Notizie dalla lotta di classe |
Febbraio 2000 |
Unire quello che il capitalismo divide. |
Tre lavoratori delle cucine dell'aeroporto di Fiumicino sono entrato in sciopero della fame, salendo su un gigantesco cartellone pubblicitario dei baci Perugina, piantato non lontano dal settore partenze dello scalo romano. Da tre giorni i dipendenti della Ligabue Air Catering, una delle società che ha acquisito, al momento della privatizzazione degli Aeroporti di Roma, il servizio di ristorazione, si stanno mobilitando contro i licenziamenti. Venerdì la Ligabue, che con 386 dipendenti si occupa del catering di oltre cinquanta compagnie aeree straniere, aveva mandato 58 lettere di licenziamento ad altrettanti lavoratori. Subito è partita la protesta: uno sciopero sostenuto da tutte le sigle sindacali dell'aeroporto, blocchi stradali e una occupazione simbolica dell'edificio aziendale, dalle cui finestre sono stati srotolati striscioni e bandiere che spiegano le ragioni della mobilitazione. I lavoratori saliti sul tabellone hanno con se una tanica di benzina, per meglio chairire la loro disposizione alla lotta e chiedono la presenza di Sardoni, il presidente della società Aeroporti di Romache ha firmato la privatizzazione del settore. La rabbia dei dipendenti della Ligabue non è che l'ultimo segnale del malessere che vivono i lavoratori di Fiumicino, sottoposti alle gravi conseguenze del processo di privatizzazione dei diversi segmenti dell'aeroporto e al moltiplicarsi della precarietà nelle garanzie occupazionali e nelle misure di sicurezza e di controllo sulle condizioni di lavoro. Solo poche settimane fa scioperavano gli addetti allo scarico bagagli: quasi tutti molto giovani, assunti rigorosamente con contratti a termine e obbligati ad accettare turni infernali e nessuna tutela sindacale. Lo scontro non è solo con le scelte dei manager di Fiumicino, ma anche le sigle confederali ampiamente "disattente" alla situazione dei precari, tanto che i lavoratori in lotta hanno occupato anche le sedi di Cgil, Cisl, Uil.
Le meccaniche di Mirafiori un tempo rappresentavano il cuore della fabbrica, il motore era considerato il pezzo più pregiato del ciclo dell'auto, quello che determinava il maggiore valore aggiunto. E, conseguentemente, anche i lavoratori delle meccaniche erano ritenuti - per l'impresa - più importanti dei loro compagni delle carrozzerie. Oggi non è più così: "I motori sono semplici componenti, come tutti gli altri pezzi che formano l'auto - afferma l'amministratore dlegato di Fiat-auto, Roberto Testore - e noi li acquistiamo da chi ce li fornisce alle condizioni migliori". Fredda logica industriale, che allude al futuro dell'auto, a una fabbrica modulare (in cui tutte le operazioni esecutive vengono progressivamente date in appalto) governata da un'azienda che punta tutto su progettazione, gestione del marchio e servizi finanziari; perché da lì trae più profitti che dall'intero ciclo produttivo. I settecento esuberi annunciati dalla Fiat per le meccaniche di Mirafiori (su 2.900 addetti) si inseriscono in questa logica, la stessa che porta alla vendita delle presse di Rivalta, alla consegna dei carrellisti alla Tnt e che presto determinerà la vendita di altri pezzi di fabbrica - operai inclusi - ad altrettanti "produttori specializzati". Alla fine la fabbrica sarà un grande puzzle di sigle, con a fianco una lunga serie di satelliti per la componentistica e i servizi, tutti a suonare lo spartito scritto da Fiat-auto. La ristrutturazione che provoca gli "esuberi" è quella riguardante il motore diesel e quello per la Panda ormai vecchi, da sostituire con produzioni che, però, verranno da altri stabilimenti (dalla Turchia e dal Brasile) verso i quali si indirizzano gli investimenti del gruppo torinese, perché lì il costo del lavoro è più basso. Anche cassa integrazione (1.400 la prima settimana di marzo, altri 1.000 la seconda, sempre alle meccaniche) sulle linee del motore "Torque", l'unico che la Fiat intende mantenere a Mirafiori e che, paradossalmente, la casa torinese dice di voler rilanciare proponendo i 18 turni settimanali in cambio del riassorbimento parziale di una parte degli esuberi annunciati (400). In più entra in gioco l'ormai certa vendita di una parte di Fiat-auto alla Daimler-Chrysler e di un contratto integrativo che la Fiat non vuole assolutamente fare. Una vertenza sindacale che il gruppo dirigente del Lingotto rifiuta per principio (le relazioni sindacali non sono mai state il suo punto di forza).
Sicilia comincia a organizzarsi, in Campania si pensa a concentrare comitati non solo nei luoghi di lavoro ma anche nei comuni grandi e piccoli.
Intanto da Alenia, Fiat, Alfa avio, si estendono i comitati nelle fabbriche napoletane della zona di Pomigliano come Fag, Cga, Cablalto, Selca. Ieri e oggi le riunioni di Fim, Fiom, Uilm della Campania stanno componendo il calendario delle assemblee e delle iniziative provinciali, degli attivi dei delegati, per organizzare comitati contro i referendum antisociali a tappeto. In fabbrica a Napoli comitati sono già costituiti anche alla Marelli e all'Ansaldo.
Ieri a Perugia, Vilma Casavecchia, della segreteria regionale della Cgil, ha aperto l'assemblea umbra della sinistra sindacale, affollatissima, con una relazione che si è soffermata sulle condizioni del lavoro sregolato, precario, che già imperversano nella regione precedendo la spallata referendaria. Perciò oggi, la battaglia contro i quesiti radicali deve caricarsi di un senso più profondo e politicamente impegnativo, ponendosi l'obiettivo di invertire la tendenza al depauperamento dei diritti sociali, per qualunque via perseguita. "I referendum - ha sottolineato Vilma Casavecchia - sono la punta estrema di un lungo processo di precarizzazione che sta producendo drammi anche in una realtà un tempo felice come l'Umbria".
Ieri c'è stata la firma ufficiale, definitiva, apposta sul "patto di Milano": assunzioni a termine liberalizzate da vincoli per le imprese - proprio come chiede uno dei referendum radicali - ai danni di immigrate/i, persone con con handicap, neoassunti. Hanno confermato l'accordo col sindaco Albertini e i padroni dell'Assolombarda la Cisl e la Uil, ha ripetuto il suo no la Cgil. Accordo separato, quindi, da parte sindacale, ma la divisione c'è anche tra gli imprenditori: ieri non hanno firmato il "patto" né la Lega delle cooperative, né l'associazione artigiana Cna.
Dopo Berlusconi dall'altra notte i lavoratori ce l'hanno anche e di più con i sindacati nazionali del commercio che hanno firmato "un accordo bidone", senza il mandato delle strutture regionali e dei delegati. Sono i 200 impiegati della (ex) Standa di Basiglio, i più maltrattati dall'intesa firmata martedì notte a Roma tra Filcams, Fisascat e Uiltucs e Coin, che alla fine del '98 ha acquisito dalla Fininvest la "casa degli italiani". Dopo un anno di balletti di cifre e di trattative, Coin in due anni taglierà 600 posti, la Standa smettererà di esistere e la sede amministrativa di Basiglio verrà chiusa entro luglio. Per i 200 di Basiglio ci sarà solo Cig, esodo incentivato e l'offerta indecente di trasferirsi a Mestre. Ipotesi lunare, per le signore sui quarant'anni della Standa di Basiglio. Al ministero del lavoro nella notte, subito dopo la firma, ci sono stati "momenti di tensione" tra i segretari nazionali e la delegazione lombarda, tenuta fuori dalla porta - come le altre delegazioni regionali, del resto - al momento di stringere. Poche ore dopo, rabbia, indignazione, minacce di stracciare le tessere all'assemblea nelle sede di Basiglio. Respinto "all'unanimità" l'accordo che triplica il numero degli esuberi definito il 20 gennaio e non offre alcuna garanzie di rientro dopo la Cig speciale, disattende le indicazioni della base. L'assemblea permanente, iniziata una settimana fa, continuerà ad oltranza.
Continua il braccio di ferro che oppone, allo stabilimento chimico Montefibre di Acerra, gli operai da una parte e i vertici regionali del sindacato chimico dall'altra. Dopo la lotta e la bocciatura, da parte dei lavoratori, di una sciagurata ipotesi di accordo, firmata dai sindacati locali e dall'azienda, che prevedeva la deroga al contratto nazionale con la posticipazione di un anno degli aumenti contrattuali e l'eliminazione del premio di produzione per i nuovi assunti, i sindacati cercano di uscire dalla situazione di impasse in cui si sono cacciati nel modo peggiore. Pressate dai vertici nazionali della Cgil, che ha più volte ribadito la linea di rispetto dei diritti acquisiti, le segreterie regionali dei sindacati confederali dei chimici firmatarie dell'accordo sono addivenute a una soluzione unitaria che sopprime il punto decisivo dello slittamento degli aumenti. Una vittoria evidente dei lavoratori. Quindi è ripartito l'incontro con gli operai in fabbrica, ma è ripartito nel modo peggiore non riconoscendo di aver avuto torto, ma riproponendo come giusta quell'ipotesi di accordo che si va a ridiscutere a Roma con Montefibre l'8 febbraio. Questo sta esasperando i lavoratori in lotta da un mese, sempre più sfiduciati in un sindacato arrogante e sordo a ogni rapporto maturo con gli operai, oltre che incosciente con i referendum radicali alle porte. La mobilitazione dei lavoratori contro il contratto continua.
