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Per Flavio e Paola Soriga.
E per Paolo Nori, Giulio Angioni, Domenico Cubeddu, Tore Cubeddu, Mario Cubeddu, Marc Porcu e la sua sposa, Antonella Chessa, Mattea Usai, Luciano Marrocu, Laura Pugno, Franco Loi, Giovanni Peresson, Alberto Urgu e tutti gli altri che non nomino, e che non se ne adombreranno.
Grazie per questo Settembre dei Poeti.
Mi avete dato ancora l'occasione di benedire la mia fortuna, la sorte generosa che mi ha reso capace, dopo tutti questi anni, di essere lì passivo, accogliente, presente, capace di abitare le lingue e i racconti che mi arrivavano nelle giornate, e le terre dell'anima in cui questi racconti portavano, perfetto paesano di ogni canto e ogni terra.
La sorte generosa e immeritata di esser nato e aver vissuto sardo per abbastanza anni, e figlio e nipote di sardi da tanti più anni, tanti da poter cogliere ogni cosa e ogni ombra di ogni cosa nel canto di Giulio Angioni, che con voce magnifica enumerava ed evocava i suoi Tempus. E i Tempi scorrevano davanti ai nostri occhi come pazienti graffiti rupestri, in un cantone di muri di pietra reso tempio dal sole del tramonto, e dal momento. Quella voce che accarezza e impreca e sorride e irride e abbraccia, ora parla in una lingua che comprendo. Non tutte le parole, di certo, ma tutta la lingua. Perché parla per essere compresa e per comprendere. Non proclama, non esilia, non taglia fuori con lingua di falce, ma come un canto deve fare comprende, prende-con, ci prende tutti con sé nell'abbraccio del canto. Un manuale di versioni greche su cui sgobbavo nel liceo Dettori di Cagliari, quaranta anni fa, recava il titolo allora per me enigmatico "KTEMA ES AIEI", che significa "possesso per sempre". Capivo naturalmente la lettera di quella locuzione, perché ero un bravo studente del classico, ma non lo spirito profondo, perché non ne avevo gli anni. Giulio Angioni, con la voce che parla dai millenni, mi ha fatto comprendere oggi cosa voleva dire. Tempus. È bellissimo: quarant'anni per capirlo! Esiste dunque il tempo e noi, anche noi angeli asini tardivi, abbiamo speranza. Mi ha fatto comprendere di averlo ormai in me quel "Ktema es aiei", quel possesso per sempre, quel "mio" della lingua e del canto, quel "mio" dell'Isola che nessun custode di purezze culturali, nessun esattore di "cixiri" potrà mai oramai portarmi via.
E via, in un'altra piazza, in un'altra terra dell'anima, che illumina altre benedizioni della sorte.
La sorte generosa e immeritata di aver vissuto tanti altri anni in quell'altra terra cara ed eroica che è l'Emilia, più che matrigna matria, acquisita e avidamente requisita. Di avervi conosciuto e amato e seguito come discepolo incantato uomini a cui non posso pensare di accostarmi ("men whom one cannot hope / to emulate—but there is no competition...", dice nostro padre Eliot nei Quattro Quartetti). E fra essi, per esempio, Gianni Celati, e i Narratori delle Pianure che lo hanno seguito, col loro canto vivo e vacillante che spalancava ai miei occhi paesaggi di comprensione del nostro occidente, di quell'oltremare, di quelle pianure madri di ricchezza e civiltà dove ero migrato. Bene, quel canto ha trovato lì a Seneghe rima e ripresa ("torrada") nella voce di Paolo Nori, che, la mano levata come ogni rapsodo o griot, salmodiava il diario di Settembre nelle magnifiche onde vocali - seconda patria, seconda lingua - dell'Emilia. Un vacillare dicendo a ogni passo, un'incertezza di poter dire il mondo, che combatte con la bellezza e l'esattezza di doverlo dire, e il risultato di questo duello è una prosodia fluente e zoppetta e potente che spalanca il mondo con la vita umana al centro. Dio è nei dettagli, diceva Gabriella Caramore citando Paolo De Benedetti nella serata di sabato. Paolo Nori, con le sue sorridenti cadute, le sue interiezioni dubbiose ("… per dire…"), mi ha rivelato che anche l'uomo è nei dettagli. E non poteva essere altrimenti, "a pensarci bene", come direbbe lui (bisogna sempre "pensarci bene", vero Paolo? È nostro compito sorridente e commovente). Dettagli, interiezioni dubbiose, piccoli smarrimenti marginali: da quei brevi varchi si vede la vita umana nostra tutta intera, la sua complessità viva e scalciante, la sua verità frastornante, inafferrabile, a meno di non saper zoppicare. Si vede l'alba che è difficile trovare dentro l'imbrunire. Si apre e poi si richiude subito in un sorriso la forza indomabile e bella degli sfigati, che è nelle crepe, nelle ombre, nei dettagli e nei tartagli. E che da sempre serve a tutti per guarire il mondo.
