All’inizio era un gabbiano
con le ampie ali spiegate,
però completamente bianco,
in bilico nel cielo azzurro.
Ed esso volava giù in cerchi
sempre più stretti, fin quando
si posò sul bordo della zattera
(o era una gabbia galleggiante,
simile a quelle usate da Circe
per chiudervi lupi e cinghiali).
Poi assunse un aspetto di donna:
una splendida ragazza in bikini
avvolta in un velo trasparente.
“Ma io ti conosco” le dissi
con le labbra riarse, confuso
nel bel mezzo del mio delirio,
“Tu sei la modella e l’artista.
Sei quella che abita al Village
e che dipinge quadri astratti
con più di cento colori diversi
e ognuno è vivo come un canto.
Avevo una tua foto una volta
e la portavo sempre con me,
ma l’ho persa in un naufragio.
Ho perso la patria, gli amici,
con quel maledetto disastro”.
“Ben lo so” lei ha risposto,
con un sorriso da copertina
di qualche rivista illustrata,
“So tutto di te. Puoi chiamarmi
Circe se vuoi, Sirena o Calipso.
Puoi pure chiamarmi Penelope.
Ma neanche tu ignori chi sono.
Io sono Ino, detta Leucotea,
quella che si gettò dall’alto
giù fra le onde in burrasca
e fu mutata in dea del mare.
Da allora soccorro i marinai,
i quali hanno perso la rotta
nel perenne flusso delle cose”.
Io avrei voluto risponderle
a mia volta, magari indagando
su quel suo rischioso segreto:
se poi ci fosse un compromesso
accettabile, qualche onorevole
via d’uscita da tanti errori
ed orrori, così da giungere
in porto senza andare ancora
alla deriva. Ma oramai lei
era tornata bianco gabbiano,
che si tuffava dentro l’acqua
per riemergere troppo lontano
con un pesce stretto nel becco.
Sul ciglio della mia zattera,
era rimasto solo e impigliato
il suo magico velo. Lo afferrai,
prima che anch’esso volasse via
sollevato da un vortice d’aria.
Me lo legai intorno ai fianchi
e sentii rinascere il coraggio,
recuperai le mie ultime forze.
Proprio allora all’orizzonte,
una terra scoscesa di rocce
era apparsa come per incanto.
Già suonava l’ennesimo canto,
lo cantava la voce del vento
che di nuovo gonfiava le onde
e diceva “Adesso, o mai più”.
Mentre si scioglievano i nodi
che tenevano insieme le assi
cigolanti con un cupo lamento,
prima che galleggiassero sparse
come fogli di un vecchio poema,
mi gettai a nuoto abbandonando
la zattera al suo vario destino.