CAPITOLO I

LA SPECIALIZZAZIONE PRODUTTIVA DELL’ITALIA E LO SVILUPPO TECNOLOGICO

I fattori che possono influenzare l’evoluzione del sistema produttivo di un Paese sono molteplici. Fra questi, il grado di avanzamento tecnologico, la capacità del sistema produttivo di innovare al proprio interno e la sua ricettività nei confronti delle innovazioni esogene sono essenziali.

Anche il ruolo giocato dall’integrazione tra le componenti del tessuto economico è importante. Il buon funzionamento di un sistema di innovazione dipende, infatti, anche da come riescono a cooperare tra loro gli attori che lo animano: istituzioni, centri che producono conoscenza (Università, enti di ricerca, imprese), e che la utilizzano (ancora imprese).

Bisogna poi guardare alle condizioni in cui questi operatori agiscono. Per questo sono rilevanti anche elementi esterni, come la dotazione di infrastrutture, la presenza di un settore pubblico che interagisce attivamente con le imprese (per esempio creando specifici centri di ricerca sul territorio), che le stimola con politiche appropriate.

Più in generale, influisce il quadro macroeconomico in cui il sistema produttivo è inserito. La disponibilità di credito per attività innovative di lungo periodo, la politica fiscale riguardante la tassazione degli investimenti e la ReS, l’andamento del cambio che si riflette sulla competitività delle imprese, concorrono, insieme, a condizionare le prestazioni economiche del Paese.[1]

Va poi tenuto conto che ogni economia si inquadra in un contesto ormai globale ed è necessario, quindi, considerare l’integrazione del Paese nel commercio con l’estero. Ciascuna economia tende a specializzarsi in un senso suo proprio e diventa complementare ad altre a livello mondiale. Con la produzione si evolve la base tecnologica di un Paese: è difficile dire se siano le disponibilità tecniche e scientifiche a permettere determinati esiti economici o se sia il preesistente indirizzo produttivo ad esigere determinati sviluppi della tecnologia.

Per comprendere la struttura attuale del sistema produttivo italiano è necessario considerare le varie tappe della sua storia. Storia che è recente come l’industrializzazione dell’Italia.

La crescita economica del dopoguerra

Fino al secondo dopoguerra, il nostro Paese era in condizioni economiche generalmente arretrate. Gli anni ‘50 e ‘60 hanno visto una crescita industriale notevolissima, che ha portato l’Italia nella ristretta cerchia dei Paesi più ricchi del mondo.

I fattori che hanno permesso il miracolo economico di quel periodo sono stati la stabilità del quadro economico internazionale, una notevole propensione al risparmio, che, combinatasi negli anni del dopoguerra ad una forte propensione agli investimenti, ha favorito lo sforzo di accumulazione del Paese.[2] Decisiva, poi, l’apertura al commercio con l’estero e l’abbondanza di manodopera a basso costo.

La dinamica del rapporto tra produttività e salari rendeva il nostro sistema produttivo particolarmente competitivo nei confronti dei partners europei. L’aumento sostenuto della produttività del lavoro in quel periodo sembra legato principalmente a tre fattori:

a) la relativa arretratezza della struttura tecnologica italiana, che, attraverso miglioramenti organizzativi e l’introduzione di impianti ed attrezzature più efficienti, per la maggior parte di provenienza straniera, ha reso possibile l’ottenimento di forti guadagni di produttività;

b) gli elevati tassi di crescita della produzione industriale, che hanno permesso l’adozione di tecniche a più elevata densità di capitale soprattutto nei settori caratterizzati da rendimenti di scala crescenti;

c) una crescita dei salari contenuta e un’elevata mobilità della manodopera agricola e dei settori arretrati.[3]

Quanto poi all’integrazione dell’Italia nel commercio con l’estero, molti studiosi condividono l’approccio secondo il quale lo sviluppo dell’economia italiana del dopoguerra è stata dominato dalla dinamica delle esportazioni (modello export-led). Come sottolineato da Graziani, “indipendentemente dal ruolo propulsivo che le esportazioni possono aver svolto, è certo che il fatto stesso di avere sviluppato un flusso crescente di esportazioni produsse sulla struttura economica italiana ripercussioni tanto profonde e tanto durature che tutti gli aspetti principali dell’economia del Paese possono essere spiegati partendo proprio dallo sviluppo delle industrie esportatrici”.[4]

L’apertura al mercato internazionale avrebbe contribuito a far sì che il sistema industriale italiano fosse “modellato” dalla domanda estera.

I settori di esportazione (beni di consumo durevoli, meccanica, chimica, e, in un secondo momento, anche beni più tradizionali, come abbigliamento e calzature), sollecitati dalla concorrenza estera, dovettero adeguarsi a livelli di produttività, tecnologia ed organizzazione tali da poter competere con i partners internazionali. I settori che restavano ancorati al mercato interno (tessile, alimentare, costruzioni, ecc.), caratterizzati da una forte presenza di piccole e medie imprese, rimanevano fermi a metodi produttivi tecnologicamente arretrati, ad alta intensità di lavoro.