Vertenza in corso all'ex Sigma di Libero Grassi (l'imprenditore anti-racket assassinato dalla mafia nell'agosto del 1991) contro serrate, licenziamenti, cassa integrazione, accordi sindacali non rispettati, promesse di mantenimento occupazionale che vengono disattese. Da due settimane sono in sciopero i dipendenti della fabbrica tessile, trasformatasi negli anni da Sigma in Dali e acquistata, dal 1996, dalla "Manifatture Miraglia". Un acquisto agevolato da una ricapitalizzazione della Gepi di ben sei miliardi e mezzo che avrebbe dovuto garantire i livelli occupazionali. Il primo ostacolo, però, sono 18 mesi di cassa integrazione per avviare un progetto di riorganizzazione aziendale. Poi altri 30 giorni, chiesti all'inizio di quest'anno, per un trasloco dello stabilimento. Ma il 19 gennaio, dieci giorni prima che si chiuda la Cig, l'azienda invia 35 lettere di mobilità ed il 31 gennaio, quando avrebbe dovuto riaprire i battenti, lascia gli operai fuori dai cancelli. I licenziamenti sono tutti tra i dipendenti ereditati dalla Dali e tutti diretti al reparto produzione. L'obiettivo, spiegano i sindacati, è relegare all'esterno l'intero settore di taglio, cucito e stiratura, cioè la produzione (che già sarebbe decentrata in Tunisia ed in molti paesi del messinese) per mantenere all'interno dell'azienda solo uffici e magazzini, quindi confezionamento e spedizione.
Si sono fermati immediatamente, alla Pininfarina di Grugliasco contro il referendum dei radicali sui licenziamenti, che la Corte costituzionale ha ammesso, e contro il presidente della Federmeccanica Andrea Pininfarina, il padrone della fabbrica. "Nulla di 'spintaneo'", raccontano sindacalisti e delegati - per spiegare che non sono stati loro gli ispiratori della protesta - all'origine dello sciopero di un'ora con corteo interno e assemblea con pienone sia al primo che al secondo turno. La discussione infatti si è accesa subito, tra i primi arrivati in fabbrica, via via si è fatta più intensa - "dobbiamo rispondere" -, perciò c'è stato un incontro veloce tra Rsu, racconta Mario Bertolo, ed è partito lo sciopero.
"Tra i referendum sociali è stato ammesso il più significativo", ha dichiarato Pininfarina. In fabbrica si è pensato che occorreva "non essere da meno".
L'assemblea è percorsa da rabbia e da battute degli operai: "certo che se il referendum vince non ci resta che il suicidio o la guerra civile". Colpiti in particolare quelli più d'età, che hanno accumulato "inidoneità da lavoro" e che certo se licenziati non saprebbero come "riciclarsi". Ma non erano da meno i giovani, quelli che hanno conquistato un lavoro fisso dopo mesi, anni di precarietà, "e i tanti che sono ancora in questa condizione di incertezza", di fronte alla prospettiva di una eventuale libertà di licenziamento "a discrezione del padrone". Licenziamento che, in caso di abrogazione dell'articolo 18 colpirebbe loro, così come gli impiegati e i tecnici, ma lascerebbe "incolumi" i dirigenti. Non per la loro ovvia posizione di maggior potere sociale, ma proprio per legge - c'è infatti una precisa norma a loro dedicata.
Da parte padronale si continua a suggerire che una via, se si vuole, c'è: la proposta di legge già depositata in parlamento da proponenti diessini, non ci si metterebbe niente ad approvarla. Fossa l'aveva subito magnificata - "la proposta Debenedetti va bene, mi trova d'accordo quasi su tutto" - il giornale della Confindustria ieri l'ha di nuovo sollecitata.
E' evidente, e va ribadito, che il pericolo si correrà comunque, anche in caso di sconfitta del referendum, perchè il governo della sinistra borghese sta già attaccando pesantemente i diritti dei lavoratori
Qualche sindacalista dice che dopo la firma di questo contratto sarà molto difficile far sottoscrivere nuove tessere. Anzi, forse se ne perderanno. Nella Fillea-Cgil, la valutazione sul nuovo contratto nazionale per il settore edilizio - che era scaduto a luglio - firmato dai sindacati confederali il 29 gennaio, è controversa: da una parte la soddisfazione di aver strappato qualcosa, dall'altra la sensazione che quel "qualcosa" è stato pagato caro, troppo caro. Che cosa hanno strappato? Non certo qualcosa per cui valga la pena vantarsi. E temiamo che la valutazione sull'influsso negativo che questo contratto potrà avere sul "tesseramento" non sarà sufficiente a far cambiare strada non tanto ai vertici sindacali quanto alla massa di delegati che dovrebbero essere vicini alle esigenze dei lavoratori
Certamente il nuovo accordo è interno al trend dominante: i sindacati hanno dovuto fare i conti con un mercato del lavoro che cambia, soprattutto nella legislazione dei rapporti lavorativi. Bisogna, per esempio, confrontarsi con la flessibilità, introdotta dalla legge 196 del 97. E sono proprio i contratti interinali, che ora si aggiungono al contratto a termine e al tradizionale "distacco temporaneo", a sollevare le critiche più forti. Ma non basta dire "Almeno lo abbiamo normato" come fa la segretaria della Fillea. Il settore è già abbastanza precario, l'edilizia è un settore a rischio per la sicurezza, iniettare precariato è una scelta sbagliata.
Le norme sulla sicurezza nei cantieri sono più l'eccezione che la regola. Gli ultimi dati Inail registrano che nel '98 sono stati 330 i morti, nelle sole costruzioni. "Il 30% del totale", fa notare Rino Pavanella, segretario di "Ambiente e lavoro", "per un costo pari a 10mila miliardi l'anno". I vincoli di cui si vantano certi sindacalisti sono: non più di un terzo di lavoratori precari rispetto a quelli a tempo indeterminato, e fino a un massimo di sette. Ma la media dei lavoratori a tempo indeterminato viene fatta sull'anno precedente, e l'edilizia è un settore mobile, da un anno all'altro il quadro cambia. Mediamente un'azienda edile ha quattro operai: spunteranno cantieri che impiegano soltanto lavoratori precari. Molti ritengono che si assottiglierà semplicemente il lavoro regolare, perché i lavoratori in nero o prendono paghe misere (molto meno di un lavoratore interinale), o prendono paghe altissime. Insomma, il lavoratore in nero non rientrerebbe nel "target" delle agenzie per il lavoro in affitto. Ma la lista delle novità non è finita: non esiste più il tetto delle 150 ore di straordinario: "Una norma arcaica", la definisce Carla Cantone segretaria della Fillea: ma che per quasi vent'anni è stato un vincolo basilare per la tutela dei lavoratori!
Vertenza Piaggio, la Fiom si è divisa sulla firma al nuovo piano industriale presentato dall'azienda. Al termine di una trattativa-maratona l'accordo è stato comunque siglato, e nei prossimi giorni sarà presentato e illustrato ai lavoratori, in vista della votazione finale prevista entro due settimane. Sono tre i motivi principali della divisione interna alla Fiom. Nell'ordine, una flessibilità di 80 ore, solo al sabato, che supera le 64 ore massime previste nel contratto nazionale firmato appena cinque mesi fa. Poi la deroga sui contratti a termine, che come lo scorso anno porterà all'assunzione di un migliaio di "stagionali": è il 25% dei lavoratori della fabbrica, e anche in questo caso il contratto nazionale prevede una percentuale massima dell'8%. Infine non si chiude il capitolo degli esuberi: altri 180 operai e 100 impiegati, in un'azienda già abbondantemente "dimagrita" negli ultimi cinque anni.
