Intervista ad Yngwie su "Guitar Club" - Giugno 1992

 

 

GUITAR CLUB: Yngwie Malmsteen, grande stile anche e forse soprattutto dal vivo. Uno show giocato sull’impatto visivo e su una musica pulsante e grondante di decibel, che riportano a certe performance del periodo di "Trilogy", forse il momento sin qui più alto a creativo della tua parabola artistica. Sei d’accordo?

YNGWIE MALMSTEEN: Sul fatto di aver curato molto l’aspetto live sì, sul ritenere "Trilogy" il massimo raggiungibile, no. Se infatti abbiamo sudato le classiche sette camicie per allestire questo show, e credo si veda, secondo me "Fire And Ice" è certamente un punto d’arrivo, ma specialmente un trampolino di lancio. Ottimo materiale, un’ottima band e una vena che lungi dall’esaurirsi ma che, anzi, si rivela più feconda che mai. "Trilogy" era un massimo, certo, ma relativo: non assoluto. Se così fosse, potrei anche ritirarmi subito. E poi, ci sono molte novità in "Fire And Ice". L’approccio mio, e dei ragazzi, è stato diverso; prima di tutto non ho mai pensato ad un produttore (è infatti Yngwie a vestire i panni del producer). e questo perché sapevo benissimo cosa volevo e come ottenerlo, e poi ho cercato di incorporare nei brani tutte quelle che sono le mie radici e ispirazioni, dando vita ad uno spettro sonoro molto vasto. Dando al prodotto, infine, una veste più grezza e spigolosa, meno pulita e lineare che in passato: quasi un andare contro le mie abitudini, ma resosi necessario per conferire alle canzoni quel sound live in studio che andavo cercando da tempo. Infatti, ogni pezzo è stato inciso in una take: chitarra, basso, tastiere e batteria. Salvo poi aggiungere le parti vocali e i solo, anch’essi però sempre o quasi rimasti identici all'originale: e questo perché sono solito registrarli subito dopo la base ritmica cosi non vi sono overdubs, ma unicamente la parte di chitarra solista. Forse avrà perso qualcosa per strada riguardo l'esasperazione tecnica (sorride) ma certamente la spontaneità e l’immediatezza ne hanno guadagnato. E questo, quando sei su un palco e il pubblico ti incita a dare il massimo, è fondamentale.

G.C.: A proposito dello show, è sembrato più eccitante che in passato, anche se bisognerebbe aprire una parentesi su Joe Lynn Turner. Non si è trattato di mero sfoggio di tecnicismo, ma una proposta musicale completa dove ognuno faceva la sua parte. Un team affiatato.

Y.M.: Abbiamo raggiunto un affiatamento notevole, e i brani del nuovo disco si sono integrati perfettamente col vecchio repertorio. "Perpetual" "Dragonfly" (di cui ha girato proprio qui a Milano un video live) "Fire And Ice" e soprattutto "Teaser" hanno ulteriormente arricchito una scaletta ideale per presentare l’intero corso di Yngwie Malmsteen. Sino al medley finale dedicato ovviamente a Hendrix.

G.C.: Hai mescolato "Spanish Castle Magic", "Purple Haze" e un paio di accenni all’intro di "Voodoo Child". Nessuno dei nuovi chitarristi ti sembra all'altezza per seguirne le orme?

Y.M.: Non li ascolto, semplicemente. Non voglio dire che siano incompetenti o al contrario affermare la loro valentìa, solo non m’interessano. Jimmy ha invece colpito la mia immaginazione, mi ha aperto la mente mostrandomi quale sarebbe stata la strada da seguire. Ricordo di averlo ascoltato per la prima volta il giorno in cui morì (il 18 settembre del 1970, quando Yngwie aveva solo 7 anni), perché la TV svedese mandò in onda uno special su di lui. Un paio di anni prima avevo ricevuto in regalo una chitarra, ma sino a quel giorno era rimasta dentro l’armadio: poi, d’improvviso, non me ne separai più. Una folgorazione ! Con il senno del poi, e soprattutto esaminando l’attuale repertorio, non credo ci sia più molto di lui nella mia musica; quello che mi ha realmente impegnato, è il modo di affrontare la musica, l’approccio creativo e innovativo: dalla tecnica alla posizione delle dita, dai movimenti delle braccia al modo di vestirsi. E tutto seguendo un unico principio: essere sempre sé stessi.

GC. : Nel brano "C’Est La Vie" (in "Fire and Ice") usi forse per la prima volta il sitar. Un salto indietro nel tempo di oltre venti anni.