Emergeva dunque un dualismo settoriale, dovuto alla specializzazione produttiva indotta dalle esportazioni. E’ stato osservato a questo proposito che le produzioni in cui la nostra industria si specializzò in quegli anni erano a bassa intensità di capitale, non soggette a continue innovazioni, come i settori ad alto contenuto tecnologico.[5] L’Italia si collocava già in posizione di technological follower.

Tuttavia, secondo alcuni, non è stata una scelta del tutto libera da parte degli industriali, i quali avrebbero subito il condizionamento delle linee di politica economica di quegli anni: De Cecco osserva che “la liberalizzazione immediata portò l’industria italiana a trasformarsi da industria prevalentemente di beni di investimento, in industria di beni di consumo, perché solo nella fabbricazione di questi poteva sperare di avere competitività internazionale. Le macchine complesse, le innovazioni tecnologiche, i progetti più impegnativi divennero dati esogeni alla nostra struttura industriale”.[6]

La componente industriale più avanzata del nostro Paese sarebbe stata orientata alla produzione di beni di investimento, e questo avrebbe permesso - nonostante i settori di produzione tradizionale fossero ancora prevalenti - di creare una capacità tecnologica autonoma nei settori avanzati. Ma si cominciò a preferire l’acquisto di beni di investimento dove costavano meno invece di mantenere in attività industrie costose e protette dalla concorrenza straniera.

Un’occasione perduta per la mancanza di una politica di indirizzo e di sostegno delle imprese produttrici di beni di investimento e per l’apertura poco graduale al commercio con l’estero.

A partire dai primi anni ‘60 il sistema italiano entra in crisi: è opinione diffusa che le radici del problema siano da cercare nelle caratteristiche della struttura produttiva che si era venuta a creare nel periodo precedente.

La maggior parte degli osservatori ha visto la causa della diminuita competitività delle esportazioni italiane nell’aumentato costo del lavoro: ci si avvicinava ad una situazione di pieno impiego e ne conseguiva la crescita dei salari reali; sul fronte esterno, poi, calava la domanda internazionale e ne mutava la composizione: venivano meno, quindi, i fattori propulsivi della crescita economica italiana degli anni ‘50.

Secondo uno schema interpretativo neo-ricardiano, invece, l’aumento del costo del lavoro sarebbe stato un elemento di disturbo secondario. Il problema alla base della crisi sarebbe stato l’insufficiente processo di accumulazione industriale degli anni del dopoguerra. Mancava una programmazione economica; profitti e rendite non venivano adeguatamente impiegati in reinvestimenti produttivi e gli sforzi di specializzazione si concentravano su settori a basso contenuto tecnologico e scarsa produttività: dell’influenza delle scelte di politica economica sugli indirizzi dell’industria italiana si è già detto.

Insomma maturavano nel lungo periodo le condizioni strutturali per “una crescita della produttività insufficiente a compensare gli effetti redistributivi connessi alle mutate condizioni del mercato del lavoro e della competizione internazionale degli anni ‘60 e ‘70”.[7]

Gli anni ’70: cambia la struttura produttiva

All’inizio degli anni ‘70 per il sistema industriale italiano, come per quello di molti altri Paesi industrializzati, è cominciato un periodo di rilevanti trasformazioni strutturali. Nel nostro Paese si è avuta un’espansione delle unità produttive di piccola e media grandezza.

Per questo fenomeno si è parlato di “decentramento produttivo”: la grande impresa delegava processi produttivi ad aziende di dimensioni minori (soprattutto i processi a più alta intensità di lavoro) e predisponeva una rete articolata di subforniture. In questa situazione le piccole e medie imprese risultavano essere completamente dipendenti dalla grande impresa per cui operavano, sia per le tecnologie adottate che per gli sbocchi di mercato.

Tale riorganizzazione del sistema produttivo è stata interpretata in un primo momento come la reazione delle grandi imprese alla crisi di quegli anni: le tensioni nel mondo del lavoro, da una parte, e la forte instabilità del contesto economico internazionale dall’altra, avevano favorito il formarsi di rigidità interne nelle aziende di maggiori dimensioni: trasferendo ad altre imprese, più piccole, parte della lavorazione dell’impianto centrale, esse riuscivano a recuperare margini di flessibilità. E si ponevano così le condizioni di una ristrutturazione ulteriore, di natura tecnologica, che sarebbe avvenuta nella prima metà degli anni ‘80. In questo schema interpretativo tradizionale resta centrale, dunque, il ruolo della grande impresa, mentre la funzione delle pmi è vista come puramente transitoria.

