Università Ca’ Foscari di Venezia

Facoltà di Economia

Corso di Laurea in Economia Aziendale

 

 

 

 

Tesi di laurea

 

Il contributo del

pensiero comunitarista

all’etica degli affari

 

 

 

Relatore

Ch.mo Prof. Danilo Bano

 
 

Laureando

Dario Zanon (mat. 744994)

 

 

Anno accademico 1995-96

 

 

 

 

Riconoscimenti

 

 

Il riconoscimento è un momento fondamentale del vivere comunitario. Significa coscienza dell’appartenenza e attribuzione del merito.

Questo studio non sarebbe stato possibile senza il prezioso aiuto delle molte persone che hanno partecipato con consigli, commenti, documenti altrimenti introvabili. Esse condividono i meriti di questa ricerca. La responsabilità è mia soltanto.

Il professor Robert Hall (West Virginia University) e il professor Robert Fisher (Westminster College-Oxford e Association for the Study of Persons) hanno suggerito originali percorsi di studio. Al professor Douglas Rasmussen (University of Wiskonsin-Madison), al dottor Aeon Skoble (University of Central Arkansas) e al professor Tibor Machan (Auburn University) devo numerosi spunti di critica al comunitarismo. Il dottor Greg Smith (University of East London e consigliere della Association for Research in Voluntary And Community sector) ha enormemente arricchito la bibliografia relativamente al concetto di comunità e all’attualità politica. I professori Salvatore Veca (Università di Pavia), Lorenzo Sacconi (Università di Milano-Bocconi) e Lucio Cortella (Università di Venezia) mi hanno aiutato ad introdurre il comunitarismo nell’etica applicata. Mi sono risultate preziose le strutture delle facoltà di Scienze politiche ed Economia dell’Università di Pavia e dell’Istituto San Raffaele di Milano (assistito in particolare dal dottor Luciano Fasano). L’organizzazione dei Communitarians, coordinata dalla gentile signora Vanessa Hoffman, è stata sempre molto pronta.

Qualsiasi studio non sarebbe stato possibile senza quella più ampia comunità di affetti: la famiglia (che mi ha donato un bel pezzo di storia), gli amici (alcuni dei quali hanno persino pazientemente letto e corretto questo lavoro e soprattutto seguito i miei discorsi), infine (le cose dette per ultime sono le più importanti insieme a quelle dette per prime) una infinita storia d’amore.

Dario Zanon

Venezia, ottobre 1996

 

 

Indice

 

 

Riconoscimenti

Indice dettagliato

Introduzione

Parte prima. Il pensiero comunitarista, un’alternativa al liberalismo

Capitolo primo. Una mappa del dibattito

Capitolo secondo. L’appartenenza alla comunità

Parte seconda. Fondamenti comunitaristi per un’etica degli affari

Capitolo terzo. I livelli del confronto

Capitolo quarto. Proposte comunitariste di etica degli affari

Conclusioni

Bibliografia

 

 

 

Indice dettagliato

 

 

Riconoscimenti

Indice

Indice dettagliato

Introduzione

Il piano dell’opera.

Parte prima. Il pensiero comunitarista, un’alternativa al liberalismo

Capitolo primo. Una mappa del dibattito

L’oggetto della ricerca

Una mappa

Evoluzione per tappe del pensiero

La posizione liberale.

Il primo comunitarismo.

La risposta liberale.

Il tentativo di sfilare il liberalismo dal confronto etico.

La critica all’oppressività.

Il neo-comunitarismo.

Il movimento politico dei Communitarians.

Avvicinamento delle posizioni verso una terza via.

Attualità del pensiero comunitarista.

Dibattito a due dimensioni

La dimensione normativa.

La dimensione metodologica.

Alle radici del pensiero comunitarista

La concezione del mondo

La critica alla modernità.

Le vie del postmoderno.

La riabilitazione del pre-moderno.

La tradizione aristotelica.

Riforma della modernità.

La rappresentazione del mondo

La dimensione morale.

Critica alla scienza moderna.

Verso il ricongiungimento descrittivo-prescrittivo.

Assunzioni

Etica e normativa.

Tipi.

Radicalismo?

Completezza.

Capitolo secondo. L’appartenenza alla comunità

L’etica delle virtù

L’individuo liberale è vuoto (non ingombrante)

La posizione liberale: la posizione originale.

La critica comunitarista: emotivismo.

Etica teleologica

La felicità.

La comunità fa la vita buona

Le virtù al plurale

Etica del carattere

La separazione delle sfere.

L’educazione alle virtù.

L’individuo incorporato

L’individuo non è libero, è costituito dalla comunità

Il riconoscimento.

La capacità di astrazione.

La replica liberale.

Dalla comunità liberale alla visione comunitarista

La comunità del liberalismo deontologico.

La comunità comunitarista.

La neutralità

La neutralità politica (la politica del giusto vs. la politica del bene)

La posizione liberale.

La giustizia.

La critica comunitarista.

La neutralità morale (pluralismo)

La posizione liberale.

La critica comunitarista.

Universalismo e diritti

La critica comunitarista.

Minimalismo liberale.

Comunità e critica

I temi della critica

Nostalgia.

Conservazione.

Integrazione.

Gerarchia.

Il concetto di comunità

Una prima approssimazione.

Una proposta di interpretazione.

Una risposta alle critiche.

La critica metodologica

Anacronismo o utopia.

Parte seconda. Fondamenti comunitaristi per un’etica degli affari

Capitolo terzo. I livelli del confronto

L’ambito eticamente significativo

Macro etica degli affari

Il contributo comunitarista: la giustizia.

Il contributo comunitarista: congiunzione di valori etici ed economici.

Delle perplessità.

Micro etica degli affari

Il contributo comunitarista: moralizzazione massima.

Delle perplessità.

Il contributo comunitarista (ripresa): la competenza manageriale.

Delle perplessità (ripresa).

Etica del ruolo degli affari

Teorie rivali

Cosa non è?

Non è una teoria del comportamento organizzativo o manageriale.

Non è una teoria di Corporate Culture.

Non è rievocazione nostalgica della comunità perduta.

Gli antagonisti

Teorie dell’impresa amorale.

Responsabilità negativa.

Diritti e politica pubblica.

Teorie della persona o dell’agente morale.

Responsabilità affermativa: Corporate Social Responsability.

Utilitarismo.

L’etica basata sui principi.

Capitolo quarto. Proposte comunitariste di etica degli affari

Le comunità annidate

L’impresa è una comunità

Il business è una pratica

L’impresa è immersa nella società

Il modello semplice.

Il modello complesso.

L’etica del carattere

L’unità dell’agire e dell’etica

Le virtù

Dall’efficienza all’eccellenza: le virtù

Virtù e felicità.

Una lista di virtù?

Areté e techné.

Dalla concorrenza al merito

Variabili decisionali a confronto.

Meritocrazia.

Virtù contro la responsabilità?

Professionismo.

Collaborazione: dalla giungla all’amicizia.

Collaborazione contro competizione?

La prudenza o ragion pratica

La critica al fine del profitto

L’etica del profitto

La posizione friedmaniana.

Fare i conti con la "friedmanite".

Le risposte comunitariste.

Dalla responsabilità sociale all’appartenenza

Il fine degli affari.

La carità incomincia in casa.

Dalle strategie ai fini.

La virtù va contro al profitto?

Conclusioni

Pregi dell’approccio comunitarista all’etica degli affari.

Una filosofia ...fuori luogo?

L’egemonia aziendale dell’orizzonte di senso.

Il futuro incerto della comunità.

Bibliografia

Filosofia

Dibattito comunitarismo-liberalismo

Filosofia e strumentazione generale

Risorse elettroniche

Etica degli affari

Etica degli affari secondo etica comunitarista o delle virtù

Etica degli affari e strumentazione generale

Ulteriore strumentazione

Tendenze

Attualità

Verso un nuovo paradigma

 

 

 

 

 

 

 

 

 

"Viviamo in un’epoca assai poco filosofica..."

(Hans-Georg Gadamer)

 

 

Introduzione

Noi crediamo che i managers e i professori delle business schools debbano ritornare a più fondamentali questioni sulla natura dell’essere umano e delle comunità che siamo in grado di creare.

(R. Edward Freeman, Jeanne Liedtka)

 

 

Relativismo e separazione sfere

"Noi oggi parliamo di crisi di valori, ma pensare il bene [la morale] in termini di valori è già di per sé motivo di crisi" [Natoli 96: 143]. Equivale a pensare che il soggetto si sceglie il proprio bene, non ne esiste una concezione condivisa ma coesistono modelli diversi di giudizio e criteri d’azione. Questo relativismo dei valori è un prodotto della modernità. Per gli antichi (Aristotele, i medioevali) il bene coincide con l’essere: ens et bonum convertuntur, e va esercitato piuttosto che discusso.

L’etica moderna rinuncia al bene comune a favore della pace. Cerca infatti di elaborare delle regole che assicurino la coesistenza pacifica dei diversi valori laddove questi valori possano confliggere. Queste regole, per essere accettate da tutti, devono essere universali, e hanno trovato la più chiara manifestazione nei diritti. Per questa via l’agire umano è suddiviso in sfere distinte, ciascuna regolata da criteri etici speciali.

Una di queste sfere è la sfera degli affari, dell’attività lavorativa e professionale. Una volta riscattata dal pregiudizio che la consacrava all’amoralità ("un libro di etica degli affari dev’essere un libro ben breve"), ha goduto di una florida disciplina etica.

Etica degli affari dominante: separazione + relativismo

L’etica degli affari, nella tradizione che si è consolidata predominante, aderisce alle logiche della modernità, nella separazione delle sfere che essa stessa incarna (l’etica degli affari è un’etica speciale, distinta dall’etica comune: il metro di bontà applicato in famiglia è diverso da quello in vigore nella vita pubblica o in ufficio) [v. cap. 4, pag. *], nel relativismo etico (consta di diverse scuole di pensiero tra le quali l’operatore deve arbitrariamente o ideologicamente scegliere, e così tra i casi e i criteri difronte al dilemma concreto che deve affrontare) [v. cap. 3, pag. *].

Addirittura tradisce la conservazione implicita di quel pregiudizio di amoralità cui avrebbe dovuto contrapporsi. Il mondo degli affari è governato da proprie logiche —così presuppone— illuminate innanzitutto dai criteri del profitto e dell’efficienza eletti a vero e proprio criterio morale (e rappresentati dalla figura del manager weberiano, cui si attribuisce la competenza di promuovere l’efficienza a prescindere dai fini che deve servire) [v. cap. 4, pagg. *, *], che vanno contemperate con i bisogni dei soggetti coinvolti. L’etica degli affari cerca cioè di elaborare un quadro normativo (più o meno formale) di diritti e responsabilità che imbriglino queste logiche "naturali" in modo da tutelare gli altri soggetti.

La presa di coscienza che nella nostra società le interrelazioni tra i soggetti si intensificano e si complicano sempre di più ha probabilmente concorso a rinnovare l’interesse per la materia, volta ad esplorare come la dimensione etica valga come via per governare questa complessità.

Considerazioni di quest’ordine alimentano una concezione strumentale dell’etica degli affari (una sorta di marketing dell’etica) volta ad assicurare una maggiore stabilità dell’ambiente e grazie a questa favorire lo sviluppo dell’impresa (ma al limite anche della società). Essa infatti mira a garantire la pacifica convivenza dei soggetti e l’affidabilità delle relazioni (tra impresa e ambiente, tra direzione e lavoratori o proprietà, tra imprese). Queste condizioni favorirebbero i soggetti: la vita privata dei lavoratori e i loro credo sono salvaguardati, le ragioni della società e la natura rispettate.

L’adesione da parte dell’impresa a vincoli etici, che in quanto tali costituiscono un onere, si giustifica come strumento di economicità, vuoi perché riduce le fonti di conflittualità (per esempio tra management e dipendenti), vuoi perché soddisfa una domanda del mercato (di prodotti ecologici), vuoi perché abbassa i costi di transazione grazie all’instaurazione di fiducia (tra imprese o tra impresa e consumatore).

Adesione alla modernità e al liberalismo

L’adesione alle logiche della modernità sottese dall’etica degli affari dominante (che identificheremo come etica dei principi) è filtrata attraverso l’imprinting liberale che accomuna una varietà di posizioni, solo apparentemente distanti o persino storicamente antagoniste (come il rifiuto di ogni responsabilità sociale di Milton Friedman e la stakeholders theory) [v. cap. 3, pag. *].

Per i fini che ci proponiamo la matrice liberale (a sua volta molto composita) è caratterizzata dal presupporre individui autonomi e razionali (nel senso detto, cioè capaci di astrazione dal contesto e critica, non necessariamente in senso utilitaristico o contrattualistico), e dal suggerire un’etica delle regole (cioè ispirata a criteri di giudizio esterni all’attività e universali) e deontologica (indipendente dal fine specifico dell’attività).

Il proposito

Il proposito di questa ricerca è suggerire un approccio alternativo (e più genuinamente interdisciplinare) all’etica degli affari improntato a quella che costituisce nell’ultimo decennio la principale filosofia altrettanto alternativa al liberalismo: il comunitarismo.

Il comunitarismo in oggetto (altre forme si sono avute in passato) si sviluppa a partire dagli anni Ottanta negli Stati Uniti d’America [v. cap. 1, pag. *]. Si innesta in quel movimento di superamento della modernità che passa attraverso il recupero di tradizioni di pensiero antiche [v. cap. 1, pag. *]. Si contrappone infatti al liberalismo moderno (che in larga parte informa di fatto le istituzioni e i modi di vita statunitensi) e alla filosofia analitica, proponendo una rilettura della tradizione aristotelica (che comprende la Scolastica medievale) dell’etica delle virtù, ma approda all’attualità attraverso il contributo del movimento politico di Amitai Etzioni che ne condivide numerose istanze.

Cardine del comunitarismo: appartenenza

Il cardine attorno al quale matura il pensiero comunitarista è il tema dell’appartenenza al contesto comunitario, individuato lungo la dimensione sincronica delle pratiche e lungo la dimensione storica delle tradizioni [v. cap. 2, pag. *].

L’individuo non è autonomo: la sua identità e i suoi criteri di giudizio sono costituiti dalla comunità nella quale vive [v. cap. 2, pag. *]. La sua stessa razionalità non è astratta e scientifica, ma intrisa di parametri morali ed affettivi, ereditati dal contesto nel quale vive e dal quale proviene [v. cap. 1, pag. *].

Comunitarismo: etica teologica

L’etica delle virtù comunitarista è un’etica teleologica [v. cap. 2, pag. *], dove cioè i criteri di comportamento e di giudizio sono forgiati dalla pratica che l’individuo svolge nell’ambito della comunità. L’agire dell’individuo, nel suo essere vicino di casa o operatore professionale, è ispirato dal contributo che egli può dare alla comunità mediante il ruolo svolto, non è frammentato in sfere che obbediscono a principi differenti e ordinati da una gerarchia di principi universali.

Comunitarismo: etica del carattere

È inoltre un’etica del carattere [v. cap. 2, pag. *]: i criteri etici fanno parte della stessa vita sociale, dello stesso appartenere alla comunità, appresi attraverso l’educazione alle virtù, in parte formale insegnamento in parte pratica stessa. Perciò non sono subiti dall’individuo come imposizioni necessarie per evitare che le sue naturali inclinazioni entrino in collisione con quelle degli altri. Fa parte delle sue naturali inclinazioni di "animale politico" di agire secondo virtù, è questo ciò che lo rende felice. E le virtù sono forgiate dall’appartenenza comunitaria, perciò non si danno occasioni di conflitto (se non come patologico).

Comunitarismo nell’etica degli affari

Il punto di vista comunitarista sovverte l’etica degli affari tradizionale. La sovverte innanzitutto perché la sottrae ad una disciplina speciale, soggetta a criteri diversi da quelli adottati per altre sfere dell’agire in considerazione della particolarità delle logiche che reggono il mondo degli affari. Il discorso comunitarista sull’etica degli affari non può che essere un discorso sull’etica tout court.

Certo, il mondo degli affari presenta dei protagonisti e dei problemi peculiari, ma i criteri etici devono essere gli stessi che in altre attività. Non si può dare insomma che l’onestà sia comunemente una virtù ma non necessariamente negli affari dove invece lo è la spietatezza. Il nostro sforzo è quello di cogliere la portata di questo punto di vista a fronte della peculiarità di questo ambito.

Se i criteri etici sono uniformi, e se la separazione delle sfere è assorbita nella dimensione comunitaria, evidentemente le logiche che reggono gli affari non possono soggiacere all’idea dominante del profitto (valida solo per gli affari, mentre nel vivere quotidiano obbediamo agli affetti, alla solidarietà, agli ideali e ai progetti di vita). Allora tutta la questione della responsabilità sociale d’impresa (corporate social responsability) va ripensata alla luce dell’immersione dell’impresa e delle persone nella comunità [v. cap. 4, pag. *].

Emergono così le tesi dell’eccellenza (invece dell’efficienza) [v. cap. 4, pag. *] e della collaborazione (invece dell’agonismo o della cooperazione interessata) [v. cap. 4, pag. *], che sottendono un radicamento forte nell’appartenenza comunitaria. Si profilano non solo come "eticamente corrette" ma anche coerenti con le teorie manageriali e con la realtà economico-sociale che si va profilando.

Critiche

L’approccio comunitarista non è naturalmente esente da critica e soprattutto si è prestato a frequenti fraintesi. L’adesione ad una visione morale comune può infatti venire interpretata come tendenza all’integralismo, all’omologazione culturale che rifiuta il pluralismo ed espelle lo "straniero". L’attaccamento alla tradizione è stato letto come rifiuto del cambiamento e preservazione dello status quo.