Y.M. : Tutto è nato per caso. Mi trovavo in questo studio di Stoccolma e guardandomi in giro, mi accorsi un giorno che c’era, appoggiato su un mobile, un vecchio sitar. Lo presi in mano e, un po’ per curiosità, un po’ per interesse professionale, mi misi a suonarlo; dopo una decina di minuti ne ero come conquistato e decisi di inserirlo in un brano che stavo finendo di comporre proprio in quei giorni, appunto "C'Est La Vie". Da notare che si tratta di un sitar "genuino", e non il Coral Electric Sitar che certi musicisti usano spesso per dare al brano quel tocco di esotico. E a proposito di questo pezzo, contiene il solo che preferisco, quello più fantastico che abbia suonato negli ultimi anni: limpido, cristallino, fluido e potente.

G.C.: Nei ringraziamenti dell’album citi tra gli altri Vivaldi, Bach, Beethoven e naturalmente Paganini. Restano questi. a tutt'oggi. i tuoi maggiori riferimenti, insieme naturalmente a Hendrix ?

Y.M.: La gran parte della musica che ascolto, purtroppo non quanta vorrei, appartiene al repertorio classico e questi quattro autori rappresentano a parer mio il top: in quanto a valentìa compositiva ed esecutiva, a carisma artistico e forza espressiva. In fondo, non scordiamoci che sono stati loro le prime rockstar della storia; ai concerti di Paganini o Vivaldi le scene di isterismo erano di regola, come la spasmodica attesa che precedeva un concerto o una semplice apparizione. Se allora i mezzi di comunicazione, a partire dal disco, fossero stati quelli attuali, avrebbero spopolato ovunque. Di Jimi ti ho già detto, mentre per il resto non me ne curo. Infatti, dal vivo a parte proporre brani di Hendrix (oltre ai citati Yngwie interpreta pure "Manic Depression" e" Little Miss Lover"). eseguo saltuariamente il Quinto Capriccio di Paganini. il Sesto o il Settimo, ma nulla di più, il resto è puro Malmsteen: strictly original.

G.C.: Dall’inizio della tua carriera, circa il 1983, si sono avvicendati stili diversi come il Thrash, lo Speed Metal. il Funk e l’Heavy Metal; tutti, chi più chi meno, ormai datati o del tutto scomparsi. Non credi che anche le contaminazioni classiche, i rimandi dotti e gli intermezzi per violini e orchestra possano arrivare ad un punto di saturazione? È già successo agli albori del Settanta, dopotutto.

Y.M.: Non credo, almeno non è questa la mia previsione. L’importante è riuscire a trovare un giusto dosaggio degli ingredienti, non sbilanciarsi troppo da una parte: fare cioè un discorso eterogeneo dove classico, rock, assoli e blues si fondono creando qualcosa di eccitante.

G.C.: L’intro di "How Many Miles To Babylon" è di puro stampo ottocentesco, mentre "No Mercy" presenta una vera orchestra impegnata in un estratto dalla Suite per Orchestra N. 2 in B minore di J.S. Bach. Come mai una simile scelta soprattutto in un contesto, come quello di "Fire And Ice", abbastanza lontano, o almeno diverso da un’impostazione di stampo neoclassico? Quanto c’entra in ciò l’essere un polistrumentista ?

Y.M.: Abbastanza. Musicalmente parlando sono onnivoro e in particolare suono il basso, tastiere e me la cavo col violino. Questo fa si che senta il bisogno di sposare passato e presente, radici con suoni futuribili. Ma poi certi autori, Paganini ad esempio, sono tremendamente attuali e se penso ai miracoli che riusciva a compiere suonando una sola corda del suo violino... Due mondi che si completano a vicenda. compenetrano senza sbavature. Ed io appartengo ad entrambi.

G.C.: Parliamo ora di chitarre. Ormai, si sa, sei 'monomarca' e 'monomodello': Fender Stratocaster. Ma il tuo parco strumenti ne conta quasi un centinaio, di fogge strane e sonorità disparate.

Y.M.: Per la precisione sono 93 e qui sta il dilemma: come faccio a dirti quale è quella che uso più spesso o che preferisco ? Ad esempio, in gran parte di "Fire And Ice" mi servo di una Strato del ‘56, ma non è certo l'unica: utilizzo con ottimi risultati una Strato del ‘66 e una color crema del ’72. Naturalmente poi adopero la Fender 'Modello Malmsteen' e una di queste ha quel suono fuori fase così decisamente "grande" e inconsueto che puoi ascoltare qua e là sull’album.

G.C.: Naturalmente hai un tecnico che si occupa della strumentazione, soprattutto dal vivo, ma gran parto del lavoro di messa a punto lo fai tu stesso. E questo, se non erro, sin dai tempi degli Alcatrazz.