Secondo un approccio alternativo, quello del “modello di specializzazione flessibile”, la svolta verso unità produttive di piccole dimensioni è invece il risultato di trasformazioni strutturali di base: le condizioni per lo sviluppo della grande impresa di tipo fordista e taylorista (abbondante forza lavoro non specializzata, domanda poco differenziata) stavano venendo meno, ed emergevano nuove tecnologie di processo, legate alla microelettronica, che erano accessibili anche ad aziende di dimensioni modeste. Strategie di produzione più snelle sono state messe in atto dalle imprese, che hanno cercato così di venire incontro alle esigenze di un mercato frammentato e volatile, in un clima di competizione crescente.[8]

Le analisi neo-schumpeteriane sottolineavano il peso delle pmi nel ritardo tecnologico del Paese: erano le grandi imprese a dover fornire la base tecnologica e a diffonderla nel tessuto produttivo. Ma il loro ruolo era reso difficile in un sistema economico come il nostro, caratterizzato da una crescente importanza delle unità produttive piccole e medie. Quanto a quelle piccole imprese che introducevano innovazioni di rilievo, si affermava che erano predestinate a diventare grandi: le altre non potevano che svolgere un ruolo subordinato nel cambiamento tecnologico.

Tuttavia, altre analisi mettevano in luce la diversità delle fonti innovative a cui attingono imprese di dimensioni diverse, e l’importanza di inserire le imprese (e relative dimensioni), nei settori industriali in cui operano, con le loro differenti caratteristiche. Sotto questo punto di vista, la creazione di un potenziale tecnologico nazionale non era più legata ad una ristrutturazione favorevole alle grandi imprese. Anzi veniva sottolineato che le pmi sono riuscite a raggiungere un livello tecnologico adeguato alla loro struttura ed ai settori nei quali producono, sfruttando la crescente disponibilità tecnologica con innovazioni di tipo incrementale, spesso esterne - le uniche attingibili in mancanza di un profondo impegno di ricerca.

In seguito, soprattutto a partire dagli anni ‘80, il tessuto delle piccole e medie imprese si è rafforzato, manifestando autonomia e dinamismo. Parallelamente, procedeva la ristrutturazione delle aziende di maggiori dimensioni, da un lato continuando la strada del decentramento produttivo e dall’altro con l’introduzione di innovazioni tecnologiche.

La contrazione dei grandi impianti, in termini di riduzioni del numero delle unità locali e del personale impiegato, rappresentava una tendenza di lungo periodo che aveva avuto origine negli anni ‘70 e proseguiva nel decennio successivo. Come dimostrano i dati della Tabella 1, già nel decennio 1971-1981, si era avuta una certa diminuzione del peso relativo delle grandi aziende (che impiegano oltre mille addetti); flessione riprodottasi in maniera più rilevante e per una più vasta gamma di dimensioni nel periodo tra il 1981 e il 1991 (in cui si registra una diminuzione di occupazione e unità locali evidente anche per la fascia dimensionale compresa tra i 500 e i 999 addetti).

Tabella 1: variazioni del numero delle unità locali e degli addetti, per classi di addetti

1971-1981 (a) 1981-1991 (b)
Variazioni assolute Numeri indici Variazioni assolute Numeri indici
Unità locali Addetti Unità locali Addetti Unità locali Addetti Unità locali Addetti
0-1 350.661

322.057

130,7 128,5 154.718 130.595 109,1 108,0
2 81.471 162.942 112,9 112,9 20.604 41.208 102,6 102,6
3-5 130.763 494.509 133,6 135,2 108.333 405.694 118,5 118,9
6-9 54.909 392.581 149,5 149,5 32.262 243.427 116,5 117,4
10-19 41.306 535.255 157,2 156,1 22.199 316.090 116,2 117,5
20-49 9.437 263.243 123,3 121,7 12.874 360.983 118,7 117,5
50-99 1.567 101.687 112,2 111,5

433 

25.537 101,9 101,6
100-199 643 80.633 110,7 109,7 185 21.600 102,0 101,7
200-499 192 52.096 106,3 105,7 25 8.317 100,6 100,6
500-999 69 36.626 109,3 107,2 -105 -67.445 90,5 91,0
1000 e più -16 -65.705 96,6 94,2 -176 -538.544 71,3 61,5
Totale 675.613 2.387.575 127,9 121,6 350.334 946.741 110,0 105,6

(a) A parità di campo di osservazione 1971

(b) A parità di campo di osservazione 1981[9]

Fonte: ISTAT 1995

Le tendenze dagli anni ’80 in poi

L’industria italiana è uscita in modo soddisfacente dalla crisi degli anni ‘70 e ha ripreso a crescere negli anni ‘80. L’aumento della produzione in Italia procedeva a tassi abbastanza simili a quelli di altri Paesi più avanzati: il livello di reddito pro capite si avvicinava sempre di più a quello degli altri maggiori Paesi industrializzati, mentre permaneva l’arretratezza tecnologica: le capacità innovative endogene non erano sufficientemente sviluppate, e rimaneva considerevole la distanza dai partners, specialmente in termini di intensità di ReS. Ciò, secondo molti studiosi, metteva a rischio la durata e la sostenibilità della crescita economica futura.