Quasi l'80% dei lavoratori Telecom ha aderito allo sciopero nazionale di 8 ore indetto da praticamente tutte le sigle presenti tra i telefonici. Fieramente divisi quanto a obiettivi, identità politico-sindacali e grado di disponibilità nei confronti dei piani aziendali, si sono ritrovati tutti uniti nello scioperare. In piazza si sono mossi indipendentemente. Cgil, Cisl e Uil si sono incontrati col ministro delle comunicazioni Cardinale, che "si è impegnato a verificare la possibilità di un intervento sulla vicenda nell'ambito delle proprie prerogative". Fuori manifestavano i Cobas, che - insieme alla Federazione metalmeccanici uniti (Flmu) - considerano i confederali "complici" della Telecom, avendo accettato di "concedere moltissimo in termini di orario, organizzazione, uscite dal lavoro" e di "trattare sul piano industriale e sul rinnovo del contratto senza informare nessuno dei diretti interessati". Al centro del conflitto, anche in questo settore, gli "esuberi" massicci annunciati all'indomani della privatizzazione e delle audacissime (e contestatissime) mosse sul piano finanziario del nuovo padrone, Colaninno. Da una parte Telecom annuncia di volersi liberare di 13.500 lavoratori; dall'altra continua a servirsi di migliaia di lavoratori "interinali" (centinaia in Tim, 3000 cottimisti nei call-center di Atesia), part-time. Denunciato anche l'accordo sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil con Telcos (controllata Telecom) per l'utilizzo di 600 lavoratori "atipici" a partita Iva per il nuovo servizo del lotto telefonico.
I tagli previsti: dismissioni a raffica (Italtel mobile, Sirti, Teleleasing, Meie-Vendita), oursourcing (una società per l'amministrazione del personale con 500 addetti, cedibile in futuro; alcune immobiliari), cessioni (magazzini e tutto l'autoparco di 398.000 veicoli), forti riduzioni del personale anche nelle aree di staff, nella "funzione rete" e in quella "mercato Italia". Un'orgia di segni negativi in un'azienda che - proprio ieri - Colaninno ha annunciato valere 245mila miliardi. Una deregolamentazione totale del mercato del lavoro approvata del resto dal governo, al punto che molti lavoratori Telecom parlano ormai apertamente di "caporalato imposto per legge".
La protesta dei 200 lavoratori della ex Standa (ora Coin) di Basiglio crea problemi ai vertici nazionali che hanno firmato, scavalcando le delegazioni, l'intesa per la chiusura della sede amministrativa e il taglio di 600 posti di lavoro. La Filcams-Cgil nazionale non ha più sottoscritto la cessione di magazzini a P&G, compresa nel "piano" già firmato. Rinviata anche la riunione delle strutture territoriali Filcams, Fisascat, Uiltucs. E impiegate/i iscritti Cgil chiedono a Cofferati di pronunciarsi su merito e metodo dell'intesa.
Ventiquattro ore di sciopero non sono uno scherzo. Incidono pesantemente, a fine mese. Eppure i ferrovieri hanno aderito con percentuali notrevoli all'agitazione indetta dall'Or.S.A., la confederazione che ha riunito varie sigle sindacali di base o professionali (Comu, Ucs, Fisafs, Sapec, Sapent, Fitu/Cub-Rdb/Cub, delegati Rsu e Orsa navigazione). I sindacalisti parlano di percentuali tra l'80 e l'85%. L'azienda, come in molti altri casi, spara cifre poco credibili (tipo il 21% tra i macchinisti). Dettaglio importante: comunque superiori a quelle diffuse durante lo sciopero di dicembre. Le biglietterie sono rimaste chiuse. Il divario sulla percentuale di sciopero dipende tutto dal sistema di calcolo adottato dall'azienda che considera come "non scioperanti" tutti i lavoratori precettati per garantire i "servizi minimi". "Servizi minimi" che ad ogni sciopero crescono di numero, fino a sovrapporsi quasi completamente col servizio "normale". Si arriva alla "finezza" di sopprimere un treno il cui personale prevedibilmente entrerà in sciopero, conteggiare quei lavoratori come "non scioperanti" e infine detrarre comunque loro la giornata sullo stipendio. Con questi parametri c'è da meravigliarsi che alle Fs risultino ancora alcuni sparsi gruppi di scioperanti..
Uno sciopero, insomma, che suona come una bocciatura secca dell'accordo tra governo e confederali.
Io la firma su quest'accordo tra sindacati e azienda non l'ho messa. Decideranno i miei compagni di lavoro se ho ragione o no". L'operaio metalmeccanico Giuseppe Corrado è rientrato in Piaggio appena due settimane fa, dopo oltre quattro anni di esilio, due sentenze favorevoli della magistratura del lavoro e una pressione psicologica che avrebbe stroncato un toro. Eppure si è già rimesso a fare casino, ricordando ai colleghi sindacalisti e alla proprietà che non sta bene derogare al contratto nazionale sulla flessibilità, gli esuberi e le assunzioni stagionali. Ha costretto la Piaggio (nuova la proprietà, ma identico il management) a masticare amaro: non si trasferiscono per punizione i dipendenti "scomodi". Un caso raro in aziende del gruppo Fiat come era la Piaggio.
"Cominciò tutto nel 1995, quando con alcuni compagni iniziai a battermi contro l'accordo aziendale che prevedeva una forte intensificazione dei ritmi, la diminuzione delle pause alle catene, l'introduzione del diciottesimo turno. L'anno dopo promossi e organizzai uno sciopero nel mio reparto contro la diminuzione delle pause. Un quarto d'ora di stop, corrispondente alla diminuzione delle pause. Rsu e sindacati erano contrari, ma i trecento lavoratori del reparto si fermarono quasi tutti". La notizia fece rumore, alla Piaggio era la prima volta che c'era uno sciopero senza copertura sindacale. La stampa locale ne scrisse parecchio. E il management, che leggeva i giornali, intervenne.
"Lo sciopero finì, e subito dopo fui trasferito al reparto Piaggio di Lugnano, a quindici chilometri da Pontedera. Anche gli altri quattro, cinque operai più attivi durante lo sciopero furono trasferiti in altri reparti. Ma loro rimasero a Pontedera". Trascorre un anno, e Giuseppe scopre di essere ancora nel cuore della classe operaia: è il primo eletto, con gran margine sugli altri, alle elezioni della Rsu nelle liste della Fiom. Nell'ottobre '97, il suo reparto di Lugnano viene ceduto alla Tnt: "Fui 'venduto' insieme agli altri 150 lavoratori del reparto". "Chiesi il reintegro in Piaggio, e nel dicembre '98 il pretore del lavoro mi dette ragione". La Piaggio però si rifiuta di eseguire la sentenza. Nell'ottobre scorso, anche i giudici d'appello danno ragione a Giuseppe Corrado e confermano integralmente la sentenza pretorile. Ma il reintegro ancora non avviene. Intanto la fabbrica delle due ruote passa di mano ai nuovi proprietari di Morgan Grenfell, fondo di investimento della Deutsche Bank. Arriva il 21 gennaio, finalmente i cancelli si riaprono per far entrare l'operaio-sindacalista. "Bentornato Giuseppe", c'è scritto su uno striscione, e il responsabile del personale accompagna Corrado all'"Officina 10", quella della catena di montaggio dei motori.
Quattro anni dopo. "Sono cambiate tante cose. Anche in meglio. Tra i lavoratori si è formata la sempre più precisa coscienza della liquidazione dei loro interessi. Sono sempre di più quelli che hanno preso le distanze da una strategia sindacale fatta di cedimenti continui, di trattative al ribasso e deroghe alle prescrizioni del contratto nazionale di categoria". Così Giuseppe Corardo non ha perso tempo, ed è stato uno dei sindacalisti Fiom che venerdì scorso non ha votato l'accordo con l'azienda su flessibilità, deroghe alle assunzioni stagionali e nuovi, ulteriori esuberi.
Un taglio del 60% agli appalti di manutenzione sulle navi ancorate nell'Arsenale di La Spezia è stato deciso dallo stato maggiore della marina militare. Lo ha comunicato ieri ai sindacati il direttore dell'arsenale, ammiraglio Dino Nasceti. La drastica riduzione degli appalti, secondo Cgil, Cisl e Uil, mette ora in pericolo 150 posti di lavoro per cui è stata subito convocata un'assemblea ed è stato chiesto un incontro con il ministro della difesa, Mattarella.
Mattinata "calda" anche sul fronte dell’emergenza lavoro, ieri in città. Dal Centro Direzionale alle sedi delle segreterie regionali dei principali partiti della maggioranza, gruppi di disoccupati appartenenti a vari movimenti storici di mobilitazione, supportati dai centri sociali, si sono infiltrati negli uffici chiedendo tra l’altro un confronto con i capigruppo dei partiti sui temi della formazione formazione finalizzata al lavoro, del salario garantito e della necessità di una mediazione in sede di governo centrale e di Comunità europea sui fondi da stornare in caso di economie residue per i corsi di formazione professionale previsti dalla Regione nella misura di 1.500 per Napoli e provincia.
"Troppo pochi, per dare risposte concrete ad una città dove la disoccupazione è drammatica e dove occorrerebbero almeno 4mila corsi di formazione", dice Mario, il portavoce del Coordinamento di lotta per il lavoro. Non a caso, in attesa di risposte definitive i disoccupati torneranno a scendere in piazza domani, con raduno alle ore 9 in piazza Mancini.
Alle sette nell’Isola 6 del Centro Direzionale una trentina di esponenti del coordinamento di lotta per il lavoro di Napoli si dirige verso gli uffici dell’assessorato alla formazione della Regione. Una guardia giurata tenta di bloccare l’ingresso dei disoccupati, ma viene ricondotta a più miti consigli e il gruppo sale al terzo piano del palazzo. Tra loro, esponenti del movimento di lotta per il lavoro o salario garantito di Caivano e Acerra, disoccupati di Ponticelli e giovani dei centri sociali.