La negazione della separazione delle sfere dell’agire è vista come minaccia contro la tolleranza, confusione della dimensione morale e della dimensione più operativa che attribuisce un potere autoritario ai dirigenti in forza della legittimità morale.

Comunitarismo: recente

Il comunitarismo è una tradizione di pensiero tutto sommato recente (nonostante le antiche radici) che non ha ancora maturato le risposte a tutte le obiezioni. Inoltre è piuttosto eterogenea al suo interno.

Prende avvio da un primo movimento, che diciamo filosofico (MacIntyre, Sandel, Taylor), centrato sulla critica dei fondamenti filosofici del liberalismo e della modernità. La successiva evoluzione, fino a configurare ciò che alcuni denominano neo-comunitarismo, tenta una replica all’insegna di un pluralismo ancora più forte di quanto possano permettersi i liberali (viziati dalla concezione di tolleranza come indifferenza verso le diversità, neutralità persino verso i nemici del pluralismo stesso).

Il comunitarismo acquista notorietà grazie ad un secondo movimento, che diciamo politico-civile, denominato Communitarians e fondato da Amitai Etzioni. Le rivendicazioni sono per lo più politiche appunto, volte a promuovere l’autogoverno della (piccola) comunità e contemporaneamente l’idea di responsabilità contro l’inflazione di diritti che i regimi liberali hanno causato. Grazie all’adesione di importanti leader politici (da Clinton a Blair) trova ampia eco anche nella stampa divulgativa.

Questo studio ambisce a dar conto di entrambe le componenti del comunitarismo, sottolineando così la peculiarità del pensiero comunitarista rispetto all’ampia corrente neoaristotelica e della "riabilitazione" della filosofia pratica. L’enfasi sulla comunità e sulla responsabilità insita nell’appartenenza ne sono aspetti caratterizzanti.

Continuum liberalismo-comunitarismo?

Pare possibile rintracciare una implicita risposta alla critica liberale nell’avvicinamento delle teorie antagoniste che lo svilupparsi del dibattito ha evidenziato. Comunitarismo e liberalismo possono apparire così estremi di un continuum.

A nostro avviso questo è sensato per ciò che concerne l’attività e la strumentazione politica, dove è possibile individuare lungo una scala di sfumature un bilanciamento tra responsabilità e diritti, tra spessore della comunità e autonomia del singolo, per cui è possibile suggerire (così Etzioni) una maggiore dose di comunitarismo in un Paese troppo liberale come gli Stati Uniti mentre un Paese tanto illiberale quale la Cina abbisognerebbe di una maggiore dose di liberalismo.

Sotto una prospettiva più complessiva e comprensiva, più filosofica se vogliamo, questa spiegazione è fuorviante, poiché l’antagonismo tra i due approcci risale ad una divisione sui fondamenti della natura umana: di individui autonomi, capaci di astrarsi dal contesto, liberi e capaci di scelta, razionali, conflittuali per i liberali; di persone inevitabilmente formate dalla comunità, impossibilitati ad astrarsi, uniti da una comune morale, da una comune visione del mondo, da un ideale condiviso di felicità, cioè di virtù per i comunitaristi. Le risposte ai problemi che liberalismo e comunitarismo affrontano seguono percorsi più articolati.

Individuazione comunità

Il fulcro della proposta comunitarista, ma anche delle difficoltà che incontra, sta nell’individuazione della comunità. Il comunitarismo cerca di dar conto della formazione dell’identità, dell’acquisto di senso da parte delle persone rispetto alle attività praticate. L’operatore degli affari non agisce soltanto in vista della rincorsa al profitto allo stipendio: la sua attività rientra (o dovrebbe rientrare) in una più ampia concezione che ha della sua vita, in vista del perseguimento della felicità (vissuta nell’unico modo possibile: quello di stare insieme alla propria gente).

Il concetto di comunità viene deliberatamente (secondo una scelta largamente condivisa nella letteratura) lasciato nel vago, al fine di concentrare l’attenzione sulla portata filosofica della proposta più che sulla sua più immediata applicabilità o sui risvolti sociologici. Nel seguito sarà in qualche modo definito per approssimazioni successive, evidenziando via via i limiti cui si espone. Infine accenneremo al futuro possibile e problematico della comunità nel quadro delle trasformazioni socio economiche cui volgiamo.

Il piano dell’opera.

L’esposizione della ricerca si articola in due parti benché il discorso sia sostanzialmente unitario (tanto che i frequenti rimandi consentono una lettura casuale). Nella prima parte (i primi due capitoli) daremo conto dei fondamenti filosofici del comunitarismo prendendo come termine di paragone il liberalismo. Nella seconda parte (capitoli tre e quattro) la conoscenza della filosofia comunitarista servirà a tratteggiare una proposta originale di etica degli affari.

Capitolo 1

Il primo capitolo esplicita le assunzioni della ricerca, riconoscendone la non neutralità e l’intenzione di sottoporla a critica. Inoltre individua il comunitarismo in modo da distinguerlo da altre posizioni anti-liberali, postmoderne o legate all’idea di comunità, e da coglierne l’attualità.

Della filosofia etica distinguiamo due dimensioni che emergeranno come una traccia nella discussione. La dimensione metodologica è relativa a come la teoria sappia dare lettura della realtà sociale. Per il comunitarismo le persone non sarebbero quegli esseri autonomi e razionali che il liberalismo presuppone. La dimensione normativa concerne ciò che la teoria propone come desiderabile. È questa la componente più caratteristica dell’etica com’è comunemente intesa, ed è questo il lato che verrà approfondito, affermando l’etica delle virtù imprescindibili dall’appartenenza ad uno specifico contesto.

Inoltre lo stesso capitolo tenta di tracciare una mappa di riferimento che dia conto dell’evoluzione (concettuale più che storica) del pensiero comunitarista in costante confronto con il liberalismo. Si iscrivono infatti in un dibattito (che si deve ritenere inesauribile) di cui distinguiamo alcune tappe: una prima fase del comunitarismo contro le fondamenta del liberalismo, la critica tanto da parte liberale che da posizioni vicine al comunitarismo stesso (come il versante femminista), una nuova fase neocomunitarista in replica, cui si aggiunge il movimento politico dei Communitarians.

Capitolo 2

Il secondo capitolo entra nel vivo della critica e della proposta comunitarista che verte sul tema dell’appartenenza alla comunità. Rispetto alla dimensione metodologica l’individuo è immerso nella comunità, le sue decisioni non possono astrarsi dal contesto in cui è vissuto e in cui opera.

Ma anche ammesso che la realtà fosse quella descritta dal liberalismo (entriamo nella dimensione normativa) l’individuo che ne risulta sarebbe sì libero di agire ma non avrebbe alcuna guida ai suoi comportamenti. In nome della tolleranza delle diverse concezioni morali esso non sa offrire che un quadro di regole per assicurarne la convivenza. Le persone attuerebbero azioni che non sono che mera espressione esistenzialista di preferenze e passioni (emotivismo) e, abbandonate all’incommensurabilità, non potrebbero dare giudizi morali, cioè non sarebbero in grado di dialogare con gli altri sulla base di una comune comprensione del mondo.

L’etica comunitarista è invece teleologica. I criteri morali sono tesi ad una concezione della felicità condivisa dalla comunità, che i greci chiamavano eudaimonia e che viene ripresa dai cristiani come beatitudine. La felicità informa le virtù e l’agire secondo virtù costituisce la felicità

Il principio cardine del liberalismo è la neutralità, sia essa relativa al ruolo dello Stato nei confronti delle differenti visioni del mondo dei cittadini, sia essa fondamento della tolleranza come indifferenza. L’assunto per cui gli individui possiedono concezioni morali disparate e potenzialmente in conflitto si risolve nel rifiuto di giudicarle. La sacra autonomia degli individui è tutelata da regole universali nella forma dei diritti. Ma questo mortifica la responsabilità e i fondamenti morali. Il comunitarismo inoltre contesta la possibilità di precetti universali, configurando una forma di razionalità pratica basata sulla virtù della prudenza, la phronesis, che di volta in volta consenta di valutare il caso particolare e il mezzo da attuare alla luce del fine ultimo, la felicità.

Capitolo 3

Il terzo capitolo introduce il comunitarismo all’etica degli affari per approssimazioni successive. La disciplina può essere affrontata a diversi livelli di studio. A livello di macro etica degli affari il tema più rilevante è la giustizia economica. Il comunitarismo non solo ha da contestare al liberalismo una debolezza teorica: esso sostiene parimenti visioni inconciliabili della giustizia. Propone inoltre una concezione del valore dei beni che ne incorpori il peso morale in vista del contributo al benessere collettivo, e la subordinazione dell’economia-strumento a saperi più orientativi dell’agire, come la politica, l’etica. A questo livello però, peraltro poco incline alla responsabilità dell’individuo, molta dell’originalità comunitarista viene a mancare, confondendosi con altre posizioni anticapitalistiche.

A livello di micro etica degli affari la tentazione di considerare l’impresa come comunità è forte. Il fine e la fonte di felicità e virtù sarebbero perciò costituiti dall’impresa stessa. Oltre che irrealistico (gli affari sono un momento importante ma certamente non esaustivo della vita delle persone) è decisamente indesiderabile.

Il livello che si rivela, oltre che più solido rispetto a critiche intrinseche, più fertile è quello definito come etica del ruolo degli affari, dove la comunità eticamente significativa è la società più ampia, della quale fanno parte anche i soggetti impegnati negli affari.

Le principali teorie antagoniste di etica degli affari (dall’utilitarismo al contrattualismo, dalla teoria dell’impresa amorale alla stakeholders theory) sono accomunate dalla matrice liberale, centrate su principi universali, rispetto ai cui limiti il comunitarismo costituisce l’alternativa.

Capitolo 4

Il quarto capitolo approfondisce i temi dell’etica degli affari secondo l’ottica comunitarista. L’impostazione tradizionale e dominante continua a considerare come naturale per gli affari una vera e propria etica dell’efficienza e del profitto da contemperare eventualmente con esigenze di responsabilità sociale.

L’idea di virtù diventa la chiave per affermare da una parte, entro le relazioni tra i soggetti degli affari, il fine dell’eccellenza, dall’altra, rispetto all’essere i soggetti immersi nella comunità più ampia, la condivisione del fine del fiorire umano (o ancora felicità).

La questione della responsabilità sociale, cioè dell’impatto dell’agire dell’impresa o del professionista sulla società, viene così riformulata in termini di loro appartenenza allo spirito comunitario. Questo comporta in termini pratici non solo prodotti inoffensivi per l’ambiente, ma contributo del lavoro a creare significato, a partecipare al progetto della comunità, e contemporaneamente reciproca responsabilità ad impegnarsi al massimo delle proprie capacità.

L’eccellenza infatti va intesa proprio come perseguimento del più alto livello di soddisfazione della pratica svolta. Il criterio di valutazione non è esterno (e con pretese di neutralità come l’efficienza) ma interno alla pratica. Perciò non richiede la rincorsa di standard imposti a fronte di incentivi, ma il miglioramento della propria attività va nella direzione della realizzazione della felicità delle persone.

Il contesto nel quale ha luogo l’etica dell’efficienza è la concorrenza, intesa come lotta per la supremazia di uno sull’altro, sullo sfondo della metafora della guerra, così comune nella letteratura manageriale. L’etica delle virtù o dell’eccellenza prevede che un protagonista possa vincere con se stesso senza instaurare rapporti antagonistici con gli altri, ma anzi collaborando con essi.

L’ostacolo principale al cambiamento dell’etica degli affari è il permanere del mito del profitto. In fondo rappresenta la ragione per cui a lungo si è ritenuto che l’etica non facesse per gli affari, dove tutto è lecito tranne ciò che la legge vieta.

Ciò che viene contestato non è il profitto di per sé, condizione di economicità dell’impresa e in qualche modo stimolo al miglioramento delle persone, è farne un criterio etico (come fanno Friedman e i suoi seguaci più o meno dichiarati).

Questioni aperte

Questa ricerca non lascia aperte varie questioni [v. cap. 1, pag. *]. Solo negli ultimissimi anni è stata prodotta letteratura in merito ad un approccio comunitarista all’etica degli affari, perciò gran parte degli sforzi sono originali. Il proposito è di stabilire i fondamenti della nuova impostazione ed esplorare la portata del fenomeno comunitarista, senza la pretesa di esaurire l’argomento. Non saranno perciò indagate quali virtù enfatizzare nella vita professionale (come peraltro solo pochi autori tentano e a partire da tradizioni ben specifiche, come il Cristianesimo).

Ma anche a livello teoretico scegliamo di concentrarci sulla dimensione normativa a parziale scapito di quella metodologica, sottolineando che ci occupiamo di etica applicata, non sociologia o psicologia. Il focus sarà sull’appartenenza alla propria comunità, ma ovviamente un lungo discorso potrebbe essere imbastito sui rapporti tra comunità diverse, tra diverse tradizioni etiche o scientifiche.

Conclusioni

Cercheremo di concludere verificando l’attualità del comunitarismo e la coerenza con il paradigma socio-economico emergente. Torneremo sul delicato tema della comunità, con qualche accenno su quale forma possa assumere nella società dell’informazione. È questa la più importante delle questioni sospese.

In fondo l’esistenza della comunità è contemporaneamente la motivazione del comunitarismo (il bisogno di socialità che vada oltre l’interesse, la fonte di comprensione morale e di significato) e il potenziale fattore di crisi (esiste veramente una comunità così pregnante rispetto alle individualità?). Ma è anche il nodo critico e problematico che la società di qui a venire dovrà comprendere e sciogliere.

 

 

 

 

 

Parte prima

 

Il pensiero comunitarista,

un’alternativa al liberalismo

Capitolo primo

Una mappa

del dibattito

Noi liberali siamo liberi di scegliere, abbiamo il diritto di scegliere, ma non abbiamo criterio per governare le nostre scelte, salvo la nostra propria interna comprensione dei nostri interni interessi e desideri. Non possiamo perciò spiegare ciò che abbiamo fatto ieri e predire ciò che faremo domani, non possiamo sederci assieme e raccontare storie comprensibili.

(Michael Walzer)

 

 

In questo capitolo sarà precisato l’oggetto di studio, esplicitando le assunzioni alla base della ricerca e offrendo degli schemi di lettura del fenomeno studiato. Tenteremo di tracciare una mappa del dibattito comunitarismo-liberalismo che, per quanto semplificata, risulti utile a collocare i discorsi sia nel contesto spazio-tempo sia rispetto alle tradizioni culturali. Questa mappa introduce i temi della discussione che saranno affrontati compiutamente solo nei capitoli a venire (da qui l’abbondanza di rimandi), perciò la prima lettura potrà risultare difficile, ma si propone come un riferimento su cui tornare in seguito e un’ossatura sulla quale disporre i temi mano a mano che verranno approfonditi.

 

L’oggetto della ricerca

What?

Questa ricerca studia quella corrente filosofica nota come pensiero comunitarista: i suoi fondamenti e il contesto dove si svolge, prima delle sue implicazioni nell’etica degli affari. Questa denominazione comprende un ampio novero di autori anche molto diversi tra loro, accomunati dalla critica della teoria e della pratica liberale a favore di una visione del mondo imperniata sulla comunità di appartenenza.

When ?

Fiorisce negli anni Ottanta nel Nord America ed è attualmente al centro di un importante dibattito. Le coordinate di tempo (dagli anni Ottanta in qua) e di luogo (Stati Uniti e Canada) aiutano a distinguerlo da altre scuole di pensiero o di posizione in qualche modo contrarie al liberalismo (il marxismo, per fare il caso più noto) [cfr. Ferrara 92: xi-xii].

Where?

La collocazione geografica ha una particolare rilevanza in quanto la realtà statunitense rispecchia quella criticata dai comunitaristi molto più fedelmente di quella europea. Sia in quanto a pratica, tendenzialmente più individualista, focalizzata sui diritti, modello di pluralismo culturale che rischia persino la deflagrazione, mentre in Europa resiste una rete di solidarietà che addirittura potrebbe valergli da vantaggio competitivo [cfr. Henzler 91]. Sia dal punto di vista della tradizione teorica: proprio nel mondo anglosassone la filosofia analitica ha avuto maggior seguito [Boradori 91], e il liberalismo sarebbe la più viva e genuina continuazione del progetto illuminista [Gray 94].

L’individualismo affonda nella tradizione del popolo americano così lontano che i rischi di disgregazione di una comunità genuina erano stati evidenziati fin dal 1830 da Alexis De Tocqueville, e da allora "l’individualismo è cresciuto come un cancro" [Bellah 85: vii]. Tanto più che proprio quelle istituzioni indicate da Tocqueville come fondanti la moralità americana, come la famiglia e la religione, hanno iniziato un costante declino [Etzioni 96].

Eterogeneità

Il pensiero comunitarista non è affatto omogeneo. Si è sedimentato in tempi diversi, gli autori muovono da background differenti, sia per campo di ricerca (dalla filosofia alla sociologia) sia per eredità scientifica (dalla modernità a qualche forma di postmoderno che magari passi per il recupero di tradizioni antiche), l’intensità della critica è diversa.

Comunitarismo filosofico e politico

Una prima utile distinzione va operata tra quello che possiamo chiamare comunitarismo filosofico e un comunitarismo movimentista-politico. La distinzione riguarda tutti gli aspetti indicati: il primo è anche storicamente il più lontano, è decisamente materia di filosofia, si innesta in qualche filone volto a superare la modernità, per lo più recuperando le radici aristoteliche e medievali, è infine tendenzialmente più radicale. Il secondo nasce agli inizi dei Novanta come movimento politico dei Communitarians, è immerso nelle logiche della modernità ed è più interlocutorio, disposto a mediazione.