L’impegno nella ReS

Il periodo di forte crescita e accumulazione degli anni ‘80 ha offerto all’industria italiana l’occasione per allargare la propria presenza nei settori ad alta tecnologia e rafforzare le proprie capacità produttive. Si è registrato un aumento dell’impegno nella ReS che ha fatto diminuire la distanza che in questo campo intercorreva tra l’Italia ed altri grandi Paesi dell’OCSE. Tra il 1980 e il 1987, le spese per la ricerca erano cresciute ad un tasso annuale del 9,9%, superiore a quello di molti Paesi OCSE. I finanziamenti alla ricerca da parte del settore pubblico aumentavano al ritmo del 12,6% all’anno, contro il 6,5% delle imprese. Quanto allo svolgimento della ricerca, l’impegno delle strutture pubbliche saliva del 10,6% annuo, mentre quello dell’industria del 9,4%[10].

Questa crescita quantitativa delle spese di ricerca si è accompagnata a variazioni settoriali nella composizione della ReS industriale: l’importanza relativa di alcuni settori ad alta tecnologia cresce (elettronica, areospazio), mentre quella di altri settori, come chimica e mezzi di trasporto, diminuisce.[11]

Anche il supporto pubblico alla ReS industriale aumenta, pur non distribuito in maniera omogenea tra le varie branche di produzione: come in altri Paesi OCSE, vengono privilegiate le produzioni elettroniche, aerospaziali e di computers.

Nonostante, però, la crescita quantitativa delle spese per la ReS in Italia, il loro livello assoluto e la loro quota percentuale sul PIL restavano inferiori a quelli di altri Paesi industrializzati. Come si evince dalla Tabella 2, il rapporto tra spesa per ReS e prodotto interno lordo è aumentato dallo 0,8% del 1975 all’1,3% del 1990 per raggiungere, nel 1995, l’1,1. Ma la destinazione di risorse in questo campo rimaneva inferiore rispetto a quelle di altri Paesi avanzati. Per restare in ambito europeo, la proporzione di Pil dedicato alla ReS era doppia in Francia ed in Germania. Inoltre, gli anni ‘90 stanno facendo registrare una tendenza alla diminuzione delle spese di ricerca: in termini assoluti, si è passati dai 17.001 miliardi investiti in questo campo nel 1990 ai 20.171 miliardi del 1995, che, però, aggiornati con riferimento ai prezzi del 1990, si riducono a 15.783 miliardi. Raffrontando queste cifre al PIL, abbiamo i dati percentuali dei due anni considerati, il cui scarto (dall’1,3 all’1,1) evidenzia il trend negativo di questa voce di spesa.

Tabella 2: spesa per ricerca e sviluppo in rapporto al PIL in alcuni Paesi dell’OCSE (percentuali)

Paesi  '75 ‘80 ‘85 ‘90 ‘91 ‘92 ‘93 ‘94 ‘95
Canada 1,1 1,2 1,4 1,4 1,5 1,6 1,6 1,6 1,6
Francia 1,8 1,8 2,3 2,4 2,4 2,4 2,4 2,4 2,3
Germania 2,2 2,5 2,7 2,8 2,6 2,5 2,4 2,3 2,3
Giappone 1,8 2,0 2,6 2,9 2,8 2,8 2,7 2,8 ...
Italia 0,8 0,8 1,1 1,3 1,3 1,3 1,3 1,2 1,1
Regno unito 2,2 2,4 2,3 2,2 2,2 2,2 2,2 2,2 ...
Stati Uniti 2,3 2,5 2,9 2,8 2,8 2,8 2,6 2,5 2,6

Fonte: OCSE

Se si guarda poi alla quota di risorse impegnate nella ricerca da parte delle imprese in rapporto al totale della loro produzione, si vede che il ritardo dell’Italia è ancora più accentuato: nel 1971 la quota corrispondeva allo 0,53%, ed ha raggiunto nel 1990 lo 0,73%, come si evince dalla Tabella 3.

Tabella 3:spesa per ricerca e sviluppo delle imprese in rapporto alla produzione industriale (percentuali)

1971 1980 1990
Giappone 1,19 1.44 2,36
Germania 1,38 1,66 2,12
Francia 0,85 1,01 1,30
Regno Unito 1,05 1,29 1,41
Italia 0,53 0,46 0,73
Stati Uniti  1,13 1,30 1.52

