JOE D'AMATO

Questo vuole essere un omaggio sincero e sentito a uno dei più eclettici, singolari e sottovalutati registi italiani, a un’artista mai giustamente considerato dalla critica, e a un uomo intelligente, amante del cinema, del sesso e della violenza. Quando si sente nominare Joe D’Amato tutti pensano al porno italiano, allo stallone Rocco Siffredi, alle mille attricette di casa nostra che non sfonderanno mai e a film come “Marco Polo”, “Lolita” (Kubrick non c’entra nulla), “Tarzan”, tutte pellicole hard con un minimo impegno soggettistico e un certo gusto scenografico; eppure Aristide Massaccesi (è questo il suo vero nome) ha scritto e diretto tre fra gli horror più significativi e inquietanti degli ultimi vent’anni, (di questi parlerò nell’articolo) e non solo del bel paese. Ormai gli appassionati sanno che gli anni ’70 e ’80 in Italia hanno goduto di una produzione orrorifica di primo piano e i capolavori del filone gotico, splatter, thriller e fantastico sono invidiati un po’ in tutto il mondo, soprattutto negli Usa e Giappone. Autori come Fulci, Bava (più Mario che Lamberto), Margheriti, Deodato, Lenzi, Soavi, e Argento hanno creato la cosiddetta scuola Italica, un crocevia di raffinatezze gotiche e impressionanti visioni splatter, il tutto sostenuto dalla politica del low-budget, sia per lo scarso interesse del pubblico di allora, sia perché tali autori non si tiravano certo indietro di fronte a un misero tornaconto personale. Viene allora spontaneo parlare di “artigiani” del cinema, cioè di gente che con qualche milione poteva produrre un capolavoro dopo l’altro (Mario Bava, il recentemente scomparso Riccardo Freda), sfortunatamente riconosciuto tale dopo decenni di incomprensione. Ma perché D’Amato è così importante e merita di essere incluso in questa lista prestigiosa? Dicevamo prima dei suoi tre film: Buio omega, Antropophagus e “Rosso sangue sono i migliori, non certo gli unici degni di nota. Ma andiamo con ordine; dopo una pesante gavetta come direttore della fotografia per numerosi film di genere (commedia, poliziesco, storico), Aristide filma alcuni western interessanti, semplici esercizi di stile certo, ma con una certa impronta personale. Nel ’73 scrive, dirige e fotografa il suo primo horror, “La morte ha sorriso all’assassino”, bellissimo esempio di gotico settantiano che vive si di reminescenze Argentiane, ma con una maggiore spinta verso tematiche oscure e magiche; vari elementi come il castello, le cripte, amuleti e maledizioni varie, introducono lo spettatore in un’atmosfera oscura e malata, sotto la musica incessante di Berto Pisano, riferimenti erotici abbastanza spinti, e alcune tra le prime scene veramente splatter del cinema italiano, come occhi strappati (ricordate la scena quasi Kubrickiana in “Zombi 2” di Fulci?) o visi dilaniati. D’amato fa subito vedere di che pasta sia fatto, decidendo di mostrare tutto il possibile, senza tabù o restrizioni sceniche-produttive; da notare anche la presenza di un giovane Klaus Kinsky, di Giacomo Rossi Stuart (avete già capito di chi sia padre) e di un finale di difficile interpretazione. Ma il film non ha per nulla successo (forse per colpa del sottotitolo “Il primo splatter romantico”?); deluso e amareggiato, il regista decide di cambiare genere dopo un incontro con la bellissima Laura Gemser, indossatrice afrodisiaca dai tratti asiatici e dal fisico perfetto, per dar vita a una delle serie più famose del cinema erotico o come si dice adesso “soft-core”. Nasce allora Emanuelle, vero simbolo dell’eros Made in Italy, di cui D’amato dirigerà cinque episodi, alcuni riusciti, altri molto meno; mi soffermo un attimo su questa produzione porno-horror, che non comprende solo il personaggio sopracitato, in quanto, pur trattandosi di pellicole a volte hard (Porno Holocaust, Le Notti Erotiche dei Morti Viventi) altre volte soft (Emanuelle e gli Ultimi Cannibali), la contaminazione con elementi horror e splatter è sempre presente, anche se secondaria; ma i capolavori sono altri. Nel ’79 d’Amato decide di riprendere un vecchio soggetto di Giacomo Guerrini (“Il terzo occhio”), per produrre, dirigere e fotografare quello che è considerato un