I Miei Racconti



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FINITA

Sto sbirciando attraverso un buco nella siepe. Mica facile, con questi rametti che tendono a scattare in fuori stile filo spinato mirando agli occhi. Potatura malfatta. Il problema più serio, le ginocchia, comunque si è risolto: non me le sento più da una mezz'ora. Bene.
L'insensibilità mi aiuta a concentrarmi sulla casa. Villetta, dovrei dire. E' esattamente quel tipo di ciarpame residenziale che i geometri definiscono "villetta": due piani fuori terra più garage seminterrato e, certamente, tavernetta attigua. Nel giardino, betulle. Ma la colpa non è di Lisa. Lei non è responsabile dei faretti sul prato e dell'antenna satellitare spadellata sul tetto a... Finalmente! Eccola. Si è aperto il portoncino blindato e lei è lì, qui, a tre metri da me che mi emoziono e perdo l'equilibrio e mi spino la faccia e... C'è mancato poco. Scricchiolio di rotule come una fucilata nel silenzio. Ma lei non se n'è accorta. Guarda la luna, lei. Forza, bella, avvicinati ancora un po', abbassa quella dolce testolina, sì, così, vieni, altri due passi, ma, insomma! dài, come fai a non notare niente? Proprio lì, tra Dotto e Mammolo, dove dovrebbe starci Pisolo, non la vedi la terra che è scavata di fresco, tutta nera?
L'ha vista. Ha già raccolto il volantino. Lo sta orientando verso la luce di un faretto. "Comitato di Liberazione dei Nani da Giardino" è scritto in grosso, quindi ora deve aver capito che lo scavo è opera mia, che magari sono qui da qualche parte che la osservo di nascosto. Infatti alza la testa e si guarda intorno. Apre la bocca come per parlare, ma la richiude subito. Fammi un sorriso, tesoro, coraggio, uno solo. Quello del Comitato di Liberazione dei Nani era uno dei nostri scherzi privati. Sei stata addirittura tu a ideare la sigla, ricordi? Quel giorno quasi morivamo dal ridere, nell'immaginare la faccia di tua madre che trova la richiesta di riscatto e l'ultimatum. Ma niente sorriso, naturalmente. Non so come faccio a ficcarmi sempre in questi casini.
Lei scruta le ombre indietreggia verso la porta, poi cambia idea, impettisce e inizia a camminare rapidamente sull'impeccabile vialetto ghiaiato. Trenta metri di parco fino al cancello. Le gambe mi fulminano con una fitta da urlo, poi si rassegnano a farmela pagare solo un passo alla volta. Procedo a schiena piegata lungo la siepe. Seguo il rosicchìo delle scarpette coi tacchi sulla ghiaia, sento il rumore del cancelletto che si apre e si chiude. Dove finisce la siepe c'è un grosso cespuglio. Mi accoccolo lì e la guardo. Volta la testa di qua e di là, incerta sul da farsi. Forse s'aspetta un mio agguato o qualcosa. Il silenzio che trova sulla strada sembra non piacerle. Sul visetto da bambolina si forma una smorfia che conosco come il mio appartamento. Apre la portiera della Ka rossa fiammante, regalo di laurea, e scivola dentro leggera, aggiustandosi la gonna a pieghe attorno alle gambe. Potrei impazzire. E' così difficile controllarsi, sull'onda lunga dei ricordi che contemplano quella stessa gonna, quelle lunghe gambe sotto le mie mani. I giochi che inventavamo...
Cavoli! Non è questo il momento, non è questo, con lei che accende fari e motore e se ne va e io qui, che dovrei già essere al volante della mia macchina e invece no.
Immagino la mia espressione da ebete, mentre mi passa davanti e procede lungo la via con la sua automobilina che pare un giocattolo. Ho parcheggiato oltre l'angolo, in modo che non vedesse il mio riconoscibilissimo catorcio. Lo raggiungo di corsa. Chiave, portiera, sedile. Avanti, bimbo, accenditi, accenditi. L'idea di Lisa che si sta allontanando e io dentro sto' rottame che non parte mi fa imbufalire. Ingolfo il motore. Tiro un calcio, due. Prendo a pugni il volante, il claxon lancia un paio di disperati muggiti. Giro e rigiro la chiave e infine il motore s'accende in un rombo, vomitando una nube di fumo azzurrino dallo scappamento. Grido un "Ah!" di trionfo e mi lancio all'inseguimento. Percorro la strada che fa di solito, la conosco a memoria. Di Lisa, conosco tutto a memoria. Per uscire da qui gira la prima a sinistra, poi subito a destra dopo la casa - pardon, "villetta" - dell'ingegner Martini, amico del babbo, poi ancora a sinistra e infine... eccola! Cavoli, le sono quasi addosso!