E ancora in altri mondi, in altre piazze con altri canti di poeti, che hanno schiuso tutti almeno uno spiraglio per ammettermi nelle loro terre.
Le terre allucinate e luminose, dorate e visionarie di Laura Pugno, gli idoli fantasmagorici dell'anima interna proiettati fuori dalla caverna in alta definizione immaginaria. Sono film dell'avventura della mente le sue poesie, fioriture lussureggianti che a stento nascondono dietro la fantasmagoria la salute gioiosa del canto, la fiducia di esserci appieno, in piedi in quel posto. Posti a cui appartengo, come i videogame meditativi, le "graphic adventure" serene e mistiche dove ho vissuto lunghe ore delle mie notti, fino a sentirmi alla fine paesano anche di lì.
E all'altro capo della luce, catabasi buia di quell'anabasi d'oro, le altre terre da cui ritorna il canto di Milo De Angelis, grondante della tenebra che vi regna. Noi siamo come il Kubilai Kahn, abitiamo la capitale dell'Impero della nostra anima e ben poco ci muoviamo da lì. Ma sappiamo che l'impero è sconfinato, e così noi inviamo Marco Polo perché torni e ci dica come sono le buie terre dei bordi. Le tenebre. Possiamo stupirci se torna parlando lingue oscure? Non si può parlare dei mondi di laggiù con la lingua di qui. La lingua dell'anima non può essere basic english: è fatta di sogni estratti dalla tenebre con procedimenti vietati, e disseccati per il lungo sui fogli. Il Kahn può dire, se vuole, se è vile: terre dove si parli codesta lingua, dove le città del senso fioriscano in tali incongrue architetture, non mi appartengono; non esistono nemmeno. Io ho potuto gettare, grazie a Marco Polo, uno sguardo breve e stordito, impaurito e affascinato anche lì. Non è un caso che Milo De Angelis non sorridesse mai: forse chi è tornato da quei posti non sorride. Forse sì, di altri sorrisi più fondi. Ma è andato laggiù per me e gli devo il mio ascolto, e incolmabile gratitudine per le ferite del viaggio.
Solo la mia ultima serata di festival, sabato sera, a fronte di quel sorriso sparito, il sorriso giulivo d'amore di Franco Loi e il ghigno agrodolce di odio di Andrea Portas mi hanno rinchiuso fuori. Mi son parsi simmetricamente, specularmente falsi, "teatrali" (che io usi questi due aggettivi come sinonimi dopo anni di DAMS e di teatro militante è un segno che dovrò leggere), come due maschere greche simmetriche con bocca all'insù e all'ingiù sul timpano di un teatro di provincia. So bene che non lo erano, che erano veri canti potenti di vite, resi veri dal sangue copioso di quelle due vite. So che la "falsità" era nei miei occhi, come in quelli del migrante che nulla riconosce della terra novissima in cui l'ha sbattuto il mare e tutta falsa, tutta "teatro", per sgomenta difesa, la dice. Non ero pronto, non ero al posto giusto, nel tempo giusto, non ho potuto entrare ed abitare da paesano quei due canti diversi ridenti d'amore e di odio e di Dio. Sono stato straniero, somaro e tardivo. Bene di nuovo: questo di nuovo vuol dire che c'è ancora da fare parecchio, che ci sono mondi davanti, e c'è futuro.
C'è futuro e presente da dire, ci sono uomini adatti a dirlo, che hanno guadagnato con dura fatica la necessaria maestria per dirlo. E ci sono paesi a Settembre in cui ci si incontra per tre giorni, come in un raduno orfico o celtico o nuragico o maori, per dirlo insieme.
Questa è un lettera di ringraziamento a voi tutti, per avermi chiamato e accolto in quel Settembre.
Vi abbraccio.
Bruno Tognolini
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Questa pagina è stata creata il 19 settembre 2009
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