Il vicepresidente della Giunta regionale, Nino Daniele è assente, ma via telefono delega il consigliere regionale Samuele Ciambriello a ricevere i manifestanti, che chiariscono i punti della propria rivendicazione, la stessa da almeno tre anni, potenziata da un’intensificazione della mobilitazione negli ultimi tre mesi. In contemporanea, vengono occupate (da una cinquantina di manifestanti divisi in gruppetti di dieci persone) le sedi delle segreterie regionali dei Ds, del Ppi e dell’Udeur nel centro di Napoli.
La protesta dei disoccupati organizzati non è l’unica. Oltre ai bancarellari abusivi di piazza Mancini e alle donne sfrattate del Rione Ice-Snei di Miano, assembrate in piazza del Municipio, anche gli esponenti del movimento di lotta Lavoratori socialmente utili (Lsu) scendono in piazza, in mattinata, con un corteo preavvisato da piazza del Gesù a piazza Matteotti. L’obiettivo, raggiunto, è un colloquio con il presidente della Provincia Amato Lamberti e con l’assessore provinciale al lavoro Sodano.
COMUNICATO DELL'USI-AITSolidarieta' con gli scioperanti del MinnesotaLa commissione relazioni internazionali dell'USI-AIT ha ricevuto dalla sezione statunitense dell'AIT una richiesta di solidarietà internazionale a favore dello sciopero di 143 lavoratori siderurgici di Gary New Duluth (Minnesota). Questi scioperano ininterrottamente dal 24 agosto scorso chiedendo lo stop agli straordinari obbligatori, previdenza sociale, assicurazione contro malattia e infortunio, sicurezza sul posto di lavoro e condizioni lavorative decenti. Nonostante il velato boicottaggio del sindacato ufficiale di categoria, la United Steelworkers of America, hanno trovato un forte appoggio, anche economico, fra i lavoratori del territorio, attualmente coordinato dai compagni della locale sezione dell'AIT. Addirittura si era mosso a favore degli scioperanti il vescovo cattolico della città, che però, la settimana dopo aver versato loro 5.000 dollari, si è visto notificare dal Vaticano il suo prossimo trasferimento in Alaska. Ora i lavoratori chiedono la solidarietà internazionale: la loro azienda, la MEI/Incorporated/GST/GS Industries, è una multinazionale che tramite la GST Europa ha due filiali in Italia, la prima a Mezzomerico in provincia di Novara, la seconda a Piombino, tramite una joint-venture con la Siderurgica Lucchini. Per contatti: AIT Minnesota 323 Fourth Street Cloquet, MN 55720-2051 USA > aitminnesota@hotmail.com Per protestare: GST Europa Spa via Marano Ticino 7 28040 Mezzomerico (NO) tel 0321-923010 fax 0321-923141 Per ulteriori informazioni: Commissione Relazioni Internazionali USI-AIT Via don Minzoni 1/D 42100 Reggio Emilia buenaventura@libero.it |
CGIL SNUR SINDACATO NAZIONALE UNIVERSITA' RICERCASegreteria Territoriale Piemonte Torino, 8 febbraio 2000 COMUNICATO La Segreteria Territoriale SNUR CGIL Piemonte, il Coordinamento dei delegati RSU eletti su liste SNUR CGIL del Piemonte, il Coordinamento Lettori SNUR CGIL Piemonte, nel ribadire con forza la loro preoccupazione per lo stato delle trattative per il rinnovo dei contatti dei comparti Universita' e Ricerca: - ritengono indispensabile avviare immediatamente un percorso di mobilitazione nelle singole sedi di atenei e enti di ricerca attraverso l'indizione di assemblee e manifestazioni che dovranno culminare in una assemblea generale nel cortile del Politecnico di Torino il giorno 25 febbraio 2000 ore 9,30 in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico che prevedera' la presenza del Ministro Zecchino e del Presidente della Commissione Europea Prodi; - auspicano, a prescindere dalla ripresa delle trattative, che in quella data siano coordinate a livello nazionale la presenza a Torino di componenti della delegazione trattante e rappresentanze provenienti da altre sedi. per la Segreteria Territoriale Piemonte SNUR CGIL Barbara Villa Emilio Favero |
Sembra aver imboccato una strada senza uscita la drammatica vertenza che oppone i 1860 lavoratori della ex-Belleli alla nuova direzione, una cordata di multinazionali che stentano finanche a presentare un credibile piano industriale di rilancio. A impianti e macchinari fermi, già da un anno in cassa integrazione, lo scorso dicembre i circa 2000 dipendenti avevano ricevuto la proroga di un altro anno di quell'ammortizzatore sociale che in molti vedono sempre più come l'ultimo gradino prima di finire in mobilità. Ma di certezze neanche a parlarne, visto che si è ancora in attesa del pagamento degli stipendi di dicembre.
I lavoratori chiedono una mobilitazione generale del sindacato e della città, un ulteriore confronto romano sui tavoli della presidenza del consiglio e su quelli del Ministero dell'Industria, quest'ultimo sembra previsto tra il 29 febbraio.
L'assemblea dei lavoratori definirà un nuovo pacchetto di iniziative di lotta con le segretarie territoriali di Fim, Fiom e Uilm. L'altro ieri è stato bloccato il ponte girevole. Solo qualche giorno fa Pietro D'Amico, operaio 41enne della ex-Belleli, era salito su una torre degli stabilimenti tarantini, minacciando di lanciarsi nel vuoto. L'esasperazione nasce da una condizione operaia senza prospettive e ipotesi credibili di rilancio produttivo. Tanto di più di fronte alle voci di disimpegno di una delle tre multinazionali che costituiscono la cordata, la "Boi", Belleli Off-Shore International, che attualmente ha preso in fitto impianti e macchinari. Il documento dell'ultima assemblea dei lavoratori mette a fuoco alcuni punti irrinunciabili. A cominciare dalla conferma dell'assetto societario, su cui pendono interrogativi e dubbi,così come sottoscritto a Roma il maggio scorso nel momento del passaggio del colosso siderurgico dalla mantovana Belleli alla nuova cordata "Boi" dei gruppi Abb, Halter, Itainvest.
E' rottura tra le organizzazioni sindacali dei chimici e la direzione delle Montefibre. Di conseguenza, è saltato l'incontro che si sarebbe dovuto tenere ieri al ministero del lavoro sull'ipotesi di accordo dello stabilimento Montefibre di Acerra. Un comunicato della Fulc nazionale (più l'Ugl) annuncia l'avvenuta rottura: "Le organizzazioni sindacali avevano proposto all'azienda una ipotesi di accordo complessiva che comprendesse i investimenti, formazione, rispetto dell'accordo del 12 gennaio 2000.
I sindacati nazionali avevano richiesto la sospensione del punto 2 dell'ipotesi di accordo del 12 gennaio e il suo rinvio ad una sede di confronto nazionale; l'azienda ha richiesto, al fine di compensarne i costi relativi, interventi strutturali sulla retribuzione che le organizzazioni sindacali hanno ritenuto inaccettabile.
Il punto 2 dell'ipotesi di accordo firmata dai sindacati regionali dei chimici con l'azienda (in sostanza una deroga al contratto nazionale che ha esasperato i lavoratori dello stabilimento scesi in sciopero nei giorni scorsi) riguarda lo slittamento di un anno degli aumenti contrattuali.
Dunque su quel punto decisivo (ma ce n'è un altro non meno importante che riguarda la cancellazione del premio di produzione per i nuovi assunti) lo scontro si riacutizza e i lavoratori che hanno condotto una battaglia, si può dire, in solitudine, escono finora vittoriosi da questo braccio di ferro con l'azienda, con i sindacati territoriali firmatari e con la maggioranza delle Rsu di fabbrica.
Forse come prova che i tentativi di deroga al contratto possono diventare uno sport molto diffuso è da segnalare il successo che le informazioni dei lavoratori in lotta stanno avendo sul sito internet del coordinamento nazionale delle Rsu (http://www.org/coord.RSU/).
Circa 500 dipendenti del ministero delle Comunicazioni, in sciopero nazionale, hanno protestato in piazza Montecitorio. Per i "colletti bianchi" dell'ex dicastero "Poste e telecomunicazioni" non è stato che l'ultimo atto di una vertenza lunga 6 anni, cominciata nel '94, con la privatizzazione delle poste; a questo seguì, nel '96, la creazione della controversa Authority per le Telecomunicazioni, che rosicchiò parecchie competenze al vecchio ministero. "
Non soltanto rivendicazioni salariali, ma richiesta di chiarezza, "soprattutto per ciò che riguarda i compiti che spetteranno al nuovo dipartimento. Bisogna studiare una strategia", dice Donatella Bruno, dirigente nazionale della Cgil. Con l'attuazione della Bassanini, infatti, il ministero in quanto tale scomparirà, per entrare in quello denominato Attività produttive, in cui saranno accorpati Industria, Commercio estero, Turismo e, appunto, Comunicazioni. Non è ben chiaro, però, che cosa farà il dipartimento delle Comunicazioni, quali saranno le competenze e quali i ruoli dei lavoratori. Il governo si preparerebbe a varare il Dpr che stabilirà la pianta organica mentre il dipartimento manterrà le funzioni proprie di un ministero; gli ispettorati territoriali manterranno le proprie funzioni tecniche.
