L’immagine di Spinoza nelle biografie dei contemporanei

"I pensieri di un uomo devono essere l’abitazione in cui egli vive: altrimenti sono guai"
Kierkegaard, Diario, VII A 82

"Non vi è nulla in cui il genio appaia meglio che in questa sorta di piccole cose"
Lucas, La vita del signor Benedetto Spinoza
 

La storia della filosofia non è stata sempre fedele al principio che un pensiero dovrebbe essere la forma teoretica di una scelta di vita, ovvero, se ci è permesso usare con una certa disinvoltura la terminologia spinoziana, che vita e pensiero sono attributi diversi di un’identica "sostanza Spinoza". Questo scollamento fra teoria e prassi trova nella battuta di Seneca ("Io non predico la vita che faccio, ma quella che dovrei fare") la sua immagine più celebre; ma una battuta, come insegna Agostino, per quanto sagace rimuove solo il problema senza eliminarlo, né d’altra parte la questione si risolve semplicemente in questa maggiore o minore coerenza tra essere e pensare. Ciò che qui viene coinvolto è il senso ultimo della filosofia come alternativa tra un modello di ascesi teoretica, che distanzia da noi il mondo per renderlo oggettivo e oggettivabile, ed una filosofia come forma di azione responsabile e coerente nel mondo, proposta di un modello di vita magnanima e integerrima: astrazione o empatia, insomma. Spinoza ha scritto una "Ethica more geometrico demonstrata", e per quanto sia tutto da spiegare l’apparente ossimoro di questo titolo affascinante, tuttavia lo sviluppo del pensiero spinoziano non lascia dubbi sul senso che il filosofo olandese attribuiva alla propria speculazione:

"se anche il frutto che ho già ricavato dall’intelletto naturale dovesse una volta risultarmi falso, basterebbe a rendermi felice il fatto che ne godo e che mi studio di trascorrere la vita non nella tristezza e nel lamento, ma in tranquilla e serena letizia."

Tutti coloro che si sono cimentati con il pensiero di Spinoza hanno dovuto fare i conti con una biografia ingombrante. L’aggettivo può sembrare sproporzionato per una vita che non può certo dirsi avventurosa, in linea con la prudenza di un filosofo che aveva posto a sigillo della propria corrispondenza una rosa, simbolo di bellezza e caducità, e il motto "caute". Come per Socrate, e sul confronto con il pensatore greco dovremo tornare, tutto l’interesse biografico si concentra in un momento temporalmente ristretto ma di grande intensità: per Spinoza quel momento è il luglio del 1656 quando, nell’ordine, prima è aggredito da un fanatico ortodosso che cerca di accoltellarlo, poi viene processato per eterodossia ed espulso dalla sinagoga con la celebre e violenta cherem. Dopo questi eventi tutto scorre senza particolari sussulti fino alla morte prematura, quasi certamente per l’acutizzarsi della tisi, nel febbraio 1677. Ben più movimentata appare la biografia di filosofi come Platone, Abelardo, o, per avvicinarci ai tempi e alle idee di Spinoza, Cartesio e Giordano Bruno. Tuttavia, la biografia di Spinoza rimane una presenza che non può essere elusa facilmente e che ritorna con insistenza, sottoposta a riscritture e rielaborazioni, tagli e coloriture a tinte varie, dal fosco all’oleografico, obbedendo di volta in volta a strategie retoriche differenti se non opposte, come se il comportamento tenuto in vita rappresentasse un’imprescindibile cartina al tornasole per valutare il pensiero del filosofo olandese. Nel dato biografico si sono cercate (o costruite) le pezze d’appoggio per sostenere di volta in volta l’olimpica serenità della sua visione filosofica o la diabolica perversione dei valori della fede, la rara coerenza di pensiero o un pernicioso ateismo materialista, la pericolosità sociale dello Spinoza-Masianello o quel "lathe biòsas" che sembra essere il leitmotiv della sua esistenza, fino a chi ha inteso ritagliare sui suoi tratti la fisiognomica dell’anima malvagia, dell"omuncolo miserabile" bestemmiatore di Dio. Tutti o quasi tutti coloro che si sono dedicati al caso Spinoza hanno, consapevolmente o meno, distorto la verità storica per farla coincidere con l’immagine che del filosofo si voleva costruire; ogni presa di posizione filosofica nei confronti del pensatore olandese ha saputo trovare nella sua biografia argomenti e suggestioni a favore delle proprie tesi.