È sorprendente che tra i due comunitarismi non vi sia addirittura dialogo, benché diversi filosofi abbiano finito per aderire al movimento politico e che già nella prima fase, durante gli anni Ottanta, autori come Sullivan e Crowley erano attivi sul fronte civico, a difesa della piccola comunità, della partecipazione e della responsabilità civile, temi poi incorporati nella proposta politica comunitarista.

Riteniamo più proficuo ricercare gli aspetti in comune, ciò che unisce la corrente piuttosto che ciò che la divide. Perciò richiameremo la distinzione ogni qual volta sarà utile per chiarezza, ma lo sforzo è di cogliere i motivi fondamentali che attraversano questa tradizione di pensiero. Non nascondiamo il maggior interesse per la posizione filosofica, più consistente dal punto di vista teorico, più matura sia per la maggiore anzianità sia per il filone nel quale si iscrive, più radicale e dirompente. Ma risulta anche più astratta, e il comunitarismo politico può validamente contribuire a sostanziare il discorso filosofico.

 

Una mappa

Quello comunitarista è un pensiero complesso, variegato. Questa ricerca tenta innanzitutto di tracciarne una mappa individuando due ordini di articolazioni: una diacronica, lungo l’evoluzione storica del pensiero comunitarista, e una sincronica, distinguendo due dimensioni nelle argomentazioni.

 

Evoluzione per tappe del pensiero

Definizione in negativo

Il comunitarismo è nato come critica al liberalismo. I due filoni di pensiero continuano a definirsi reciprocamente per contrapposizione. Tanto che spesso la pars costruens è trascurata (in particolare per ciò che riguarda il primo comunitarismo). Studiare il punto di vista comunitarista comporta di comprendere le linee fondamentali del pensiero liberale, perché si iscrivono in un dibattito.

Percorsi circolari

Il dibattito tra liberalismo e comunitarismo sembra inesauribile. "È come la piega dei pantaloni: transitorio ma ritorna di sicuro": se non c’è successo del liberalismo che renda il comunitarismo meno attraente, così la critica comunitarista, per quanto penetrante, non sarà mai più che un’incostante caratteristica del liberalismo, anche perché non è mai stato pienamente realizzato nella società [Walzer 89: 6-23] .

Liberalismo e comunitarismo sono come due poli magnetici che alimentano percorsi intellettuali sulla critica dell’una o dell’altra scuola. Possiamo così immaginare un primo schema che consenta di leggere questo dibattito come un ripetersi di obiezioni e replica tra i due poli.

Evoluzione del pensiero non cronologia

Benché finisca per seguire abbastanza fedelmente quello cronologico, il criterio qui prescelto è quello dell’evoluzione del pensiero. Le trasgressioni rispetto alla successione rigorosamente temporale sono così spiegate in vista di un’articolazione per tappe del pensiero, per cui le singole posizioni anticipate da autori "solitari" sono state raccolte per fasi documentate da un’adesione diffusa. I passaggi che abbiamo individuato possono essere sintetizzati come segue.

La posizione liberale.

Individuo autonomo, astorico e asociale

L’individuo immaginato dalla teoria liberale gode di autonomia di scelta, ed è tendenzialmente astorico e asociale, cioè disancorato dal particolare contesto sociale e storico in cui vive, o quantomeno se ne può astrarre e può criticarlo senza alcun vincolo [v. cap. 2, pag. *]. Anzi, al contesto-società l’individuo aderisce per scelta come ad un’associazione volontaria.

Neutralità

Il concetto cruciale nella teoria e nella pratica liberale è la neutralità: morale (i comportamenti privati delle persone non vanno giudicati perché nessuno standard etico può imporsi sugli altri, e anche nella dimensione pubblica la coesistenza di queste diverse visioni del mondo è garantita dai principi di giustizia) [v. cap. 2, pag. *] e politica (lo Stato non deve interferire favorendo un ideale di vita sull’altro) [v.cap. 2, pag. *], presidiata dai diritti e principi universali [v. cap. 2, pag. *].

Liberalismo deontologico

In particolare la teoria presa specificamente a bersaglio dai comunitaristi è il liberalismo deontologico di John Rawls, di impostazione kantiana. Nel liberalismo deontologico sono valide allo stesso tempo due istanze (che riproducono le due dimensioni di cui diremo in seguito [v. infra pag. *]): un’etica morale e un’etica epistemologica [Sandel 82].

L’etica morale (o di prim’ordine) deontologica è basata su doveri e proibizioni che precedono altre categorie morali e pratiche. Il modello più noto è quello dell’imperativo categorico kantiano, che si afferma prima e contro ogni attitudine individuale eventualmente contrastante [v. cap. 2, pag. *].

L’etica epistemologica (o di second’ordine) deontologica è basata su principi derivati senza dover presupporre alcuno scopo, fine umano o concetto di bene particolare. I criteri etici possono così constare di uno standard stabile, riconoscibile, indipendente dalle contingenze, quei principi universali e astratti appena menzionati [v. cap. 2, pag. *].

Il primo comunitarismo.

Il primo comunitarismo nasce negli anni Ottanta grazie ai filosofi Alasdair MacIntyre, Michael Sandel, Charles Taylor, Michael Walzer e al sociologo Robert Bellah, come critica ai fondamenti del liberalismo, perciò spesso la parte propositiva è trascurata [Sandel 82].

Dominio dimensione metodologica

La dimensione metodologica [v. infra pag. *] è certamente dominante in questa fase, tanto da mettere in discussione il paradigma della modernità e gli assunti della scienza moderna a favore di un modello aristotelico o di ricerca medievale [MacIntyre 84a].

Sotto questo profilo la teoria liberale non dà conto della realtà. L’individuo non è libero, razionale e auto-determinante come suppone. La sua identità è invece definita dai suoi fini, è immerso nel contesto sociale in cui vive, è parte (ed autore) della narrazione che lo lega alle pratiche, alle tradizioni, alla storia della comunità [MacIntyre 84a, Sandel 82, Taylor 85, v. cap. 2, pag. *]. Altrimenti non si spiega l’esistenza di forti sentimenti di appartenenza come il patriottismo e la solidarietà.

È la comunità che costituisce l’identità degli individui e ne vincola così l’autonomia. Identità e giudizi morali sono comprensibili (e contemporaneamente necessari) solo entro la comunità.

La neutralità è impossibile, i presupposti sui quali si basa il liberalismo non sono neutrali, i diritti sono mere finzioni, vuote di ogni contenuto etico che non sia la centralità della libertà stessa [MacIntyre 84a].

Implicazioni normative

Nonostante il focus sulla dimensione normativa, il primo comunitarismo è stato spesso attaccato per le sue implicazioni normative. Tra queste che la società liberale, frammentata e anomica, mina la possibilità di vivere in una comunità "genuina", mina la possibilità per l’individuo di realizzarsi, che neutralità e possibilità di criticare le pratiche e le tradizioni mettono in pericolo la tenuta dell’identità comunitaria.

Alla politica dei diritti viene contrapposta la politica del bene comune [v. cap. 2, pag. *], per cui lo Stato si fa portatore di un’ideale di vita buona, e la moralità della comunità merita di essere salvaguardata [Sandel 82, 89].

La risposta liberale.

La replica liberale non si fa attendere, ed è drastica ma accondiscendente allo stesso tempo. Infatti essa nega la veridicità della critica comunitarista, ma nel farlo spesso opera dei "distinguo" tra un liberalismo "buono" e uno che invece meriterebbe la critica comunitarista. Se da una parte risulterebbe che quest’ultima è costruita su grossi fraintesi [Thingpen-Downing 87, Kymlicka 89a], dall’altra molti liberali riconoscono la non infondatezza del comunitarismo (non ultimo lo stesso John Rawls).

Individualismo sociologico e morale

Da una parte, delle principali rivendicazioni comunitariste (la presa di coscienza dell’incapacità di distanziarsi dal contesto sociale, e di autonomia individuale, e comunque ostacoli ad una genuita vita comunitaria) esisterebbero due versioni: una forte (strong version) in cui risultano inconsistenti con il liberalismo, e sono erronee; e una debole (weak version) in cui sono importanti e riconosciute dal liberalismo contemporaneo [Kymlicka 89a]. Dall’altra esisterebbero due tipi di individualismo: l’individualismo sociologico, che assume che le persone non sono legate da alcun vincolo sociale e l’individualismo morale, per cui la scelta morale non può essere ridotta allo svolgimento di dati ruoli sociali. Il primo, falso, "merita l’attacco dei comunitaristi", il secondo invece va difeso [Thingpen-Downing 87: 644-645].

Nostalgia

I liberali che hanno attaccato il comunitarismo sulla base delle suggestioni anti-moderne e anti-urbane (in pratica la nostalgia per esempi di geimenschaft come la polìs greca o le comunità dei primi coloni in America) o autoritarie e conservatrici (se la tradizione va rispettata, allora non può essere cambiata, e il rispetto dell’etica della comunità finisce per essere imposto) [v. cap. 2, pag. *] di taluni dei suoi esponenti non rendono giustizia allo spessore del pensiero.

La comunità e il rapporto con i membri che i comunitaristi più innovativi immaginano è assai più fluida [v. cap. 2, pag. *]. Il rapporto con la storia passata e il futuro immaginato e con le pratiche della comunità definisce la narrazione entro cui l’individuo si comprende ed è giudicato, ma esso stesso partecipa a scrivere un pezzo della narrazione della comunità [MacIntyre 84a]. Le virtù comunitarie non sono imposte così come suggerirebbe una prospettiva deontologica, i membri sono soggetto di una educazione alle virtù di impronta aristotelica [v. cap. 2, pag. *].

I capisaldi della teoria liberale vengono comunque difesi. Gli individui, per quanto coinvolti nelle pratiche sociali, mantengono un’essenziale capacità di astrazione, che gli consenta di prenderne le distanze e di valutarle criticamente. Se è vero che l’identità è costituita dai fini e dalla comunità, essa è però ricostituibile.

La neutralità è necessaria per allargare il bene della cittadinanza ad individui che abbiano diverse concezioni del bene: libertà e diritti sono la cornice in cui possono perseguirsi i fini propri, diversi e conflittuali degli individui. Inoltre è indubbia l’importanza di spazi di deliberazione collettiva, ciò che è contestato è che consistano nello Stato piuttosto che in libere associazioni [Kymlicka 89a, 90].

Il tentativo di sfilare il liberalismo dal confronto etico.

Il più importante dei fraintesi in cui sarebbero caduti tanto i comunitaristi che i liberali è di confondere il liberalismo con una teoria etica piuttosto che meta-normativa [Rasmussen-Den Uyl 95]. Buona parte della critica comunitarista contesta il liberalismo sul terreno dell’etica (ad esempio per MacIntyre esce sconfitto dal confronto con la tradizione aristotelica [MacIntyre 84a]). Gli stessi liberali si sforzano di difenderlo a questo riguardo (per Kymlicka il liberalismo è una filosofia normativa [Kymlicka 89]). Invece andrebbe sottratto a questo tipo di dibattito —si va sostenenedo— perché non è una filosofia etica.

Non è facile infatti rispondere alla critica comunitarista per cui il liberalismo impoverisce la moralità o trascura valori non liberali, assumendo (come è stato fatto finora) che sia un sistema equinormativo (le norme differiscono solo per materia mentre sono tutte della stessa categoria morale). I conflitti tra valori tutti ugualmente validi, tutti sullo stesso piano, sono dunque irriducibili.

Il liberalismo è spesso difeso in virtù del fatto che il disaccordo sulla natura del bene è intrattabile [Gutman 85]. Ma non è chiaro su quali basi: sostenere che l’intrattabilità del disaccordo sul bene, cioè l’incommensurabilità di diverse concezioni di vita, non impedisce un consenso sul diritto, significa eludere la critica, la quale asserisce una imprescindibile connessione di bene e diritto e finisce così per negare diritti universali e astratti. I principi politici sono prescrizioni etiche in senso così largo (si parla di socializzazione dell’etica, cioè della tendenza di ricondurre tutta l’etica alla giustizia) da non dare agli individui alcun significato etico (minimizzazione morale) [MacIntyre 84a, v. cap. 2, pag. *].

Tradizionalmente uno dei problemi centrali del liberalismo è stato tentare di armonizzare il bene (inteso come privato, riguardante gli interessi propri di ciascuno) e il giusto (universalizzato, cosa è richiesto o permesso a tutti i cittadini). Ma ha prodotto una inesauribile tensione. Il liberalismo deontologico, per esempio, a partire da Kant, finisce per ritenere marginale il bene.

Il liberalismo non ha etica non perché sia inefficace, ma perché il diritto viene sopra di tutto, cioè la questione della giustizia, di assicurare pari dignità alle diverse concezioni di vita, è prioritaria e impedisce ogni schieramento con una di esse, compresi presunti valori liberali: benché consenta (o proprio perché garantisce) libertà individuali, non implica individualismo etico.

Il rapporto del liberalismo con l’etica è stato ambivalente: da una parte esortare ad una condotta appropriata suona al liberalismo come un anatema, tanto che è il liberalismo il fondamento della scienza sociale (economia in primis) che si propone come descrittiva e neutrale; dall’altra descrittivo e prescrittivo sono intimamente legati (il prescrittivo serve per una politica pubblica, il descrittivo consente prescrizioni realistiche [Hall 95]) e l’insistenza sui diritti funge da giustificazione dell’ordine liberale.

La critica ha approfittato di quest’ambivalenza: il liberalismo è contemporaneamente troppo poco prescrittivo (l’homo oeconomicus ignora i valori morali) ma anche troppo poco descrittivo (diritti universali indipendenti dal contesto). Sembra aver colto nel segno vista la portata della difesa liberale.

Invece il liberalismo andrebbe visto come una filosofia politica meta-normativa, che non cerchi di guidare la condotta individuale nell’attività morale, ma regoli la condotta in modo da ottenere condizioni dove l’azione morale possa aver luogo. I principi liberali forniscono non la guida per una condotta "giusta" ma uno standard che non favorisca una condotta sulla altre. È nella natura della politica sostenere una forma di vita buona sulle altre, benché ovviamente il liberalismo non sia completamente open ended perché previene modelli di vita preclusivi di altri.

Liberalismo etico

Si giunge per questa via a suggerire persino un modello (aristotelico) di liberalismo etico, dove il fine morale ultimo è l’auto-perfezione o eudaimonia (flourishing), un’attività costituita di molti beni e virtù. La distanza con il liberalismo tradizionale è considerevole. Non è astratto e universale ma individualizzato perché i beni e le virtù componenti sono bilanciati secondo il confronto dell’individuo con il contingente attraverso la ragion pratica. Non sottende una teoria impersonale dell’agente razionale e neutrale, è agent-relative cioè sono eticamente importanti i fatti contingenti e la condotta morale non è determinabile da principi etici astratti ma dalla ragion pratica. È infine raggiungibile solo con e tra le altre persone, esseri sociali non á la Hobbes per necessità di sicurezza, ma (per salvaguardare almeno qualcuno dei principi liberali, come il pluralismo) riconosce che non siamo confinati alle sole relazioni esclusive con partecipanti selezionati, bensì anche a relazioni aperte con persone che non condividono i nostri stessi valori [Rasmussen-Den Uyl 95].

Perplessità

Per quanto si voglia sottrarre il liberalismo all’etica, la sua pratica non ha conseguenze neutrali (astenersi dal giudicare non è forse un criterio etico tanto quanto giudicare secondo dati principi?), anzi nemmeno le sue assunzioni teoriche sono neutrali [v. cap. 2, pagg. * e *].

Inoltre proprio il comunitarismo si innesta nella tradizione aristotelica. Vedremo nel prosieguo quanto assorba da essa, quanto siano vicini, e come risulti decisamente forzato l’accostamento al liberalismo. A meno di non instradarlo in un percorso assai più interlocutorio di mitigazione delle posizioni del dibattito [v. infra pag. *].

La critica all’oppressività.

Il primo comunitarismo è attaccato non solo dai paladini liberali [Phillips 93], ma anche da voci che potrebbero essere vicine alle idee comunitariste (come il femminismo) [Frazer-Lacey 93] sulle basi del richiamo a modelli antichi coesi sì ma oppressivi (nostalgia per le poleis, le comunità medievali) [v. cap. 2, pag. *], dell’insistenza sull’integrazione [v. cap. 2, pag. *], sul rischio di perseguirla a costo di una struttura gerarchica e autoritaria della società [v. cap. 2, pag. *] e di impedire il cambiamento e la messa in discussione delle tradizioni (conservatorismo) [v. cap. 2, pag. *].

Il neo-comunitarismo.

Il comunitarismo, nell’affrontare la critica, si presenta rinnovato negli anni Novanta con autori come John Gray (definito più precisamente, suo malgrado, "comunitarista post-liberale" [Rasmussen-Den Uyl 95]), ancora Robert Bellah e Michael Walzer.

Da una parte sostituisce l’idea di processo sociale a quella di struttura [Hall 95]. Ma questa dimensione dinamica la riscontriamo già in una lettura più fluida dell’opera di MacIntyre.

Comunitarismo dialogico

Ciò che diventa caratterizzante sono i processi relazionali di reciproca formazione e riconoscimento dell’identità (io relazionale), l’importanza di un dialogo etico e politico autentico (comunitarismo dialogico) [Frazer-Lacey 93]. Quest’"eticità relazionale" si distingue tanto dall’eticità soggettiva dell’individuo propria del liberalismo, tanto dall’eticità sociale del collettivo del socialismo, quanto da un loro mixage: esprime la relazionalità delle persone umane e va coltivata in quella e attraverso di quella [v. cap. 2, pag. *].