La polizia ha fatto irruzione in una serie di fabbriche tessili più o meno clandestine, accomunate dall'essere gestite da cinesi che sfruttavano il lavoro di loro connazionali fino al limite dello schiavismo. Sono state sequestrate 12 fabbriche nel territorio compreso tra Terzigno, Ottaviano, San Giuseppe Vesuviano. Locali fatiscenti, pieni di macchinari e uomini, donne e bambini al lavoro, che si animavano - sembra - soprattutto nelle ore notturne. I fermati sono 180, per un terzo immigrati "clandestini". Tra i fermati ci sono ache gli sfruttatori, che costringevano i loro operai a turni di oltre 12 ore al giorno per un salario di poche decine di migliaia di lire. Gli arrestati sono 11, anch'essi tutti cinesi e titolari di imprese d'abbigliamento.
L'operazione ha rivelato un altro aspetto ben noto a chi sa osservare il territorio e le attività produttive: è finito il periodo in cui le "fabbriche" gestite da cinesi lavoravano in subappalto per imprese locali. Ora sono imprese autonome, con un proprio mercato e una rete di distribuzione. E un costo del lavoro che a Confindustria piacerebbe generalizzare a tutto il paese.
Altro settore "nero", le imprese edili. Sono stati controllati 182 cantieri nella provincia di Napoli. Un primo bilancio parla di 12 cantieri sequestrati e 14 sottoposti a contravvenzione; 111 persone denunciate (sia imprenditori che operai, come se fosse la stessa cosa o lo stesso reato comprare o vendere lavoro "in nero").
L'indagine ha permesso di accertare che il 91,6% delle aziende italiane - di tutti i rami, industriali o commerciali che siano - risulta fuori legge. In materia di tasso di "criminalità", insomma, le imprese non temono davvero rivali! Il dato esce fuori da una serie di controlli su 632 aziende: ben 579 non sono risultate in regola. Ancora peggiori i dati sulla sicurezza del lavoro: su 239 imprese addirittura 230 (il 96,2%) si sono dimostrate irregolari. Nel corso dei controlli è stata anche esaminata la posizione di 2759 lavoratori: solo 1.193 sono risultati regolari. Ancora peggiori le percentuali tra i lavoratori stranieri e, alla faccia di tante lacrime di coccodrillo sparse sui media, quelle sui minori: ne sono stati trovati 59 (su 71) che lavoravano in nero.
Ennesimo infortunio mortale. Il secondo in pochi mesi nella centrale termoelettrica dell'Enel di Vallegrande alla Spezia. Vittima Raffaele Strammiello, 55 anni, residente a Matera, sposato e con figli, dipendente della Demont di Genova, una ditta dell'appalto che svolge lavori di ambientalizzazione della centrale, lavori che occupano circa un migliaio di operai. L'operaio era all'interno della cabina di comando di una pesante gru e mentre stava eseguendo l'operazione di trasferimento di una trave in acciaio, si è staccato un gancio di 150 chili di peso, da circa venti metri di altezza che ha sfondato il tetto in vetro della cabina. Il gancio ha colpito alla testa l'operaio che è morto sul colpo. Immediate le reazioni dei sindacati che da tempo denunciavano la precarietà della sicurezza nel cantiere e che hanno proclamato uno sciopero di otto ore. Sulla mancanza di sicurezza nel cantiere, dove a luglio dello scorso anno c'era stato un altro incidente mortale, era stato anche presentato un esposto alla procura della repubblica.
Il ministro della pubblica istruzione Berlinguer ha diramato il laconico comunicato in cui informa di aver "deciso di azzerare le modalità di attuazione in materia di valorizzazione docente, per consentire un loro radicale ripensamento". Governo e sindacati firmatari del contratto nazionale si sono insomma resi conto che la totalità del mondo nella scuola era unita e risoluta contro la maxi-prova.
Nei piani già naufragati del ministro, ad attribuire sei milioni lordi di aumento in busta paga a circa 150 mila tra maestri e professori su 530 mila aventi diritto (quelli con dieci anni di ruolo) doveva essere una prova tripartita: un quarto del punteggio in base al curriculum, un altro quarto in base ad una specie di quiz con risposta multipla, la restante metà in base a una simulazione di lezione in classe. Ma dalle scuole sono state progressivamente opposte le ragioni di una categoria che non concepiva le ragioni di una insensata competizione interna dai rischi catastrofici per la già malconcia scuola italiana; la richiesta - dei sindacati di base - di un aumento generalizzato, invece che selettivo, a fronte di una demotivante sottoretribuzione rispetto ai parametri europei; le critiche all'insensatezza di una valutazione e di una differenziazione centrate sulla "lezione frontale" invece che sulla effettiva preparazione o sulle modalità e il carico della didattica.
Il colpo per ministero e sindacati firmatari del contratto è duro, durissimo. Per quanto Berlinguer si sia deciso allo stop, questo non disinnescherà lo sciopero del 17 febbraio. I sindacati di base confermano infatti la mobilitazione, per condurre la battaglia non contro il concorso ma contro l'articolo del contratto (il 29) che prevede la differenziazione salariale. "Non chiediamo la riscrittura delle procedure, ma l'eliminazione dell'istituto contrattuale", dice la Gilda. "Quella di ieri è una prima e importante vittoria contro il concorso indecente - fanno eco i Cub - Ma è necessario tenere aperta la battaglia contro un contratto indecente". E giovedì si misurerà il consenso a quella battaglia. Anche Bernocchi, portavoce della Confederazione Cobas conferma lo sciopero di giovedì: " è una prima importante vittoria. Abbiamo vinto una battaglia non la guerra".
Il 17 quindi manifesteranno Roma e in altre città gli insegnanti che si sono mobilitati in questi mesi contro l'idea della differenziazione salariale prevista dall'articolo 29 del contratto nazionale e contro i meccanismi (quizzone e lezione simulata) che il ministero aveva elaborato. Il sindacalismo di base - che non ha firmato il contratto - chiede l'abolizione del contestato articolo contrattuale, proponendo invece un aumento generalizzato.
Strana pretesa, quella di impedire gli scioperi quando non si sa metter mano ai problemi dei lavoratori. La "raffica di scioperi" ha ragioni profonde e anni di trattative in stallo. La fermata delle poste è stata decisa da Cisl, Cisal e Confsal; contro Cgil, Uil e i destri dell'Ugl. La "guerra delle cifre" sulle astensioni dal lavoro ha così riguardato prima di tutto i diversi sindacati (oltre il 60% per D'Antoni, il 35% per la Cgil). In diverse regioni le percentuali degli scioperanti, però, sarebbero state davvero alte. In Toscana si parla di oltre il 50%; in Umbria addirittura del 70-80%. A Venezia i lavoratori in sciopero hanno dato vita a un corteo di barche sul Canal Grande
Scioperano anche bus e metropolitane, ma qui i sindacati sono uniti. Il punto principale è la volontà della controparte, la Federtrasporti, di eliminare di fatto il contratto nazionale di categoria. La durezza aziendale, però, sarebbe fondamentalmente finalizzata a ottenere dal governo numerosi benefici.
Sarà poi volta dei ferrovieri. Anche qui hanno indetto l'agitazione i confederali e l'Ugl, che finora si erano ben guardate dal partecipare alle agitazioni indette dai sindacati base. Stavolta, di conseguenza, non aderisce l'Orsa (che comprende Comu, Ucs, Fisafs e altri), che aveva dato una grande prova di radicamento con lo sciopero di qualche giorno fa. Quello di venerdì, dicono, "è uno sciopero non credibile, a sostegno di un accordo contestato, indica un grave stato confusionale". Il ministro usa anche questa agitazione "amica" (i confederali sono la sponda per la privatizzazione delle Ferrovie) per spingere la normativa antisciopero che sta per arrivare alla Camera. "Così non si può andare avanti. La microconflittualità nei trasporti ha assolutamente bisogno di regole nuove". Regole, non sicurezza del trasporto o salario.
Nonostante i consistenti ritardi, i sopravvissuti della Fibronit ed i parenti degli oltre 190 operai morti per patologie dell'apparato respiratorio hanno visto partire il processo contro la fabbrica della morte. Sul banco degli imputati, per omicidio colposo, alcuni ex-amministratori di una delle maggiori aziende italiane di manufatti in cemento-amianto, che ha operato a Bari fino al 1986. L'inchiesta ha dovuto ricostruire la storia di una fabbrica, intrecciata con quella dei quartieri circostanti, indagando su centinaia di morti più che sospette. Non solo lavoratori ma anche cittadini che hanno inalato per anni le microfibre di amianto presenti nell'aria, com'è accaduto a un impiegato della sede barese del Ministero del Tesoro, o le tante donne, mogli di operai che hanno contratto la malattia lavando le tute contaminate dei propri mariti.