Pochi anni dopo la morte di Spinoza comparvero due biografie che rimangono per noi, insieme al fitto epistolario, la più preziosa fonte di informazioni sulla vita e sul carattere del filosofo olandese. La prima dal punto di vista della redazione è "La vie et l’esprit de Mr. Benoit de Spinosa" di Jean Maximilièn Lucas, giornalista, poligrafo francese e discepolo di Spinoza, composta verso il 1678 anche se pubblicata solo nel 1719, presumibilmente dopo essere circolata a lungo in forma di manoscritto. La seconda, ma prima quanto a pubblicazione, è la "Breve ma veridica vita di Benedetto Spinoza", scritta in nederlandese nel 1705 dal pastore luterano Johannes Koehler (Colerus), che per alcuni anni aveva abitato nella stessa casa di Spinoza a L’Aia, raccogliendo così preziose informazioni dirette sul filosofo olandese. Le due testimonianze concordano su diversi punti che costituiscono la traccia biografica riportata in ogni manuale di filosofia. Baruch de Spinoza nasce ad Amsterdam nel dicembre del 1633, da famiglia ebrea di origini portoghesi, dedita al commercio. Rivela un precoce talento speculativo che applica prima alla teologia e poi alla filosofia; tuttavia, proprio a causa della sua eterodossa visione di Dio e delle Sacre Scritture viene ben presto guardato con sospetto dai suoi stessi maestri; dapprima solo ammonito (forse c’è addirittura un tentativo di corruzione), viene poi processato, condannato ed espulso dalla sinagoga con la violenta cherem del 1656 sulla quale si diffonde soprattutto il racconto di Colerus. Apprende l’arte del molare lenti, condotto anche dai suoi interessi scientifici per l’ottica, e si ritira prima nel villaggio di Rijnsburg, poi, dal 1663, a Voorsburg e infine a L’Aja; in tutti e tre i domicili trascorre il tempo tra il lavoro di molatura, il fitto epistolario, i colloqui con gli occasionali visitatori, e la stesura dei suoi testi, tutti pubblicati, con l’eccezione del Tractatus theologico-politicus, dopo la morte avvenuta nel febbraio del 1677. Questa la scarna biografia spinoziana: non discuteremo qui il problema delle fonti, l’attendibilità delle due biografie e il loro raffronto critico. L’obiettivo, decisamente più limitato, è quello di mettere in rilievo alcuni nodi caratteristici del legame tra biografia e pensiero come viene configurandosi fin dalle prime testimonianze sul "personaggio" Spinoza. La sua vita non è mai stata solo questione di specialisti, di filologi e storici della filosofia, proprio perché Spinoza ha sempre rappresentato, suo malgrado, un’icona, l’incarnazione simbolica di un modello da seguire o di un cattivo esempio da esecrare, così che il racconto biografico si è incanalato ben presto sugli opposti binari dell’apologo o del racconto moraleggiante.

