro formicaio. Il flusso è incessante per i primi dieci minuti e osservandoli ci si domanda dove erano stipati tutti questi individui e per quanto ci si possa sforzare non si può fare a meno di immaginarli accatastati uno sull'altro dentro quelle gabbie di vetro, pronti al trillo magico che li libererà, protesi verso due giorni di oblio dal lavoro. Dopo quindici minuti la ressa si è già attestata: chi sul marciapiede, chi alle fermate e chi sui taxi. Solo i palazzi restano al loro posto, deserti e con le luci ammiccanti a ricordare, come se fosse necessario, l'impegno del lunedì mattina.
Mary guardò l'orologio proprio nell'istante in cui la lancetta dei minuti si portava sulla sedicesima tacca; nello stesso momento l'ascensore si arrestò per la seconda volta senza motivo.
 "Adesso basta! Si tolga" L'anziano pareva molto preoccupato. Attese che Tom si spostasse per essere sicuro che non volesse fare resistenza e pigiò il tasto del numero zero. Non accade nulla per un attimo, poi ci fu il balzo che colse tutti di sorpresa. La cabina aveva ripreso a viaggiare.
Verso l'alto.

"Che accidenti ha fatto?"
Il vecchio si voltò digrignando la protesi e rivolto a Growin, disse: "Faccia lei, se sa come far andare questo affare per il verso giusto!"
"Non ci vorrà una scienza, credo." Tom si riposizionò a fianco della pulsantiera, tralasciò il gesto di far scrocchiare le dita e di borbottare qualche formula magica, tanto per fare scena. Era solo un ascensore, che diavolo! Premette nuovamente il pulsante più in basso. Si preparò al previsto contraccolpo, disse "Basta schiacciare..." ma non accadde nulla. Il movimento era inequivocabilmente ascensionale, come confermava la sensazione che il loro peso era aumentato nella spinta verso l'alto e Tom si sforzò di richiudere la bocca che gli era rimasta aperta dallo stupore.
 "Ehi, basta scherzare. Abbiamo tutti fretta di tornarcene a casa!" Ralph per di più aveva programmi ben precisi sulla sua bionda e non gli andava di perdere tempo. Growin cercò di difendersi: "Non si ferma, devono aver chiamato da sopra e qualcosa non va come dovrebbe"
 "Allora aspettiamo che si fermi." A quella proposta i cinque si misero in attesa, impazienti, fino a che  la lucciola che era stata ingaggiata per correre dietro ai numeri posti sopra la porta non ebbe terminato il suo cammino al numero trenta. Per fortuna, nessuno ebbe la pessima idea di far risuonare nervosamente la suola della scarpa sul pavimento. Voilà, pensarono tutti, eccoci arrivati. Chister formulò anche un desiderio diverso. Forse scendendo con un altro ascensore si poteva arrivare prima... Poi, in maniera inevitabile come una pietra che lanciata in alto ricade verso il terreno, la cabina riprese a muoversi, senza che la porta si fosse aperta. Tom si guardò intorno smarrito, senza vedere altro che occhi spalancati e increduli, occhi che si erano fatti molto più grandi e mostravano il bianco, come quelli degli animali presi in trappola. Il desolante rumore dei cavi che venivano avvolti e della lamiera strisciante tornò di nuovo ad accompagnarli e non c'erano dubbi che Mary avrebbe preferito qualunque altra cosa, perché urlò.

