Intervista ad Yngwie tratta da "Guitar Club" - Ottobre 1997
GUITAR CLUB:
Domanda scontata, come mai un album di cover? Come mai un tributo agli artisti, alla musica che hanno segnato la tua giovinezza? E che criteri hai usato nel selezionare il materiale?YNGWIE MALMSTEEN: Direi che questo album è molto più che una raccolta di rielaborazioni, di remake: qui è presente Yngwie Malmsteen. Sono brani che ormai mi appartengono, che mi hanno guidato quando ero un ragazzino che si apriva al mondo della musica. Non sono le prime cover che incido, in altri album ne puoi trovare soprattutto di Hendrix, ma stavolta è diverso. E un po’ come ripercorrere a ritroso la mia vita, tornare ai giorni forse più importanti. Avevo finalmente terminato la realizzazione del mio studio dì registrazione dì Miami, che è venuto un capolavoro; così per "testarlo" trascorsi intere giornate, di ritorno dall’ultimo tour, suonando vecchi brani a me cari. Poi è arrivato Anders (Johansson) e si è aggregato. Ascoltò i nastri e mi pregò di inviarli in Svezia dove avrebbe aggiunto le parti di batteria. Poi ho chiamato Joe Lynn (Turner), Mark Boals e Jeff Scott Soto per le parti vocali. Una specie di rimpatriata tra compagni d’avventura. Ci vuole, ogni tanto. E l’inaugurazione del mio Studio 308 era l’occasione perfetta. Che criterio ho adottato? Ho usato l’istinto, come sempre. Sai, ogni canzone è come una donna: ti suscita emozioni, ti stimola i sensi, Più queste sensazioni sono intense, più il desiderio di possederla aumenta. Le canzoni che ascolti sono quelle che sento più 'mie', nell’intimo, nel profondo.
G.C.: Già la copertina è un omaggio, pur criptato, ad ogni brano incluso.
Y.M.: Un indizio. C’è il "Demon’s Eye", i cancelli di Avalon, l’arcobaleno e il colore dominante, un viola profondo. Ogni momento sull’album (l’edizione giapponese contiene in più "Spanish Castle Magic" perché, come ammette Yngwie, "quelli vogliono sempre qualcosa in più, di unico per il loro mercato") ha una precisa ragion d’essere. Ad esempio "Anthem" dei Rush l’ho scelta perché fa parte dell’album "Fly By Night" che ascoltai per la prima volta in casa di amici, nel 1976 credo. Mi colpi soprattutto l’intro, un inizio al calor bianco: da quel giorno continua a ronzarmi nelle orecchie. Riguardo i Kansas e "Carry On Wayward Son". Li ho conosciuti in ritardo e da allora ho cercato di guadagnare il tempo perduto. Credo sia una delle band più erroneamente sottovalutate. Meriterebbero una riabilitazione e qualcosa di più.
G.C.: È però innegabile che Blackmore e i Purple occupano un posto di riguardo nel tuo cuore a forma dì Stratocaster
Y.M.: Beh, non saprei negarlo. E in questo album ne hai qualche esempio. Ci sono quattro brani che mi stanno particolarmente a cuore, tratti dalla discografia dei Purple. A cominciare da "Pictures of Home", non tra le più famose ma la mia favorita tratta da "Machine Head": non so, ha qualcosa di speciale, di unico. Poi c’è "Mistreated", senza dubbio la migliore a firma Blackmore/Coverdale. Ne amo soprattutto la versione live perché quella di studio mi sembra un po’ stucchevole, troppo perfettina; manca cioè di feeling, di cuore. Live invece è semplicemente perfetta. Dal canto suo "Demon’s Eye" l’ascoltai per la prima volta a casa, per "colpa" di mia sorella Lollo, la quale mi regalò il primo album dei Purple. Uno shock, credimi. E chiudo con "Child in Time", un classico. Che però ho cercato di rivestire di nuovo, tessendogli attorno un intreccio sonoro di chitarra, compreso un assolo tra i migliori, assente nell’originale. E qui torniamo al discorso che ti facevo, "Inspiration" è innanzi tutto un disco di Malmsteen.
G.C.: Rimane Hendrix e "Manic Depression", una scelta non ovvia.
