Notizie dalla lotta di classe |
Maggio 2000 |
Unire quello che il capitalismo divide. |
Trasporti, giornali, imprese di costruzione, distributori, camerieri e via dicendo: in Norvegia 85.000 lavoratori del settore privato hanno incrociato le braccia e, per come si sono messe le cose, resteranno fermi per un periodo piuttosto lungo. E' dal 1986 che nella ricca e florida Norvegia non si assiste ad uno sciopero generale di questa portata.
La principale confederazione sindacale, la Lo, ha dovuto proclamare uno sciopero illimitato dopo la bocciatura da parte della base, la scorsa settimana, dell'accordo salariale concluso con la Nho, la confederazione padronale. Una bocciatura che significa anche una solenne batosta per i leader sindacali che avevano siglato l'intesa e che sono stati sfiduciati dal 64% degli iscritti.
L'accordo prevedeva aumenti salariali tra il 3,5 e il 4 per cento (nettamente più alti del tasso di inflazione che si aggira attorno al 2,5%) e una quinta settimana di ferie pagate a partire dal 2002. I termini dell'accordo, pur vantaggiosi, sono stati ritenuti insufficienti rispetto agli elevati profitti dei dirigenti d'impresa in questo periodo di boom economico per il paese scandinavo.
La lotta potrà protrarsi per alcune settimane e anche estendersi se i lavoratori di altri comparti, quali industria e pesca, dovessero decidere di prendere parte allo sciopero. L'unico settore per il momento poco affetto è quello petrolifero, dettaglio non indifferente dato che la Norvegia è il secondo paese esportatore dopo l'Arabia saudita.
Due ore di sciopero e numerosi presidi davanti alla principali aziende metalmeccaniche, tra le quali la Iveco, la Beretta, la Breda.
Alta l'adesione allo sciopero generale contro la lunga scia di morti bianche e infortuni sul lavoro che dall'inizio dell'anno sta funestando la provincia di Brescia. Ma erano in tanti anche per stringersi intorno alla famiglia di Roberto Marcarini, l'operaio dell'Alfa Acciai, ucciso l'altro ieri dalla "fatale" oscillazione di un grosso lingotto d'acciaio. Proprio all'Alfa Acciai si è svolto ieri un incontro tra le organizzazioni sindacali e la direzione aziendale durante il quale è stato proposto un piano d'intervento per mobilitare le strutture pubbliche in opere di prevenzione.
Nei prossimi giorni, per tentare una risoluzione del problema degli infortuni sul lavoro, la Federazione impiegati operai metallurgici di Brescia ha promosso una riunione corale di tutte le Rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza attive nelle aziende metalmeccaniche e siderurgiche. Nella convinzione che sulle questioni di vita o morte non ci si può perdere in chiacchiere.
"Totalmente insoddisfatti", tranne che per l'"incontro" con i radicali a Montecitorio. Marco Taradash, che raccoglieva firme per il referendum, ha dovuto spostare il banchetto. Per il resto i lavoratori socialmente utili, che hanno manifestato a Roma, sono rimasti con un pugno di mosche in mano. L'appuntamento con il ministro Salvi si terrà mercoledì prossimo. Nessuno ha voluto prendere impegni. Il decreto sotto accusa stabilisce che, a partire dal 2 maggio, possono essere rinnovati per sei mesi dagli enti che impiegano Lsu soltanto quei contratti che assicurano uno "sbocco occupazionale". Ma ben pochi enti danno questa certezza; le "soluzioni" si trovano più che altro al nord, dove le risorse sono maggiori. Non a caso il corteo di ieri era formato soprattutto da lavoratori del sud: Palermo, Napoli, Caserta, Reggio Calabria. Molti di loro hanno superato i 50 e hanno alle spalle anni di mobilità. Vogliono essere assunti dalla pubblica amministrazione; "è l'unica soluzione", dicono. E promettono altre proteste.
L'8 maggio la corte d'appello di Milano ha celebra il processo di secondo grado per la riassunzione in Alcatel dei lavoratori "esternalizzati", cioè ceduti alle società esterne insieme con il ramo di produzione o di servizio di cui si disfa. L'azienda ha ottenuto soddisfazione in primo grado, perlomeno in questo caso. I giudici hanno infatti sentenziato come legittimo il suo diritto, in base all'articolo 2112 del codice civile, di "disfarsi" dell'organico in carico ai servizi produttivi che aveva trasmesso alla A.L.S. Spa. Che cosa dice questo articolo del codice e come viene utilizzato? In caso di trasferimento d'azienda il rapporto di lavoro continua "con l'acquirente e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano". Scritta nel 1942, la norma mirava in realtà a tutelare il lavoratore. Mezzo secolo più tardi, imprenditori e Confindustria hanno trovato il modo di girarla a loro favore, come spiega l'avvocato Stefano Chiusolo: "Lo scorporo è diventata la maniera con cui si evita lo scoglio del divieto di licenziamento. Non è stato sempre così, una volta i datori di lavoro cedevano rami di produzione e licenziavano. Allora, la difesa dei licenziati chiedeva l'applicazione del 2112. Erano i tempi precedenti lo statuto dei lavoratori, che portò ulteriori tutele. Adesso, lo stesso articolo del codice viene usato al contrario: i datori di lavoro cedono le attività e cedono anche i dipendenti". Ed ecco un esempio pratico per capire come viene usato oggi questo articolo: l'imprenditore si trova di fronte lavoratori fastidiosamente attenti al rispetto delle norme contrattuali? Per cominciare, può riunirli tutti nel medesimo reparto che verrà chiamato per comodità "ricevitoria". Più tardi, cede il servizio a una società esterna (magari un po' meno solida dal punto di vista delle prospettive). Voilà, ecco risolto il problema dei rompiscatole: sono fuori dell'azienda senza storie, senza proteste, senza niente, dato che l'articolo 2112 consente l'operazione. Più o meno, è successo con l'Alcatel, società a capitale francese il cui organico in Italia è passato dai 18.000 del 1991 agli attuali 6.000. Grazie a una norma del codice civile.