Pluralismo e partecipazione

Dall’altra smette ogni possibile nostalgia per modelli antichi di comunità a favore di pluralismo e partecipazione (di cui Benjamin Barber è stato precursore) [Hall 95]. La partecipazione è la chiave che consente la difesa contro l’accusa di legittimare derive maggioritariste o autoritarie. Il liberalismo vedrebbe la partecipazione come soggetta ad un calcolo di convenienza, mentre per i comunitaristi sottende le virtù dell’empatia e del rispetto [Barber 84].

Al liberalismo viene contestato proprio di non essere in grado di difendere il pluralismo, in quanto lo Stato non può difendere alcun ideale di vita, nemmeno appunto contro i nemici del pluralismo stesso [Kymlicka 89a, v. cap. 2, pag. *]. I primi comunitaristi lo contestano per il suo risvolto di relativismo etico (ma ciò che era veramente criticata era l’idea di tolleranza come indifferenza). I neo-comunitaristi sottolineano la condivisione di un codice meta-etico ("pluralismo oggettivo") nel nome della congiunzione di teoria e pratica [Gray 94], e il fatto che il discorso politico svincoli i cittadini dalle loro tradizioni sociali è compensato dai principi di rispetto morale universale e reciprocità egualitaria [Benhabib 92].

Il movimento politico dei Communitarians.

Tra il finire degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, attorno ad Amitai Etzioni, William Galston, Mary Ann Glandon, si costituì il movimento politico dei Communitarians, la cui piattaforma è stata redatta (e da allora è rimasta invariata) il 18 novembre 1991. L’approccio è profondamente diverso da quello dei filosofi del primo comunitarismo, benché molti dei protagonisti della prim’ora vi abbiano aderito (come Barber, Bellah, Sandel, Walzer). La dimensione metodologica o teorica cede a favore di quella normativa. Il pensiero dei Communitarians dà la sensazione di volersi mantenere entro il paradigma della modernità, spesso usa lo stesso linguaggio right-based dei liberali, e sembra condividere l’impostazione deontologica, anche se lo scontro è vivace.

Anzi, essi stessi riconoscono di rappresentare solo uno degli estremi del percorso di un ipotetico pendolo, che qui (negli Stati Uniti) e ora è troppo sbilanciato dalla parte dei diritti, delle rivendicazioni degli individui verso la società [Etzioni 95]. Questo rafforza l’impressione che il comunitarismo possa passare d’attualità come riaffiorare, ma contrasta con la carica drastica, ambiziosa, di alternativa radicale del primo comunitarismo filosofico. Con questo condivide però l’enfasi posta sulla "dimensione morale" e sui sentimenti, contro le tendenze razionalistiche [cfr. Etzioni 88].

Società civile e comunità intermedie

La proposta più caratteristica è la "società civile" come via alternativa allo Stato e al mercato per contemporare le esigenze di crescita economica e di socialità, non cioè soltanto assistenza sociale ma più ampia produzione di significato. Si parla così di società responsabile, dove gli individui smettono la rincorsa alla tutela dei propri margini di libertà attraverso i diritti e si dispongono ad assumersi responsabilità nei confronti della comunità. Si parla di comunità intermedie (la famiglia, la scuola, la chiesa, il volontariato) che sono a loro volta responsabili e suppliscono quel ruolo di solidarietà tradizionalmente svolto dallo Stato o abbandonato al mercato, secondo il principio di sussidiarietà per cui non dovrebbe essere assegnato alcun compito sociale ad un’istituzione più ampia di quanto sia necessario per svolgere il lavoro.

Il comunitarismo dei Communitarians deve comunque molto ai precedenti filosofici. Ne condivide lo scetticismo rispetto all’individuo razionale e autonomo, l’istanza di una condivisione di valori e vedute comunitarie nelle quali maturino le persone.

Avvicinamento delle posizioni verso una terza via.

Lungo l’evoluzione delle tappe del pensiero, complice l’eterogeneità delle scuole, liberalismo e comunitarismo sembrano avvicinarsi più di quanto gli stessi protagonisti vogliano ammettere [Thingpen-Downing 87: 654].

Il gran numero di rettifiche, distinguo, precisazioni seguito alla prima critica comunitarista [Rawls 85, Kymlicka 89] testimonia che essa ha almeno qualche valido fondamento; e così l’evoluzione del pensiero comunitarista a fronte delle obiezioni liberali ed interne tiene conto di istanze sino ad allora prettamente liberali (come il pluralismo).

Da una parte "ciò che i comunitaristi più accorti rivendicano è l’integrazione del pluralismo liberale con un’accentuazione del momento dell’appartenenza, dell’identificazione, della dedizione al bene comune. Nessuno fra loro rimette in questione l’esistenza di un confine tra la sfera pubblica e una sfera privata". Dall’altra "nessuno fra i liberali negherebbe l’esistenza di un legame fra la giustizia e una qualche idea parziale del bene" [Ferrara 92: li-lii].

Questa impressione è rafforzata dalla percezione di certi autori come terza via tra liberalismo e comunitarismo. Per esempio Walzer riconcilierebbe il liberalismo deontologico con il comunitarismo perché implicitamente "afferma un diritto (universale) di formare legami comunitari pluralistici" [Fried 83, Thingpen-Downing 87: 647].

Giustizia situata

Inoltre sia per Walzer (tendenzialmente comunitarista) che per Dworkin (tendenzialmente liberale), ad esempio, la domanda sulla giustizia è intesa come domanda radicalmente situata: questa maggioranza di questa comunità ha il diritto di iscrivere nelle leggi questo contenuto, a questo punto della storia della comunità? Anzi, a detta di Ferrara, sarebbe proprio questo giudizio riflettente la soluzione alla presunta incapacità propositiva del comunitarismo [Ferrara 92: lii-lvii].

Lo stesso movimento dei Communitarians costituisce un esempio di questa terza via, nel tentativo di conciliare l’accettazione degli assunti fondamentali del liberalismo con precetti di ispirazione comunitarista.

Attualità del pensiero comunitarista.

Attualità di fatto

La notorietà che il comunitarismo di fatto riscuote recentemente è in gran parte dovuta a quella corrente anomala o comunque impura rappresentata dai Communitarians. Sono riusciti a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla loro battaglia politica (verrebbe da dire ideologica) allargando la discussione oltre l’ambito accademico.

Importanti leaders politici sono dichiaratamente ispirati alle tesi comunitariste. Lo sono —lo conferma lo stesso Etzioni [Perrelli 95]— nel Regno Unito i laburisti Tony Blair e il suo collega Jack Straw [Straw 95, Smith 96] ma anche il liberale Paddy Ashdown, in Germania Kurt Biedenkopft della sinistra democristiana e il socialdemocratico Rudolf Scharping [Scharping 96]. Il Presidente degli Stati Uniti d’America Bill Clinton (del cui entourage Etzioni fa parte) dà spesso testimonianza di richiamarvisi.

Ragioni teoriche dell’attualità

Al particolare contesto in cui viviamo si deve il successo del comunitarismo, guardato con interesse tanto da sinistra che da destra. Per la destra l’idea di comunità consente di ridurre la spesa per lo stato sociale addossando parte dell’onere di assistenza (secondo la tradizione americana-repubblicana del self-help); la responsabilità morale, i valori della famiglia, il rispetto dei mores (come la fedeltà coniugale) sono tradizionalmente temi cari ai conservatori.

Per la sinistra potrebbe essere la soluzione difronte da una parte alla competizione globale, all’egemonia della destra e alla scarsità di risorse pubbliche che non consentono di sperare più nello stato sociale come motore di crescita economica e potere politico, e dall’altra al collasso del comunismo che rende anacronistica l’ideologia marxista. Il comunitarismo sostiene una visione di uno Stato partecipato, non coercitivo, dove le minoranze raccolte in comunità abbiano una dignità in quanto tali e le comunità intermedie intervengano non solo contro la povertà ma come contrappeso rispetto alla diffusione del motivo del profitto e del prevalere del materiale sull’idealità e sulla solidarietà [Smith 96, Craig 95, Donati 96].

Ragioni teoriche dell’attualità potenziale

La corrente più filosofica del comunitarismo potrebbe prestarsi (direttamente) a discorsi di calda attualità. Le istanze dell’appartenenza e della tutela dell’identità comunitaria rischiano di giustificare i movimenti nazionalisti che di fatto fioriscono nel mondo e purtroppo spesso sfociano in violenza. Può però supportare anche più miti rivendicazioni di autogoverno, partecipazione, e costituire una ricca elaborazione teorica cui si appoggiano quei localismi che alcuni ritengono inevitabilmente accompagnarsi ad una tendenza alla globalizzazione delle comunicazioni come reazione all’integrazione planetaria. Ma questi discorsi verranno ripresi (in modo problematico) nelle conclusioni.

 

Dibattito a due dimensioni

Le argomentazioni nel dibattito comunitarismo-liberalismo possono essere distinte lungo due dimensioni: una dimensione normativa e una dimensione metodologica.

La dimensione normativa.

La dimensione normativa riguarda la realtà che la teoria suggerisce. Si assume cioè che la teoria effettivamente rappresenti la realtà [Walzer 89]. La critica comunitarista al pensiero liberale rispetto a questa dimensione consiste nell’asserire che l’individuo liberale è sì libero di agire e di scegliere, ma non ha alcun criterio di giudizio a guidare la sua libera scelta, perciò finisce per abbandonarsi al capriccio o alle mere preferenze [v. cap. 2, pag. *].

La società liberale è un’associazione volontaria, frammentata, di individui apolidi, dominata dai diritti che delimitano aree franche dal giudizio morale. Vanno al contrario sostenute l’identità comunitaria, l’adesione, la partecipazione alla comunità, le virtù dell’amicizia e della fratellanza. La neutralità è negativa. In campo morale uno standard etico comune è necessario, ed è ispirato alle pratiche e alle tradizioni della comunità. In campo politico lo Stato deve favorire un ideale comune di vita buona.

La dimensione metodologica.

La dimensione metodologica riguarda la capacità di una teoria di rappresentare in modo plausibile il mondo reale [Walzer 89]. Per la critica comunitarista la teoria liberale sarebbe inadeguata: "come può un gruppo di persone essere estranee uno all’altro se ogni membro è nato da dei genitori, i quali hanno amici, parenti, vicini, colleghi di lavoro, compagni di religione, e concittadini?" [Walzer 89: 10].

L’individuo non è quel soggetto autonomo, razionale, libero, capace di distanziarsi dal contesto, immaginato dalla teoria liberale. È invece incastonato, influenzato, costituito dalla realtà sociale in cui vive e dai percorsi storici di cui si trova a far parte. Lo stare insieme degli uomini e la loro stessa identità, le motivazioni alle loro azioni, non sono comprensibili se non a partire dalle pratiche e dalle tradizioni in cui vivono.

La società è basata su sentimenti condivisi, come il patriottismo. "La retorica del liberalismo limita la comprensione dei nostri abiti sentimentali e non ci dà spiegazione di come le persone siano legate in una comunità" [Bellah 85].

Accordo delle fonti

Questa distinzione è condivisa da numerosi studi, in termini più o meno coincidenti. Avineri e De Shalit distinguono la critica comunitarista al liberalismo proprio in normativa (le premesse del liberalismo comportano conseguenze moralmente insoddisfacenti: l’impossibilità di avere una comunità genuina, che lo Stato possa sostenere certe forme di vita buona) e metodologica (l’unico modo per comprendere il comportamento umano è considerare gli individui così come sono immersi nel contesto storico, sociale e culturale in cui vivono, e non necessariamente di loro volontà) [Avineri-De Shalit 92].

Le obiezioni di MacIntyre, comunitarista, sono lette da Freytag, così come Rasmussen e Den Uyl, liberali, lungo due ordini: quello di una "pretesa secondaria ed empirica" (o"contestazione socio-culturale") riguardante il modello di società in cui queste condizioni formali possono avere luogo, e quello di una "pretesa fondamentale" riguardante le condizioni formali di razionalità, identità, giudizio intelligibile (o "contestazione filosofica") [Freytag 95, Rasmussen-Den Uyl 96].

Gli stessi autori comunitaristi riconoscono esplicitamente questa distinzione. Walzer lo fa nel guardare dal di fuori alla critica comunitarista: due sono gli argomenti contro il liberalismo, uno riguarda la pratica liberale (la società liberale è decomposta), uno la teoria liberale (il mondo non è così come ritratto dal liberalismo, è fatto di legami) [Walzer 89].

Taylor distingue la questione prescrittiva (o di advocacy, quale è la posizione morale o politica adottata) dalla questione ontologica (quali sono termini che si accettano come elementari nell’ambito della spiegazione). Rispetto alla prima, le posizioni si collocano su un continuum ai cui estremi vi sono individualismo (la priorità spetta ai diritti e alla libertà individuale) e collettivismo (la priorità spetta alla vita comunitaria o al bene della collettività).

Rispetto alla seconda, le alternative che si affrontano sono atomismo (o individualismo metodologico: le azioni e le condizioni sociali sono spiegabili in termini di proprietà degli individui partecipanti) e olismo. Benché la scelta di campo ontologico condizioni la scelta normativa, queste posizioni sono variamente combinabili fino a riconoscere un individualismo olistico o un atomismo collettivista [Taylor 89]

Importanza di questa distinzione

Questa distinzione è importante per condurre un’analisi globale del dibattito e allo stesso tempo cogliere la confusione di certe posizioni. È un errore riferirsi a liberalismo e comunitarismo come a pacchetti di concezioni che connettono le due questioni. È vero che l’ontologico aiuta a definire le opzioni che ha senso sorreggere per mezzo della advocacy (con ciò riconoscendo che le tesi ontologiche non sono "innocenti" o neutrali). Ma prendere una posizione ontologica non equivale a propugnare qualcosa [Taylor 89].

Questa confusione ha portato a dei fraintesi grossolani, specie da parte liberale. Da una parte la perplessità liberale verso i comunitaristi riguarda il solo terreno normativo (per esempio la reazione all’opera di Sandel si è scagliata contro la nostalgica esaltazione di modelli sociali antichi, mentre è invece essenzialmente una critica ontologica). D’altra parte, anche quando i liberali offrono risposte plausibili alle obiezioni ontologiche, trascurano la questione dell’advocacy, riconoscendo ai comunitaristi poco più di una politica differente solo vagamente più collettivista [Taylor 89: 165-66]. Questa confusione appartiene soprattutto al passato. I liberali degli anni Novanta hanno capito la distinzione e l’hanno fatta propria [Kymlicka 89].

Taylor conclude: "i termini ombrello liberale e comunitarista dovranno probabilmente essere mandati al macero prima che possiamo superare questi fraintendimenti, poiché portano con sé l’implicazione che esiste qui una sola questione, o che la posizione di qualcuno su una delle questioni determina il suo pensiero riguardo all’altra" [Taylor 89: 142].

 

Alle radici del pensiero comunitarista

La concezione del mondo

La filosofia comunitarista si inserisce in una più ampia tradizione di pensiero che prende di mira i fondamenti della modernità e si propone di superarla.

Il significato e la portata del pensiero comunitarista non sarebbero pienamente comprensibili, non solo laddove si ignorasse una delle due dimensioni (così molti difensori liberali si sono indignati per le più banali implicazioni normative) e al tempo stesso non si avesse coscienza della loro distintività, ma ove si dimenticasse ciò che della dimensione metodologica è l’aspetto più radicale: la critica alla modernità.

È questo il motivo più dirompente (benché meno esclusivo) sotteso al comunitarismo e che però riduce gli spazi di compromesso con la pratica (difatti risulta meno evidente nel neo-comunitarismo e tra i Communitarians).

La critica alla modernità.

Modernità

Il paradigma della modernità è stato largamento codificato (per quanto talvolta in modo grossolano e parodistico da parte della critica [Nacci 95]). Il liberalismo oggetto della critica comunitarista è perfettamente coerente con esso, costituisce infatti —lo si trova ripetuto spesso nella letteratura comunitarista— la più genuina prosecuzione di quel progetto illuminista che informa la modernità [Gray 94, Sandel 82, MacIntyre 84a, 84b, cfr. Zolo 91].

Tendenza all’universale

Il profilo di questo paradigma andrà precisandosi col dipanarsi dell’opera. Il fulcro consiste nella tendenza all’universale: nell’etica come formulazione di precetti oggettivi universali e primato dei diritti individuali; nella scienza come razionalismo avalutativo e ricerca della verità assoluta grazie all’accumulabilità del sapere, verso un progresso razionale e morale dell’umanità [Zolo 91, Bano 92]; nella produzione come standardizzazione, dominio della razionalità tecnica di stampo weberiano e pianificazione razionale [Harvey 89].

Crisi modernità

La promessa liberatoria della modernità (di stampo kantiano) di immaginare un "mondo senza fini", di convivenza pacifica tra le genti e le diverse concezioni del mondo, che ci renda liberi di costruire principi di giustizia a prescindere da valori antecedentemente dati, liberi di inventare noi stessi (non più riflesso di Dio o della natura [Burrel-Cooper 88: 94]), fallisce. Fallisce di fatto difronte alle barbarie, tanto che Lyotard, il padre del postmoderno, identifica il culmine della crisi della modernità con Auschwitz [Nacci 95].

Fallisce teoricamente perché suppone la totale autonomia di costruzione dell’identità individuale e ignora la specificità delle persone, l’appartenenza ad una comunità e ad una storia. Sono presupposti non solo irrealistici ma anche indesiderabibli: ne uscirebbe un agente libero e razionale, ma una persona "senza carattere", senza profondità morale [Sandel 82].