Fonte: Archibugi, Evangelista, Pianta,1993

Per meglio delineare il ruolo delle imprese da una parte e dell’operatore pubblico dall’altra, può essere utile uno sguardo alla composizione della spesa per ricerca e sviluppo in Italia e nei principali Paesi industrializzati. Il contributo pubblico alla ricerca è passato dal 51.8% del 1988 al 46,2% del 1996. Una tendenza alla diminuzione, quindi, che si è avuta anche in Paesi il cui impegno nella ricerca è generalmente superiore: per le amministrazioni pubbliche francesi, inglesi e statunitensi si è rilevata la stessa tendenza a diminuire le quote di partecipazione alle spese di ricerca. Nel 1994, l’ultimo anno per il quale sono disponibili dati completi, il coinvolgimento finanziario pubblico dell’Italia nelle spese di ReS (46,4%) era comparabile con quello della Francia (41,6%; ma bisogna sempre tener presente che le spese francesi in questo campo sono maggiori, v. Tabella 2). Il Regno Unito e gli Stati Uniti registravano rispettivamente 32,3% e 36,9%. Sono percentuali notevolmente più basse di quelle dell’Italia, ma che vanno riferite ad una situazione diversa, comune anche a Germania e Giappone, dove si è rilevato un impegno crescente delle amministrazioni pubbliche nel finanziamento alla ricerca. In questi Paesi, infatti, le imprese finanziano la ReS in proporzioni maggiori a quelle dell’Italia e della Francia. Un dato comune al Regno Unito, alla Germania ed al Giappone, a questo proposito, è la flessione dei finanziamenti delle imprese alla ricerca dalla fine degli anni ‘80 alla metà degli anni ‘90, compensata, in Germania e Giappone, dall’aumento dell’impegno pubblico. Negli Stati Uniti, invece, si è avuta una tendenza inversa: nel 1994 l’industria americana ha portato le sue spese di ReS dal 50,2% sul totale nazionale del 1988 al 59,0%, avvicinandosi alle quote delle imprese tedesche e nipponiche (60,7% e 68,2%). In questo modo, il sistema di ricerca statunitense si sta adeguando non tanto ai livelli di spesa per ricerca dei suoi maggiori concorrenti (visto che in termini assoluti la spesa negli USA era ed è maggiore che in Giappone o in Germania), quanto al modello che essi stanno imponendo, che vede le imprese coinvolte nella ReS come in un’attività dall’alto contenuto strategico.

Tabella 4: composizione della spesa per ricerca e sviluppo (spesa per ricerca e sviluppo, globale, nei principali Paesi industrializzati per settore finanziatore - composizione percentuale)

Settore finanziatore Italia Francia Germania Regno Unito Stati Uniti Giappone
Imprese
1988 43,9 43,3 63,7 52,1 50,2 70,5
1989 46,4 43,9 63,3 51,3 52,2 72,3
1990 43,7 43,5 63,4 50,3 54,0 73,1
1991 47,8 42,5 61,7 50,4 57,6 72,7
1992 51,5 46,6 61,6 51,4 58,5 71,1
1993 48,2 47,0 61,4 51,3 58,4 68,2
1994 48,0 48,7 60,7 50,3 59,0 68,2
1995 48,7 ... 60,8 ... 59.9 ...
1996 49,5 ... ... ... 61.4 ...
Amministrazioni pubbliche
1988 51,8 49,9 34,2 35,8 47,8 19.9
1989 49,5 48,1 34,1 35,7 45,6 18.6
1990 51,5 48.3 33.9 34.8 43.8 18.0
1991 46.6 48.8 35.8 34.2 38.7 18.2
1992 44.7 13.5 36.0 33.5 37.7 19.4
1993 47.8 43.5 36.7 32.7 37.7 21.6
1994 46.4 41.6 37.2 32.3 36.9 21.5
1995 47.4 ... 37.1 ... 36.1 ...
1996 46.2 ... ... ... 34.6 ...
Altre fonti nazionali
1988 ... 0.6 0.5 2.9 2.0 9.5
1989 ... 0.6 0.5 3.0 2.2 9.0
1990 ... 0.7 0.5 3.2 2.2 8.0
1991 ... 0.7 0.5 3.6 3.7 9.1
1992 ... 1.3 0.4 3.9 3.8 9.5
1993 ... 1.3 0.3 4.3 3.9 10.1
1994 ... 1.4 0.3 4.7 4.1 10.3
1995 ... ... 0.3 ... 4.0 ...
1996 ... ... ... ... 4.0 ...
Estero
1988 4.2 6.2 1.7 9.2 ... 0.1
1989 4.1 7.4 2.1 10.6 ... 0.1
1990 4.8 7.5 2.1 11.7 ... 0.1
1991 5.7 8.0 1.9 11.7 ... 0.1
1992 3.8 8.7 2.0 11.2 ... 0.1
1993 4.0 8.1 1.6 11.7 ... 0.1
1994 5.6 8.3 1.7 12.7 ... 0.1
1995 3.9 ... 1.8 ... ... 0.1
1996 4.4 ... ... ... ... 0.1

Fonte: OCSE

Sempre con riferimento allo stesso periodo, si può inquadrare il ruolo dell’Italia, relativamente alle spese di ReS, nell’ambito dei maggiori Paesi OCSE. Se negli Stati Uniti e nel Regno Unito si è registrata una flessione delle spese per ReS (rispettivamente dal 51,4% e dall’8,1% del 1981 al 48,6% e al 6,3% del 1994), in altri Paesi il decennio scorso ha visto un incremento significativo degli investimenti in ricerca, soprattutto in Giappone (dal 16,1% del 1981 al 20,1% del 1994), mentre la Germania e la Francia hanno mantenuto quote di spesa pressoché costanti, passando la prima dall’11% del 1981 al 10,8% del 1994, e la seconda andando dal 7,7% del 1981 al 7,6% di tredici anni dopo. Emerge dal confronto con questi dati (v. Tabella 5) come la quota italiana delle spese di ricerca in seno all’OCSE sia molto minore rispetto a quella dei maggiori interlocutori economici e tecnologici: la nostra posizione non solo è molto lontana dal livello degli Stati Uniti e del Giappone, ma anche la distanza dai più vicini partners europei è notevole. Benché negli anni ‘80 il processo di riavvicinamento sia stato avviato, dunque, a metà degli anni ‘90 il ritardo dell’Italia permaneva.

