Mr. Larocchi, I suppose “Il simbolismo moderno è simbolismo <aperto> proprio perché vuole essere anzitutto comunicazione dell’indefinito o dell’ambiguo, del polivalente”U.Eco
“Nella misura in cui il presentatore di cataloghi d’arte vuole salvare la
propria dignità e l’amicizia con l’artista, l’elusività è il fulcro dei
cataloghi di mostre”
Ci sono cose che si possono e cose che non si possono fare con il paesaggio. C’è insomma un’etichetta del paesaggio, con le sue regole di bon ton e di buon senso. Lo si “ammira”, si “scorge, si “ritrae”, con quei tratti che si “delineano” all’orizzonte, si “intuiscono”: può essere notturno o agreste, montuoso o pianeggiante oppure desolato, rigoglioso, spettrale o inconsueto. “Vivibile” o “pericoloso”, ecco gli aggettivi che non quadrano ma che ci aiutano ad inquadrare il paesaggio, se è vero come è vero che esso è sempre “quadro”, ricomposizione del territorio in forma d’immagine. Nel paesaggio non si vive e non gli si attagliano verbi ed attributi che denotino interazione o partecipazione: ti mando a quel paese, non a quel paesaggio, perché neppure in metafora il paesaggio è un luogo dove si possa andare. Il paesaggio chiede cornice e distanza per essere visto, ma se il vedere è l’unica azione che consenta ogni inquadratura sarà una cornice, un limite, e come ogni limite avrà la funzione di separare da noi ciò che ci è straniero; sarà sempre qualcosa da cui siamo fuori, quasi un’impossibilità dello stare dentro. Il paesaggio è sempre “altro”, e l’altro è proprio ciò che non potremo mai essere. Nel ricomporre il dato naturale in forma percettiva stabiliamo una corrispondenza ma al contempo marchiamo una distanza: ogni simbolo è il disperato tentativo di surrogare un’identità.
“Qual rugiada o qual pianto,
Caratterialmente, il paesaggio sta sempre sulle sue. Tiene le distanze, è distanza. Una distanza che vibra nell’interiorità, un paesaggio dell’anima, si potrebbe dire, tanto per dimostrare che a volte i paroloni ci azzeccano. “Dolce, quando sul vasto mare i venti sollevano i flutti, assistere da terra alle dure prove altrui”: così nel De rerum natura di Lucrezio, in quel celeberrimo attacco del secondo libro che da Burke in poi tanta parte ha avuto nella genesi dell’immaginario romantico, esercitando una durevole suggestione sulla pittura inglese di paesaggio. La vista della natura si alimenta di una distanza fisica che chiede di essere superata nel momento stesso in cui è posta: la natura si mostra come possibile symbolon (“ciò che unisce” l’unità spezzata di io e mondo) e nel farlo prende la forma del paesaggio, perché solo nello spazio vuoto della distanza possono vibrare le note dell’accordo sotterraneo tra forme esteriori e risonanze interiori. Empatia o astrazione, Tasso o Lucrezio, ciò che è certo è che il paesaggio non ci lascia indifferenti e ci spinge irresistibilmente a metaforizzare, a parlare di paesaggio “malinconico” e di umore “cupo”. L’io non sa resistere alla perpetua tentazione di appropriarsene e di imporgli il proprio linguaggio con la stessa disinvoltura con cui Arcimboldo faceva di una natura morta un viso.
“Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli
anni popola uno spazio con immagini di provincie, di regni, di montagne, di
baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di
cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente
labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto.” Nella funzione “paesaggio=io×x2” l’incognita, come abbiamo visto, ha valori variabili, mutevoli come i moti dell’anima. Tra le possibili varianti quella di Larocchi è l’azzardo di una proposta forte, una soluzione ontologica dove il paesaggio “è” io, non tanto come trascrizione delle sue pulsioni quanto come azione dell’io stesso che si reifica e che in questa partenogenesi delimita e significa lo spazio, da intendere come assetto variabile di una funzione che è l’anima, l’io. L’intima corrispondenza tra spazi interiori ed esteriori ha una storia antica: “I confini dell’anima, per quanto tu vada, non potrai trovare, dovessi pure percorrere tutte le strade: tanto profondo è il suo logos” scriveva Eraclito, idea che ritroviamo immutata in Plotino, qualche secolo dopo: “Non esiste un punto in cui si possano fissare i propri limiti in modo da poter dire: fin qui, sono io.” (Enneadi, VI,5,7). I “Paesaggi poco romantici” offrono scorci sempre inconsueti: distese di sciami sismici, geografie di scritture, spugnature che fanno della tela un paesaggio tormentato di vette e pianure. Il raggelamento emotivo del bianco e nero, che balza subito all’occhio, riduce la geografia all’essenziale e nel minimalismo della monocromia marca più nettamente dell’immagine-colore i contrasti che articolano lo spazio, mettendo a nudo la precarietà di uno spazio che è da sempre sospeso al gesto del creatore; messa tra parentesi ogni interpretazione puramente sentimentale (leggi romantica) o naturalistica (leggi realismo) del paesaggio, lo sguardo è condotto all’essenziale, a quella sottile linea di confine che separa il paesaggio come oggetto incorniciato dalla sua rilettura come solidificazione del gesto pittorico, azione stessa nella forma della permanenza, pensiero che mette su carne. “Paesaggi poco romantici”: nello scandire sostantivo, avverbio ed aggettivo la grammatica non sussulta, eppure non riusciamo a liberarci dall’impressione che qualcosa non quadri, ed in bocca ci rimane un persistente retrogusto amaro, un sapore di ossimoro e paradosso, quasi fosse impossibile pensare ad un paesaggio che non evochi sentimento, come se il sentimento fosse l’unica forma attraverso la quale il mondo sappia farsi paesaggio. Con Larocchi si intravede un possibile percorso alternativo: se il paesaggio fosse invece un volto inciso dal gesto, un’azione pietrificata priva di referente oggettuale che non sia l’azione della mano che quel paesaggio incide, action painting che mette in mostra non la fisicità del gesto ma il suo inconscio concettuale, scrittura in trance che chiede di essere decifrata e che nel dipanarsi cela la chiave della propria interpretazione? La relazione qui non sta tra cosa e segno, ma tra segni che strato su strato acquistano senso e che, nel e per farlo, creano spazio reiterando sé stessi, mostrando come qui il significato sia immanente e non trascendente alla rappresentazione. Il segreto non è altrove ma qui, e il sentimento non è lo sdilinquirsi del cuore ma un sentire lo spazio pittorico come protesi dell’io: l’abito fa il monaco, insomma. L’ossessiva scansione ritmica che, come il battito di un cuore, fa pulsare l’immagine consente l’affiorare di singolari cristalli di senso; ecco allora l’oggetto che coagula in pensiero la varietà dei detriti interiori: la spugna di cera, che invera come scrittura dell’anima l’iterazione ossessiva dei grafemi che compongono il quadro ma allo stesso tempo la mette in discussione, perché la spugna è di cera e non può cancellare nulla, nessuna scrittura. Un sismografo con infarinatura di psicanalisi, onde sismiche con spiccata attitudine all’autoanalisi.