Gli imputati dovranno rispondere di omicidio colposo in relazione alla morte di 12 operai dell'impianto barese, i soli per cui secondo la procura barese è certo il collegamento con l'assenza di misure di sicurezza in fabbrica. Ma la procura ha anche esaminato centinaia di cartelle cliniche di dipendenti uccisi dal mesotelioma pleurico - una forma di cancro polmonare che rappresenta lo stadio successivo all'asbestosi - che lasciano verosimilmente prevedere un numero ben più ampio di casi.
Le patologie da amianto si insinuano silenziosamente, con sintomi iniziali non sufficientemente apprezzabili, sicché quando il lavoratore avverte problemi respiratori il quadro clinico è già quello dell'asbestosi. Lo testimoniano i circa 200 casi di decessi documentati dall'"Associazione esposti amianto" di Bari e dal circolo culturale Anarres, che da anni si occupano del caso-Fibronit.
Doveva essere una prova della capacità ancora attuale di Cgil, Cisl e Uil di rappresentare e mobilitare i lavoratori delle aziende pubbliche di trasporto. In questo caso è una prova riuscita. La trattativa, arenatasi per l'atteggiamento della Federtrasporti (che riunisce le aziende municipalizzate, il grosso dei gestori del trasporto cittadino in Italia), potrà ora riaprirsi a partire da questo dato. Le stesse dichiarazioni a caldo del presidente, Enrico Mingardi, lasciano trasparire una presa d'atto dei rapporti di forza, per quanto indiretta: "Ha perso tutto il trasporto locale, hanno perso i cittadini. E' necessaria una maggiore volontà per cercare di giungere a un accordo".
Nel diffondere le cifre provvisorie dell'adesione allo sciopero la Cgil aveva "sparato" cifre d'altri tempi: il 95% a Palermo, il 90 a Bologna, Venezia, Bari; l'80% a Genova e il 70 a Napoli e Roma. Quest'ultimo dato, soprattutto, viene messo in grande rilievo, perché nella capitale era stata più forte che altrove la presa di sindacati di base "autorganizzati", come la Cnl. L'azienda romana sostanzialmente conferma il dato sindacale, accreditando un 68% di astensioni per bus e tram e il blocco pressoché totale della metro. Su questo servizio, però, l'adesione dei macchinisti sarebbe stata più bassa della media (il 42%), e solo l'astenzione dallo sciopero di alcune figure tecniche "chiave" avrebbe obbligato a sospendere il traffico underground.
"L'alta adesione - dichiarava nel tardo pomeriggio Alfonso Torsello, vice-segretario della Filt-Cgil - dimostra come tra i lavoratori stia crescendo la consapevolezza della posta in gioco. Le continue provocazioni del presidente di Federtrasporti hanno ottenuto la reazione anche di quei lavoratori che non avevano aderito alla protesta la volta precedente". Una constatazione giusta, che in qualche modo, però, dichiara inefficace quell'idea di sindacato "a-conflittuale" che Cofferati sostiene essere la nuova identità Cgil. Senza conflitto, in altri termini, non si riesce proprio a farsi valere. Specie quando la posta in gioco è alta.
Continuano le iniziative di fabbrica contro i referendum antisociali indetti dai radicali e sostenuti dalla Confindustria. Ieri si è tenuta un'assemblea dei lavoratori della Bertone, nella cintura torinese, cui è intervenuto il segretario generale della Fiom, Claudio Sabattini, che ha ribadito le ragioni del no e anche l'opposizione a qualunque provvedimento legislativo che metta in discussione gli attuali diritti. Alla Rocwell di Novara ha parlato il segretario regionale della Fiom, Giorgio Cremaschi. In Piemonte sono ormai 142 i comitati per il no nelle aziende metalmeccaniche e le assemblee proseguiranno per tutta la prossima settimana. Particolarmente intensa l'attività contro il referendum per la libertà di licenziamento nella zona ovest di Torino, dove i comitati per il no sono oltre 40.
Dopo l'ultimo - grave - incidente sul lavoro nello stabilimento Fincatieri di Monfalcone (un lavoratore delle ditte d'appalto in fin di vita), i sindacati di categoria hanno proclamato per oggi un'ora di sciopero di tutti gli addetti del gruppo (appaltisti compresi). L'incidente è stato causato dalle pesanti condizioni d'insicurezza in cui operano i dipendenti degli appalti (ormai la maggioranza di coloro che operano nei cantieri navali): sul controllo delle loro condizioni di lavoro Fim, Fiom e Uilm hanno aperto una vertenza con Fincantieri.
Il decreto legislativo sulla tassazione dei fondi pensione approvato dal governo e il disegno di legge delega sul Tfr sono pezzi importanti di una ormai imminente nuova riforma delle pensioni. Completamente inascoltati nella stesura finale i sindacati, Il provvedimento produrrà tra l'altro una maggiore tassazione del Tfr e una maggiore tassazione dei riscatti dai fondi pensione in caso di perdita del posto del lavoro. Più forte dei sindacati si è dimostrata la lobby delle assicurazioni a favore della quale sono andate le uniche correzioni apportate nella stesura finale.
Particolarmente pesante è la maggiore tassazione del Tfr che colpirà soprattutto i lavoratori più precari e a basso reddito con perdite consistenti. La correzione indicata per evitare questo aggravio infatti è prevista solo per il periodo che va dall'1/1/2001 alla data di entrata in vigore della disciplina concernente la riforma del trattamento di fine rapporto, cioè se il disegno di legge delega diverrà realtà, praticamente mai.
Probabilmente nelle intenzioni del governo (e probabilmente anche del sindacato) questa penalizzazione del Tfr dovrebbe costituire una costrizione per far aderire i lavoratori ai fondi pensione, contraddicendo apertamente l'asserita volontà di consentire ai lavoratori una "libera" scelta. L'aspetto predominante nel dibattito pensionistico è oggi di come e quanto ridurre il costo del lavoro e quindi di quale peso dare alle due forme di previdenza. Di questo in ambito sindacale non si discute mai, (quasi) tutti fermi al dibattito sul contributivo, ma forse questo fa parte di un nuovo concetto di democrazia in ambito sindacale.
Nessuno sembra porsi il problema del forte spostamento nella distribuzione del reddito che sarà causato dalla destinazione del Tfr a previdenza integrativa e dalla diminuzione delle aliquote contributive a carico delle imprese. Le imprese godranno di una diminuzione del costo del lavoro, i lavoratori dovranno compensare la diminuzione di copertura pensionistica pubblica con la perdita del Tfr.
Dodici mesi fa l'ipotesi di accordo aziendale fu bocciata dai lavoratori. Potrebbe succedere lo stesso quest'anno, il sesto consecutivo di una lunghissima "stagione di sacrifici". Stavolta però gli effetti di un'aperta conflittualità tra l'azienda ed i suoi 4000 dipendenti sarebbero più difficili da superare. Gli indizi non mancano. La sinistra della Fiom contesta le modalità del referendum tra i lavoratori (ieri e oggi il voto, domani il risultato finale). Sono tre i motivi principali della divisione in casa Fiom. Nell'ordine, una flessibilità di 80 ore, solo al sabato, che ha superato le 64 ore massime previste nel contratto nazionale firmato cinque mesi fa. Poi la deroga sui contratti a termine, che come lo scorso anno porterà all'assunzione di un migliaio di "stagionali": è il 25% dei lavoratori della fabbrica, ed anche in questo caso il contratto nazionale prevede un massimo dell'8%. Infine non si è chiuso il capitolo degli esuberi: 180 operai e 100 impiegati.
"Dopo la bocciatura dello scorso anno - spiega Giuseppe Corrado, operaio combattivo reintegrato di recente - hanno escluso i 'dissidenti' dalla gestione del referendum. Non facciamo parte della commissione elettorale. In più non ci hanno permesso di tenere le assemblee per il 'no' fuori dal nostro reparto. E non potremo controllare neppure i seggi elettorali". La piattaforma dei dissidenti - bocciata dalla Rsu - prevede di non aprire ulteriori procedure di mobilità; di non andare oltre le 64 ore di flessibilità; di non superare la quota dell'8% per i contratti a termine; di ricontrattare ritmi di lavoro e aumenti salariali. Ancora Corrado: "Hanno paura di una nuova bocciatura. E' un referendum privo di garanzie". Un giudizio senza appello, al pari di quello legato alla sempre più lontana ipotesi delle nuove Officine meccaniche: "Nell'accordo è sparito qualsiasi impegno sulla loro costruzione: è stata una favola, dietro la quale si sono tutti nascosti per giustificare gli accordi disastrosi di questi anni".