Y.M.: Hai ragione. Ma vedi è l’istinto che mi guida, e quel brano mi ha sempre intrigato: per l’intro "rotolante", per quella ritmica avvolgente e per il matrimonio tra voce e chitarra così intimo, così sensuale. Non è un caso che abbia deciso di cantarla personalmente.
G.C.: Su "Inspiration" che chitarre usi?
Y.M.: Naturalmente la mia fida Stratocaster color panna, una Gibson Gold Top ‘61 ("In the Dead of Night"), un Fender Precision Bass, un basso Rickenbacker 4001 e il sitar in "Gates of Babylon". Nessun effetto speciale, nessun rack ma un suono ‘straight". Anche un pedale wah wah. Punto. E ovviamente Marshall Mark II come ampli. Un mix che non tradisce mai, una combinazione che funziona sempre.
G.C.: Sei di ritorno da una specie di world tour.
Y.M.: Abbiamo attraversato l’America, dal sud al nord. Ogni stato, ogni città. Poi siamo stati in Corea, Singapore e Thailandia per proseguire in Giappone per una manciata di date incredibili, e infine arrivare in Europa, dalla Scandinavia alla Germania all’Italia.
G.C.: Certo, almeno da un anno a questa parte, non ti è rimasto molto tempo per comporre nuovo materiale.
Y.M.: Ed è qui che ti sbagli. Infatti ho terminato di comporre un "Concerto per Chitarra e Orchestra", undici movimenti: è ultimato e già trascritto in partitura, 450 pagine, non ci sono bassi né batteria né voci; solo un coro di 150 elementi che accompagna un’orchestra di 96 musicisti. E’ la cosa più emozionante è che è stato inciso completamente con l’apporto di una filarmonica. Non so quando verrà pubblicato ma l’importante è averlo inciso una simile situazione non è facile da ripetere. Adesso invece sto raccogliendo le idee per un nuovo album, tutto di brani inediti. Spero possa uscire presto.
G.C.: Quel progetto con orchestra è un sogno che cullavi da tempo ma che, per vari motivi, sei sempre stato costretto a posporre.
Y.M.: La prima sensazione fu di grande disagio, quasi di paura. Era la prima volta che suonavo con una grande orchestra e mi sono sentito un pesce fuor d’acqua. Dover scrivere partiture per i vari strumenti, dal contrabbasso al cembalo, dai violini ai timpani all’oboe. E tutto in due mesi, perché è questo il tempo impiegato per completare quel lavoro. Non male eh? Si tratta di un concerto improntato sulla musica classica, con gli adagi, allegri, moderati e fughe.
G.C.: So che non sei in ottimi rapporti con il computer: è giusto?
Y.M.: Non è esatto. Oggi la tecnologia ha fatto passi da gigante e compie veri miracoli, impossibile essere solo indifferenti al progresso elettronico. Ma una cosa è usarlo per navigare, per mandare messaggi o quant’altro, e una cosa è impiegarlo per comporre. Ecco in quest’ultimo caso mi rifiuto. Mi sono sempre rifiutato. Prendo la mia Strato, mi siedo e inizio a suonare; le cose vengono da sole, fluide senza alcun bisogno di stimoli "non umani".
G.C.: Tornando al tuo progetto con l’orchestra, pensi che oggi, a tre anni dal terzo millennio, ci sia posto, commercialmente parlando, per un progetto di questo tipo?
Y.M.: Sinceramente non so che dire. Forse la prima risposta sarebbe negativa; poi però penso all’entusiasmo mio e di chi ha collaborato con me, dai tecnici all’orchestra a tutta la gente coinvolta. E al risultato, davvero eccellente. Allora mi dico: la musica si divide fondamentalmente in buona e cattiva. E per la buona c’è sempre spazio. Dunque, chi mastica buona musica recepirà il messaggio.
G.C.: Un altro aspetto interessante per i giovani musicisti è quello di seminari e clinics. Tu ne hai tenuti alcuni di recente.