“ Una rosa è una rosa è una rosa”G. Stein Il carattere autoreferenziale di questi paesaggi ha il senso di una rivelazione lapalissiana: l’arte non è realtà e un paesaggio non è un paese. “Ars longa vita brevis”: la vita ha sempre una taglia in più del vestito che le cuci addosso. La spugna di cera non è spugna (Heidegger direbbe “non spugneggia”), come la parola funzione, in matematica, significa qualcosa di diverso da ciò che vogliamo intendere quando diciamo, ad esempio, che abbiamo messo in funzione l’aspirapolvere. I campi di grano di Van Gogh non sfamano nessuno: siamo all’interno della lingua dei simboli ma continuiamo a leggerla con la semantica e la sintassi del reale, prendendo fischi per fiaschi e lucciole per lanterne.L’apprensione definitiva dell’oggetto sfugge per definizione ad ogni tentativo di una esegesi conclusiva e si risolve in un continuo slittamento di significato. L’immagine è un gesto tra parentesi che vuole esorcizzare l’idea dell’oggetto estetico come feticcio. La spugna è spugna e come tale va intesa altrimenti il gioco non funziona: solo che non fa la spugna perché è di cera, così che il dato materico entra in conflitto con la sua funzionalità che viene invece ribadita ed affermata, producendo una decontestualizzazione che ci costringe a rimettere a fuoco il significato dell’oggetto in questione. L’immagine si risolve così in un supplizio di Tantalo dove l’indefinito differimento della gratificazione oggettuale (l’oggetto c’è, l’oggetto è così e così) ha lo scopo di mostrarcene l’impossibilità e l’indesiderabilità mettendo in luce quella “presentificazione del nulla” che, secondo Sartre, fa dell’assenza il luogo dell’immagine: “in quanto mi appare in immagine, quel Pietro che è presente a Londra mi appare assente. […] L’atto dell’immaginazione è insieme costituente, isolante e annullante”. Questo annichilimento intrinseco al simbolo estetico traccia tra il piano della rappresentazione e quello della realtà un confine, rispetto al quale, a dire il vero, siamo tutti un po’ contrabbandieri. Eliano, nelle sue Storie varie, scrive che gli artisti del passato (il suo, di erudito romano del II secolo d.C.) solevano apporre un cartello sotto le immagini che rappresentavano; e pare di capire, nella fugacità del frammento, che non si riferisse al titolo complessivo della scena (“Susanna e i vecchioni” o “La sedia di Gauguin”) ma a veri e propri cartelli esplicativi sotto ogni figura. L’identificazione certa, la sinonimia irreversibile e cristallina tra cosa dipinta e cosa reale era tenuta quale presupposto irrinunciabile della percezione e del godimento estetico. L’aneddoto è gustoso e varrebbe da solo la citazione, ma mi sembra che qui venga a proposito: se nessuno si sognerebbe di stringere la mano alla Gioconda, sotto sotto non riusciamo a tagliare il cordone ombelicale che si ostina a mutuare il senso estetico di un quadro da una sua qualche somiglianza con il modello reale (il “perché non parli?” con cui Michelangelo, nel celebre aneddoto, si rivolgeva al suo Mosè è il parametro estetico che il pudore cela ma che tuttora l’istinto sente come vero: il sogno di un’equazione facile della bellezza, dove il valore di un’opera è direttamente proporzionale alla possibilità che l’opera stessa ci risponda). I “Paesaggi poco romantici” non hanno la semplicità e la “naturalezza” dei lavori ai quali siamo soliti dare questo nome, ma l’operazione intellettuale che li anima non muove nella direzione del quadro come rebus o sciarada, versione maliziosa del postmoderno dove l’opera ammicca col solo scopo di lusingare e solleticare lo spettatore, elevando la sua cultura media a raffinata teoresi per iniziati. Lo stupido, si dice, è quello che, quando con il dito gli indichi la luna, guarda il dito; qui lo stupido è chi cerca la luna, perché da vedere c’è il gesto, il dito che disegna la luna. L’opera funziona come serie di rimandi autosignificanti, espressione nella forma della citazione significativa in sé e per sé e non per altro. E’ un’opera alla seconda, una cifra che parla di sé come cifra e reticolo di segni, dove il significato, come connotato oggettivo delle parole-segno, manca, perché il senso è nella modalità del gesto ovvero nel significante come azione del significato. Il concetto si incarna nella forma e la trasforma in riflessione su di sé, la svela come linguaggio congenitamente concettuale, per cui non è il pensiero che viene veicolato dall’immagine o l’immagine che serve solo da rimando al pensiero, ma è il progressivo venire alla luce della forma che articola il concetto, che lo incarna in modo irripetibile mostrandone la natura “topografica”. In questo modo siamo portati a pensare ad un concetto più maturo di spazio come sistema di coordinate variabili secondo la sintassi dettata dal loro centro pulsionale, dal loro creatore: come si dice, paese che vai usanze che trovi.
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