L'industria italiana perde competitività, lamentano spesso gli imprenditori che puntano il dito accusatore sull'alto costo del lavoro. Ma i lavoratori italiani pretendono salari adeguati: e questa è una colpa. Nella graduatoria europea sono i paria, i peggio pagati e peggio di loro stanno solo gli iperflessibili e ipersfruttati spagnoli. Mentre a stare meglio sono le imprese, visto che per il costo del lavoro nell'industria l'Italia si colloca al penultimo posto nell'Europa dell'euro: ogni lavoratore dell'industria costa il 20% in meno rispetto alla media eureopea.
I dati sono del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro e dell'Irs (Istituto ricerche sociali). Il rapporto conferma che i differenziali rimangono elevati nonostante l'alta incidenza degli oneri sociali che sono pari al 35%, il livello più alto tra gli Euro-11.
Più basso costo del lavoro significa anche più basse retribuzioni: la ricerca, evidenzia come le retribuzioni rimangono del 21% inferiore a quelle europee.
Dalla ricerca emerge anche un altra realtà: piccolo è bello, ma non per i lavoratori. L'andamento e i differenziali del costo del lavoro in Italia, infatti, sono il risultato diretto della presenza diffusa di piccole imprese nelle quali il livello salariale è inferiore in media del 40% (60% in Spagna) a quello delle imprese di grandi dimensioni. Nella media degli altri paesi, invece, il differenziale oscilla tra il 20 e il 30 per cento.
Li pagano 350 lire a pezzo, sono senza ritenuta d'acconto, non hanno busta paga, liquidazione, tredicesima, straordinari pagati, indennità di automezzo, ferie, copertura assicurativa, sono licenziabili in tronco. La chiamano flessibilità perché hanno dimenticato parole più semplici: è lavoro nero. 51 di questi moderni schiavi-postini della locale filiale delle Poste si sono battuti per conquistare un regolare rapporto di lavoro e alla fine sono riusciti a vincere. Sapete come hanno reagito le poste di Lecce? Come il peggior padrone del vapore li ha licenziati in blocco, per rappresaglia. Alla lotta per la regolarizzazione del rapporto di lavoro segue la lotta per la riassunzione.
All'alba del settimo giorno di sciopero, l'accordo. La più forte confederazione sindacale norvegese, "Lo", e la confindustria hanno firmato nella notte tra lunedì e martedì l'accordo sugli aumenti salariali e la quinta settimana di ferie, mettendo fine a uno dei conflitti sociali più aspri del dopoguerra.
Per sei giorni hanno incrociato le braccia circa 86 mila lavoratori del settore privato, dall'industria ai trasporti agli hotel ai media; chiedevano ai padroni un aumento in busta paga superiore al 4% e 4 giorni in più di ferie all'anno, tanto da portare a 5 le settimane di riposo. L'accordo raggiunto li dovrebbe soddisfare: esso prevede un aumento generalizzato di una corona e mezzo (1 corona = 238 lire) del salario orario quest'anno e di un'altra corona nel 2001. L'aumento per i salari attualmente meno alti sarà di 1,5 corone subito e 2 corone nel 2001. L'accordo, che dovrà essere approvato dalla base di "Lo", scagliona in due anni l'aumento delle ferie: 2 giorni nel 2001 e altri 2 nel 2002 (ora le ferie sono di 4 settimane e 1 giorno). La trattativa si è riaperta dopo che gli iscritti a "Lo" avevano bocciato il primo accordo concluso in aprile con i padroni - aumento di 0,75 corone della paga oraria e quinta settimana di ferie introdotta a un ritmo ben più lento -, obbligando il sindacato ad alzare la posta. La confindustria ha cercato di tener duro, ma la massiccia adesione allo sciopero e la minaccia che altri 16 mila lavoratori avrebbero incrociato le braccia da ieri, li ha convinti a trovare un più alto punto di mediazione.
Il caldo improvviso fa crollare le quotazioni dell' "oro rosso". I caporali, gli unici con contratto a "profitto garantito", sono i soli a sorridere da queste parti, anche se uno di loro ha pagato a caro prezzo la sua ortodossia economica. Alla base della piramide, le braccianti. Lavoratrici vendute sul libero mercato del caporalato, con puntate che hanno raggiunto le 150 mila lire a donna, in un asta battuta sopra le teste delle braccianti. Per loro ci sono "solo" 8 ore da passare curve sotto una serra a 6 mila lire l'ora, e per le più fortunate c'è un'altra ora e mezza di straordinario, non retribuito, a inscatolare fragole negli stabilimenti.
