Filologia della scarpa

"Quando ho visto le sue scarpe, ho capito tutto di lei. Lei è un uomo che ha sofferto."
Nanni Moretti in "Bianca"

Il vocabolario etimologico della lingua italiana, alla voce "scarpa", recita più o meno così: oggetto che incide, acuminato, sporgente, dalla forma aguzza refrattaria a seguire le morbide curve del piede. L’origine è dal latino, da "scalpere", incidere, verbo affine a "sculpere", scolpire. La scarpa è dunque forma appuntita, e sarà interessante far subito notare come l’oggetto sorga non dalla funzione, come sarebbe lecito attendersi da un manufatto di così universale e quotidiano uso, ma dalla propria forma, quasi che già nell’embrione dell’etimologia si celasse l’impulso ad uscire dal piano dell’utilità immediata per divenire forma significante, simbolo. D’altra parte, la calzatura irrompe precocemente nel nostro immaginario infantile con la celebre scarpina di Cenerentola, scarpina che è fatta di cristallo, materiale destinato alla contemplazione più che all’uso e all’usura. E’ da notare per inciso come nella fiaba si parli sempre della "scarpina" di Cenerentola, dove il diminutivo allude neppure troppo velatamente alla volontà di annullare la fisicità della scarpa in direzione di un suo significato puramente simbolico, come la scelta del cristallo ci faceva presagire; non a caso Genoveffa e Anastasia, le sorellastre cattive di Cenerentola, non riescono a vestirla perché la trattano come una scarpa: grossolanamente la calzano, mentre Cenerentola la veste come attributo simbolico, e si sa che i prìncipi, se rifiutano di inginocchiarsi ai piedi di chiunque, per i piedini delle loro belle sanno fare un’eccezione, così che alla scarpina di cristallo Cenerentola sostituirà ben presto la corona di futura regina.

Le scarpe non sono oggetti da mettere impunemente sotto i piedi: per quanto bizzarra possa sembrare questa affermazione, non si può negare che nei rivolgimenti della storia la scarpa rappresenti una presenza singolarmente costante, un filo rosso neppure troppo sottile che impone attenzione e rispetto nonostante e forse proprio a causa della natura vile e prosastica dell’oggetto in questione. Un imperatore romano, Gaio Giulio Cesare Germanico, prese il nome dalle proprie calzature militari, le caligulae. Quando l’ultimo imperatore di Bisanzio, Costantino XII Dragatzes, cadde combattendo nella disperata difesa di Costantinopoli, il suo corpo fu identificato nella catasta di cadaveri dai calzari purpurei, prerogativa del sovrano; mentre un uso più informale delle proprie calzature fece il leader sovietico Krusciov quando, in un celebre discorso all’O.n.u, puntellò la sua accalorata perorazione col martellio della scarpa sul seggio. Infine (e il caso ci tocca da vicino) basterebbe ricordare come la scarpa sia stata al centro di una delle più accese querelle della storia dell’estetica novecentesca, coinvolgendo due mostri sacri del pensiero occidentale come Heidegger e Derrida, nonché un illustre storico dell’arte come Meyer Schapiro. La questione è nota: nel celebre saggio su "L’origine dell’opera d’arte" Heidegger aveva citato un dipinto di Van Gogh raffigurante un paio di scarpe da contadino, e ne aveva fatto un simbolo della trasfigurazione del reale operata dall’arte. A distanza di molti anni Schapiro, autore di una delle più note monografie sul pittore olandese, apriva una polemica a distanza col filosofo tedesco, chiedendogli a quale dei molti dipinti di soggetto analogo realizzati da Van Gogh Heidegger si riferisse, e ricevendone risposte vaghe ed elusive, conferma a suo dire di un approccio errato all’opera d’arte usata come pretesto per giustificare un asserto filosofico. Il dibattito, che protraendosi cominciava a sfociare nel ridicolo, sarebbe stato ripreso e concluso da Derrida con posizioni vicine a quelle heideggeriane. Con buona pace di Heidegger, il rapporto tra scarpa e individuo appare ora rovesciato: non è più l’uomo a dare forma e sostanza alla scarpa attraverso l’uso, viceversa è la scarpa, con l’ostentazione della griffe e il fascino della sua rassicurante omologazione, a definire la persona che la calza, a farne persona; la scarpa rappresenta non più il veicolo del singolare e del vissuto, relegati nella sfera del rimosso, ma lo strumento attraverso il quale ogni differenza risulta smorzata e l’infinita varietà degli individui ricondotta a poche e ben classificabili categorie.

Con questo laboratorio plastico si è cercato di scrivere una storia diversa, ridando alla scarpa la "sua" storia, fatta di grandezza e miseria ma anche di un’energia espressiva in grado di dare volto all’individuo, di coglierne l’irripetibile singolarità, insomma di mettere in scena quelle piccole idiosincrasie che chiamiamo carattere. La scarpa qui non è occultata: è negata come oggetto d’uso ma sviluppata nelle sue potenzialità espressive, che si rivelano imprevedibilmente ricche. Ad una trasparente metaforizzazione della realtà (la scarpa che diventa persona) corrisponde un più sottile processo, parallelo e contrario, di realizzazione della metafora (la persona diventa la propria scarpa, vi si risolve integralmente). E’ la scarpa che torna ad essere oggetto personale, rivelatore di un’identità e di un modo di sentire, pur rimanendo fedele alla propria "vocazione formale" e quindi dispiegandosi come oggetto estetico che sviluppa coerentemente un proprio repertorio di forme.

Nel quadro dell’abbigliamento l’irrinunciabilità della calzatura non deve farci dimenticare che essa è solo un accessorio posto alla periferia dell’abito, una parte in relazione con un tutto. La retorica definisce questo rapporto sineddoche; ovvero, essenzialmente, la parte per il tutto o il tutto per la parte. Qui troviamo una sineddoche leggibile in entrambe le direzioni, sia come parte che parla del tutto (la scarpa non ci parla solo di sé o del piede che dovrebbe contenere, ma dell’individuo nella sua interezza) sia come tutto per la parte (la scarpa che perde la sua parzialità diventando volto si fa persona a tutto tondo, rivelando come il tutto possa aprirci gli occhi sul senso della parte). Un processo analogo a quello della caricatura, dove l’emergere abnorme del particolare sul totale del viso mette in luce l’irripetibile singolarità di un volto; così nelle scarpe-volto lo sviluppo di linee di forza differenti, di possibilità formali infinitamente variabili apre la strada ad una galleria di personaggi che va da Scarpesio a Bob Marley, da monsieur Mocassin a Scarpagnan a Scarpanella.

Il segreto, perché in questi casi c’è sempre un segreto da svelare e una bella fanciulla da salvare, è che queste scarpe non vanno guardate come tali. Occorre uno sguardo strabico, o, per essere più precisi, un occhio che sappia vederle come la trasfigurazione di sé stesse. Come quell’emblema dell’Accademia del Parnaso di Canicattì, citato da Sciascia, in cui campeggiava un cane adagiato sulla dicitura "questo cane è un leone" ("l’emblema e il motto" chiosa poi lo scrittore siciliano "pare fossero dovuti al fatto che la tipografia locale disponeva soltanto di un cane"). Quanto alla fanciulla da salvare, ebbene, non si chiama né Cenerentola né Biancaneve, e mi assicurano che non è neppure la Principessa degli Elfi. E’ una giovane sensibile e discreta; gli amici, affidandone il nome ad un sussurro, la chiamano Fantasia.

 

 

freccia1.gif (5402 byte)
Home