Il nesso causale tra condotta di vita e coerenza del pensiero, come abbiamo visto, è uno dei leitmotiv dell’interpretazione di Spinoza, ma non solo. E’ lo stesso Spinoza a fare di questo "pregiudizio", per così dire, un criterio discriminante di giudizio; e questo in tre sensi. In primo luogo perché la sua opera più celebre è una "Ethica", anche se a primo avviso non si direbbe. Il raggiungimento della felicità intesa come serena accettazione del mondo, o, per dirla con le parole di quel grande ammiratore di Spinoza che fu Nietzsche, come amor fati, questo è lo scopo della metafisica spinoziana nell’Ethica more geometrico demonstrata, verso di essa converge la teoria della sostanza e la complessa articolazione degli attributi e dei modi, con tutti i problemi, nuovi e antichi, che essa comportava. Nella biografia di Spinoza poi, in modo egualmente evidente, troviamo conferma di questa atarassia, dal coraggio nell’affrontare la cherem e l’esilio dalla comunità ebraica, alla scelta di una vita ritirata e modesta nei villaggi olandesi, fino al rifiuto di quella possibilità estrema, offertagli dall’Elettore Palatino, di una cattedra di filosofia all’università di Heidelberg. Le testimonianze in tal senso sono numerose: Lucas ci dice che Morteira, maestro ed estimatore prima, feroce accusatore poi,

"ammirava la condotta e il genio del suo discepolo. Egli non riusciva a spiegarsi che un giovane di tanta intelligenza fosse così modesto: per conoscerlo meglio lo mise alla prova in ogni modo e confessò in seguito che non aveva mai avuto nulla da ridire, né sui suoi costumi né sulla bellezza del suo spirito"

Da subito la profondità del pensiero spinoziano appare talmente inconsueta e insostenibile da necessitare una verifica sul campo, per controllare se la tensione e il vigore ascetico di quella visione erano solo parole o potevano incarnarsi in un modello vivo di comportamento, in un’etica a misura d’uomo. Il filosofo Spinoza non è mai scisso dall’uomo Spinoza, al quale non sarebbe stata perdonata alcuna mancanza o cedimento, se solo ci fossero stati; traspare, anche negli scritti dei suoi accusatori, una sorta di malcelato imbarazzo di fronte a questa inaspettata e indesiderata statura morale.

Ma il primo a fare propria questa prospettiva ermeneutica sembra essere proprio Spinoza, ed è in questa accezione che il discorso sul legame vita-pensiero si fa più interessante. Lucas racconta che due amici insistevano con il filosofo perché li rendesse partecipi dei suoi "veri pensieri"; al che Spinoza

"riflettendo che di rado la curiosità dell’uomo ha buona intenzione, studiò il comportamento dei suoi amici: e vi trovò così tanto di censurabile che ruppe ogni rapporto e non volle più parlare con essi"

Analoga testimonianza troviamo in un passaggio ellittico dell’epistolario: rispondendo alla richiesta di rendere partecipe delle sue idee e del manoscritto dell’Ethica quello che allora era solo un giovane e promettente filosofo tedesco, Leibniz, Spinoza rispondeva che

"A quanto ho potuto conoscere dalle sue lettere, mi è sembrato un uomo di indole liberale e versato in tutte le scienze. Reputo tuttavia imprudente di confidargli così presto i miei scritti. Vorrei prima sapere che cosa sia andato a fare in Francia e sentito il parere del nostro Tschirnhaus dopo che lo avrà più a lungo frequentato e avrà conosciuto più a fondo i suoi costumi"

E’ quell’accenno di sfuggita ad un conoscere "più a fondo i suoi costumi", quella sorta di inaspettato perbenismo ad attirare l’attenzione. La chiave di lettura biografica acquista rilevanza se è lo stesso Spinoza a legittimarla, giudicando Leibniz non solo sulla base di ciò che del filosofo tedesco aveva letto e sentito in colloqui diretti, ma anche sul criterio della condotta morale, prospettiva quantomeno curiosa per un filosofo che si è voluto dipingere come un’icona dell’ateismo e della blasfemia, un demonio degno di ogni maledizione per aver trasformato la sacra Bibbia in un "naso di cera che si può torcere come si vuole, […] un vero copricapo per buffoni che si può indossare secondo tutti i capricci dell’umana ragione". C’è un altro passaggio in cui ciò risulta chiaro; è nell’epistola 43, quando Spinoza, parlando delle accuse rivoltegli da un professore di Utrecht, Velthuysen, scrive:

"Egli incomincia col dire che poco gli importa di sapere di che razza io sia e quale sia il mio tenore di vita. Ché, se l’avesse saputo, non si sarebbe così facilmente convinto che io insegni l’ateismo."