Le fragole devono essere raccolte appena maturano, altrimenti sono da buttare ed è questa la ragione della caccia alle braccianti, cui ogni anno sono costretti gli agricoltori. I produttori quest'anno erano ottimisti, il raccolto spagnolo è andato male e questo li faceva ben sperare. All'inizio della stagione le fragole stavano a 5 mila lire il chilo e per il seguito della raccolta era stato ipotizzato un prezzo medio di 3 mila lire. Quest'anno l'emergenza annunciata è arrivata in anticipo, sono bastate poche giornate di caldo all'inizio del mese a portare il Metapontino in fibrillazione.
I caporali aumentavano le tariffe di fornitura di mano d'opera dalle 70-100 mila lire dell'anno scorso a punte da 150 mila lire. Applicano le regole della domanda e dell'offerta: pattuiscono un prezzo per le donne con un primo agricoltore, lungo la strada contrattazione via cellulare e si spunta un prezzo migliore per una parte della merce umana.
Per aggirare i controlli si affidano a due sistemi: il primo è la creazione di cooperative di servizi. Pagata a ore e munita di mezzi propri, la cooperativa, secondo contratto, dovrebbe consegnare all'agricoltore le fragole già confezionate. L'altro sistema è far figurare il pullman di proprietà dell'azienda agricola e in questo modo il caporale si camuffa da autista dipendente.
Questi sono segreti di Pulcinella, tant'è che sabato scorso carabinieri e ispettori del lavoro hanno organizzato un blocco sulla statale Jonica sequestrando 3 pullman, una decina di libretti di circolazione e denunciando 3 caporali. La repressione è facile ma alla lunga impraticabile, in quanto i caporali sono i soli intermediari tra domanda e offerta e se il rubinetto viene chiuso, il Metapontino va in rosso, ma in banca, e le fragole marciscono.
La vera novità di quest'anno è la presenza nel Metapontino d'immigrati provenienti dall'est europeo. La polizia ne ha bloccato una ventina vicino Scansano Jonico. Sono entrati in Italia con un visto di turistico, tra viaggio e visto hanno speso 900 mila lire a testa, lavorano per 35 mila lire al giorno, per di più pagate dopo una settimana dal loro intermediatore. Il responsabile locale della Confederazione italiana agricoltori ha già lanciato la proposta di impiegare in futuro più immigrati, fornendo loro vitto e alloggio con un'organizzazione del lavoro simile, almeno sulla carta, a quella usata per la raccolta delle fragole nel veronese. Qui, 2.600 stagionali dall'Europa dell'est sono stati chiamati l'anno scorso dai produttori. Le aziende richiedono ufficialmente i lavoratori con un visto per lavoro stagionale.
Le aziende preferiscono i lavoratori stranieri a quelli italiani, il punto che fa la differenza è la garanzia di avere qualcuno sul campo dall'inizio alla fine del raccolto; in questa zona si coltiva sia in terra che con metodo idroponico (piante immerse in soluzione acquosa di sali nutritivi). Molti braccianti italiani, per la fatica della raccolta o per la bassa retribuzione, abbandonano il lavoro dopo pochi giorni. Questo crea ai sindacati difficoltà nel collocare i braccianti locali.
Centinaia di lavoratori sono in sciopero dall'inizio di maggio nella zona industriale di Las Mercedes, Nicaragua. Las Mercedes è una "zona di libero commercio", una di quelle enclaves di aziende (di solito di proprietà straniera) che producono manufatti per l'esportazione con generose agevolazioni fiscali e altri incentivi finanziari: il Centro America ne è disseminato. Di recente le aziende hanno pensato di gestire le "relazioni industriali" licenziando i militanti sindacali. Il caso più clamoroso è Mil Colores, stabilimento di proprietà Usa che produce per diverse etichette americane (Marshall Fields, Target e altre). In gennaio, dopo aver rifiutato di trattare aumenti di salario, Mil Colores ha licenziato oltre 200 lavoratori iscritti al sindacato e ne ha denunciati 68 per reati vari: da allora le famiglie di quei lavoratori sono senza stipendio (20 cents di dollari all'ora). Intanto è scoppiato il caso di Chentex, altra azienda tessile (anche questa produce per diverse etichette americane). Chentex è di proprietà di un consorzio taiwanese. In marzo il sindacato ha chiesto la mediazione del ministero del lavoro di Managua per trattare un aumento salariale: i 1.800 dipendenti - per lo più donne - avevano appena ricevuto un aumento irrisorio, 0,32 dollari alla settimana, appena più di un dollaro al mese. Il 24 aprile rappresentanze dei lavoratori hanno incontrato la direzione aziendale presso il ministero del lavoro: ma questa ha respinto ogni richiesta. Il 2 maggio le lavoratrici della Chentex hanno sospeso il lavoro per un'ora. Quella notte circa trenta lavoratori e lavoratrici, tra cui i 9 dirigenti sindacali, sono rimasti nello stabilimento. Chentex ha risposto notificando il licenziamento dei 9 sindacalisti . Il 3 maggio erano in 500 a scioperare: "Se lasciamo che licenzino i dirigenti del sindacato, i prossimi saremo noi", dicevano i lavoratori. Il sindacato è presente a Chentex dal 1998 ed è tra i più forti nella "zona di libero commercio". Che i licenziamenti siano "politici" risulta chiaro dalle dichiarazioni alla stampa di Lucas Wong, portavoce dell'azienda: "Dovevamo fare qualcosa, se no i sindacati pensavano che non possiamo toccarli".