Tom, Ralph e il terzo uomo che aveva detto di chiamarsi Alan stavano tentando di aprire la porta scorrevole di acciaio brunito quando riprese i sensi. Vide sopra di lei l'anziano che le stava tenendo un fazzoletto umido sulla fronte e dall'odore capì che si trattava di Cola, probabilmente quella che aveva in mano quando era entrato il tizio con i jeans che ora si trovava di spalle. Aveva detto davvero di chiamarsi Alan o era solo un rimasuglio del sogno, anzi dell'incubo da cui non si era ancora risvegliata? Un rivoletto di liquido scuro fresco e un poco denso le scivolò sopra l'occhio costringendola ad ammiccare.
 "Si sente meglio, signorina?" la domanda sembrò provenire da lontano, da un'altra stanza quasi, mentre riprendeva il controllo degli arti, deboli e intorpiditi. "Si", rispose senza convinzione cercando di rimettersi in piedi.
"Non si muova, stanno cercando di tirarci fuori." Growin, con la faccia contratta dallo sforzo, si voltò verso di lei e cercò di rivolgerle un sorriso di incoraggiamento. "Ce la faremo, stai tranquilla. La porta sta’ cedendo"
Mary cercò di rispondere con un cenno ma non vi riuscì, la testa era così pesante e sentire ancora la vibrazione sotto di se e il movimento verso l'alto le diede la nausea. Pensò con orrore a cosa sarebbe accaduto se avessero provato ad abusare di lei; strinse le ginocchia istintivamente e indicò con la mano la tastiera blu. "No stia tranquilla, non ci pensi, abbiamo già provato ad usare l'allarme e non funziona, neppure il comando di arresto funziona ma loro proveranno a bloccare l'ascensore".
Ralph Chister si allontanò per un istante dalla porta semiaperta e come se stesse spiegando ad un bambino deluso perché il suo aquilone non aveva ancora preso il volo, disse: "Speravamo che forzando la porta si azionasse qualche dispositivo di sicurezza, ma non era una buona idea. Adesso che l'abbiamo aperta possiamo provare a bloccare  la cabina e vedrai che ce la faremo"
L'uomo taciturno, quello della Cola ghiacciata, la osservò e come a rispondere ai suoi pensieri spiegò: "Purtroppo non c'è rimasto nessuno nel palazzo, è probabile che la guardia faccia un giro ma non prima di un paio d'ore, mi dispiace".
Mary sospirò. Osservandolo meglio capì che era dispiaciuto davvero e che avrebbe voluto davvero fare qualcosa per tirarla fuori di lì. "Grazie" sussurrò con un filo di voce. Nessuno rispose. La porta adesso era completamente aperta e i quattro uomini erano intenti a fissare il cemento che scorreva al di là del vano.

Quanti minuti erano passati da quando si erano volontariamente chiusi in quella trappola per topi giganti? Venti, trenta? Non era poi così importante. Dopo lo svenimento della ragazza tutti si erano sentiti in dovere di darsi da fare per uscire di lì ancora più velocemente di quanto gli impegni e il senso di claustrofobia avevano fatto desiderare ma adesso, osservando il movimento impassibile oltre l'intelaiatura, si erano fermati per capire che cosa fare. Growin ruppe il silenzio di malavoglia: "Beh, a quanto pare per tirarci fuori dobbiamo inventarci un sistema. Cosa possiamo usare?"
Si riferiva alle travi. La cabina in perenne movimento scorreva a velocità uniforme lungo la parete nuda, e ad ogni piano si ripeteva il passaggio di una porta bianca, di un numero e di una spessa trave di acciaio posta in orizzontale che era certamente la base su cui era stato colato il cemento di quel piano. Le travi sporgevano verso di loro di una decina di centimetri e Chister si ritrovò a contare come ipnotizzato: cinque...quattro...tre...due...tre...quattro...cinque...sei...
Il movimento si impadronì di lui e per un istante pensò di poter mettere una mano, semplicemente di allungare un arto e di bloccare quella tortura infernale.
Sette...sei..cinque...
L'aria condizionata era spenta e il lezzo penetrante e nauseabondo del loro sudore iniziava a ristagnare nell'ambiente ristretto. In quel momento avrebbe pagato qualunque cosa per essere al club, a stringere un drink ghiacciato in una mano e le chiappe di una bellona di passaggio con l'altra.
Tre...due..tre...quattro..cinque...
  Distolse lo sguardo per non urlare.
"Proviamo qualcosa" supplicò gli altri, con gli occhi atterriti dall'impazienza.
"Facciamo leva con un oggetto rigido, dovrebbe incastrarsi". Growin osservò distrattamente la sua borsa, pensando che non c'era niente altro di utile nella cabina. A meno di non staccare un pannello con i denti...
Fece uscire i fogli che gli interessavano, tra cui il contratto appena siglato, e li passò nella tasca interna della giacca.
"Mettiamoci questa!" E facendo un passo avanzò la mano verso l'intelaiatura vuota.
"Fermo!" gridò Alan bloccandolo prima che potesse lasciare la borsa. "Se si dovesse incastrare, dobbiamo almeno essere all'altezza di una porta" .Tom si voltò a guardarlo. Stava perdendo la ragione, non aveva pensato ad una cosa semplice come quella.
 "Hai ragione " ammise. Lasciò la ventiquattrore in mano al compagno di sventura e lo osservò torcendosi le mani. Fa che funzioni, pregò mentalmente.
Alan soppesò la sua unica arma, attese che l'ascensore riprendesse la sua folle corsa verso l'alto e tutti lo videro calcolare con attenzione l'istante della manovra.
Improvvisamente scattò in avanti infilando un braccio fra il cemento e la trave rossastra di ruggine. Alan balzò indietro in tempo per vedere la pelle della valigetta aderire al corpo grigio e ruvido del palazzo con un gemito quasi umano che fece rabbrividire tutti, la vide piegarsi facendo  rallentare per la prima volta il tragitto e strisciare fino alla trave per esserne quasi risucchiata. In quel momento furono finalmente fermi e il braccio di Growin scattò veloce a colpire il rettangolo bianco. La porta cedette sui cardini ma fu rimandata indietro dalle molle di chiusura con forza raddoppiata. La sacca informe che era stata la sua borsa cigolò richiamando la loro attenzione e in un brivido generale di dolore fu risputata come in un infernale rigurgito da quel gigante irritato che li stava imprigionando.
Infine un balzo violento verso l'alto li fece cadere tutti sul pavimento.
Mary scoppiò a piangere.