Si deve a Nietzsche lo smascheramento del progetto illuminista: ha affermato tanto l’impossibilità di fondare la morale su sentimenti interiori, sulla coscienza, sull’imperativo categorico kantiano; tanto l’impossibilità di universalizzare, l’inesistenza di diritti naturali (sono come tabù, legittimati solo dalla loro esistenza, privi di supporto etico), della felicità e dell’utilità [MacIntyre 84a, Restaino 90, cfr. Vattimo 85].

Le vie del postmoderno.

Il postmoderno ha una data di nascita (1979) con il manifesto di Francois Lyotard [Lyotard 81], ma dei contenuti assai meno precisi. La critica mira al cuore della modernità: si scaglia contro le idee di universalità e unitarietà.

All’ambizione di un metalinguaggio onnicomprensivo e universalmente comprensibile si oppongono la frammentarietà, la contaminazione, i giochi linguistici di wittgensteiniana memoria, il pragmatismo, la crescente liberazione dal mondo naturale e la suddivisione della cultura in sfere discrete [Power 90: 111].

Alla razionalità scientifica si oppongono più labili confini tra razionale e irrazionale, la preferenza per la forma narrativa, l’ermeneutica, la retorica [Nacci 95, Carmagnola 89]. Giunge a consacrare la contemporaneizzazione della realtà che gli strumenti della scienza dell’informazione consentono [Nacci 95].

Per i suoi stessi fondatori il postmoderno si accompagna ai (rapidi) cambiamenti della società (sempre più complessa) sulla scorta dei mutamenti della scienza e della tecnologia [Hassard 94: 310] verso la smaterializzazione degli scambi, il predominio della creatività e del sapere come risorse chiave, la molteplicità di centri locali invece della grande industria [Carmagnola 89]. Cioè agli altri "post" della nostra epoca: il postindustrialismo, il postcapitalismo, il postfordismo [Bell 73, Harvey 89, Priore-Sabel 84, Lash-Urry 87]. Si configura perciò come una posizione contemporaneamente storica (epocale) ed intellettuale (in particolare epistemologica) [Hassard 94].

La riabilitazione del pre-moderno.

Rehabilitierung

Il superamento della modernità si è espresso anche lungo un percorso diverso: quello della riabilitazione (rehabilitierung) di aspetti della filosofia classica europea, in particolare della filosofia aristotelica [Zolo 91]. Ciò che seduce è la prospettiva della razionalità pratica (capace di orientare la condotta dell’uomo) contro quella scientifica oggettiva e neutrale (ma anche contro la casualità o caoticità postmoderne), il diffuso riferimento alla pluralità (nella sensibilità per le differenze della realtà come connessione del molteplice) contro l’unità [Bano 92: 18-20, Volpi 91, Berti 89]. È in questa tradizione che si inserisce il pensiero comunitarista.

Questo percorso ha in comune con il postmoderno la critica alla modernità, ma respinge decisamente la tendenza esplosiva alla massima frammentazione. La critica comunitarista alla modernità verte proprio sulla mancanza di una morale condivisa all’insegna dell’incommensurabilità e della neutralità e sull’astoricismo che ignora le tradizioni e l’immersione nel contesto specifico degli individui, l’appartenenza alla storia (secondo un’ispirazione non solo hegeliana ma che si rifà alla tradizione narrativa tribale) che delinea la diatriba metodologica contro i sostenitori della filosofia analitica [MacIntyre 84a, Restaino 90, Boradori 91].

Illuminismo: abbandono aristotelismo

È proprio con l’Illuminismo che l’abbandono del pensiero di Aristotele e dell’etica teleologica del Cristianesimo medievale (già preceduto nel Rinascimento) si manifesta pienamente con l’abbandono della congiunzione fatto-valore. Ne è testimonianza la legge di Hume, che afferma come sia incolmabile l’abisso tra is e ought. Gli assunti forti dell’impostazione aristotelica su cui si modella il comunitarismo sono, all’esatto contrario, il coniugare essere (is) con dover essere (ought), il contestualizzare l’etica nella comunità e il marcare il senso dell’appartenenza alla comunità, l’etica delle virtù al plurale [MacIntyre 84a, Restaino 90].

Nietzsche rappresenta solo la pars destruens del discorso sulla modernità. La pars costruens non può essere la via del nichilismo: il rifiuto del progetto illuminista ci lascerebbe solo tra le macerie della problematica di Nietzsche e l’idea degli uomini legislatori di sé stessi [Restaino 90]. Per questo l’aristotelismo sarebbe un modello migliore del postmodernismo (così come comunemente inteso), perché nel rifiutare le "grandi narrative" sembra aver qualcosa da offrire di alternativo [Shaw 95: 851]. Si tratta di comprendere come non solo il progetto illuminista fu sbagliato, ma non avrebbe dovuto nemmeno essere intrapreso, cioè si tratta di recuperare il pre-moderno [MacIntyre 94a].

La tradizione aristotelica.

La tradizione aristotelica non è costituita dalla sola opera di Aristotele, comprende linee di pensiero che l’hanno preceduta (la concezione omerica dell’onore e dell’eroe) e che l’hanno seguita, come la Tomistica. Quest’ultima è particolarmente importante poiché costituisce l’anello attraverso il quale l’etica delle virtù è in qualche misura assorbita nell’etica cristiana. Questo risulterà evidente quando discuteremo della felicità e dell’ordinamento delle virtù [v. cap. 2, pag. *].

Non significa che il comunitarismo richieda un coinvolgimento religioso o un background religioso. D’altra parte alcuni comunitaristi (come Oliver Williams) lo esplicitano, altri vi si riferiscono marginalmente (all’ebraismo ad esempio Walzer, Etzioni stesso), autori cristiani (come Peláez) rivelano una straordinaria comunanza di vedute (e infatti ce ne serviremo per rendere più chiaro il quadro del pensiero). Importa di rilevare che è più che coerente con quell’importante dimensione culturale costituita dalla religione, perciò ove questa sia matura trova un terreno assai più fertile per incontrare l’adesione.

Il comunitarismo va comunque oltre la religione, non solo perché risale alle radici fino ad Aristotele. Non solo perché non può prescindere dal motivo postmoderno che annovera certamente la religione tra le grandi narrative unitarie ripudiate (ma è stato detto come il superamento della modernità possa seguire un percorso assai diverso appunto).

Ma perché fa tesoro dell’antichissima tradizione dell’appartenenza collettiva, che attraversa la cultura giudaico-cristiana (nella quale creazione, precetti, morale, salvezza sono concepiti in termini collettivi) e ha dietro la coscienza tribale [Anderson 95], la tradizione celtica e africana [MacIntyre 84a, Boradori 91].

Riforma della modernità.

Il comunitarismo non è omogeneo perciò non deve stupire che esista una corrente al suo interno che, allineata in linea di massima per quanto riguarda la critica della modernità, si proponga di riformarla piuttosto che di respingerla, e perciò ne condivida alcuni tratti. Sembra così aderire all’impostazione habermasiana per cui la modernità è un progetto perennemente incompiuto, un processo infinito di ridefinizione continua di de stesso [Nacci 95].

La "corrente" in questione è costituita almeno da quei comunitaristi che si configurano come terze vie, e senz’altro dai Communitarians dei primi tempi. Addirittura Etzioni, nel contrapporsi all’utilitarismo, abbraccia l’approccio deontologico (moderato), che viene invece esplicitamente contestato dai comunitaristi-filosofi proprio come fulcro del liberalismo contemporaneo, cioè fulcro della modernità stessa.

Sia chiaro comunque che l’approccio deontologico moderato comunitarista di Etzioni è ben diverso da quel liberalismo deontologico rawlsiano attaccato dai comunitaristi, scevro del razionalismo, dell’universalismo, e attento alle particolarità tradizionali, comunitarie e alla dimensione affettiva.

Quello di Etzioni è un tentativo, così come di apportare correzioni fortemente comunitariste ad un impianto sostanzialmente liberale, di apportare correzioni anti-razionaliste ad una concezione moderna.

 

La rappresentazione del mondo

Una attenzione specifica va riservata alla teoria della rappresentazione del mondo, in particolare dei fenomeni sociali. Non vogliamo qui leggere i percorsi della filosofia della scienza, ma almeno accennare alle più significative riflessioni sulle scienze sociali di alcuni importanti comunitaristi.

Le assunzioni circa la natura dell’uomo non possono non condizionare la metodologia di studio del comportamento dell’uomo. Proprio su questo terreno si misura maggiormente la distanza con la modernità (oltre che con il liberalismo). L’impostazione normativa che esalta la dimensione morale e nega la separazione delle sfere dell’agire si inserisce nella tradizione aristotelica e non può non assorbirne l’idea di razionalità (pratica) profondamente diversa dalla tradizionale razionalità scientifica moderna.

La dimensione morale.

Il comunitarismo sin dai suoi primi passi tenta di fondare la prospettiva etica su una teoria sociale che descriva il reale e il possibile. La prima istanza è quella di accreditare nella teoria sociale la dimensione morale della società, compresa un’analisi delle varie prospettive etiche degli agenti [Hall 95], affermando la dominanza di fattori non razionali in tutte le scelte umane

La maggior parte delle scelte individuali, non solo di fini ma anche di mezzi, si basa in gran parte o interamente su fattori normativo-affettivi (NA factors), e anche le aree dove prevalgono considerazioni logico-empiriche (LE factors) sono esse stesse definite da fattori normativo-affettivi [Etzioni 88, 93b].

Questa tesi si contrappone nettamente al paradigma razionale-utilitarista (dell’homo oeconomicus) per cui l’uomo è massimizzatore razionale (cioè si assume che gli individui sappiano trarre le "giuste" inferenze sui mezzi più efficienti per perseguire fini che sono: chiari, ordinati, dati) dell’utilità. Essa è ritenuta esageratamente semplificatoria tanto da risultare affatto realistica [Etzioni 88, 93b].

Molti sono i tentativi di assorbirla nel paradigma razionalista. Alcuni (Fishbein, Kelley, Thibau, Frank [Fishbein 75, Kelley-Thibau 78, Frank 88, Frank 89]) considerano i fattori NA come vincoli esterni, della cui esistenza gli individui sono coscienti e perciò vi rispondono in modo calcolativo; mentre spesso i fattori NA sono interiorizzati, formano l’io interiore dell’individuo. Altri (Stigler, Becker [Stigler-Becker 77]) li comprendono nelle preferenze. Ma è un approccio eccessivamente parsimonioso, improduttivo ed eticamente inaccettabile [Etzioni 88]; inoltre le preferenze sono assunte essere stabili mentre un paradigma rappresentativo della realtà deve dar conto dei cambiamenti per tanta parte determinati dai fattori NA.

Altri ancora confidano nell’applicazione del paradigma razionalista almeno in quelle aree non dominate dai fattori NA. Ma anche in queste aree gli individui non compiono decisioni razionali, a causa della sub-razionalità: non solo le loro capacità intellettuali sono limitate (Simon, Lindblom), ma è la scienza stessa, per contenuto e per processi, ad avere limiti innati [Etzioni 93b].

In questa sede che lo sbocco suggerito sia un approccio adattivo (contro la frammentazione dei problemi e successiva ricomposizione) [Etzioni 93b] importa solo nella misura in cui segnala l’esigenza di ancorare la scienza in vista dell’azione (su cui si tornerà poco oltre). Ciò che è veramente rilevante è l’esigenza di dare importanza alla dimensione affettiva proprio a partire dall’economia, che conduce all’uscita dal paradigma razionalista (la radical departure criticata da Grandori [Grandori 94]).

Critica alla scienza moderna.

La critica dei comunitaristi alla scienza moderna, in particolare alla scienza sociale, merita qualche considerazione non solo perché è un momento fondamentale del contestato paradigma della modernità, ma perché sottende i tratti distintivi della visione del mondo comunitarista. I punti qualificanti, le affermazioni scientifiche appartengono e sono comprensibili solo entro un paradigma dipendente dal contesto particolare, l’inseparabilità mezzi-fini che deriva dalla congiunzione fatto-valore, portano a considerare la pretesa universalistica, di prevedibilità e la competenza della scienza sociale alla stregua di una "impostura" [MacIntyre 84a]) e quella nella razionalità della scienza una "fede non-razionale, che ha dominato l’Età della ragione e che ancora oggi ci controlla" [Etzioni 93b].

La cosiddetta "crisi della razionalità" sfocia nel noto concetto di paradigma introdotto da Kuhn ma successivamente rimaneggiato [Lanfredini 95]. Le riflessioni comunitariste sulla scienza si incanalano in questo solco (specie nelle versioni che assegnano alla tradizione di ricerca un contenuto vago, fondato più su valori che su regole, e alla teoria come insieme di applicazioni, quindi con un orientamento alla soluzione concreta di problemi, piuttosto che insieme di regole [cfr. Lanfredini 95]) per affermare la natura relativistica delle osservazioni, che dipendono dal paradigma entro cui vengono fatte, e almeno la difficoltà per la scienza di configurarsi come sforzo accumulativo-collettivo [Etzioni 93b].

Questo non porta però ad abbracciare l’idea di incommensurabilità e intraducibilità di una tradizione di ricerca (è evidente il parallelo con l’incommensurabilità morale imputata ai liberali), per cui se due sistemi di pensiero sono in disaccordo non vi è modo di giudizio impersonale perché ciascuno applica un proprio metro di giudizio. Ma nemmeno all’idea di immaginare regole meta-teoriche comuni di intelligibilità e valutazione, proprio perché è infondata la pretesa universalistica.

Quello che alcuni comunitaristi sostengono è che una tradizione vada capita vivendola, e vada vissuta secondo una concezione che richiama la ricerca medievale per cui ciascuno partecipa a scrivere un pezzo della tradizione a partire da ciò che ha ereditato [v. cap. 2, pag. *] e possa però dominare su altre quando risultino insufficienti, erronee, inconsistenti rispetto ai loro stessi parametri [MacIntyre 90]. Affinché ciò si verifichi, e non sia invece una tradizione inefficiente a far apparire debole una teoria (così come il pensiero di Aristotele fallisce per settori chiave come la fisica o la biologia, mentre reggerebbe per la metafisica, la politica, la morale), è necessario che ogni teoria sia aperta alla massima confutazione [Boradori 91].

Congiunzione fatto-valore e filosofia-sociologia

L’esigenza che la comprensione del mondo sia costituita dalle tradizione e dalle pratiche che viviamo, in particolare dai fini, si pone in alternativa alla separazione illuminista (anti-aristotelica) fatto-valore che fa da sfondo alla scienza sociale moderna per cui i fini sono sottratti alla portata dello scienziato, che avrebbe competenze specifiche nel massimizzare l’efficienza nell’impiego dei mezzi verso quei fini (a prescindere cioè dai fini), cioè il comportamento dello scienziato sarebbe moralmente neutrale [MacIntyre 84a].

La scienza moderna sottende assunzioni sulla natura dell’uomo che non sono affatto neutrali (e chiaramente non condivise dai comunitaristi), cioè che sia svincolato da ogni condizionamento ambientale, sovrano delle proprie scelte (i fini sono scelti, non dati). È di questo tipo l’attore economico, l’attore sociale, l’attore strategico della teoria dei giochi [Ferrara 92: xiii]. È un individuo sottosocializzato [Grannoveter 85], che non corrisponde alla realtà, perché invece siamo immersi nella comunità e nella storia [Etzioni 88, 91, 93b].

Infine le teorie sociali (di cui la competenza economica e manageriale è esemplare), pur proponendosi come predittive secondo uno schema analogo a quello delle scienze naturali (osservazioni empiriche neutrali-generalizzazioni in forma di legge-applicazione a casi particolari) non hanno parimenti arretrato laddove smentite dai fatti [MacIntyre 84a, v. cap. 3, pag. *].

Ad onor del vero, l’esplicitazione delle assunzioni e del campo di applicazione, dovrebbe mitigare l’intensità dell’accusa. Tanto che lo stesso MacIntyre sembra rientrare nel paradigma scientifico quando, nel sottolineare la forza dirompente (contro le teorie predittive) dell’imprevedibilità sistematica (che ricorda la "fortuna" di Machiavelli), ricorda di come le sue fonti siano studiabili, dell’importanza di una conoscenza (limitata) e dell’attenzione accordata all’imprevedibilità come fattore di successo da parte di teorie manageriali [MacIntyre 84a].

Verso il ricongiungimento descrittivo-prescrittivo.

L’influenza reciproca delle dimensioni normativa e metodologica non è scontata, ma di esse i due fondamentali aspetti, le prescrizioni etiche e la rappresentazione dei fenomeni sociali, sono collegati. Che lo riconoscano i comunitaristi è importante perché essi si fanno anzi portatori del ricongiungimento di etica e sociologia [Hall 95].

La separazione di etica e sociologia costituirebbe una delle peculiarità della modernità e corrisponderebbe, nell’ideale weberiano di scienza sociale libera da valori, al timore di relativismo morale. Così nella teoria del conflitto, dove i valori morali, parte della sovrastruttura, sono prodotto del conflitto di classe, e non meritano di essere indagati visto che si suppone la società dipenda da forze economiche. Nella teoria funzionale di Parsons, protestante e kantiano, i valori morali, prodotti dal sistema culturale (in particolare dalla religione), esterno al sistema sociale, sono fissi nelle società occidentali [Hall 95].

La ricongiunzione di etica e sociologia è nell’agenda comunitarista (soprattutto dei neocomunitaristi) non solo in quanto riconosce un legame inevitabile tra studio del comportamento e prescrizione del comportamento, che solo la finzione moderna occulta. Alla base della maggioranza dei paradigmi delle scienze sociali vi è un esplicito o implicito concetto di natura umana e di ordine sociale [Etzioni 91] e d’altra parte la filosofia morale è sempre informata da una teoria sociologica [MacIntyre 84a].