La questione che ha agitato l'assemblea di ieri negli stabilimenti della ex Belleli di Taranto è se la Belleli Off-Shore International, Boi. Sono oltre 1.800 i lavoratori in cassa integrazione fino a dicembre. Venerdì prossimo è previsto l'ennesimo incontro tra azienda e sindacato, dove ci si dovrà accontentare al massimo di una proroga della Cig che i lavoratori vedono come l'avvio del processo di dismissioni e chiusura. Per quanto riguarda il rilancio industriale, non mancano le commesse, come quella chiamata "Shuttle", un mega impianto per lo smantellamento e la demolizione delle piattaforme petrolifere obsolete, nonché per la manutenzione di quelle in attività. E' ovvio però che capitale e prospettive razionali di produzione non vanno bene insieme e solo la logica del massimo profitto disegna gli intenti del padrone.
Su questa commessa da un lato c'è la Boi, e la cordata di multinazionali (Abb, Halter, Itainvest), che fin dal maggio scorso ha assunto precisi impegni in ordine al rilancio produttivo e al nuovo piano industriale, dall'altro il governo italiano ed il suo impegno di sostenere la commessa "Shuttle" con una quota di finanziamento pubblico di 350 milioni. Ma le notizie che giungono da Roma, hanno denunciato ieri gli operai, vanno nella direzione di un disimpegno del governo. Incertezze già presenti nelle diverse trattative tra la Boi e il sindacato, tant'è che i partner della cordata hanno tirato i remi in barca, uno dopo l'altro, sentendo puzza di bruciato. Il dietro-front è legato alle incertezze sulla quota di sostegno pubblico, e così il circolo vizioso sembra ricadere senza via d'uscita sulla testa dei 1.800 lavoratori in Cig a un milione e 200mila lire al mese. Dopo l'assemblea 800 lavoratori hanno sfilato per le vie della città, annunciando il blocco dell'attività produttiva dell'intera città.
400 mila metalmeccanici dell'artigianato scioperano per i contratti regionali, l'equivalente della contrattazione aziendale fatta nelle imprese più grandi. I contratti regionali sono bloccati da due anni e il 30 giugno scade il contratto nazionale. Le imprese artigiane hanno tirato in lungo per far saltare il doppio livello di contrattazione. La più grande delle associazioni artigiane ieri ha disdettato l'accordo interconfederale siglato nel '92 sul sistema contrattuale. L'obiettivo è l'abolizione del contratto nazionale. Per i padroni, l'uniformità contrattuale non giova a nessuno e le differenze tra Nord e Sud sono enormi, dunque il contratto deve essere "a misura" del territorio, del mercato del lavoro, della velocità competitiva.
Allo sciopero sono stati chiamati anche i metalmeccanici dell'industria, non solo per solidarietà, ma perché la partita sul modello contrattuale coinvolge tutti. A Bologna ci sarà la manifestazione più grande. La disdetta data dalla Confartigianato non ha conseguenze immediate sulle trattative per i metalmeccanici, spiega Magni. "Incontri non se n'erano fatti e non ne erano programmati". Conta "un sacco", invece, il segno politico che "va oltre l'artigianto". Cgil, Cisl e Uil giudicano "estremamente grave" la decisione di Confartigianato. E' risaputo però che alla Cisl piace il contratto nazionale "leggero" e la contrattazione territoriale. All'osso, un modo diverso per dire gabbie salariali.
La prima giornata di lotta dei lavoratori metalmeccanici per difendere i diritti contrattuali di tutti ha visto una intensa partecipazione allo sciopero in tutta Italia, con assemblee, presidi e iniziative pubblche. In Lombardia, nelle grandi aziende - Italtel, Siemens, Iveco - l'adesione dei lavoratori ha sfiorato l'80%, mentre per le strade di Bologna si è snodato un corteo di 15.000 persone. In Toscana, in particolare alla Breda di Pistoia e alla Piaggio di Pontedera le percentuali di lavoratori scioperanti hanno toccato il 90%. A Roma, infine, gli artigiani hanno protestato sotto la sede della Confartigianato.
A Torino si è raggiunta una preintesa tra gruppo finanziario tessile, Gft, e Giorgio Armani. (la ratifica dei lavoratori non è stata ancora votata). Gft non produrrà più capospalla - i capi di abbigliamento più costosi e che incorporano la più alta percentuale di lavoro specialistico - su licenza di Armani. Sono coinvolti rapporti finanziari in misura certo notevole ma che non è dato sapere e rapporti di lavoro. Una parte dei lavoratori verrà riutilizzata da Armani, mentre gli altri saranno in esubero, a metà strada fra Gft e Armani. Armani riassorbirà 700 persone delle 900 in produzione. Sommando i duecento esuberi al resto, circa seicento persone rimarranno tagliate fuori, comprese le 270, ora in cassa integrazione guadagni, che lavoravano ai capi da donna su licenza Armani, "Mani donna", già ritirata nei mesi scorsi.