Qui la morigeratezza dei costumi diventa uno scudo di difesa, di per sé eloquente (tanto che il silenzio di Velthuysen in merito appare a Spinoza come una deprecabile leggerezza) e sufficiente a confutare un’accusa teoretica. La vita moralmente esemplare di Spinoza sembra fiorire naturalmente dalla rigorosa necessità della sua metafisica, poiché sostenere che ogni modo del pensiero o dell’estensione è la sostanza, tutta la sostanza ovvero Dio, significa caricare l’esistenza del singolo uomo di un fardello pesante, quello di portare in ogni gesto la responsabilità di Dio. Comprendere la necessità di ogni evento del mondo significa conoscere (e sapere valutare) fino in fondo le conseguenze delle nostre azioni, con la stessa sicurezza con cui deduciamo dalla definizione di triangolo le sue proprietà geometriche.

Un episodio molto conosciuto della biografia spinoziana è il rifiuto dell’offerta di una prestigiosa cattedra ad Heidelberg, offertagli dal Principe Elettore Palatino attraverso il tramite del professor Fabritius, dotto teologo presso quella università. Sarebbe gustosa un’analisi stilistica della lettera con cui l’accademico Fabritius sa far trapelare oltre il velo dell’ufficialità, e in maniera francamente grossolana, il suo disprezzo per questo oscuro filosofo ebreo "a me finora ignoto", lo stupore e l’irritazione per aver dovuto ottemperare a questo compito, certo non gradito, impostogli dal suo padrone. Motivato, fra mille cautele verbali, con il desiderio di mantenere quel regime di vita appartata che considerava indispensabile per lo sviluppo libero del proprio pensiero, il rifiuto di Spinoza è la scelta definitiva della strada più difficile, la rinuncia a quelle scorciatoie per la virtù che, come ci insegna Hegel, non esistono. L’episodio costituisce un ennesimo tassello nella costruzione del "filosofo modello" che è Spinoza: schivo ma cordiale e sincero, profondo ma genuino, umano con gli amici e disumano nella dedizione alla propria missione filosofica, uno Spinoza "socratico", insomma, tutto dedito alla ricerca della verità e al dialogo inteso a distinguere, con la stessa precisione con cui tagliava le sue lenti, ciò che è vero da ciò che è falso; e forse il caso del filosofo olandese attira maggiormente l’attenzione perché stretto fra gli esempi di Cartesio (un altro filosofo antiaccademico ed amante della solitudine, che tuttavia accetterà infine l’invito a corte della regina di Svezia) e del consigliere aulico Leibniz.

Dalla risposta di Spinoza a Fabritius, come dai racconti di Lucas e Colerus, emerge un altro tratto biografico dominante: Spinoza è una sfortunata icona dell’intolleranza religiosa, politica e culturale, insomma Spinoza è perseguitato un po’ da tutti. Dai fanatici ortodossi, che cercano di ridurlo al silenzio con l’arma spuntata di un coltello, fortunatamente ignorando ciò che nessun lettore dell’Ethica ignora, cioè che un modo dell’estensione, come la lama di un coltello, non può limitare un modo del pensiero come Spinoza. Dai suoi concittadini ebrei, che lo cacciano dalla sinagoga di Amsterdam. Dai dotti cristiani che lo bollano come filosofo ateo e che si accaniscono contro le sue opere facendone ogni volta un casus belli. Dalle autorità politiche che gli rendono difficile se non impossibile pubblicare i suoi libri, pure in uno stato liberale come l’Olanda del ‘600. Spinoza è un filosofo "della" tolleranza: dove il genitivo è da intendere sia nel senso dell’argomento (Spinoza come pensatore che parla della tolleranza legittimandola e giustificandola filosoficamente) che in quello del possesso (Spinoza è tutto preso dalla tolleranza, che lo attraversa informando di sé la sua vita e il suo pensiero). L’argomentazione è nota: se ogni modo è manifestazione dell’unica sostanza, allora ogni realtà sarà presenza di Dio, ogni pensiero, ricondotto alla propria origine, sarà pensiero autentico dell’unico autentico Dio. Non c’è motivo di contrasto tra le religioni, non c’è giustificazione che tenga di fronte ai massacri in nome della fede e alle spaccature dottrinali. Spinoza non enuncia la tolleranza ma la pensa e la fonda, perché ci crede come filosofo e ci vive come uomo.