Ha vinto il "sì". Ma a giudicare dai numeri, non erano infondate le ragioni del "no". L'ipotesi di accordo aziendale alla Piaggio ha superato l'esame del referendum tra i lavoratori. Nonostante ulteriori sacrifici in termini di flessibilità, contratti a termine e 280 mobilità tra operai e impiegati. Altissima l'affluenza, si è espresso il 79% dei circa 3300 dipendenti della storica azienda delle due ruote. Tra i 2700 votanti, i favorevoli all'accordo sono stati 1527 (57,17%), i contrari 1144 (42,83%).
Anche un sostenitore del "no" come Giuseppe Corrado si dice soddisfatto: "Questo accordo doveva passare per forza, prova ne è che hanno votato oltre 700 impiegati, tutti o quasi favorevoli, su 900. E' una percentuale altissima rispetto al solito, e questo ha spostato la bilancia dalla parte del "si". Tra gli operai invece è stato bocciato ancora una volta: troppa flessibilità, troppi contratti a termine e anche nuovi esuberi, dopo che avevano promesso l'opposto. Ma dopo la bocciatura dello scorso anno, stavolta la posta in gioco era troppo alta. Ora però l'accordo dovrà essere applicato. In una situazione del genere, la gestione dell'intesa non sarà facile".
Dai vari dipartimenti ferroviari arrivano decine di segnalazioni tutte dello stesso tenore: "I ferrovieri sono al lavoro, i treni nelle rimesse". Solo dalla Filt-Cgil arriva un dato diverso: "80% di adesioni allo sciopero, al netto dei lavoratori comandati". Le Fs parlano di una partecipazione media del 23%, con punte minime tra i macchinisti (6,5%). Ha circolato il 52% dei treni in orario (meno delle ultime volte, quando le percentuali di scioperanti erano superiori!).
Cgil, Cisl e Uil (e i nazional-alleati dell'Ugl) hanno proclamato lo sciopero di ieri per il "rispetto degli accordi del 23 novembre", che l'azienda ha fatto chiaramente intendere di considerare carta straccia. Contro l'accordo l'Orsa e il Coordinamento delegati Rsu (ovvero la "base" confederale) avevano dichiarato due scioperi, raccogliendo adesioni crescenti. La prova di ieri diventava perciò cruciale per i confederali, alle prese con la crisi di consenso, la scomparsa della controparte e l'indifferenza del governo "amico". Com'è andata realmente questa prova, allora? A Bologna i delegati Rsu segnalano che neppure nelle storiche roccaforti del sindacato (le Officine grandi riparazioni e la Ote) la percentuale degli scioperanti va oltre il 20-25%. A Milano le cose sarebbero andate ancora peggio, con i ferrovieri ad attendere i treni insieme ai passeggeri e le telecamere dei Tg a riprendere il tutto. A Cagliari - situazione particolare, dove lo smatellamento della rete ferroviaria si sta toccando con mano - vecchi delegati riferiscono di percentuali insignificanti (solo 4 treni soppressi, 2 dei quali per mancanza del solo capotreno). E lo stesso a Firenze, Piacenza, Genova, Pisa, Torino. Anche per gli Eurostar ci sono state molte soppressioni "preventive" (in altri casi sulla tratta Roma-Milano era stata "comandata" almeno una corsa ogni due ore).
Orsa e Coordinamento Rsu parlano apertamente di "serrata aziendale". Le Fs avrebbero cioè favorito la riduzione della circolazione ferroviaria per dare l'impressione di una buona riuscita dello sciopero. Ma, al momento di stilare il comunicato con le cifre della giornata, le stesse Fs hanno comunque dato un pesante colpo alla rappresentatività confederale con quel misero 23%. Prende così corpo la convinzione espressa da alcuni delegati di lungo corso: l'azienda ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte, e ora può dire: "chi ha firmato l'accordo con me non è più un rappresentante credibile; con chi non firmato non posso neppure parlare; ergo, procedo facendo quel che mi pare". Un'analisi che sembra abbastanza diffusa, bisogna dire. Nessuno degli "autorganizzati" che abbiamo sentito ieri si è mostrato felice per la pessima riuscita dello sciopero. "Si va incontro a una situazione molto difficile per tutti i ferrovieri. Il sindacato confederale dovrebbe esser capace di fare una radicale autocritica per linea fin qui seguita". Ma sono scettici.
Inizia la consultazione per il rinnovo del contratto nazionale di lavoratrici e lavoratori tessili, dopo l'intesa raggiunta nell'incontro ristretto con la Federtessile. I segretari confederali, Bellina, Megale e Rossetti, convocano "su tutto il territorio nazionale, momenti di informazione alle rappresentanze sindacali e assemblee ai lavoratori", dando una valutazione "positiva" dell'intesa con i padroni tessili, in particolare "sul tema controverso dell'orario": tanto da ritenere che dal 2 marzo si possa aprire la fase finale "non stop" della trattativa.
Un documento, che sta raccogliendo firme tra delegati e sindacalisti della Filtea-Cgil, contesta l'ottimismo dei vertici nazionali sia nel merito che nel metodo. A proposito di democrazia nel sindacato, il documento chiede perché si sia andati all'intesa con i padroni su un testo che aveva raccolto nella delegazione della Filtea sia "contrarietà esplicite, sia forti perplessità da parte di territori e regioni con una forte concentrazione dell'industria tessile e della presenza sindacale".
Quanto alla democrazia nel rapporto con i lavoratori, i delegati firmatari criticano i vertici nazionali per non aver definito "regole vincolanti" per la consultazione, né previsto "il voto" nelle fabbriche per verificare se abbiano il "mandato" a proseguire la trattativa.
La verifica viene richiesta perché il giudizio sull'intesa raggiunta è negativo: "l'intesa sull'orario peggiora le condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici tessili", e smentisce i punti della piattaforma del sindacato.
Nel testo dell'intesa raggiunta la settimana scorsa sull'orario di lavoro e la flessibilità, si prevede che possa essere superato sia l'orario settimanale di 40 ore, sia quello giornaliero di 8 ore, con un'"articolazione plurisettimanale multiperiodale", per approdare a un orario "realizzato come media in un periodo non superiore a dodici mesi": ossia l'orario annuale richiesto nella contropiattaforma degli imprenditori della Federtessile. Prevista anche una modifica sulla "flessibilità" con la possibilità per le imprese di modificare i "calendari" concordati con un semplice preavviso di 5 giorni.
Contrattazione formale a parte, questa flessibilità sarà comunque operativa, dato che le "necessità" aziendali comprendono una casistica talmente vasta da permettere in realtà alle imprese di avere di fatto totalmente in mano l'orario dei lavoratori. Tra le "necessità" cui far fronte si annoverano infatti: mutevoli esigenze del mercato, variazioni urgenti e imprevedibili della domanda di prodotti e servizi, la "accentuata internazionalizzazione", forme di decentramento anomalo, ricorso a cassa integrazione o straordinario.
Fino ad ora, in parecchi accordi aziendali per un maggior utilizzo degli impianti si prevedeva una riduzione dell'orario di lavoro. Qui invece la flessibilità aggiuntiva non ne prevede, e anzi la disarticolazione è massima se si pensa che le mutazioni d'orario possono riguardare singoli stabilimenti, o reparti, o gruppi di lavoratori. E alla piattaforma sindacale che proponeva per lo sforamento dell'orario contrattuale una maggiorazione del 20% per tutti, l'intesa risponde col 12% per le prime 48 ore e il 15% per le successive.
Nella "Banca ore" non andranno più obbligatoriamente gli straordinari oltre le 80 ore annuali, da gestire individualmente. Né una lavoratrice o lavoratore potrà scegliere di convertire flessibilità aggiuntiva in permessi individuali, invece che in soldi.
A chiarire ulteriormente come l'interinale non abbia fatto altro che sostituire il lavoro a tempo indeterminato, arriva una piccola ma precisa ricerca fatta dalla Fiom dell'Alenia.
La ricerca fa luce sulla mistificazione che presenta gli ingaggi in affitto come "posti di lavoro" partendo da una lettura quantitativa. I 75.524 ingaggi in affitto sottoscritti in Italia nel primo trimestre '99 corrispondono a soli 14.275 posti a tempo indeterminato (il calcolo è frutto del rapporto tra numero di persone coinvolte e orario di lavoro annuo). Estendendo questo rapporto a tutt'Europa, i sei milioni di affittati del '98 corrispondono a 1.700.000 "posti di lavoro", cioè al 28,3% del numero di persone coinvolte.