Alan fu l'ultimo a rialzarsi, quasi con fatica, come se sentisse su di se tutta la responsabilità del fallimento. Cercò lo sguardo consolatorio di qualcuno ma gli occhi erano rivolti altrove, chi al cielo freddo di neon, chi alle tre pareti immobili della loro esclusiva cella di isolamento riservata. Nessuno ebbe il coraggio di vedere al di là del varco; le porte scorrevano come strisce bianche sull'autostrada. Si sentì il meccanismo di carrucole e cavi mettersi a riposo per un attimo mentre la loro ascesa diventava nuovamente caduta, per una nuova lunga corsa verso il niente.
"CRISTO!" Growin sferrò un pugno alla lamiera ondulata che rispose con un tonfo beffardo. "Voglio uscire, fatemi USCIRE!"
Alan lo osservò e per la prima volta ne notò il profilo rimanendone sorpreso e inquietato. La fronte costellata di goccioline fredde di sudore formava una linea ininterrotta con il naso mentre la parte inferiore del viso era angolata verso il basso dando a quel viso un contorno tale da far pensare che fosse stato colpito di taglio da un boomerang. Alan evitò di guardarlo di nuovo.
L'anziano strinse la mano della ragazza. Era gelida e alla vista del volto inerte si spaventò, pareva che le avessero reciso la carotide tanto che il bianco lucido della pelle lo mise a disagio e lo fece guardare da un'altra parte.
Chister sollevò in alto i brandelli di tessuto marrone che gli erano piombati addosso. "Adesso che cosa facciamo, crepiamo di fame, aspettiamo lunedì o che cazzo vogliamo fare?"
"Calma, forse possiamo..."
"Possiamo niente stronzo, avevamo una possibilità e l'abbiamo persa, non usciremo mai di qui"
Gli occhi liquidi e immensi della ragazza si fissarono su di lui; come la vide cercò di voltarsi ma era inutile. Singhiozzando appoggio la fronte alla parete cercando di calmarsi.
"Pensavo che c'è ancora qualcosa da fare" La voce di Alan fu calma e nitida, appena sufficiente a superare il rumore della salita che era appena iniziata, per l'ennesima volta.
"Che cosa?" L'anziano guardò l'uomo di fronte con incertezza.
"La borsa è riuscita a rallentare e quasi a fermare la cabina, certamente qualcosa di più rigido potrebbe bloccarla."
"Non abbiamo niente, nulla di simile"
"Si, ce l'abbiamo" Otto occhi fissarono Alan come per penetrare nei suoi pensieri, per aggrapparsi all'ultima speranza.

