Conclusioni

 

 

il sistema produttivo italiano ha sviluppato negli ultimi decenni un particolare profilo di specializzazione e un rapporto articolato con l’innovazione.

 Il panorama imprenditoriale può definirsi “polarizzato” su due principali tipologie di operatori: le grandi imprese e la miriade di pmi: questa dualità si riflette sul rapporto delle imprese con la ricerca e la tecnologia, tanto che per l’Italia non si può parlare di genericamente di “sistema nazionale di innovazione” quanto di due “subsistemi” innovativi, uno formato dal core innovativo tradizionalmente inteso  (grandi imprese con sezioni di ReS, pmi innovative, strutture di ricerca), l’altro composto dal tessuto di pmi spesso specializzate in settori tradizionali, caratterizzato da un forte legame con il territorio e da una certa omogeneità di condizioni tecniche tra gli attori. Questo complesso produttivo assume configurazioni e modi di operare di volta in volta diversi: oltre alle pmi “individuali” si hanno quelle che agiscono collegate in realtà come i distretti industriali, i networks innovativi, ecc.

Paradossalmente, è questo il subsistema che ha avuto la performance innovativa migliore – in relazione alle proprie attitudini tecnologiche, che risentono di tutte le limitazioni tipiche delle piccole e medie imprese nell’attività di ReS. Ma se da una parte questo subsistema si è rivelato vivace, flessibile e pronto a rispondere alle sollecitazioni del mercato, dall’altra non sempre è stato in grado di cogliere l’impatto dell’applicazione dei risultati della ricerca tecnologica alla produzione. Di conseguenza la sua domanda di innovazione è spesso latente, inibita da scarsa informazione e incapace di formularsi in proposte e richieste concrete ed articolate. Sul lato dell’offerta di ricerca, d’altra parte, non c’è sempre piena consapevolezza delle esigenze del mondo produttivo. Si è avuta così una sorta di divario tra domanda e offerta di ricerca e innovazione.

L’avvicinamento tra le due parti non è facile e le politiche tecnologiche avrebbero il compito di facilitarlo, aiutando le imprese, specie quelle più distanti dalla ricerca ad assumere un ruolo propositivo nei confronti delle istituzioni che “producono” conoscenza.

Oggi la percezione di questa esigenza e della complessità del quadro produttivo da coinvolgere è chiara all’operatore pubblico. In passato, però, gli strumenti con cui si è intervenuto nel campo dell’innovazione tecnologica si sono rivelati poco articolati,  pensati per imprese che avessero strategie proprie di ricerca e sviluppo  e contatti avviati con il mondo accademico e le istituzioni di ricerca, ma poco adatti alle  pmi ,  nei confronti delle quali le politiche pubbliche si sono limitate a misure di sostegno individuale ( per lo più sovvenzioni  a imprese che acquisivano beni capitali tecnologicamente avanzati). 

  Politiche di questo genere da una parte hanno avuto uno scarso impatto sul modello di specializzazione del Paese,  in quanto assecondavano tendenze già esistenti, dall’altra, agendo sui singoli operatori, non hanno favorito la presa di coscienza, da parte delle imprese, di essere parte di un  sistema innovativo.

  L’attenzione agli strumenti fiscali automatici, allo sviluppo di infrastrutture locali, segnala  un’inversione di tendenza,  riguardo all’intervento pubblico nella ricerca e innovazione.

  Sono state ideate strutture  per la diffusione dei risultati della ricerca e per il trasferimento tecnologico, volte a fornire servizi di consulenza, assistenza ed informazione alle imprese, a collegare operatori produttivi, finanziari e di ricerca. Fra questi i centri di servizi reali, i Parchi scientifici e tecnologici (PST),  i Business Innovation Centers (BIC).

A questi agenti è affidata, quindi, una funzione “maieutica” nei confronti delle imprese, per aiutarle ad esprimere le loro esigenze tecnologiche e la loro domanda di ricerca.

Riguardo in particolare ai Parchi scientifici e tecnologici essi fungono da liason office tra imprese, Università e strutture di ricerca e formazione. Con il tempo il loro modo di essere e di agire si è evoluto, portandoli ad operare come interfaccia sempre più “agile” e virtuale.

Un esempio di questa nuova modalità di azione di Parco è riportata nell’analisi dell’operato del PST di Terni, di recente costituzione, che agisce innestando in un contesto di “declino industriale” le esperienze pregresse di centri di ricerca di respiro internazionale come il CSM e sollecitando la cooperazione tra grandi e piccole imprese e Università.

Una politica dell’innovazione che agisce con la creazione di Parchi, però, presta il fianco a rischi di vario genere: l’operatore Parco, specialmente se è di origine accademica, può restare distante dal mondo della produzione e dalle sue esigenze specifiche; rischia di diventare uno strumento onnicomprensivo, data anche la varietà di situazioni in cui è chiamato ad agire. In Italia l’iniziativa pubblica ha avviato vari Parchi: soprattutto per questi nasce il problema di renderli strutture capaci di autogovernarsi e produrre conoscenza e ricchezza, ed evitare che diventino (o restino) bacini di destinazione di investimenti pubblici.

I punti di forza di un Parco sono innanzitutto la presenza di strutture e potenzialità di sviluppo sul territorio, quindi progetti di ricerca e diffusione tecnologica concreti che coinvolgano gli operatori locali, e, specialmente ove il Parco sia chiamato a sollecitare tessuti produttivi arretrati, senso di realismo e sensibilità alle esigenze della produzione.