L’opera di Robert Bellah, The Habits of the Heart [Bellah 85], è al tempo stesso una ricerca empirica sulla componente ideale della moralità, ma anche un proposito etico, in particolare contro l’individualismo americano. D’altra parte, la proposta etica di Seyla Benhabib [Benhabib 92], per cui sono da ritenersi desiderabili efficacia e agire politico in una società inclusiva (inclusive society), richiedono di precisare da un punto di vista sociologico che modello di società possa consentirlo [Hall 95].

La ragione per cui in generale è da perseguirsi la ricongiunzione di etica e sociologia è che per indicare come le persone dovrebbero comportarsi (etica) bisogna prima capire come si comportano attualmente (sociologia) [Hall 95].

Né il liberalismo classico né il primo comunitarismo (almeno nella lettura meno approfondita che ne è stata data) avevano la necessità di sostenere questa ricongiunzione. Il primo perché le strutture sociali sono semplicemente una questione di preferenze e di quali associazioni o accordi le persone scelgono volontariamente di creare. Il secondo per via dell’accettazione delle comunità tradizionali o romanticamente idealizzate come orizzonte autoritativo considerato eticamente desiderabile [Hall 95].

Questo obbiettivo diviene invece fondamentale proprio nel momento in cui il pensiero (neo) comunitarista, non potendo rievocare la gemeinschaft, deve immaginare un modello di società alternativo alla società liberale che sottostima le particolarità culturali.

L’indicazione almeno metodologica che viene dal neo-comunitarismo è volta a promuovere una teoria sociale che sia sociologicamente pluralistica, nel senso che questa istanza etica può essere ottenuta da vari tipi di società, ed eticamente pluralistica, nel senso che ci possono essere più di una prospettiva etica su quale combinazione di istituzioni sociali possono meglio ottenere questo fine [Hall 95].

 

Assunzioni

Esplicitazione dei presupposti

Con Feyerabend, riteniamo che il criterio più valido di demarcazione della scientificità stia nella disponibilità a riconoscere il limite di ogni forma di sapere e dalla volontà di esplicitare e sottoporre a critica i presupposti che reggono le teorie e le ipotesi formulate nel confronto dei fenomeni studiati [Feyerabend 81].

Il criterio di falsificazione popperiano, per cui non esistono fatti indipendentemente da interpretazioni e nessuna proposizione fattuale può essere dimostrata da un esperimento [Popper 76], è interpretabile come riconoscimento dell’"universale carattere riduttivo di tutte le forme concrete di conoscenza": la riduzione è da una parte sempre "vera" in quanto connessa alla necessità di determinazione, dall’altra sempre "falsa" poiché è sempre parziale [Crespi 92: 86-87].

Scelte

L’elaborazione di questo studio sottende delle scelte impegnative che si riconoscono non neutrali. Anzi, uno dei fini del lavoro è proprio di dare conto del pensiero e della critica in oggetto in modo sistematico e coerente, e questo impone delle prese di posizione.

Alcune di queste scelte verranno chiarite (sempre in modo esplicito e argomentato) solo in seguito. La più importante riguarda il livello di analisi dell’etica degli affari [v. cap. 3, pag. *]. Ma anche la definizione del concetto di comunità [v. cap. 2, pag. *]. Illustriamo ora le scelte alla base dello studio per assicurare quelle "condizioni di un efficace scambio ermeneutico" che determinano la validità della scienza [Crespi 92: 87].

Etica e normativa.

Filosofia, non sociologia.

Una prima considerazione è che studiamo etica, non sociologia o storia, o altro. Per quanto le distanze tra scienza descrittiva e disciplina normativa si riducano, in particolare nella prospettiva comunitarista [v. supra pag. *], vogliamo chiarire che sarà privilegiata l’impostazione filosofica.

Etica normativa, non descrittiva.

Anche nell’ambito dell’etica (etimologicamente: studio del comportamento) si possono distinguere due tipi di etica: l’etica descrittiva, ricerca empirica su sistemi normativi dati, e l’etica normativa (per lo più come si intende comunemente l’etica senza ulteriore aggettivi), basata su asserti normativi (cioè su cosa è buono o giusto), consta di regole generali per l’accettazione o il rifiuto di un giudizio come morale [Kutschera 91: 50, Sacconi 88: 14].

Il nostro studio, chiaramente di metaetica, cioè comparazione di pregi e difetti di diversi sistemi etici [Sacconi 88: 14], ha per oggetto un’etica principalmente normativa, relativa a come i soggetti dovrebbero comportarsi (o in parole comunitariste: come dovrebbero essere), non come effettivamente si comportano, se non nella misura in cui è parametro di paragone. Delle due dimensioni identificate [v. supra pag. *] quella normativa sarà dunque privilegiata.

Per esempio preferiremo capire le istanze comunitariste e le debolezze teoriche liberali piuttosto che indagare su quanto sia realmente liberale la società statunitense o su quanto siano diffuse esigenze di riscatto comunitario.

Tipi.

Liberalismo solo metro di paragone.

Deliberatamente non approfondiamo le sfumature del liberalismo e solo marginalmente anche quelle del comunitarismo.

Il liberalismo ci serve solo da metro di confronto per riprodurre il dibattito storicamente svoltosi (e tuttora in corso) in contrapposizione al comunitarismo e per meglio articolarne le istanze. Non è parso perciò importante isolare contrattualismo, utilitarismo, teorie dei diritti, individualismo, e d’altra parte molta letteratura suole confonderli difronte all’esigenza prioritaria di coglierne alcuni elementi fondamentali comuni. Cerchiamo di tratteggiare i principi di massima su cui è fondato (principi universali, razionalità, astrazione, ecc.) per esporli alla critica comunitarista.

Comunitarismo come corpus unico

Anche il comunitarismo è trattato come un corpus di pensiero che pur non omogeneo si ritrova attorno a dei lineamenti e a delle tradizioni di pensiero comuni (non si può parlare di tipo ideale difronte alla sottolineatura delle differenze interne alla filosofia che non verrà risparmiata).

La meta che abbiamo assegnato a questa ricerca è di riconoscere le linee significative del pensiero comunitarista, a prescindere dal fatto che siano abbracciate in toto da singoli autori e rispondano a complesse concezioni alternative del mondo o che emergano accanto a contaminazioni liberali.

In questo modo cerchiamo di evitare il vizio di ambiguità. È stata l’accusa che la controffensiva liberale ha riservato ai comunitaristi: per esempio, non sarebbe chiaro se ciò che essi criticano è il primato dei diritti individuali oppure una più generale concezione liberale dell’uomo e della società. Se soltanto ritengano esagerato il peso attribuito ai diritti, oppure se rifiutino l’idea stessa di diritti individuali a favore di valori comunitari [Buchanan 89]. Ma a controargomentare sullo stesso terreno, i liberali non sono meno ambigui: la neutralità è aperta a molteplici interpretazioni, così come il significato stesso di liberalismo [Avineri-De Shalit 92: 10-11].

Questo scontro testimonia come le due dimensioni delle argomentazioni, normativa e metodologica, siano state talvolta confuse. Il pensiero comunitarista tanto quello liberale riguardano entrambe, ma allo stesso tempo non si determinano reciprocamente [Taylor 89].

Ricercare i tratti caratteristici del pensiero comunitarista, a prescindere dal fatto che si presentino in "forme pure" presso qualche autore, supera l’obiezione per cui le due dimensioni della critica comunitarista sarebbero sì in parte entrambe vere, ma mutualmente inconsistenti: o la frammentazione liberale rappresenta le condizioni di vita effettiva, e allora viene meno la critica alla teoria liberale (metodologica) oppure non è così, e allora vale la critica metodologica ma viene meno la portata di quella normativa perché la teoria liberale non suggerirebbe il modello di vita corrente [Walzer 90: 10-11].

Radicalismo?

Continuum liberalismo-comunitarismo?

Il fatto che nel pensiero di alcuni autori coesistano elementi liberali e comunitaristi non induca a credere che queste due posizioni possano essere plausibilmente rappresentate come estremi di un continuum. La presa di posizione sulla questione ontologica, specie laddove sottenda l’adesione o il rifiuto del progetto illuminista o della modernità, spezza questo continuum.

È forse possibile immaginare una posizione intermedia tra "l’individuo capace di astrarsi dal suo contesto sociale" e "l’individuo costituito dalla comunità". Ma anche coloro che si propongono una revisione del moderno non possono certo essere interpretati come conciliazione di moderno e negazione del moderno.

Modelli non rigidi

Questa continuità tra i poli del dibattito (che rappresenta un segnale di riavvicinamento) è implicitamente evocata da certi autori comunitaristi, in particolare tra i Communitarians, nell’avanzare teorie (scusando così eventuali esagerazioni) come un necessario bilanciamento all’eccesso di liberalismo che marca la società contemporanea (specialmente statunitense).

Spiega Etzioni: "Il punto di partenza è l’idea di una relazione in tensione tra individui e società della quale sono membri. [...] Una società funziona al meglio quando le due forze sono ben bilanciate. [...] È compito degli osservatori sociali, degli intellettuali, di stabilire in quale direzione la società si sta spostando e caricare il loro peso sull’altro lato della storia. [...] Mentre i comunitaristi in un certo contesto sociale o periodo storico possono rivendicare a favore della comunità (come negli Stati Uniti di oggi) o più a favore dei diritti individuali (come nella Cina attuale), essi sostanzialmente cercano di mantenere questo fondamentale equilibrio" [Etzioni 95a: 13]. Ancora più chiaramente: "non ha senso proporre un singolo modello o forme rigide od estreme" [Selznick 93: 33].

Questa concezione assume che valori liberali e comunitaristi si dispongano su di un continuum lungo il quale è possibile miscelarli in diverse proporzioni. Assume inoltre che il dibattito si svolga prevalentemente sul piano normativo, della proposta etica e politica cioè, o che i presupposti metodologici di liberalismo e comunitarismo siano in qualche modo conciliabili.

Non riteniamo di dover prendere posizione rispetto alla praticabilità dell’ipotesi della terza via per non abbandonare l’approccio meta-etico. Crediamo che, per quanto ci siamo riservati di approfondire la dimensione normativa e solo strumentalmente considerare la dimensione metodologica, il discorso comunitarista non sia comprensibile al di fuori del contesto culturale nel quale ha trovato luogo. E che proprio la diversità del contesto culturale separa nettamente liberalismo e comunitarismo da un punto di vista teoretico.

Completezza.

Quella comunitarista è una complessiva visione del mondo. È impossibile perciò discuterne tutte le implicazioni. L’ambito è stato ristretto all’etica degli affari (e sarà ulteriormente circoscritto in seguito). Ma filoni di indagine anche importanti sono rimasti esclusi anche dalla trattazione più generale.

Intra-comunità

Uno piuttosto stimolante verte sui rapporti tra comunità. Abbiamo scelto di concentrarci sul comportamento etico delle persone all’interno della comunità di riferimento. Ma certamente uno dei temi più drammatici (e di estrema attualità) sollevati dal dibattito tra liberalismo e comunitarismo è la coesistenza pacifica tra comunità con una forte identità e senso di appartenenza.

Capitolo secondo

L’appartenenza

alla comunità

Una caratteristica essenziale della moralità che ciascuno di noi acquisisce è il fatto che questa è appresa da, in e attraverso un modo di vita di qualche comunità particolare.

(Alasdair MacIntyre)

 

 

La mappa tracciata nel primo capitolo sarà di ausilio per collocare la discussione vera e propria sui temi salienti del dibattito tra liberalismo e comunitarismo. Il comunitarismo raccoglie l’eredità aristotelica-scolastica dell’etica delle virtù: un’etica teleologica e del carattere, dove i criteri di comportamento e giudizio sono ispirati ad un fine comune (la felicità della comunità) e acquisiti come parte integrante dell’identità stessa delle persone.

Sarà messo in discussione il principio cardine del liberalismo: la neutralità, tanto nell’ambito politico che in quello morale; e la logica generale dei principi universali e astratti e dei diritti.

Sul finire del capitolo sarà dato conto delle principali critiche rivolte al comunitarismo e di come una definizione evolutiva del concetto di comunità, elaborata per approssimazioni successive, vi faccia fronte.

 

L’etica delle virtù

Il tema dell’appartenenza (dell’individuo alla comunità) è il fulcro del pensiero comunitarista. Verrà affrontato lungo due dimensioni [cfr. cap. 1, pag. *]: quella normativa, per cui l’appartenenza è desiderabile, e quella metodologica, per cui l’appartenenza è inevitabile.

Rispetto a quest’ultima, il comunitarismo afferma che l’identità di ciascun individuo è costituita dal contesto (la comunità) in cui vive e da cui proviene, in contrapposizione alla teoria liberale che presuppone essa sia autonomamente formata in base alla libera scelta dell’uomo, finendo col mettere potenzialmente in conflitto gli uomini che hanno preferenze e criteri d’agire e di giudizio divergenti.

Su questa diversità di assunzioni (che approfondiremo oltre) si fonda la diversità delle proposte etiche di comunitarismo e liberalismo, che andiamo innanzitutto ad indagare.

Se gli uomini hanno diverse preferenze, interpretazioni del mondo, ideali e valori, non avrebbe senso —così sostengono i liberali— cercare criteri di giudizio morale comune su tutto questo. Bisogna piuttosto dotarsi di regole che trovino applicazione universale, a prescindere dalle credenze di ciascuno, che consentano a ciascuno di esprimere queste proprie credenze senza che esploda il conflitto. Su questo principio si basa l’etica moderna e liberale, di ispirazione kantiana.

La più interessante proposta comunitarista si ispira invece alla tradizione aristotelica [cfr. cap. 1, pag. *] e consiste nell’etica delle virtù. L’etica delle virtù si contrappone a quella moderna nei suoi tratti fondamentali: la prima è un’etica teleologica e del carattere, la seconda è, al contrario, un’etica deontologica e delle regole.

Etica teleologica vs. deontologica

L’etica moderna è, nella sua valenza epistemologica (o etica di second’ordine) del liberalismo detto appunto deontologico, deontologica: afferma che i principi sono derivati senza presupporre alcuno scopo, alcun fine umano o concetto di bene [Sandel 82].

L’etica delle virtù è, al contrario, teleologica, in quanto valuta e giustifica il comportamento dell’individuo in considerazione del fine (telos) cui mira. L’uomo è concepito, dalle tradizioni aristotelica e cristiana, come un dover essere verso un fine [MacIntyre 84a]. La realtà e l’agire proprio e altrui non sarebbero comprensibili al di fuori della condivisione di valori e visioni comuni.

Etica del carattere vs. etica delle regole

L’etica moderna è un’etica delle regole, basata cioè sull’imposizione "esterna" di codici di comportamento che valgano erga omnes, indipendentemente dal fatto che siano percepiti come giusti dagli individui (ponendo semmai un problema di legittimazione politica). In quanto valenza morale (o etica di prim’ordine) del liberalismo deontologico, afferma che doveri e proibizioni precedono le altre categorie morali e pratiche [Sandel 82].

L’etica delle virtù è invece un’etica del carattere, basata sull’incorporazione "dal basso" di valori, criteri di giudizio condivisi dalla comunità particolare, la cui osservanza non richiede uno sforzo, ma costituisce la via per vivere felici.

Approfondiamo ora queste posizioni rispetto alle due dimensioni metodologica e normativa.

 

L’individuo liberale è vuoto (non ingombrante)

La posizione liberale: la posizione originale.

Sé presociale

La teoria liberale non è informata da teleologia per garantire ad ogni individuo la possibilità di scegliere i propri fini e di mutarli secondo la propria volontà, cioè l’autonomia. L’identità del sé è tendenzialmente costituita a prescindere dai suoi fini. Si dice perciò che "il soggetto viene prima dei suoi fini" ed è "antecedentemente individuato" [Rawls 71]. Io, soggetto, so chi sono prima e indipendentemente di sapere cosa voglio.

Il sé liberale è un sé presociale, descrive un individuo "solitario e talvolta eroico" che si confronta con la società, (più o meno) completamente forgiato prima di iniziare il confronto [Walzer 89: 20]. L’influenza del contesto è cioè minima, o almeno non vincolante, sempre suscettibile di ridefinizione e critica da parte dell’individuo.

Per questa via si giunge al principio di individuazione, fulcro dell’individualismo: il soggetto umano agente, svincolato da ogni condizionamento ambientale, è sovrano delle proprie scelte; i fini sono scelti, non dati. Ciò che conta è la capacità di scegliere i fini, non i fini scelti [Ferrara 92: xiii]. Da cui segue la maggior importanza accordata alle regole piuttosto che al contenuto dei criteri di giudizio e delle azioni.

Soggetto possessivo

Con ciò si presuppone indispensabile una distanza tra l’individuo e il contesto in cui vive. Kant risolve questo problema con il soggetto trascendente. Rawls respinge questa fuga metafisica, ritiene di dover cercare un ancoramento empirico. Perciò teorizza il soggetto possessivo: io, soggetto, ho, possiedo dei fini (in contrapposizione alla concezione per cui io sono i miei fini), ma sono capace di distanziarmene almeno parzialmente [Ferrara 92: xiii].

Se l’identità del sé dipendesse dal contesto, fino all’estremo dell’esservi radicalmente situato (radically situated subject) —argomenta Rawls— al mutare del contesto cambierebbe l’identità dell’individuo, rendendo indistinguibili soggetto e oggetto [Rawls 71].