Tabella 5: spesa per ricerca e sviluppo in alcuni Paesi OCSE negli anni 1981, 1987,1984 (milioni di dollari USA a prezzi del 1990)

1981 1987 1994
mdu % mdu % mdu %
Canada 4.959 2.4 6.833 2.4 8,750 2.8
Francia 15.578 7.7 20.052 7.2 24.009 7.6
Germania 22.295 11.0 29.392 105 33.903 10.8
Giappone 32.762 16.1 49.330 17.7 63.215 20.1
Italia 6.521 3.2 10.038 3.6 11.235 3.6
Regno Unito 16.449 8.1 18.846 6.8 20.503 6.3
Stati Uniti 104.381 51.4 144.495 51.8 152.745 48.6

Fonte: OCSE

Per quel che riguarda i settori di esecuzione della ricerca e sviluppo, si può notare come le imprese italiane siano meno coinvolte in questo genere di attività rispetto a quanto avviene all’estero. La quota di ReS italiana svolta in ambito produttivo è comparabile a quella francese, ma nettamente inferiore a quelle del Giappone, della Germania, degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Per contro, le Università e gli enti pubblici realizzano, in Italia, una percentuale di ricerca superiore a quella dei loro omologhi all’estero (tranne che nel caso degli enti pubblici francesi, che fino agli anni ’90 svolgevano una quota di ricerca superiore a quella degli italiani: v. Tabella 6). Un particolare che può avere una certa rilevanza circa la fisionomia del sistema di ricerca italiano è l’assenza al suo interno degli enti non-profit, che invece rivestono una funzione di qualche momento in altre realtà, specialmente in Giappone.

Tabella 6: spesa globale per ricerca e sviluppo nei principali Paesi per settore di esecuzione - composizione percentuale

Settore di esecuzione Italia Francia Germania Regno Unito Stati Uniti Giappone
Imprese
1988 57,8 59,5 72,4 67,7 71,6 67,9
1989 58,8 60,3 72,2 67,8 71,0 69,7
1990 58,3 60,4 71,9 68,0 71,0 70,9
1991 58,5 61,5 69,3 65,6 72,8 70,7
1992

 59,2

62,5 68,5

 65,4

72,2 68,7
1993 56,6 61,7 66,8 65,6 70,9 66,0
1994 56,4 61,8 66,0 65.2 71,0 66,1
1995 57,1 61,6 66,1 ... 71,8 ...
1996 57,7 ... ... ... 72.7 ...
Università
1988 20,3 14,8 14,6 15,4 15,0 19,0
1989 19,8 14,9 14,4 15,0 15,4 18,0
1990 20,7 14,6 14,8 15,3 15,4 17,6
1991 20,1 15,1 16,3 16,3 14,1 17,5
1992 20,3 15,3 17,2 16,4 14,6 18,5
1993 22,5 15,8 18,0 16,7 15,2 20,1
1994 23,6 16,2 18,7 17,5 15,6 20,2
1995 22,9 16,2 18,9 ... 15,2 ...
1996 22,4 ... ... ... 15,1 ...
Enti pubblici
1988 21,8 24,9 12,5 13,3 10,8 8,8
1989 21,5 23,9 12,9 13,6 10,7 8,1
1990 20,9 24,2 12,9 12,8 10,5 7,5
1991 21,5  22,7 13,9 14,2 9,8 7,6
1992 20,5 20,9 14,3 14,2 9,8 8,3
1993 20,8 21,1 15,2 13,9 10.3 9.3
1994 20.0 20.6 15.2 13.8 9.8 9.1
1995 20.1 20.9 15.0 ... ...
1996 19.9 ... ... ... ...
Enti non profit
1988 ... 0.9 0.5 3.6 2.7 4.3
1989 ... 0.9 0.5 3.7 2.9 4.2
1990 ... 0,8 0.4 3.9 3.0 4.1
1991 ... 0,8 0,4 4,0 3,3 4,2
1992 ... 1.3 (a) 4.0 3.4 4.4
1993 ... 1.4 (a) 3.8 3.5 4.5
1994 ... 1.3 (a) 3.5 3.6 4.7
1995 ... 1.3 (a) ... 3.4 ...
1996 ... ... (a) ... 3.3 ...