"Che cosa paghereste per uscire di qui?"
Ralph strinse i pugni e ricambiò lo sguardo di Alan con tutto lo scetticismo possibile, come se gli avessero proposto di scommettere su un cavallo a tre gambe. "Che cosa stai dicendo, sei pazzo?"
"Tu rispondi, come uscire è affar mio"
Growin mise una mano in tasca e la fece riapparire colma di biglietti. Strappò nervosamente un paio di fogli bianchi e tese il resto ad Alan.
"Trecento dollari"
Alan non li afferrò, attese che anche gli altri facessero lo stesso. Quando chiuse la mano destra stringeva un totale di quasi duemila dollari in biglietti di diverso taglio.
"Ora mettetevi in piedi a fianco della porta e state pronti a uscire. Non dovete voltarvi a guardare indietro, chiaro? Dovete saltare fuori velocemente, non posso assicurarvi che rimarremo fermo per molto tempo. Chiaro?"
"Ma che cosa..."
Alan alzò un braccio ottenendo il silenzio. "Niente domande. Siete pronti?"
L'anziano afferrò Mary per un braccio e rispose per primo. "Pronti" Gli altri due si disposero al suo fianco.
Alan si sdraiò con fatica sul pavimento di fronte al vano della porta, osservando quasi con indifferenza lo scorrere delle travi. Il rimbombo delle carrucole sopra di loro risuonò crudele e freddo.
"Ora!"
La cabina si arrestò di colpo. La ragazza, il vecchio e i due uomini balzarono in avanti attraversando la porta bianca e appoggiarono i piedi sul pavimento del decimo piano.
Solo Growin si voltò per un istante a guardare e l'immagine che vide lo avrebbe poi perseguitato per diverse notti. L'uomo ai suoi piedi era rimasto nella cabina e teneva il ginocchio destro incastrato contro la parete di cemento, schiacciato dal profilo di acciaio grezzo. Il volto violaceo era gonfio al punto da scoppiare.
Dopo un istante la porta si richiuse e loro non poterono fare altro che contare alla rovescia: nove...otto...sette...sei....
Venti minuti più tardi, un guardiano tornava nella stanza con le pareti di vetro al piano terra dove Mary aveva finalmente potuto sedersi senza che tutto intorno a lei si mettesse in movimento. I quattro lo videro arrivare e attesero la risposta alle loro domande. "Signori, io non so che cosa sia successo ma credetemi, non c'è nessuno in quell'ascensore. E funziona regolarmente."

Zoppicando leggermente, un giovane uomo attraversò la pensilina della metropolitana e bloccò la porta del vagone che stava per ripartire appena in tempo per poter salire, poi strisciò all'interno cercando un sedile libero. Teneva una mano sulla tasca destra dei pantaloni e il viso un poco sudato denunciava la corsa che aveva fatto per non perdere la coincidenza.
Undici mesi di Vietnam gli avevano insegnato a controllare il dolore, almeno per impedirgli di gridare e l'amputazione della gamba destra all'altezza del ginocchio era ormai solo un ricordo che non procurava nulla di più che un leggero fastidio nei movimenti. Della sua vita normale preferiva ricordare i tre anni di lavoro prima della guerra, passati con suo padre a riparare gli elevatori e a memorizzare tutti i trucchi che aveva appreso nel programmare le centraline di controllo. Poi non c'era più stato lavoro per un reduce, per di più mutilato.
Domani, pensò Alan con sollievo, è un altro giorno e l'inizio di una settimana di riposo. Mercoledì, al massimo giovedì, l'associazione degli ex combattenti gli avrebbe fatto avere una protesi nuova, la terza di quel mese.
Fuori dai finestrini la scritta "West Lender-New York" passò veloce.
Ci sono molti palazzi, nel West Lender.
E molti ascensori, pensò con soddisfazione.
 
 
 
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