Posizione originale

D’altra parte il soggetto non può essere completamente estraneo all’esperienza, altrimenti si ridurrebbe a mera coscienza astratta, e lo sforzo di Rawls di evitare ogni forma di trascendenza sarebbe stato vano. Egli ricorre pertanto ad un artificio: la posizione originale, un non-contesto cui ogni individuo sarebbe capace di ricorrere per astrazione.

Living e abstract self

Ciò di cui Rawls è convinto non è quell’individuo completamente "puro", esente da ogni influenza della contingenza, del contesto, cui si riferisce la concezione dell’individualismo sociologico del living self, per cui la posizione originale è una situazione attuale che si verifica nella vita quotidiana [Thingpen-Downing 87].

Ma un soggetto senz’altro capace di astrarsi e di valutare criticamente proprio quel contesto, secondo la concezione dell’abstract self dell’individualismo morale. L’individuo liberale come soggetto morale è in grado di retrocedere da qualunque situazione in cui sia coinvolto e giudicarla da un punto di vista universale e astratto [MacIntyre 84a].

La posizione originale è quella situazione in cui vige il mutuo disinteresse, cioè importa solo il soggetto degli interessi, non il contenuto degli interessi. Presuppone le idee di velo di ignoranza e di beni sociali primari.

Con velo di ignoranza si intende che agli attori siano ignoti i credo, le norme, la classe sociale, lo status sociale, i fini particolari di ciascuno, cosicché i principi di giustizia non siano condizionati dalle contingenze ma avvengano in condizioni di equità e unanimità.

Beni sociali primari sono quei beni, come libertà, diritti, opportunità, potere, ritenuti desiderabili da tutti gli uomini razionali, indipendentemente dai fini particolari, oggetto di una scelta minimale, che attiene alla teoria debole del bene. La scelta tra valori e fini particolari conduce alla teoria piena del bene [Rawls 71, Sandel 82].

Questo dispositivo consente di esaminare una realtà (astratta) che risponda ai criteri del liberalismo poiché: 1) si evitano i vantaggi particolari dovuti al cumulo storico, grazie all’astrazione dalle contingenze del mondo sociale; 2) la libertà e l’uguaglianza dei cittadini sono rappresentate dalla simmetria delle parti; 3) il velo di ignoranza consente capacità critica nei confronti dell’ordine costituito, infatti il non conoscere le altrui posizioni sociali consente di metterle discussione [Rawls 85].

La critica comunitarista: emotivismo.

Sé non ingombrante

Dalla teoria liberale, quand’anche fosse realistica (stiamo perciò discutendo la dimensione normativa), risulterebbe un "individuo senza personalità" [Sandel 82], poiché esso sarebbe sì libero di agire, ma senza fini e criteri che orientino il suo agire. La completa libertà di fini assicurata dal liberalismo sarebbe cioè un vuoto dove non varrebbe la pena fare nulla [Taylor 79].

Utilizzando terminologie diverse, i comunitaristi convergono [Ferrara 92] nel criticare ciò che chiamano il sé non ingombrante (unencumbered self) [Sandel 82], il sé emotivista [MacIntyre 84a], il sé atomista [Taylor 79].

Emotivismo

Emotivismo. Chi pone l’accento sulla questione del giudizio morale, rileva che per il liberalismo tutti i giudizi di valore non sono che l’espressione di una preferenza, di un atteggiamento o di un sentimento (emotivismo) [MacIntyre 84a]. Perciò non esistono criteri razionali per dire se siano veri o falsi.

Accade così che ogni individuo può essere soggetto morale (democratizzazione dell’io), può essere qualsiasi cosa e assumere qualsiasi ruolo, perché non ha alcun contenuto sociale e identità necessaria, non è nulla in sé e per sé. Ciascuno può criticare tutto (compresa la scelta del suo stesso punto di vista) perché manca un criterio razionale di valutazione [MacIntyre 84a].

Gli uomini nella società liberale non condividono tradizioni politiche o religiose, non hanno accesso ad una singola cultura morale entro la quale possano imparare come dovrebbero vivere. Non c’è consenso sulla natura della vita buona, perciò il capriccio privato può trionfare, esemplificato dall’esistenzialismo di Jean Paul Sartre [MacIntyre 84a].

Il modello sociologico sotteso dall’emotivismo prevede la cancellazione di ogni distinzione tra relazioni non manipolative (che rispettano la massima kantiana: "tratta l’altro sempre con un fine mai come un mezzo") e relazioni manipolative (quando l’altro è trattato come mezzo, lasciato libero di giudicare le nostre ragioni in virtù di criteri valutativi impersonali) fino a trattare gli altri sempre solo come mezzi [MacIntyre 84a, Restaino 90].

Scoperta sotto il velo d’ignoranza

Mera scoperta. Chi pone l’accento sull’azione (cioè sull’etica), rileva che la concezione liberale del sé condurrebbe ad una teoria dell’azione poco plausibile. Sotto il velo di ignoranza non sta un contratto o un accordo, ma una sorta di scoperta. La scelta dei fini è una questione di mera "auto-conoscenza", non sarebbe altro che un inventario dei desideri preesistenti che mi capita di avere da accoppiare con i migliori mezzi disponibili per soddisfarli, cioè non sarebbe affatto una scelta [Sandel 82, cfr. Ferrara 92: xvi].

La sintesi di questi due aspetti si rintraccia nell’ammissione di Walzer con cui è stato scelto di introdurre il capitolo: "noi liberali siamo liberi di scegliere, abbiamo il diritto di scegliere, ma non abbiamo criterio per governare le nostre scelte, salvo la nostra propria interna comprensione dei nostri interni interessi e desideri. Non possiamo perciò spiegare ciò che abbiamo fatto ieri e predire ciò che faremo domani, non possiamo sederci assieme e raccontare storie comprensibili" [Walzer 89: 9].

I liberali "possono raccontare soltanto la storia che riguarda loro stessi e che nasce dal nulla", cioè dalla posizione originale o dallo stato di natura. "Basta evocare l’autoritratto dell’individuo costituito solo dalla sua volontà, liberato da ogni connessione, senza valori comuni, legami vincolanti, tradizioni, per svalutarlo: è già concreta assenza di valori. Che vita può avere una persona come questa?" [Walzer 89: 8].

Etica teleologica

Etica teleologica vs. deontologica: definizione

Le teorie etiche si distinguono come teleologiche in opposizione alle teorie deontologiche sulla base dei criteri per la valutazione delle azioni [Kutschera 91: 76, Sacconi 92].

1- Etica deontologica

Si dice che nelle teorie deontologiche la qualità morale di un’azione dipende dalla qualità della modalità d’azione e delle intenzioni, dalla pratica in sé, indipendentemente dalla definizione o dalla conoscenza delle conseguenze che ne derivano (perciò l’idea di giusto è sovraordinata all’idea di bene). Di fatto coincidono con quelle comunemente dette etiche del dovere, dove i concetti primitivi sono deontici, di comando e dovere, e l‘azione è buona se conforme al dovere [Kutschera 91: 75-76, Sacconi 88: 20, Etzioni 91: 616-618].

L’espressione più nota di questa impostazione è l’imperativo categorico di Kant, corrispondente alla formula: opera in modo che tu possa volere che la tua massima (qualunque sia lo scopo) debba diventare una legge universale.

2- Etica teleologica

Nelle teorie teleologiche la qualità morale di un’azione dipende dal valore delle sue conseguenze; data una definizione del bene comune sarà buona la pratica che risulta mezzo appropriato a conseguirlo. Per questo motivo sono dette anche teorie consequenzialistiche. Di fatto coincidono con le etiche dei valori, dove i concetti primitivi sono assiologici e il comportamento morale consiste nel realizzare cioè che è buono e pregevole [Kutschera 91: 76, Sacconi 88: 20].

Esiste infatti un’altro imperativo kantiano, quello ipotetico, in cui il giudizio sul mezzo è in esclusiva funzione della sua efficacia rispetto allo scopo. Ma i limiti dell’umana capacità di interpretare l’evidenza empirica lo rendono più debole e gli impediscono di assurgere a fondamento etico.

Etica comunitarista teleologica ma non solo

Nel sostenere che l’etica comunitarista è teleologica riconosciamo alla distinzione anzidetta di cogliere solo un aspetto della questione. Infatti uno degli autori citati trova che teorie deontologiche e consequenzialistiche siano accomunate dall’idea che la qualità morale di un’azione deriva da ciò che l’agente effettivamente fa, non da ciò che vuole fare [Kutschera 91: 90].

L’etica comunitarista mette in discussione gli elementi stessi tirati in causa: ciò che l’agente è, la relazione mezzi-fini che non è quella usuale ma interna (come testimonia l’altro autore citato più tardi [Sacconi 92]), ma è l’immersione della persona nel contesto che ne costituisce la personalità e i criteri etici.

Verrebbe a cadere così uno dei limiti di questo tipo di teorie: il massimalismo, per cui non avrei sempre il dovere (com’è correntemente inteso) di comportarmi in modo moralmente ottimale. Per esempio "dovrei rinunciare alle vacanze in Sicilia a favore dei bisognosi?" [Kutschera 91: 80]. La critica si indebolisce se pensiamo all’immersione (come adesione e partecipazione) della persona nella comunità, che informa i fini, l’ideale di vita buona.

È su questo punto che l’etica moderna e liberale su matrice kantiana viene contestata. Kant ha sì il merito di fondare un nuovo statuto morale basato sulla ragion pratica [MacIntyre 84a] ma fonda il comandamento etico su un senso del dovere non ancorato ad alcun fine.

D’altra parte per Kant è proprio l’irriducibilità degli interessi, delle differenze particolare degli individui che impedisce di realizzare la comunità, di pensare la politica sotto la luce del bene [Kant 65a, 65b, cit. in Esposito 96]. Il comunitarismo offre una prospettiva assai diversa rispetto alla natura umana, che intende superare gli interessi e rintracciare quel senso di appartenenza che fa la comunità (e che il liberalismo vuole ignorare).

La felicità.

In generale ogni azione e scelta è attuata in vista di un fine che appare buono e desiderabile. Talvolta è strumentale e subordinato ad altri, talvolta è voluto per se stesso ma non è sufficientemente serio per definire l’esistenza umana (come il gioco) [Luño 92].

Eudaimonia

Nell’etica aristotelica esiste un fine desiderato per se stesso e supremo da cui dipendono tutti gli altri: è l’eudaimonia, tradotto in modo intercambiabile variamente con felicità, sommo bene, vita buona, auto-perfezione, fiorire umano (human flourishing). Il termine felicità non faccia pensare che sia uno stato o la possibilità di godere di un piacere, è un’attività, un modo di vita [Luño 92].

Per Aristotele la felicità perfetta è propria solo degli dei. L’uomo è felice quando realizza i fini delle proprie facoltà e della propria natura a seconda dei vari tipi di vita che conduce, fermo restando che l’attività più alta e tipicamente umana (essendo gli esseri umani contraddistinti dal possesso dell’anima intellettiva) è la vita contemplativa delle cose belle e divine, vissuta in quanto negli uomini vi è qualcosa di divino [Sini 86]. La felicità è un bene immanente, non trascendente (come per Platone) o indefinito (come per Socrate), perciò (e solo così) è realizzabile dall’uomo [Reale 82].

Per i cristiani la felicità (beatitudine) è la contemplazione di Dio, il sommo intelligibile, ed è ideale perché essa si realizza perfettamente solo nella vita ultraterrena. La vita terrena è felice ancora quando è virtuosa, ma non all’insegna della sapienza filosofica; l’essenza è, nelle virtù teologali (che Tomaso D’Aquino introduce su uno schema aristotelico) la carità, perfezione dell’amore [Rovighi 86, Luño 92].

L’eudaimonia è il vivere secondo virtù [Aristotele, Etica Nicomachea, X, 4, 1174b]. Ma non è un obbiettivo extra etico rispetto a cui tutto il resto (comprese le virtù) è mezzo di cui si misuri l’utilità [Luño 92]. Il rapporto tra virtù e vita buona non è quello usuale (di relazione esterna) mezzo-fine: è una relazione interna, per cui la vita buona non è perseguibile se non in termini di una vita spesa secondo virtù (non esistono mezzi alternativi [MacIntyre 84a]), né le virtù sono definibili al di fuori della vita buona [Sacconi 92]. Le virtù sono le qualità il cui possesso consente all’uomo di raggiungere l’eudaimonia [MacIntyre 84a], e al contempo da essa sono generate come suo elemento costitutivo [Luño 92].

 

La comunità fa la vita buona

Virtù definita da comunità

La vita buona è una meta condivisa e determinata dalla comunità. Le virtù non sono realizzabili fuori dalla vita associata, perciò il fiorire umano è raggiunto con e tra gli altri [Rasmussen-Den Uyl 95]. L’uomo non è intelligibile se non come animale politico (politikon zôon).

Per Aristotele, la vita associata si deve al fatto che l’individuo non è sufficiente a se stesso, non solo perché non può provvedere ai suoi bisogni o manca di potere (á la Hobbes), ma perché non può conseguire le virtù al di fuori delle leggi e dell’educazione: è solo nello Stato che l’uomo, sollecitato dalle leggi e dalle istituzioni politiche, esce dal suo egoismo e vive secondo ciò che è oggettivamente buono [Abbagnano 82].

Giudizi morali

I giudizi morali sono dotati di senso solo all’interno della comunità: non esiste un sistema per misurare estemporaneamente la bontà di un particolare individuo, essa è compresa in un sistema complesso entro la comunità, in cui c’è il pieno consenso basato sull’amicizia [MacIntyre 84a]. L’amicizia (philia), la

Non esiste giudizio morale al di fuori della comunità (e non esiste comunità senza comunanza di valori): lo affermò già la Arendt: "si giudica sempre in quanto membri di una comunità, guidati dal senso comunitario, dal sensus communis" [Arendt 90, cit. in Esposito 96]. La visione condivisa del bene, l’eudaimonia, infatti guida il comportamento delle persone. I criteri etici che fanno propri sono costituiti dal contributo del loro agire in direzione della felicità-eudaimonia.

Giustizia

Sotto questa luce il principio, pur sempre centrale, di giustizia assume nuovi connotati, in direzione opposta a quella del liberalismo [cfr. infra pag. *]. La virtù della giustizia, cioè dell’essere giusti e dare a ciascuno ciò che merita, richiede come presupposti sociali che esistano dei criteri razionali per valutare il merito e che esista un accordo socialmente stabilito su quali siano questi criteri.

Perciò non esiste merito al di fuori della comunità [MacIntyre 84a], così come, vedremo poco oltre, non esiste vita (buona) comunitaria senza il perseguimento del merito.

Amicizia

L’amicizia (philia), "la cosa più necessaria alla vita", è quel rapporto di benevolenza reciproca che tiene insieme tutti i membri della comunità (koinonia). Se la carità cristiana comporta amore anche rispetto a coloro che sbagliano e ci offendono, il perdono, per Aristotele il fondamento dell’amicizia è la virtù [Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 9, 1170b, 5], per cui il virtuoso non può essere amico di un malvagio [Luño 92].

Fondare una comunità comporta due ordini di prassi valutative: da un lato riconoscere consensualmente come virtù un certo insieme di qualità il cui possesso conferisca l’onore; dall’altro identificare quei ruoli in grado di distruggere i vincoli comunitari che sono perciò ritenuti inammissibili e comportino Perciò non esiste merito al di fuori della comunità [MacIntyre 84a], così come, vedremo poco oltre, non esiste vita (buona) comunitaria senza il perseguimento del merito.

Conflitto

Secondo la prospettiva dell’etica delle virtù, il conflitto, in quanto è osservabile, è spiegato come il risultato di difetti di carattere degli individui o dell’ordinamento, che sfugge all’armonia con le virtù [MacIntyre 84a]. Aristotelicamente, se è vero che l’uomo non sceglie il fine, che è (la felicità) in lui per natura (attraverso la vita sociale nella comunità), la virtù dipende dalla scelta dei mezzi verso il fine, ed è libera, perché dipende solo dall’uomo, perciò la malvagità, la distanza dal bene, si deve all’uomo [Abbagnano 82].

 

Le virtù al plurale

Il largo ricorso al pensiero aristotelico in chiave post-moderna [v. cap. 1, pag. *] è giustificato dalla sensibilità per la pluralità da contrapporre alla monoliticità del pensiero moderno [Nacci 95, Harvey 89], per cui la virtù è una categoria universale e metastorica [Boradori 91]. Propone una molteplicità di forme del sapere (scienze teoretiche e pratiche), una molteplicità dei sensi dell’essere. Soprattutto una molteplicità di virtù: il fiorire umano è infatti inclusivo, cioè costituito e definito da più beni e virtù con cui non compete [Rasmussen-Den Uyl 95].

Virtù morali

Secondo lo schema aristotelico, le virtù possono essere suddivise in virtù morali (etica) e virtù intellettuali (dianoetica). Le prime riguardano la vita sociale (vita attiva) e sono volte al dominio della ragione sugli impulsi sensibili. Il principio ispiratore delle virtù morali è la disposizione a scegliere il giusto mezzo (mesótës, alla latina mediocritas) tra eccessi contrari, superando gli estremi stessi poiché segna l’affermazione della ragione sulle passioni: il coraggio rappresenta il giusto mezzo tra viltà e temerarietà, la liberalità tra avarizia e prodigalità, e così via.

Virtù intellettuali

Le virtù intellettuali riguardano la vita contemplativa, cioè la felicità (eudaimonia), l’esercizio stesso della ragione. Si compongono della scienza, la capacità dimostrativa che ha per oggetto ciò che è necessario ed eterno, dell’arte (techne), la capacità di produrre oggetti, dell’intelligenza (nous), della sapienza (sofia), virtù della ragion teoretica che asserisce il possesso di scienza e intelligenza.