Y.M.: Secondo me sono importanti, sebbene non sempre siano immuni da pecche: da parte dell’organizzazione o dell’artista stesso. Nel mio caso, ho cercato di offrire ai ragazzi un valido supporto, un aiuto per meglio capire la struttura di un brano. Ho fatto ascoltare delle backing tracks e di volta in volta mi soffermavo sui vari aspetti della composizione e dell’esecuzione. Poi c’erano le domande. Pertinenti e intelligenti, devo dire; il che dimostra la volontà di riuscire, di affermarsi. Tuttavia, ad alcune non sono riuscito proprio a rispondere. Quando ti chiedono "come fai?", "che tecnica usi", "hai un metodo per comporre ?", allora vado in crisi. Allora, cavolo, mi siedo, imbraccio la chitarra e mi metto a suonare: tutto qui, semplicemente. Come faccio a tradurlo in termini tecnici? È puro istinto, emozione, stati d’animo. Le clinics sono molto richieste, ma devo dire che non è al top delle mie aspirazioni tenere dei seminari specifici sullo strumento. Non sono tagliato per fare il professore, sono un musicista e mi va di suonare. Punto. Quando me l’ha chiesto la Fender non ho certo rifiutato, il nostro rapporto è splendido e dunque l’ho fatto. Personalmente, come puoi immaginare, non è stato il mio metodo di apprendimento perciò sono abbastanza scettico sulla reale utilità di questi seminari. Però male non fanno, perciò ben vengano.
G.C.: Parliamo di Ferrari?
Y.M.: Ne posseggo due. ma al momento sono entrambe in garage. Il grosso problema è che una macchina di questo tipo, un simile gioiello, va usata perché funzioni bene. Se la lasci in un parcheggio per settimane, a volte mesi, si deteriora e non ruggisce più. L’ultima volta che ne ho usata una è stato con mia moglie giù per le Florida Keys, credo fosse gennaio. Da allora, tra tour, incisioni e tutto il resto, mi è stato impossibile trovare un solo momento libero.
G.C.: Cosa dici di Schumacher?
Y.M.: Non lo seguo molto, troppo lavoro, ma ho letto ottime cose su di lui. Sulla sua flemma tedesca, sulla sua bravura di pilota e collaudatore e sulle sue ottime qualità di stratega e psicologo; perché in un mestiere come quello di pilota di Formula Uno, se non hai la padronanza assoluta dite stesso e del mezzo diventi automaticamente un pericolo per te e per gli altri. Se ti scappa il piede sei fritto (l’espressione di Yngwie è decisa mente più colorita).
G.C.: Su "Magnum Opus" c’è un brano intitolato "Overture 1622": esiste un motivo che determina questo titolo?
Y.M.: È un brano importante per me, perché parla della mia famiglia. Devi sapere che proprio in quell’anno, il 1622, un mio avo fu nominato cavaliere da sua maestà il Re di Svezia. Di recente sono andato a far visita ad un grosso centro specializzato in ricerche araldiche e ho trovato molte notizie interessanti circa il mio casato. Mio padre mi raccontava queste cose da piccolo, ricordo che sedevo sulle sue ginocchia e lui iniziava parlando di dame e cavalieri. Forse ho lavorato un po’ troppo di fantasia, forse ho abbellito la storia, ma di sicuro c’è che un mio antenato scoprì un ricco filone, una miniera tutta da sfruttare, e di un materiale prezioso. Da qui il nome Malmsteen (Mal = oro e Steen = pietra).
G.C.: Ok, rimaniamo in argomento. Se potessi usare la macchina del tempo dove ti piacerebbe andare?
Y.M.: Forse nel futuro, per vedere tra dieci o venti anni dove sono e cosa faccio. Magari sarò diventato un pilota, un ferrarista: confesso che mi attira l’idea. O più semplicemente punterei sul passato, recente e remoto. Recente per assistere ad un concerto di Hendrix dal vivo, e perché no, seguirlo in tour; remoto per far luce su un periodo oscuro della storia della mia Svezia, attorno al 1600 - 1700. E vestire i panni di un musicista, di un trovatore. Peccato non c’era ancora l’energia elettrica, altrimenti mi sarei portato dietro un Vox AC3O e la mia Stratocaster.
G.C.: Che rapporto hai con il denaro?
Y.M.: Vuoi sapere se ho le mani bucate? Beh, non posso dire di essere un risparmiatore, ma solitamente spendo a ragion veduta: non per semplice capriccio. Non sempre almeno (ride). Se non consideriamo gli strumenti e il mio nuovo studio di registrazione (che sono strumenti di lavoro), allora rimangono le Ferrari e qualche ciondolo d’oro. Diciamo che mi piace investire, far fruttare i soldi. Trasformare il denaro in produttività. Soddisfacendo qualche volta anche il mio ego, vedi il "Concerto Suite per Chitarra Elettrica e Orchestra".