Fonte OCSE

Nota: anno 1994 (a) = compreso in altra voce

Il profilo di specializzazione

L’aumento delle spese in ReS non si rifletteva in soddisfacenti prestazioni innovative, né nell’incremento della competitività internazionale delle imprese italiane impegnate nell’alta tecnologia. Occorre guardare al di là dei dati aggregati. L’ammontare di risorse (che, per quanto rilevante, non uguagliava quello dei partners internazionali e non bastava a colmare un gap profondo) non era il solo elemento preoccupante: neanche la loro collocazione settoriale favoriva il salto tecnologico dell’Italia. D’altronde le capacità tecnologiche accumulate da un Paese ne condizionano lo sviluppo futuro e non è facile cambiare rotta.

Uno degli indicatori più significativi per quel che riguarda la specializzazione di un’economia è costituito dai brevetti, specie quelli depositati all’estero, attraverso i quali si può rilevare quanto gli operatori di un Paese siano presenti all’estero ed in quali nicchie tecnologiche si concentri la loro azione. Altro strumento di analisi è dato dalle esportazioni nell’alta tecnologia, che registrano, riguardo a questi settori, il livello di dipendenza o, al contrario, la posizione di punta di un determinato Paese nei confronti dei suoi partners commerciali.

Negli anni ’80, la presenza dell’Italia all’estero nei mercati dell’alta tecnologia, la sua spinta innovativa hanno avuto una tendenza negativa: lo evidenzia la diminuzione dei brevetti italiani registrati all’estero (considerando in special modo i dati riferiti agli Stati Uniti, il peso dei brevetti italiani tra quelli annualmente registrati passava dal 3,4% dei primi anni ‘60 al 2,9% della fine degli anni ‘80, v. Tabella 7) e delle esportazione delle industrie ad alto contenuto tecnologico (la quota italiana sul totale di export dell’OCSE in questi settori scendeva dal 4,5% del 1970 al 3,5% del 1987).

Tabella 7: brevetti ed esportazioni italiane nell’alta tecnologia

Quota italiana sul totale dei brevetti esteri negli Stati Uniti Quota di esportazioni italiane nei settori ad alta intensità di ReS sul totale OCSE
1963-1968 1976-1981 1982-1988 1970 1980 1987

Italia

3,4 3,1 2,9 4,5 3,9 3,5

Fonte: Malerba, 1988

Un’idea più particolareggiata della specializzazione tecnologica dell’Italia può essere ricavata guardando a quali sono stati i settori in cui l’attività brevettuale si è concentrata. Dalla Tabella 8 si evince che i punti di forza sono stati, per l’Europa, il tesile, l’abbigliamento, i macchinari specializzati, mentre negli Stati Uniti l’Italia si è segnalata per la sua presenza in settori come farmaceutica, chimica, elettrodomestici. Una discrepanza dovuta in parte alla diversa classificazione utilizzata: i dati europei sono stati raggruppati nelle 43 classi dell’IPC (International Patent Classification), che, classificando i brevetti a seconda del tipo di necessità che soddisfano, aggrega di solito prodotti e relativi mezzi di produzione; mentre i brevetti depositati negli USA sono raggruppati per classi SIC (Standard Industrial Classification), nelle quali si ha più netto il legame tra caratteristiche tecniche dell’innovazione ed economiche dei settori industriali.

Tabella 8: i primi cinque settori di maggior specializzazione dell’Italia. Elenco dei settori con gli indici di vantaggio tecnologico rivelato più alto.

Brevetti domandati all’UEB Brevetti rilasciati negli USA
Classi IPC Classi SIC
1982-86 1987-90 1975-81 1982-88
Abbigliamento calzature e mobili Fibre tessili Elettrodomestici Elettrodomestici
Fibre tessili Abbigliamento calzature e mobili Macchinari specializzati industria Prodotti chimici per agricoltura e vari
Mezzi di trasporto Macchinari specializzati industria Farmaci Macchinari specializzati industria
Macchinari specializzati industria Mezzi di trasporto Prodotti chimici per agricoltura e vari Farmaci
Costruzioni  Costruzioni Chimica organica Veicoli ferroviari

Fonte:CNR-ISRDS,elaborazioni su dati Wipo. UEB e Chi Research

I punti di debolezza che si riscontrano sono simili: l’aereospazio, il comparto elettrico-elettronico, le aree Petrolio e gas naturali. Col passar del  tempo il profilo di specializzazione italiano non ha dimostrato sensibili variazioni, confermando che il patrimonio conoscitivo e tecnico accumulatosi è difficile da riconvertire verso obiettivi di produzione nuovi.

In anni recenti si è riprodotta la situazione già presentatasi nei decenni passati: la nuova ondata di sviluppo dell’economia italiana è stata trainata dalle esportazioni. Infatti, come osserva Pianta, “il fattore che più ha condizionato le prestazioni industriali e l’evoluzione dei settori è stata la crescita delle esportazioni alimentata dalla svalutazione del cambio dopo il 1992. E’ questo il meccanismo principale che ha spinto l’industria italiana a consolidare la propria specializzazione nei settori tradizionali ed a minor intensità innovativa.