Ora si crea un vuoto, davanti ai duecento lavoratori non riassorbiti, ai 270 di "Mani donna"; a 130 di uno stabilimento di S.Damiano di Asti che potrebbe risultare esso stesso del tutto esuberante e altri ancora, in forza allo stabilimento di Bosconero di Torino, forse in soprannumero.
Armani intende riportare "in fabbrica" la produzione prima affidata a terzisti; le intenzioni di Gft sono meno chiare. E' la debolezza industriale di entrambi i gruppi Gft e Armani che tiene la trattativa sempre sul filo; d'altro canto, Armani mostra una decisa voglia di spingersi nell'attività industriale diretta; e per questa scelta che potrebbe dare risultati in termini di occupazione, di elevata qualità, il sindacato è propenso a firmare gli accordi.
Nei confronti di Gft invece, il sindacato è molto dubbioso. Vorrebbe sapere, nel corso di un verifica, prevista tra giugno e luglio, quali strategie, quali investimenti, verso quali alleanze, servendosi di quale forza lavoro il gruppo finanziario tessile intenda rilanciarsi e aumentare la sua presenza nel settore dell'abbigliamento di qualità. Insomma: c'è posto e quale e quando per chi resta fuori adesso?
Hdp, il conglomerato industriale di Fiat, Mediobanca e loro tradizionali alleati, ha Romiti-figlio per massimo dirigente. Quando di new economy ancora non si parlava, ma era la moda a essere di moda, Hdp decise di potenziare quello che aveva già in fatto di abbigliamento - Fila e Gft - e acquistò Valentino, per poco meno di 500 miliardi. Era difficile mantenere l'accordo di licenza, (meglio un contratto di produzione conto/terzi) vigente da molti anni con Giorgio Armani. Per cui, alla scadenza Armani non ha rinnovato il contratto e Gft si è trovato per terra.
Rischia di chiudere anche la Abb Italia. Il gruppo dirigente del settore trasmissione e distribuzione dell'azienda avrebbe deciso di sacrificare lo stabilimento di Santa Palomba lasciando in vita solo quello di Legnano. La drastica soluzione ai problemi dell'azienda sarebbe stata presa per far fronte al calo delle ordinazioni sul mercato nazionale dei trasformatori di potenza da parte dell'Enel. La conferma della decisione avrebbe conseguenza gravissime per l'intera area industriale di Pomezia, già duramente colpita dalla crisi degli ultimi anni, e metterebbe a rischio il posto di lavoro dei 200 dipendenti, non adeguatamente coperti da garanzie occupazionali e di reddito. Per evitare la chiusura dello stabilimento si è mobilitato il coordinamento nazionale Fim, Fiom e Uilm aprendo un tavolo di trattative con la dirigenza aziendale che vedrà riunite le parti in causa in due incontri, stabiliti per il 31 maggio e per il 7 giugno. Intanto, le rappresentanze sindacali hanno organizzato una mobilitazione di tutti i lavoratori degli stabilimenti della Abb di Pomezia a sostegno della vertenza della Fiom. Tra le iniziative programmate, l'apertura nei prossimi giorni di una assemblea per discutere le strategie sindacali da adottare e lo sciopero a oltranza per indurre la dirigenza della Abb a una rapida marcia indietro sull'ipotesi di chiusura.
A Taranto - ma non solo - si continua a morire di amianto. Lavoratori e residenti nelle vicinanze dell'ex Italsider - ora dell'industriale Riva - pagano il prezzo principale della massiccia presenza del materiale dalle comprovate proprietà cancerogene. Nonostante se ne conosca dal 1929 la pericolosità, ed esista dal '92 una legge che ne impone la rimozione dai luoghi di lavoro, all'Ilva non si riesce ancora ad avere neppure una mappa dei punti in cui l'amianto è concentrato. Nuovi e vecchi operai continuano così a trapestare in mezzo a nuvole di polvere che ne distruggono la salute. Le statistiche parlano chiaro: le morti per neoplasie polmonari sono diventate, nel '98, 253 a Taranto e provincia; 111 delle quali nella sola città pugliese. Ma le preoccupazioni di Riva vanno in tutt'altra direzione. 700 lavoratori sono stati posti in cassa integrazione "per riqualificazione". Tra essi operai a pochi mesi dalla pensione (il che chiarisce come non di riqualificazione si tratti, ma di semplice uso dei soldi pubblici per rimuovere la manodopera più matura). La cosa più triste - dicono alcuni operai - è che "la cig è stata concordata col sindacato". Contemporaneamente sta facendo entrare centinaia di ragazzi con contratti atipici: senza nessuna esperienza né tutela, si ritrovano alle prese con l'amianto dappertutto. Emblematico poi il caso della palazzina Laf - il "reparto confino" dell'Ilva - cui venivano destinati tutti i "rompiscatole" della fabbrica, quelli che non si piegavano al diktat padronale. In una causa di lavoro persino il giudice si è sentito in dovere di richiamare alle proprie funzioni di tutela dei lavoratori il sindacato che, sulla vicenda della palazzina, confessava - durante una testimonianza - di "non aver fatto nulla". I lavoratori dell'Ilva, perciò, parteciperanno alla prossima mobilitazione nazionale sull'"emergenza amianto". Nel mese di giugno verranno occupate simbolicamente le sedi regionali dell'Inail, a sostegno della richiesta di incontro con il ministro del lavoro.