Mi attacco ai freni con i denti. Se la tampono va tutto in malora. Cosa ci fa lì in mezzo alla strada ai trenta orari? Deve aver mangiato la foglia. Non sei scema, tesoro, di questo te ne do atto mentre metto la freccia e svolto alla prima che capita. Non sei scema, d'accordo, m'hai quasi fregato. Sei proprio in gamba. D'altronde, chi è tra noi due che ha inventato lo scacchi-strip? Chi altri avrebbe mai potuto concepirlo? Io neanche ci volevo giocare all'inizio, tanto sembrava una cretinata. Ma funzionava. Eccome se funzionava. Io lottavo con coraggio ma vedevo comunque i miei pezzi e i miei vestiti ammucchiarsi in un lampo di fianco alla scacchiera. Non c'era niente che potessi fare per contrastarti, niente. Perdevo, e ogni volta potevi fare di me ciò che volevi.
E dove cavolo sto andando adesso? No! No, maledizione! Non devo distrarmi! Non ora! Freno, effettuo un'acrobatica inversione a U, salendo su entrambi i marciapiedi e rischiando di abbattere un lampione.
E' la solita strada, basta seguirla, così, calma, calma, è tutto a posto. Deve essere poco più avanti, vicina, raggiungibile. Non può essere andata lontano, non come guida lei. Seguo la pista della mia memoria. M'immetto nel traffico cittadino e aguzzo gli occhi. Intorno a me i lampioni, i fari delle auto e tutti i loro riflessi sulle carrozzerie e le vetrine dei negozi. Per un po' Lisa non si vede, poi sobbalzo quando scorgo una Ka rossa in lontananza, con la freccia a destra. Se svolta potrebbe non essere lei, non è la strada che avevo previsto. Devo prendere una decisione, e devo farlo nei sei secondi che mi separano dall'incrocio. Ok, andiamo. Sterzo senza freccia, tagliando la strada ad un tizio in Vespa, che però fa in tempo a frenare e a mandarmi in quel posto. Accelero con il cuore in gola. Sento i battiti pulsarmi nelle tempie rapidi, dolorosi. Se non è lei sono cavoli. Ma è lei, posso respirare. Mi tengo indietro, lascio un'auto in mezzo come nei telefilm. Ma dove stai andando? La festa è dalla parte opposta; non ci arriverai mai di questo passo, tu che hai sempre odiato fare tardi. Poi capisco, e un brivido mi risale la schiena. Devo averla proprio sconvolta. Non ne ho ancora la certezza, però, così incrocio le dita e continuo a seguirla, sperando di sbagliarmi. Ma non mi sbaglio. Prende tutti gli incroci che deve come deve, in cinque minuti sono davanti a casa mia.
Lei accosta, io la supero in volata sperando che non mi veda. Svolto a destra e parcheggio sbucciando le gomme sul marciapiede. Sbatto la portiera e corro. La spio dall'angolo della casa. Lei è là, in piedi di fianco alla macchina sotto il lampione con le mani sui fianchi. Non mi vede, cammina decisa su per la scala fino al pianerottolo e scompare alla mia vista. La immagino davanti alla mia porta. Immagino il suo ditino delizioso che preme il campanello. La immagino ascoltare il silenzio, appoggiare le spalle alla porta, iniziare ad aspettare. Cosa faccio, adesso? Perché mi caccio sempre in questi guai? Non se ne andrà finché non mi avrà visto, parlato. E io che pensavo di aver pensato a tutto. Erano sviste come questa che mi erano fatali, nelle nostre partite a scacchi. Lisa ha sempre avuto quest'innata capacità di buttare tutto all'aria, di rendere imprevedibili anche due spaghetti al sugo; figuriamoci questo piano bizzarro per riconquistarla, che comportava addirittura il sequestro di un nano da giardino. Avesse fatto un solo sorriso, da quando se n'è accorta.
Rimanermene qui non servirà a niente. Ritorno alla macchina, faccio il giro dell'isolato per arrivare dalla parte opposta, e parcheggio muso contro muso alla Ka di Lisa. Scendo e indosso una faccia da culo che non sapevo di avere. Salgo le scale. Lei non si muove, si limita a staccare le spalle dalla porta, stringe le labbra sottili. E' una provocazione, e le riesce bene. Riesco a distogliere lo sguardo per quasi un secondo, poi le dico ciao.
Lei mi schiaffa il volantino a due centimetri dal naso.
-Cos'è, questo?- Domanda. Sento come una mano che mi afferra lo stomaco e dà una stretta. Rido un risata falsa. Estraggo le chiavi dai jeans e apro la porta di casa.
-Entriamo, ok?- dico. Lei mi segue riluttante, mi guarda male quando chiudo la porta, come per dirmi che niente catenacci, stavolta. D'accordo, è giusto. Ma poi la vedo sedersi composta sul solito divano con le gambe unite, i piedini uniti nelle scarpette di vernice coi tacchi, quando un tempo ora sarebbe stata nuda e impaziente e avrebbe preteso un atteggiamento conforme.
La mano che mi teneva lo stomaco comincia a frugarmi dentro come a un secchio pieno di cianfrusaglie rumorose. Cerco le parole.