Quando poi la ricerca entra nel merito del caso specifico dell'Alenia, si scoprono le pecche "qualitative" del lavoro in affitto. L'azienda aveva fornito ai sindacati una previsione, per il '99, d'assunzione di 140 "lavoratori temporanei". A metà dell'anno gli ingressi erano stati 150, ma già 19 di questi nuovi lavoratori si erano licenziati; a fine settembre gli ingaggi erano diventati 160, dei quali 116 interinali, 41 contratti di formazione-lavoro e tre assunzioni a tempo indeterminato. In questo modo i dipendenti con contratti "atipici" risultano essere attorno al 4% del totale: un mondo segnato dalla precarietà e al quale l'azienda nega anche i più elementari diritti, come quello di assemblea. La condizione d'insicurezza si estende persino alla compilazione delle buste-paga, al punto che le Rsu dell'Alenia sono dovute intervenire per recuperare mancate voci di restribuzione contrattuale, come il premio di produzione aziendale, le festività che cadono di sabato o di domenica, o per far recedere le agenzie dal mancato riconoscimento di permessi che stando alla legge devono essere retribuiti.
I lavoratori in affitto sono "dipendenti" delle agenzie che li piazzano nelle varie imprese e queste approfittano della situazione per non rispettare i contratti di lavoro. Tra i vari modi di "fare la cresta" sulle retribuzioni operaie, c'è quello relativo al fatto che spesso i lavoratori in affitto si recano in fabbrica - non certo per generosità, ma perché chiamati - qualche giorno prima dell'attivazione del rapporto di lavoro, creando così una zona d'ombra in cui si perde persino il diritto alla retribuzione. A questo proposito le Rsu dell'Alenia hanno appurato che almeno nove giovani lavoratori in affitto hanno lavorato gratis per una settimana.
La posta reale in gioco quando si parla di "caos nei trasporti" la dichiara Bersani: "ci vogliono assolutamente nuove regole anche per consentire l'innovazione e la modernizzazione nel settore dei trasporti. Una riorganizzazione che deve procedere con maggiore tranquillità". In altre parole regolare, o meglio impedire il diritto di sciopero. Il pretesto: 37 scioperi dichiarati per i prossimi 25 giorni in vari settori e comparti del trasporto italiano. La risposta è una legge - già passata in commissione lavoro, alla Camera - che rende praticamente impossibile scioperare, dotando la cosiddetta "commissione di garanzia" di poteri abnormi e, soprattutto, inappellabili. Un caso unico, in una democrazia, di potere sanzionatorio che non risponde a nessun altro organo e non prevede possibilità di ricorso contro le proprie decisioni. Ma la materia dei conflitti in corso è tutta nella "modernizzazione". Una ristrutturazione selvaggia che investe assetti societari del trasporto pubblico, condizioni di lavoro, salario, garanzie, produttività, livelli occupazionali. E' questa a produrre scioperi.
E' contro questa ristrutturazione che si sciopera nel trasporto urbano e extraurbano nel Lazio. Dichiarato dalla Cnl, è diretto contro gli accordi firmati tra l'azienda e i confederali, che modificano "in senso negativo" - a giudizio della Cnl - le condizioni di lavoro. Come quelli del 2 febbraio, riguardanti il personale dichiarato "inidoneo". Se prima i neo-inidonei con 20 anni di servizio avevano la possibilità di passare al altri alvori mantenendo la retribuzione acquisita nella categoria superiore, questo nuovo accordo sposta il limite a 25 anni, ed eleva l'età anagrafica ai 50-55 anni. Sotto questa soglia lo stipendio si adegua alla nuova qualifica (naturalmente inferiore). Se si tiene conto - dicono alla Cnl - che "l'aggravio dei turni di lavoro produce un numero crescete di inidonei", il risultato è una dequalificazione crescente. Idem per l'incentivo alle dimissioni (1 annualità lorda), anche per chi non verrebbe riconosciuto dall'Inps come avente diritto alla pensione.
Nuovo Pignone a rischio: il 14 febbraio la General Electric ha annunciato che vuol dismettere una delle fonderie più antiche d'Europa (nata nel 1842) entro fine anno: 60 lavoratori - si assicura - saranno ricollocati in altri reparti. Ma a breve cade proprio la verifica dell'accordo di un anno fa, dopo l'annuncio di quei 218 'esuberi' al Nuovo Pignone privatizzato "made in Usa", che piombò su Firenze come un fulmine a ciel sereno.
Il sospetto si affaccia nel documento delle Rsu che accusa la proprietà di ricercare "luoghi del pianeta per economizzare attività produttive e acquistare semilavorati a costi più bassi". Ma poi conclude, sorprendentemente, che l'obiettivo è far sì che "la dismissione della fonderia possa coincidere con l'inizio di un nuovo radicamento produttivo di General Electric nell'area fiorentina".
L'accordo prevedeva "che ai 75 lavoratori in outplacement fosse offerto un contratto a tempo indeterminato per un impiego omogeneo alla loro tipologia professionale. A oggi il ricollocamento ha prodotto 7 portieri e fattorini; 2 tra centralinisti, sala poste e telex, 15 alle buste paga, rilevazioni presenze e rimborsi spese, 19 alla riproduzione disegni e archivio. E la cassa integrazione si raddoppia mobilità e dimissioni".
Il cerchio si chiude sulla stessa domanda di un anno fa: perché si sono concessi ammortizzatori sociali a un'azienda che negli ultimi 4 anni ha realizzato oltre 800 miliardi di utili e che prevedeva di mantenere tale ritmo? Forse lo spiega la premessa del verbale d'accordo: il Nuovo Pignone lamentava "scarsità di investimenti indotta dalla caduta del prezzo del petrolio". Il distributore di benzina ci dice ogni giorno che la preoccupazione era infondata, ma la General Electric non se n'è accorta e chiude anche la fonderia.
Dopo la sconfitta, il ricatto. Si potrebbe sintetizzare così l'atteggiamento di Montefibre, la più grande azienda chimica del Sud, che ricorre a una tattica vecchia quanto il mondo: quella di dividere gli operai. L'Azienda non si è ancora ripresa dalla sconfitta subita grazie a una durissima lotta degli operai che hanno costretto Montefibre e il sindacato locale a rimangiarsi l'ipotesi di un accordo scandaloso (scandaloso anche per Sergio Cofferati) firmato il 12 gennaio scorso che prevedeva deroghe al contratto e liquidazione di diritti acquisiti come lo slittamento degli aumenti salariali di un anno e l'eliminazione del premio di produzione peri nuovi assunti. Oggi la direzione dello stabilimento di Acerra ricorre a un vero e proprio ricatto, giusto nel momento in cui tra operai e sindacati riprende un dialogo dopo la rottura delle settimane scorse.
Nell'incontro avuto con le Rsu di fabbrica il 22 febbraio l'Azienda si presenta decisa a disattendere totalmente gli impegni assunti con l'accordo ministeriale dell'aprile 1999 che prevedevano il rientro in fabbrica degli attuali 220 cassintegrati. I tempi di questo rientro vengono allungati, con la motivazione aziendale di un problema di costi. Le Rsu di fabbrica non abboccano e diffondono un comunicato in cui, dopo aver accusato duramente l'azienda di rivalsa dopo la marcia indietro che è stata costretta a fare sulle deroghe al contratto, affermano: "A partire da oggi è pesantemente condizionato e ridimensionato l'esodo del personale in servizio. Si avrà, di conseguenza, un inevitabile rallentamento del turnover tra chi ha maturato i requisiti per la modalità e chi è in Cassa integrazione straordinaria". I risultati di questo incontro e ricatto aziendale non si sono fatti attendere. Una quindicina di cassintegrati, spalleggiati da tre delegati della Cisl, hanno messo in atto un picchetto davanti ai cancelli bloccando l'entrata dei camion e degli operai al primo turno. "Noi comprendiamo l'esasperazione di chi teme di rientrare in ritardo in azienda, - raccontano gli operai - però loro devono capire che solo la nostra lotta può aiutarli; l'atteggiamento di Montefibre e quello di alcuni delegati Cisl è soltanto una squallida manovra di divisione e ricatto". E mentre domani gli operai cominceranno ad assaporare il frutto della loro vittoria (in busta paga verranno reintegrati gli aumenti decurtati dall'azienda), oggi i tre delegati "ribelli" delle Rsu (quelli che denunciarono l'ipotesi di accordo del 12 gennaio) racconteranno ad Aversa, alla sede dell'Associazione "Le radici delle ali", la loro lotta vincente.
Una donna di 31 anni è morta ieri mattina sul lavoro a Genova. E' stata schiacciata da un carrello elevatore in una officina meccanica per la produzione di bulloni per la cantieristica nella zona industriale di Campi. Anche suo padre è rimasto coinvolto nell'incidente e ha riportato ferite lievi. Il carrello si rovesciato travolgendo entrambi, la donna è morta sul colpo. La vittima si chiamava Elena Biggi, madre di un bambino di due anni. La lavoratrice, insieme al padre, stava spingendo a mano un piccolo carrello elevatore azionato da un motore elettrico. Il veicolo veniva spinto in un corridoio al piano terra all'interno del magazzino; ai lati del corridoio due file di scaffali. La donna stava appunto sistemando scatole di bulloni negli scaffali. Per cause non ancora accertate dai carabinieri intervenuti sul luogo dell'ennesimo omicidio bianco, il carrello si è rovesciato all'indietro. La giovane donna è stata schiacciata ed è morta quasi subito; il padre è stato colpito alla testa dal veicolo.