Lavoro temporaneo o lavoro interinale? Si tratta del lavoro che viene intermediato da imprese specializzate che assumono temporaneamente dei lavoratori, avendo una richiesta da parte di un'impresa manifatturiera o del settore terziario che si trova in condizione di scarsità.
Al Cnel si è svolto un convegno per discutere il successo o l'insuccesso dell'attività d'intermediazione basata sulla legge 196 del 1997; gli "addetti ai lavori" intervenuti non erano però i lavoratori affittati, ma piuttosto gli intermediatori. L'elemento più interessante del convegno è consistito nella presentazione di molti numeri, non tutti scontati.
2.200 persone "sono dipendenti diretti delle Agenzie". Le agenzie sono 602 e complessivamente hanno un fatturato lordo di 1.107 miliardi, 607 dei quali sono le retribuzioni lorde pagate ai lavoratori distribuiti tra le imprese. 500 miliardi sono dunque quanto rimane alle società, grandi e piccole, che svolgono il lavoro di cedere il lavoro.
Le persone avviate al lavoro sono state, nel 1999, 194.835. La durata media delle "missioni" (i lavori si chiamano così) è di 192 ore. In tutto le ore lavorate sono state più di 37 milioni. Il 68% delle missioni ha avuto una durata inferiore ai sei mesi, mentre il 26%, tra sei mesi e un anno. Oltre un anno il resto. Hanno ottenuto (o si sono accontentati di) una missione l'81,8% dei lavoratori interessati, mentre il 16,2% ha svolto due o tre missioni. Oltre quattro missioni le ha svolte il 2% delle persone. La presenza femminile varia da un minimo del 31% per la fascia di età da 50 anni in su, a un massimo del 40% per la fascia da 25 a 29 anni. L'età media è 30 anni, quella delle donne, 29.
I motivi del ricorso al lavoro interinale sono per il 18% dei casi "sostituzione di lavoratori assenti"; per il 12% di "assetti produttivi non previsti"; per il 70% di "punte di lavoro". Nella maggior parte dei casi dunque l'uso del lavoro interinale è per affrontare problemi di produzione (o di domanda di servizi) più alta del normale e che l'impresa risolve senza assumere altre persone. In Italia la "durata" media di una missione è di 3 mesi, mentre in Francia è di 15 giorni. Se anche si raddoppiasse il numero delle missioni annue, si sfiorerebbe appena lo 0,4% dell'occupazione totale: questo mostra che non sarà il lavoro temporaneo a risolvere i problemi veri dell'occupazione.
Quelle che un tempo erano le grandi aziende a partecipazione statale - ora privatizzate o in via di esserlo - sembrano seguire un modello standard nel ridefinire i rapporti contrattuali con i dipendenti. E' l'impressione che sorge spontanea guardando i vari comunicati che gruppi di lavoratori del settore delle telecomunicazioni stanno diffondendo. Pochi sanno, infatti, che è in corso una trattativa tra organizzazioni sindacali e Telecom per il rinnovo del contratto nazionale. E ancor meno, sembra, ne conoscono i contenuti.
Ciò che è chiaro, però, è che si sta discutendo su una piattaforma imposta di fatto dalla Confindustria, che propone un menu già visto: riduzione del 20% dei minimi contrattuali (come in ferrovia), orario di lavoro di nuovo elevato a 40 ore settimanali, ulteriore flessibilità dell'orario di lavoro e degli straordinari a seconda delle esigenze dell'azienda, aumento delle quote di lavoratori "flessibili" e precari, riduzione dei giorni di ferie e, infine, doppio regime salariale che dovrà andare a distinguere tra lavoratori attualmente in servizio e nuovi assunti (come in ferrovia, anche qui). Stessa pappa per il rinnovo contrattuale degli elettrici: anche qui Confindustria detta legge, a fronte di una irrisoria percentuale di dipendenti in sua mano.
Il silenzio che circonda la trattativa - nessuna assemblea ha vagliato le "proposte" in discussione - è stato a malapena rotto da alcuni documenti pubblici diffusi dalle strutture sindacali a livello regionale, e che propongono alcuni minimi "emendamenti" al testo sul tavolo.
La riduzione delle ferie è di due giorni (da 26 a 24). La modificazione dei livelli di qualifica si concretizza nella riduzione a soli 7 (da otto che sono stati fin qui); un punto che non sarebbe neppure visto troppo male, se non si accompagnasse a un sostanziale blocco di tutti i meccanismi di scatto d'anzianità. Il "doppio regime salariale", infine, si materializzerebbe tramite l'istituzione di un importo ad personam per i "vecchi" dipendenti Telecom (che ingloberà la differenza tra minimi attuali e quelli proposti da Confindustria). Ai nuovi assunti, invece, non andrà nulla. Come in ferrovia, dunque, viene introdotto un elemento retributivo (lì individuale, qui aziendale) che stacca nettamente i lavoratori in due categorie.
Naturalmente, proprio il maggior costo che un lavoratore "vecchio" rappresenta per l'azienda è anche la ragione del tentativo di eliminarlo rapidamente dalla pianta organica. Il lavoratore disegnato da questo tipo di contratto non ha garanzie, difese, carriera, prospettive di pensione adeguata. E ha pure un salario molto basso (1.400.000 nette per 13 mensilità).