-Credo di aver...- lei mi interrompe.
-Non lo voglio sapere,- dice. Dopo tutti i miei preparativi. -Mi sembrava di essere stata chiara. Mi sembrava di essere stata più che chiara. Evidentemente mi sbagliavo.- Questo suo pragmatismo mi uccide, come l'aria di ragionevolezza che ha indossato per l'occasione. Cerco d'intervenire ma mi zittisce ancora. -Sto con Ruggero, adesso. Te l'ho detto. E' ora che ti rassegni, che la finisci con 'sti scherzi cretini, con le tue stupidaggini. Basta.-
Ruggero. Me lo immagino proprio, Ruggero, peloso e villano. Posso già vederlo uscire dal campo infangato fino agli occhi, assieme agli altri ventuno minorati più arbitro e guardalinee. Posso già vedere te, tesoro, che sorridi beota e lo applaudi perché se no si offende e dice che non lo capisci, tu che hai uno spasmo solo a pronunciare la parola "calcio". E lui che invece ignora come un somaro le tue poesie, che deride i tuoi acquerelli, che non distinguerebbe un gambetto dall'arrocco.
-E' impossibile,- dico. -E'... impossibile.- Che altro?
-No, invece, è così! E' la realtà,- dice. -Dimentica. Io l'ho già fatto.- Si alza. Questa è troppo grossa. Dimenticato, dice? Non ci credo. Le afferro un polso. Stringo. Le grido in faccia.
-E i nostri giochi? Il nostro fuoco, il nostro amore!- Non sta succedendo davvero, penso, questo è un teleromanzo di bassa lega; senti che battute del cavolo.
-Lasciami!- Grida. Ma io non la lascio. Anzi. Mi sento prendere da qualcosa di pericoloso. L'attiro verso di me, cerco di baciarla. Lei si divincola, cadiamo sul pavimento, sulla moquette color sabbia che ha ospitato tanti nostri amplessi da avere il nostro odore. Lottiamo, ribaltiamo il tavolino delle riviste, la lampada a stilo. Quando finalmente trovo la sua bocca, lei mi spara una ginocchiata al ventre che mi piega in due come un foglio di carta. Boccheggio, lascio la presa e con gli occhi sfuocati la vedo che fugge carponi. Mette un paio di metri tra noi, appoggia la schiena al divano e mi guarda in lacrime.
-Perché?- geme. Anche così, col trucco sbavato e il ginocchio che sbuca da uno strappo nei collant, è bellissima. Tesoro, sono io, io, che ti chiedo perché.
-Lisa,- ansimo. -Io ti...-
-NON DIRLO!!- Lo grida così forte che poi scoppia in una tosse spasmodica. Quando si riprende continua ad urlare. -Non dirlo! Non è vero! Non è vero! Tutte le cose che facevamo insieme, tutto, tutto quello che facevamo era niente! Niente! Un sogno! Un incubo! Una malattia! Come fai a non capirlo?- E' arrabbiata, furiosa. -Perché non ti svegli? Io l'ho fatto! Perché tu no? Perché?-
Non le rispondo. Incubo, dice, malattia. Rimango sul pavimento, osservo la mia personalissima linea dell'orizzonte verticale. Come se la mobilia fosse montata sulla parete, e su quella camminasse anche Lisa. Si è alzata, e prova ad aggiustarsi abiti e capelli. Mi guarda con il viso impiastricciato dal trucco.
-Non volevo che andasse così.- Abbassa la testa e mi dà le spalle. -Ma questa cosa tu la devi capire. E' finita. Finita.-
Apre la porta ed esce senza richiuderla. Sento il rumore dei suoi tacchi, della portiera, del motore che si avvia e si allontana. Il mio incubo meraviglioso se n'è andato. Aspetto immobile, vedendo la notte diventare giorno come una videocassetta in avanzamento veloce. Poi dei passi si avvicinano, un'ombra oscura la fessura di luce della porta semiaperta. Sento il timido bussare che non può essere che quello di mia madre. Duemila anni fa mi aveva detto che stamattina sarebbe passata.
-C'è nessuno?- dice. -Francesca? Sei lì?-
Poi entra, mi vede, lancia un gemito, corre e mi s'inginocchia a fianco.
-Francesca! Oddìo, cos'è successo? Francesca!-
Cos'è successo? Non ne sono più tanto sicura. Tutto è lontano, ormai. Il pianto non è che il ricordo del sapore del rimmel colatomi in bocca.
Mia madre continua come un disco incantato.
-Oddìo, oddìo, oddìo! Francesca, rispondimi! Cos'è successo?-
Non capisce che non lo so veramente. Che la mia mente è così vuota che ci potrebbe sentire l'eco della sua voce. Che l'unica cosa a cui riesco a pensare, per lei non avrebbe senso: un nano da giardino nascosto nel folto di una siepe.
Chissà se lo ritroveranno mai.



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