Va sottolineato che questo tipo di cambiamento strutturale, indotto da fattori monetari e dalla competizione internazionale, va nella direzione opposta a quello comune al gruppo delle maggiori economie e segnala una divaricazione netta tra il percorso dell’attuale cambiamento tecnologico e quello del cambiamento strutturale dell’industria italiana”.[12]

Insomma lo sviluppo italiano può essere definito “non tecnologico”. La nostra economia ha compiuto grandi passi in avanti nel secondo dopoguerra, grazie anche a condizioni favorevoli createsi in quegli anni su l piano interno ed internazionale: è riuscita a raggiungere i Paesi più avanzati per quel che riguarda i livelli di reddito, ma il “ salto qualitativo” per raggiungerne anche i livelli tecnologici non è stato fatto. L’apertura al commercio con l’estero e lo sviluppo delle esportazioni sono stati i fattori trainanti per la produzione e hanno condotto ad una specializzazione di basso profilo tecnologico; d’altra parte, però, l’integrazione internazionale ha anche permesso all’Italia di attingere al patrimonio tecnologico di altri Paesi.

Si è sviluppata un’attitudine “paradossale” del sistema economico italiano verso l’innovazione: da una parte i produttori italiani si sono rivelati capaci di imitare ed acquisire tecnologie disponibili in Paesi più avanzati, dall’altra i vantaggi competitivi della nostra economia restano legati a settori tradizionali.[13]

Dunque le attività tecnologiche non hanno rappresentato un fattore significativo di propulsione per le trasformazioni recenti del sistema industriale italiano. E la minaccia dell’arretratezza tecnologica sulla durata e sulla stabilità del processo di crescita si è fatta più evidente. I settori cui rimane legata gran parte della produzione industriale italiana sono quelli ad intensità tecnologica medio-bassa, in alcuni casi soggetti a processi di ristrutturazione (settori come l’alimentare, il chimico, i minerali) che permettono di conservare elevati livelli di produzione ma con rinnovamenti delle tecniche produttive che mettono a repentaglio l’occupazione; in altri casi si tratta di settori destinati al declino (siderurgia, macchinari non elettrici), che vedono diminuire sia la produzione che l’occupazione.

La presenza nei settori a tecnologia avanzata è minore: ma è proprio in questi che si ha, nel quadro economico internazionale, la crescita più forte sia in termini di occupazione che di produzione[14].

In un’economia aperta e competitiva, un modello come quello italiano attuale è poco sostenibile per i costi economici ed occupazionali che comporta.

Il rapporto tra imprese italiane ed innovazione si articola a seconda delle dimensioni e dei settori interessati. Si possono profilare due “subsistemi”: quello delle piccole e medie imprese (“the small firms network”)[15] e quello che gravita attorno all’alta tecnologia. Le specializzazioni, le fonti di innovazione, l’impegno nella ricerca sono di volta in volta differenti. Cambiano anche le politiche predisposte al sostegno di queste diverse realtà.

 

[1] ARCHIBUGI, PIANTA, EVANGELISTA: “Forze e debolezze del sistema innovativo italiano”, in Economia e politica internazionale, 1993, n.79,p.138-140.

[2]DEL PUNTA, TRIULZI: “Fondamenti di economia internazionale”, 1992, ed. La Sapienza, pp.435-442.

[3]ARCHIBUGI, EVANGELISTA: “Tecnologia e sviluppo economico in Italia”, in Rivista di Politica Economica, 1995, n.1, pp.92-95.

[4]GRAZIANI: “L’economia italiana dal 1945 ad oggi”, Bologna, il Mulino, 1979, p.55.

[5]D’ANTONIO: “Sviluppo e crisi del capitalismo italiano”, Bari, De Donato, 1973, p.190.

[6]DE CECCO: “Un’industria a mezza strada”, p. 208, in GRAZIANI,op. cit.

[7]ARCHIBUGI, EVANGELISTA: “Tecnologia e sviluppo economico in Italia”, in Rivista di Politica Economica, 1995, n.1, p.96.

[8]LUNDVALL, op. cit, p.131.

[9]ISTAT - RAPPORTO ANNUALE I994: “La situazione del Paese”, p.98.

[10]Fonte MALERBA ,FALZONI, 1991.

[11]MALERBA: “Dinamica di lungo periodo della ReS in Italia”, in Rivista di Politica Economica, 1988, n.4, p.468.

[12]PIANTA: “L’innovazione nell’industria italiana e i suoi effetti economici e occupazionali”, in Economia e politica industriale,1996, n.89, p.

[13] ARCHIBUGI, PIANTA, EVANGELISTA, 1993, op.cit., p.160.

[14]PIANTA: “Innovazione e occupazione nei settori industriali: un confronto tra i Paesi più avanzati” in l’Industria, 1995, n.1, p.103.

[15] MALERBA: “The national innovation systems: Italy” in NELSON: “National systems of innovation”, 1993, p.230.