Il frutto dell’oblio

 

 

Dimenticare la patria

insieme ai propri cari,

dimenticare la guerra

coi suoi lutti e rimorsi

o le cicatrici impresse

nella carne e nell’animo.

Scordare ogni affanno,

e lasciare che i vivi

vivano una loro vita

se e come a dio piace,

lasciando che i morti

seppelliscano i morti

come recita un poeta.

 

Questo e nient’altro,

il dono dei Lotofagi

gentili e smemorati.

Era, a ben giudicare,

un’insidia contraria

ma non meno rischiosa

di quella delle Sirene,

le marine incantatrici

che facevano affiorare

grazie al magico canto

ogni angoscia sommersa

nelle nostre coscienze.

 

Vietai ai miei compagni

di mangiare quel frutto,

offerto a noi stranieri

dagli abitanti del luogo.

Io invece ne assaggiai

nascosto agli sguardi,

già a bordo della nave

lontana da quella costa

infida di sabbie mobili.

I flutti si placarono

e il cielo si schiarì

davanti ai miei occhi,

benché per i miei uomini

infuriasse la tempesta.

 

A volte ancora adesso

torna a farsi sentire

l’effetto di quel frutto

e causa vuoti di memoria

ovvero prolungate assenze

dalla realtà circostante.

Allora non riconosco più

la mia isola, e la fedele

Penelope diventa estranea,

lei intenta al suo telaio

a fianco di un marinaio

ormai rimasto senza nave

e privo della sua ciurma.

 

Verrà un giorno in cui

mi allontanerò di nuovo,

con un remo in ispalla

e un sacchetto di sale

ben stretto in una mano,

incapace questa volta

di ritrovare la strada

del ritorno verso Itaca.

Non più Ulisse ma Nessuno,

mi perderò fra una gente

che ignora la mia lingua

e che non conosce il mare,

come mi predisse un cieco

giù nel regno delle ombre.

 

 

Pino Blasone

 

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