Si sta sviluppando l'idea di costruire un argine allo scivolamento all'indietro. Gruppi di lavoratori appartenenti a tutte le sigle sindacali, a titolo individuale o di situazione, si stanno infatti contattando per arrivare a un'assemblea nazionale autoconvocata per sabato 3 giugno, a Roma. L'obiettivo è quello di individuare i punti di una piattaforma contrattuale nazionale che non accetti il terreno imposto dalla controparte. Una piattaforma, in altri termini, che parte dal contratto ancora vigente (quello del '96, già di suo molto peggiorativo del precedente).
Anche in questo settore tecnologicamente all'avanguardia, dunque, si sta riproducendo quella dinamica di ricostruzione del conflitto sindacale senza di cui, come dimostra ampiamente il dibattito politico sui diritti dei lavoratori, la destra trionfa e la sinistra (da anni impegnata a segare il ramo su cui stava seduta) semplicemente scompare.
Si è interrotto definitivamente il contratto di formazione e lavoro di Antonio Basile, giovane operaio dell'Ilva di Taranto, da una settimana in coma al "Vito Fazzi" di Lecce, dove era stato ricoverato per trauma cranico riportato dopo la caduta da un ponteggio sprovvisto della ringhiera di sicurezza. Era caduto da un'improvvisata impalcatura, a quattro metri di altezza, in un reparto dell'Acciaieria 2 del siderurgico, e le sue condizioni cliniche erano subito parse preoccupanti.
Si muore così nel più grande impianto siderurgico d'Europa, in un territorio monopolizzato nel suo sviluppo dall'ex-acciaio di stato, dove vige la nuova organizzazione del lavoro imposta dal management di Emilio Riva fin dal suo approdo a Taranto. Si muore così lasciando decine di giovani in contratto di formazione in situazioni operative pericolose e senza misure di sicurezza degne di questo nome. Antonio Basile era uno di questi, senza corsi di formazione alle spalle, a digiuno delle preziose norme di comportamento sull'impiantistica siderurgica - quelle pratiche operative così faticosamente conquistate dai consigli di fabbrica negli anni 70 e oggi dimenticate dai lavoratori a causa della pressione e dei ritmi attuali. Giovani inesperti e tuttavia collocati in aree di lavoro fortemente a rischio come la manutenzione nelle acciaierie.
Il sindacato metalmeccanico ha proclamato due ore di sciopero in tutti i reparti dell'Ilva, promuovendo assemblee e incontri soprattutto tra le decine di giovani reclutati in fabbrica dopo l'accordo del 20 ottobre scorso. Ma i ritardi e le omissioni dei confederali in materia di prevenzione e sicurezza non possono essere colmati da un paio di ore di sciopero, di fronte ai risultati della gestione Riva a Taranto. Un esempio? Solo tra sabato e domenica scorsi nell'Ilva si sono verificati ben 7 infortuni sul lavoro, che hanno richiesto prognosi superiori ai tre giorni, in reparti in cui funzionano impianti obsoleti e privi di manutenzione lungo l'intero ciclo di produzione dell'acciaio, in un clima di intimidazioni e repressione denunciato con troppo ritardo dal sindacato.
Quella di Antonio Basile è una morte annunciata. All'Ilva c'è aria di paura e omertà tra i lavoratori e ne sanno qualcosa i tre operai dello Slai Cobas messi in cassa integrazione "come rappresaglia" per aver reso testimonianze dirette e circostanziate sulla morte di un altro lavoratore, Pasquale Stasi, già deceduto sul posto di lavoro all'Ilva. Proprio mercoledì scorso i tre sono stati ascoltati dal giudice Baruffa, che si occupa del caso. Fatti ed episodi che prendono forma in "un clima di terrorismo padronale", assicurano i Cobas, attuato da "dirigenti e capetti che minacciano la cassa integrazione come punizione contro chi si rifiuta di operare su impianti particolarmente a rischio o di accettare gli straordinari".
Sono anche questi i risultati dell'accordo di ottobre, quell'intesa che ha consentito a padron Riva un vera e propria selezione generazionale, lasciando per strada, in mobilità o cigs, 1.400 lavoratori, dipendenti poco più che cinquantenni con decenni storia industriale e sindacale alle spalle, e facendo varcare i cancelli del siderurgico a centinaia di giovani non sindacalizzati, ricattabili grazie a contratti precari, senza tutela e diritti. Si espellono cioè lavoratori con diritti acquisiti per sostituirli con manodopera usa e getta in un clima di terrore. I Cobas denunciano l'illegittimità di quell'accordo, perché la sospensione del personale, dicono, è stata attuata secondo criteri discriminatori e punitivi che nulla hanno a che fare con le esigenze tecnico-produttive dell'azienda. Il dito è puntato anche contro l'ennesimo ricatto di Riva: la rinuncia a qualsiasi ricorso da parte dei lavoratori è divenuto uno dei criteri per assegnare la cigs.