Nel Colerus come nel Lucas è dispiegato l’armamentario classico della retorica al fine di costruire un’immagine di dotto integerrimo, di asceta dello spirito: bontà, generosità e cortesia verso gli amici, vita semplice e disprezzo di tutto ciò che è fama o ricchezza, gentilezza, umiltà, disinteresse e moderazione, temperanza e sobrietà (Spinoza mangia poco, anche in conseguenza della tisi, e spende pochissimo per sé) cortesia ed acutezza di spirito, pazienza, carattere tranquillo e riservato, stoica impassibilità di fronte alle sofferenze provocate dalla sua malattia ai polmoni. E’ importante sottolineare come, mentre questa immagine quasi oleografica sia comprensibile nel testo di Lucas (amico e discepolo di Spinoza, a quanto lui stesso ci dice), lo sia meno nella storia di Colerus, dove è stridente il contrasto tra la biografia e il giudizio morale e filosofico, implacabile da parte del biografo, nei confronti del pensiero spinoziano. Spinoza come un nuovo Socrate: come il filosofo ateniese, sa mantenersi sobrio ed equilibrato nei piaceri del corpo, come lui si presenta umile, forse più riservato ma egualmente amante del dialogo e delle buone compagnie; soprattutto, di Socrate conserva la capacità di affascinare i propri discepoli la cui devozione è assoluta. Anche in Spinoza le scelte della vita diventano quasi prove dialettiche della propria filosofia; d’altronde non è forse il virile atteggiamento tenuto da Socrate nel momento estremo del processo la sua argomentazione dialettica più riuscita? Se la filosofia è la causa e la vita l’effetto, la serena semplicità della vita di Spinoza dimostrano meglio di qualsiasi sillogismo la bontà etica della sua metafisica.

Giunti alla fine di queste brevi note, lasciamo Spinoza con un ultimo sguardo a quella che rimane la sua immagine più celebre, databile al 1700 circa ed opera di pittore anonimo : il volto scuro incorniciato da folti capelli neri, le sopracciglie fosche e fitte, lo sguardo sereno e le labbra che si increspano leggermente ad abbozzare un sorriso. Scorriamo i volti dell’iconografia ufficiale della storia del pensiero: passano le immagini di Tommaso, Aristotele, Platone, Agostino, Cartesio, Hobbes, Leibniz, Galilei, Bruno, Ficino, Newton, Pico della Mirandola, Erasmo, Socrate, Plotino. Solo il volto di Spinoza risponde con l’abbozzo di un sorriso al nostro sguardo incuriosito e inconsciamente fisiognomico. Non il ghigno di Machiavelli, la smorfia beffarda di superiorità di chi ha conosciuto l’abisso di tenebra dell’animo umano; non la risata di Democrito ad irridere la miseria dei filosofi che in un mondo dominato dalla casualità ricercano un’improbabile causalità. L’immagine di Spinoza ci offre il volto di un uomo che, gettato nel mondo, sa sorriderne perché del mondo ha compreso ed accettato il segreto.

 

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