autentico cult: Buio Omega”. La storia di Francesco, giovane imbalsamatore che impazzisce per la morte della moglie e ne trafuga il cadavere, uccidendo poi due ragazze disgraziatamente finite in casa sua, è già spaventosa di per sé. Aiutato dalla musica dei Goblin, allora famosi per i lavori con Argento, e da interpreti inquietanti e malefici, il regista affonda lo sguardo nella carne viva dei protagonisti, mostrando smembramenti, intestini, (“carne vera” come dirà il regista qualche anno dopo) unghie strappate, ma senza mai farne una cacovisione fine a se stessa. Anche la fotografia, che insiste su colori morti come il giallo e il verde, rende perfettamente quel senso di disgusto e nausea che D’amato è maestro nel ricreare (l’unica scena erotica poi è fra Francesco e la governante Iris, strega maledetta e spietata ninfomane). Il successo della pellicola è grande, ma soprattutto all’estero; Howard Avedis lo cita nel suo Mortuary, e addirittura Artur Penn, colosso del cinema americano anni ’70, omaggia scene e tonalità in Omicidio allo Specchio. Non passa nemmeno un anno che il regista contatta Luigi Montefiori, attore e sceneggiatore ciclopico (più di un metro e novanta), che gli aveva mandato un soggetto poco tempo prima. La storia narra di un gruppo di turisti che capita su un’isoletta greca deserta e che presto scopre il terribile segreto del luogo; non vi anticipo nulla sulla trama e sul finale atroce passato ormai alla storia. Quello che conta in Antropophagus (questo è il titolo del film) è che finalmente si può parlare di splatter puro; oltre alla famosa scena del feto strappato e divorato, che altro non era che un coniglio spellato annegato nel sangue, compaiono altre chicche come gole tagliate, intestini maciullati e cadaveri in decomposizione. Tanto fu lo scalpore all’epoca (dopotutto non si erano mai viste scene simili, e anche le “raffinatezze” gore di Fulci sarebbero arrivate solo qualche anno dopo), che in Inghilterra ne proiettarono qualche scena alla TV spacciandolo per uno snuff-movie; alla fine dei conti però, è proprio l’atmosfera malsana e la macabra vicenda di sottofondo più che gli effettacci, a fare di questo film un autentico gioiello (la scena della cantina mi fa ancora star male!!!!). Non passano nemmeno sei mesi, che Montefiori concepisce un altro dei suoi incubi visivi che D’amato decide subito di produrre e dirigere; il gigante-sceneggiatore è sempre della partita (interpreta uno pseudo-zombi praticamente immortale), ma questa volta sembra di vedere un Halloween (l’ultima scena è uguale al preambolo iniziale con Michael da piccolo) più splatter e con meno senso (non che il capolavoro di Carpenter ne avesse poi tanto). Rosso Sanguerimane forse il meno bello e scioccante dei tre, ma è sempre spaventoso e allucinante nella sua fredda esposizione di atrocità e sangue; Montefiori, risultato distorto di un esperimento genetico, gira per un paesino facendo fuori chiunque gli capiti davanti, trovando poi la morte in una casa isolata per mano di una ragazzina semi-paralizzata. Da ricordare almeno l’insostenibile scena del forno e l’accecamento del mostro, che come un pazzo rantola e si dimena cercando di uccidere la piccola. DopoRosso Sangue, D’Amato si rigetta a capofitto nel filone porno-horror prima accennato, ma senza realizzare nulla degno di nota, per poi abbandonare completamente (con l’eccezione di La Jena e di Frankestein 2000"), tale genere, e diventare a tempo pieno un regista hard. Se proprio vogliamo essere precisi, potremmo ricordare le sue produzioni, fra l’altro con esiti alquanto modesti; solo La casa 3” di Umberto Lenzi e DNA – Formula letale di Montefiori sono accettabili, mentre da dimenticare rimangono La casa 4 e La casa 5, tutti episodi apocrifi ispirati alle prime due “case” di Sam Raimi. E così, dopo un centinaio di film e un nome venerato da molti (parlatene male a quelli di Nocturno Cinema e vedrete), Aristide Massaccesi, ci lascia circa il 24 marzo del ‘99 a 62 anni, in mezzo all’indifferenza generale (un po’ quello che era successo quando morì Fulci) e con il rammarico di aver perso uno dei più importanti registi horror degli ultimi trent’anni.

(Francesco Destri)