Non c'è stato neanche il tempo di riprendersi dalla rabbia e dall'indignazione per la morte di Antonio Basile, un ragazzo in contratto di formazione lavoro all'Ilva di Taranto, che la notizia di un altro incidente è giunta nei reparti polverosi del siderurgico. Questa volta sono rimasti intossicati sei lavoratori di una ditta appaltatrice, che all'Ilva lavora alla coibentazione delle tabulazioni degli altiforni: hanno respirato azoto, sprigionatosi all'improvviso durante le fasi di lavorazione nella serata di venerdì. Uno di loro è svenuto, gli altri cinque hanno accusato malori. Fortunatamente, la quantità d'azoto inalato non ha procurato danni irreversibili e il ricovero nell'infermeria del siderurgico sembra aver posto sotto controllo le loro condizioni di salute.
La ditta Lima opera da anni in appalto all'Ilva, alla bonifica degli impianti dall'amianto ancora presente in diversi reparti. Lavori sporchi e ad alto rischio, in cui gli operai sono a contatto diretto con scorie tossiche e in condizioni di lavoro che violano le più elementari misure di sicurezza. Per risparmiare sui costi, naturalmente. Non è la prima volta che si verificano incidenti nell'ambito delle ditte appaltatrici. Più di una volta il sindacato ha puntato il dito sulla necessità che a operare nel delicato e pericoloso settore dell'amianto siano ditte specializzate, anziché preferire interventi a basso costo ma ad alto rischio per chi vi opera.
Di fronte ai sei operai intossicati, la risposta delle due ore di sciopero di venerdì sembra inadeguata: "Noi abbiamo attivato le nostre strutture sindacali - precisa Rocco Palombella della Fiom di Taranto - per cercare di metter al centro della nostra iniziativa la sicurezza in fabbrica. Gli ultimi infortuni non sono legati esclusivamente alla mancanza di professionalità, perché i lavoratori sono professionalizzati. Invece manca da parte aziendale un piano di formazione sulla sicurezza e una sensibilità sul tema della salute". Ma i numeri degli incidenti all'Ilva parlano da soli: 1.698 nel '98, 2.217 nel '99, con un aumento del 35%. Il '98 inoltre ha fatto registrare ben 7 morti bianche.
Blocco totale delle tre linee della metropolitana, adesione del 30% dei mezzi di superficie dell'Atm. Traffico lumaca, ma meno incazzatura tra gli utenti rispetto al 12 maggio: stavolta il blocco della metropolitana non è stato una sorpresa. Sono gli effetti dello sciopero di 4 ore al mattino, 4 alla sera proclamato dalla Faisa-Cisal. Il sindacatino conta solo 200 iscritti, ma basta che una sigla qualsiasi appenda un cartello con su scritto "sciopero" e i macchinisti della metropolitana aderiscono "individualmente" in massa. E' il risultato del braccio di ferro tra azienda e giunta Albertini da una parte e lavoratori Atm dall'altra (8.900 dipendenti, per la metà personale viaggiante). Lo scontro prende le mosse dal nuovo contratto nazionale che il presidente dell'Atm Bruno Soresina (ex direttore dei Federmeccanica) e il sindaco Albertini (ex presidente di Federmeccanica) vogliono applicare senza trattare neppure una virgola in sede locale. Il che comporta orari più lunghi per lo stesso salario, un notevolissimo passo indietro rispetto agli accordi aziendali passati. Ecco spiegato in pillola perché l'adesione agli scioperi è così alta. Attualmente i macchinisti lavorano 32 ore la settimana; l'Atm ne esige 36 a parità di salario, è disposta ad aggiungere qualcosa se ci si avvicina alle 39 previste dal contratto. Inoltre, la programmazione dei turni e degli orari che prima veniva fatta su 7 settimane è passata a 17. Per un complicato meccanismo dei recuperi compensantivi, l'effetto è che ogni conducente deve lavorare 4 giorni e mezzo in più all'anno.
Un camion ha investito ieri alcuni operai in presidio all'ingresso degli impianti Fiat Iveco di Brescia, ferendone cinque. Erano lavoratori del reparto presse, ceduto nel 1999 dalla Fiat a un'altra azienda, la Mac del gruppo Magnetto, secondo una classica operazione di "esternalizzazione" sotto lo stesso tetto di casa. Erano in agitazione per il rinnovo del contratto integrativo. Un autista di una cooperativa di trasportatori francese, la Cilomate, pur con gli operai di fronte, non ha frenato in entrata nella fabbrica; fortunatamente i cinque feriti non sono in gravi condizioni. Lo sciopero alla Mac è stato prorogato fino a questa mattina, mentre alla notizia dell'"incidente" i 4300 lavoratori del sito Iveco hanno proclamato subito un'ora di sciopero. E oggi assemblea generale in solidarietà a quelli della Mac. Per Osvaldo Squassina, segretario Fiom di Brescia, "è la Fiat responsabile del clima di tensione che si sta creando alla Mac". Lì infatti il negoziato sul contratto integrativo si è bloccato su un solo punto: gli aumenti salariali. Alle 200 mila lire mensile chieste dal sindacato, la Mac risponde con un'offerta massima di 13 mila lire. "Il problema - continua Squassina - è che la Fiat sta esercitando un veto sulla direzione della Mac perché un aumento 'troppo elevato' potrebbe essere un 'cattivo esempio' per i lavoratori Fiat che lavorano fianco a fianco con quelli della Mac". Alla faccia dell'autonomia societaria.