Y.M.: Certo ho un tecnico, è indispensabile nel mio lavoro. Ma hai ragione, perché ci tengo a customizzare personalmente le mie chitarre, per lo meno apportare quelle piccole modifiche necessarie allo scopo. E' un po' come un pilota di Formula Uno: sarebbe assurdo se non si intendessero di motori. E poi nessuno meglio di me sa ciò che voglio.

G.C.: Anche riguardo a corde e pick-up sei fedele al tuo passato.

Y.M.: Certamente. Perché dovrei cambiare? I pick-up, a vederli, sembrano quasi di serie ma in realtà sono stati elaborati per me personalmente dalla Di Marzio mentre, per ciò che concerne le corde, continuo ad affidarmi all’esperienza e alla robustezza delle Ernie Ball (009-046). Ottimi infine i plettri Dunlop da 1,5mm (di cui fa un uso spropositato, nel corso del soundcheck ne ha consumati almeno una trentina: nulla comunque rispetto ai quasi cento di cui si è disfatto durante lo show), gli unici perfetti per il mio modo di suonare.

G.C.: Anche per ciò che riguarda l'amplificazione non ti discosti dai prodotti di Jim Marshall, quasi una scelta di vita.

Y.M.: Sì, uso il medesimo set-up che ho sempre adoperato, e cioè quattro testate Marshall da 50 watt e 8 cabinet che tengo a distanza ravvicinata; divido poi il segnale in stereo grazie ad un Korg SDD 2000 digital delay. Ma il delay è minimo, tanto per ottenere un sound leggermen­te più aperto. Effetti quindi, pochi.

G.C.: Si è notato durante il concerto: solo l'indispensabile.

Y.M.: Esattamente. Perché preferisco creare uno spettro sonoro più ampio usando vari strumenti (sitar, basso o chitarra acustica o un'orchestra) piuttosto che affidarmi ad una quantità di effetti.

G.C.: Infatti abbiamo avuto modo di apprezzare, tra "Making Love" e "Crystal Ball", un assolo del tastierista e poco dopo, tra "Far Beyond The Sun" e "Save Our Love", un intervento solista del bassista qui impegnato al violoncello. Che ne è delle dicerie riguardanti una tua presunta tirannia all’interno del gruppo? Vedi Joe Lynn Turner.

Y.M.: Guarda, l’importante è avere a che fare con ottimi musicisti e altrettanto buoni amici e il perché, almeno nel mio caso, è semplice: sono un perfezionista mai contento ed esigo il massimo, sempre. Ma credo questo stia alla base di ogni buon risultato, e con l’attuale band ho raggiunto un livello qualitativo veramente notevole. Joe Lynn è sempre un amico: adesso ha intrapreso un’altra strada e spero per lui sia piena di successo. Per il resto, trovo Goran Ed­man semplicemente perfetto, e anche il nuovo drummer Bo Werner adattissimo. Certo, la mia presenza è preponderante ma ciò non significa che faccia sempre e comunque il bello e il cattivo tempo.

G.C.: Se dovessi stilare una classifica di preferenze riguardo i tuoi album passati, quale metteresti nelle prime due posizioni?

Y.M.: Escluso naturalmente "Fire And Ice", continuo a prediligere "Eclipse", seguito da "Trilogy". Un posto a parte è riservato a ‘Trial By Fire/Live in Leningrad" (20 show ognuno con un pubblico di oltre 20 mila persone a sera), perché rappresenta la summa artistica del mio lavoro, perché ho vissuto un’avventura forse irripetibile e infine perché la mia label ha preferito ignorarla al momento della pubblicazione, temendo di intralciare il successo del disco di Bon Jovi.

G.C.: A proposito della Polydor, è stata di re­cente stampata una antologia intitolata "The Collection", peraltro evitabile se già si possiedono i tuoi album data la non presenza di chicche (escludendo un assolo più lungo in "Making Love"). E possibile tu non abbia avuto alcun ruolo decisionale nella scelta del materiale. Che te ne sembra?

Y.M.: Incompleta, è il primo aggettivo che mi viene alla mente. Parto dal concetto che nessuno, all’infuori dell’artista stesso, è veramente in grado di capire e sapere quale sia il materiale più rappresentativo, che meglio definisce l'identità dell’autore; quindi, da tale punto di vista, è un fallimento. Ne sono stato informato solo a cose fatte e va da sé che la mia scaletta sarebbe stata ben altra.

G.C.: In "Fire And Ice" c’è un brano che per alcuni stona, ed è "Teaser". Troppo sfacciatamente commerciale se paragonato al resto; quasi un volersi prostituire alle regole di mercato. Una sviolinata inutile.

Y.M.: Si tratta solo del brano di maggior impatto, il più immediato. Il pop - rock è un genere che sento nelle mie corde, perché dovrei rinnegarlo?

 

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Articolo fornito da Joseph Silenski e trascritto da Valeria Guarnieri



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