Crisi della virtù

La tradizione plurale aristotelica è stata interrotta nel mondo moderno. Essa trova radici nell’epoca eroica di Omero, e naturalmente nell’opera di Aristotele. La "prima crisi della virtù" si manifesta con l’affermarsi e il procedere dell’Impero romano impregnato di stoicismo, per cui l’uomo è legato alla legge universale dell’ordine cosmico e la virtù non è teleologica e concepita al singolare.

Il mondo cristiano medievale segna un ritorno alle virtù: anche per Tomaso D’Aquino il bene umano si articola in una pluralità di bona humana poiché l’uomo è una realtà complessa [Rovighi 86], ed aggiunge, nello schema aristotelico, alle quattro virtù (morali) cardinali (giustizia, temperanza, prudenza, fortezza) le tre teologali (fede, speranza, carità).

Rinascimento e Illuminismo, che marca l’ingresso nella modernità, rappresentano la "seconda crisi della virtù", di nuovo al singolare, accompagnata dall’abbandono del finalismo e della prospettiva storica [MacIntyre 84a, Restaino 90]. Questo percorso culminerà con l’affermazione della filosofia analitica oxfordiana [MacIntyre 84a].

Unità delle virtù

La pluralità delle forme è al contempo raccolta ad unità (pros hen, il riferimento al termine unico, la sostanza) come connessione del molteplice [Berti 89, Volpi 91], e tutte queste virtù sono comprese in un tutto unico (unità delle virtù) in cui ragion pratica e ragion teoretica sono congiunte.

Il fulcro è la saggezza o prudenza (phronesis), virtù intellettiva della ragion pratica che, determinando il giusto mezzo, consiste nella capacità di agire nel modo più conveniente collegando le virtù morali con il caso contingente [MacIntyre 84a].

Essendo il fiorire umano individualizzato, cioè non astratto o universale, ma individuale, e agent-relative, cioè non impersonale, con un agente razionale e indipendente dal contesto, è proprio la phronesis a bilanciare le priorità della giustizia nel confronto dell’individuo con il contingente (e non a priori), e a mediare la rilevanza dei fatti particolari [Rasmussen-Den Uyl 95].

Concetto secondario di virtù

Quello di virtù è tradizionalmente un concetto secondario rispetto ad un altro preliminare. Per Omero il ruolo sociale, come quello principale del Re guerriero, precede la virtù. Per l’utilitarismo di Benjamin Franklin la virtù è mezzo estrinseco funzionale all’utilità. Anche la virtù aristotelica sarebbe concetto secondario rispetto alla vita buona, pur nell’ambito di quella relazione interna di cui è stato detto [MacIntyre 84a].

Concezione fondamentale della virtù

Sarebbe invece possibile immaginare una concezione fondamentale della virtù, intesa come qualità umana acquisita il cui possesso ed esercizio ci consente di raggiungere quei valori interni alle pratiche, la cui mancanza per converso ci impedisce effettivamente di raggiungere qualsiasi valore del genere [MacIntyre 84a].

I valori sono detti interni quando il loro conseguimento è un valore posseduto dall’intera comunità, mentre quelli esterni, una volta raggiunti, permangono di proprietà dell’individuo sottraendoli ad altri (ad esempio la fama) [MacIntyre 84a].

Questa concezione di virtù è il prodotto dello stratificarsi di tre fasi logiche: l’interpretazione preliminare della pratica, l’interpretazione dell’ordine narrativo di una singola vita umana, l’interpretazione della tradizione morale [MacIntyre 84a]. La virtù comprende modelli di eccellenza morale, solo grazie ai quali all’uomo è concesso di collaborare al bene ultimo, la costruzione del bene così com’è pubblicamente condiviso [Boradori 91].

 

Etica del carattere

L’etica delle virtù è un’etica del carattere, alternativa all’etica delle regole kantiana e liberale. Quest’ultima stabilisce regole di convivenza tra individui con scopi, desideri, interessi potenzialmente in conflitto, in modo che possano condurre il proprio personale ideale di vita senza danneggiare gli altri e giustifica il dovere di obbedire a dette regole [Luño 92, Sacconi 92].

L’etica delle virtù come etica del carattere mira invece a forgiare il carattere personale di ciascuno all’insegna di una vita buona comune (o comunitaria) [Sacconi 92]. Non riguarda il solo agire umano, riguarda il sentire degli uomini: l’agire virtuoso non è un’agire contro la propria inclinazione per obbedire agli imperativi (Kant), è un agire in base ad un’inclinazione plasmata mediante la coltivazione delle virtù (educazione sentimentale) [MacIntyre 84a].

In altri termini l’etica delle regole prescinde dal fatto che gli individui siano più o meno "buoni", cioè spontaneamente orientati verso il comportamento ritenuto corretto, e cerca di costruire una gabbia di comandamenti entro la quale essi non possano che comportarsi "bene" rispetto ad un dato scopo, perché percepiscono la responsabilità, il dovere di obbedire nonostante o contro le proprie naturali inclinazioni.

L’etica delle virtù mira piuttosto a che le persone siano "buone", cioè sentano di perseguire il bene (la vita buona) non come peso ma come la propria naturale inclinazione (le virtù). Questa inclinazione è condivisa nell’ambito della comunità (e distingue la comunità dalle altre) poiché matura con la vita sociale.

Abbandono del dovere?

Questo non significa che l’etica aristotelica abbandoni la nozione di dovere o la razionalità. Ma è la coltivazione del carattere personale che conta, che inizia ben prima di razionalizzare le nostre azioni. "La formulazione di principi generali [su cui ci attarderemo in seguito, v. infra pag. *] non è necessario sia una fase esplicita nel comportamento ma semmai una formulazione dei filosofi" [Solomon 93a: 113-14], insomma ogni regola o codice morale viene dopo le virtù [Peláez 95: 12], anzi secondo i comunitaristi più radicali (come MacIntyre) sono infondati e fuorvianti.

Inoltre —prosegue Solomon— i doveri sono definiti dai ruoli nella comunità e non mezzi di raziocinio astratto. Ad essere rigorosi far parlare di doveri i comunitaristi è ambiguo. Etzioni lo fa a sua volta [cfr. Etzioni 93a], ma infatti egli confessa la sua impostazione deontologica che lo configura come un comunitarista sui generis

Non sono doveri quelli richiesti alle persone dall’etica delle virtù ma abiti costituiti dalla comunità: "un individuo identifica il proprio benessere con il bene del gruppo, e il bene del gruppo è identificato con il bene di tutti. È come se l’individuo fosse avvolto, fosse parte di gruppi o comunità sempre più ampi" [Shaw 95: 853].

La separazione delle sfere.

L’etica delle regole delimita le frontiere oltre le quali l’attività dell’individuo cessa di essere privata. È un’etica "in terza persona": non si offre come criterio e giustificazione morale riguardo alla sfera personale di ciascuna persona, ma definisce regole per la convivenza civile tra le persone.

Rispetto alla sfera privata, non si pone perciò il problema della felicità, perché la vita felice è un problema del solo soggetto agente: sia l’ideale di vita felice che i criteri per giudicare della felicità sono soggettivi e inappellabili. Per Kant la felicità è una realtà solo edonica, ideale dell’immaginario indicante la somma di tutti i piaceri sensibili, e perciò indeterminato e incapace di dar luogo a precetti morali oggettivi e universalmente validi [Luño 92].

Per converso la sfera pubblica è esaltata fino ad identificare, nel liberalismo, la morale con la morale sociale, con la giustizia, l’azione pubblica esterna. In quest’ottica la virtù è la disposizione a rispettare le regole sociali vigenti, al fine di limitare le conseguenze negative dell’attuale condizione umana (quella di uomini in conflitto affatto inclini a concordare, che c’è tanto in Hobbes che in Kant) [Luño 92].

Questa distinzione tra vita privata e vita pubblica è solo una delle fratture che attraversano la società liberale. Mentre la sfera pubblica è soggetta a giudizio secondo i principi di giustizia, quella personale non è sindacabile, perché gli standard di valutazione morale sono incommensurabili [MacIntyre 84a]. L’agire umano, secondo l’etica liberale, è però suddivisibile in una pluralità di sfere regolate da criteri etici diversi. Vedremo in seguito l’esemplare distinzione tra affari e resto del mondo [v. cap. 3, pag. *].

Diviene così impossibile concepire la vita come un tutto organico (come nell’etica delle virtù) se essa è suddivisa in una molteplicità di segmenti (si pensi alle distinzioni lavoro-tempo libero, privato-pubblico), ciascuno con le proprie norme [MacIntyre 84a].

L’educazione alle virtù.

L’etica delle virtù presuppone un’educazione alle virtù, che faccia sentire le virtù come proprie agli uomini: le virtù sono abiti (habiti con Tomaso D’Aquino [Abbagnano 82]), cioè disposizioni ad agire in un certo modo, che si acquisiscono con la pratica. Non basta perciò un solo atto a qualificare un uomo come buono o cattivo: è il carattere permanente che definisce le virtù a distinguerle dalle buoni azioni, e la libertà di scelta che sottendono a distinguerle dalle mere abitudini [Peláez 95: 11-12].

È relativamente poco importante identificare con precisione le virtù (il fiorire umano è oggettivo, cioè costituito da molti beni e virtù il cui esatto carattere non è impersonale ma dipende da chi siamo [Rasmussen-Den Uyl 95]) o quali considerare virtù intellettuali, soggette ad insegnamento, o virtù di carattere, acquisibili con l’esercizio abituale [MacIntyre 84a].

Ciò che rileva è che l’educazione alle virtù è uno sforzo dell’individuo (il fiorire umano è autodiretto [Rasmussen-Den Uyl 95]), alimentato proprio dall’esercizio contemporaneo di virtù morali ed intelligenza pratica e dianoetica, dalla congiunzione tra ragione teoretica e ragione pratica.

Ragion pratica.

La virtù cruciale è quella della saggezza o prudenza (phronesis), cioè della capacità di agire nel modo più conveniente coniugando le virtù morali con il caso contingente [Abbagnano 82, MacIntyre 84a, Rasmussen-Den Uyl 95]: "la virtù rende retto lo scopo, mentre la saggezza rende retti i mezzi" [Aristotele, Etica Nicomachea, Z 13, 1144 a 6-9]. Non è possibile essere virtuosi senza la saggezza né essere saggi senza le altre virtù [cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, Z 13, 1144 b 31-33].

È possibile immaginare uno schema basato su tre elementi: stato iniziale, ragione pratica, fini. Lo stato iniziale rappresenta la natura così com’è, discrepante dai precetti etici. La ragione pratica trasforma la natura umana attraverso l’educazione. I fini conferiscono l’idea di come sarebbe l’esperienza della natura umana se realizzasse il proprio telos.

Ciascun elemento è comprensibile soltanto se riferito agli altri due: lo stato iniziale è subordinato a trasformazione mediante ragione pratica verso fini, la ragione pratica è incomprensibile se non improntata ai fini e quando non muova da uno stato iniziale, i fini plasmano la ragion pratica e, per suo tramite, la natura [MacIntyre 84a, Luño 92].

Ulteriori delucidazioni sulla prudenza saranno proposte nell’ambito più congeniale, cioè quando l’etica comunitarista si trova a dover fare i conti con l’applicazione alla vita concreta come quella professionale [v. cap. 4, pag. *].

 

L’individuo incorporato

L’appartenenza, oltre ad esprimere un dover appartenere nell’etica delle virtù, va indagata come di una necessità ineludibile. Infatti, a dispetto delle assunzioni della teoria liberale, gli individui non sono esseri autonomi, ma sono immersi in un contesto sociale che condiziona le loro scelte e la loro identità, da cui non riescono ad astrarsi.

 

L’individuo non è libero, è costituito dalla comunità

La rappresentazione liberale dell’individuo non descrive plausibilmente la realtà (dimensione metodologica). L’individuo non è un soggetto autonomo, che autodetermina i propri fini, libero di agire. L’identità dell’individuo non prescinde dai suoi fini, anzi ne è determinata. E questi fini non solo sono deliberati o scoperti dall’individuo, ma sono costituiti dal contesto in cui vive.

Il possesso dei fini

Una concezione moderna del soggetto deve mediare tra due estremi: da una parte è irrealistico immaginare che l’identità del soggetto sia costituita a prescindere dai fini, impermeabile alle determinazioni storico-sociali; dall’altra risulta difficile che sia costituita senza distacco dai fini, per cui il soggetto è radicalmente situato e prigioniero delle circostanze sociali e storiche della sua costituzione [Ferrara 92]. In prima approssimazione, diciamo che la concezione liberale è vicina al primo estremo, quella comunitarista al secondo.

Allora si tratta di comprendere che esistono due modi di concepire un soggetto che sia contemporaneamente connesso ai propri fini ma anche capace di distanziarsene, cioè due modi in cui il soggetto "possieda" dei fini.

Infatti ci sono due aspetti del possedere: 1) da una parte il soggetto è legato a ciò che possiede, per cui ciò che è mio non è tuo; 2) dall’altra c’è una distanza tra soggetto e oggetto, per cui l’oggetto è solo mio, non equivale a me [Sandel 82].

Corrispondentemente nel caso di perdita dell’oggetto: 1) da una parte permane il sé quale vittima della perdita; 2) dall’altra il comprendere che l’identità del soggetto si mantiene nonostante la perdita dell’oggetto richiede una certa distanza dall’oggetto.

La perdita di possesso può avvenire in due modi opposti: 1) perché l’oggetto si allontana dal soggetto, o 2) perché si avvicina talmente da confondersi con il soggetto stesso. Nel primo caso non si può più distinguere ciò che è mio da ciò che è tuo; nel secondo caso non si può distinguere ciò che è mio da me.

Per rientrare in controllo dell’oggetto ovvero dell’autonomia, entrano in campo due diverse facoltà nei due diversi casi: 1) nel primo, è la volontà con cui il soggetto cerca di ridurre la distanza tra il sé e l’oggetto (per ottenere di possedere l’oggetto desiderato), cioè è cruciale interrogarsi su "che fini devo scegliere?"; 2) nel secondo è l’autoriflessione o auto-conoscenza per affermare una certa distanza tra sé e oggetto, cioè ci si chiede "chi sono?" [Sandel 82].

Tutto questo serve a dimostrare che le assunzioni sottostanti i concetti di soggetto possessivo e posizione originale non sono affatto innocue e neutrali (perciò unanimemente o largamente condivisibili) come pretendono i liberali [Sandel 82]: il soggetto possessivo accoglie acriticamente solo uno degli aspetti di tutte le dimensioni indicate.

La presunzione di Rawls di proporre una teoria non schierata, basata su ipotesi a loro volta neutrali, che non prevede una teoria complessiva del bene, non presuppone alcuna metafisica [cfr. Baynes 90], è infondata. Lo avvalora Gutman: la teoria della giustizia come equità non è compatibile con tutte le visioni metafisiche, perciò è schierata [Gutman 85].

Rawls sarebbe troppo schiacciato sul primo momento, risultando così impermeabile all’esperienza e alla storia [Ferrara 92: xiii-xv]. Ma sia chiaro che Rawls non nega l’influenza del contesto sulla costruzione dell’identità del soggetto, bensì rivendica la capacità del soggetto di valutazione critica di esso.

Il riconoscimento.

Per i comunitaristi, l’identità dell’individuo non può prescindere dal contesto in cui esso vive, altrimenti non sarebbe intelligibile, anzi da esso è costituita. I metri di giudizio morale sono determinati dal contesto: "tutto ciò che è giudicato ottimale riflette giudizi di valore soggettivi in ordine alle persone che si decide di considerare parte della propria comunità piuttosto che dei criteri obbiettivi" [Etzioni 91: 615-6].

Diremo che il riconoscimento dell’individuo, nelle due accezioni di identificare (cioè produrre identità, personale e comunitaria) e gratificare (merito, giudizio), può avvenire solo nella comunità.

La comunità non può essere considerata solo come un "sentire" (feeling) percepito dagli individui cooperatori della teoria liberale. Essa non solo determina gli scopi comunitari, ma è (almeno parzialmente) costitutiva dell’identità dell’individuo [Sandel 82]: solo la virtù dell’essere membri consente di capire il significato dei nostri credo morali, indipendentemente dal fatto che gli scopi e le credenze siano di natura comunitarista [Mulhall-Swift 92]. Sono le virtù (definite dalla comunità) che fanno l’uomo (vir) [Peláez 95: 11].

Vale a dire che l’identità di tutti gli individui è determinata dai loro fini, e tutti i fini sono determinati dal contesto, anche se questi fini non sono propensi a consolidare la dimensione comunitaria (ma questo solamente nella dimensione metodologica; a comprendere quella normativa, il pensiero comunitarista propone ovviamente fini a sostegno della comunità).

Si pensi che le relazioni umane in cui siamo immersi non sono solo relazioni esclusive, dove cioè i partecipanti vengono scelti, ma spesso sono relazioni aperte, senza esclusioni a priori [Rasmussen-Den Uyl 95], perciò ricondurre lo stare sociale all’associazione volontaristica dei liberali risulta riduttivo e fuorviante.

La capacità di astrazione.

Ci sembra superfluo dilungarci sull’influenza del contesto, anche per non abbandonare il campo della filosofia applicata per quello della sociologia. Che l’identità dell’individuo sia almeno parzialmente costituita dai fini e dal contesto concorda la gran parte dei liberali. Il caso emblematico è quello dello stesso Rawls, che recentemente [Rawls 93] sembra aver accolto la validità della principale tesi comunitarista: gli esseri umani sono immersi nella cultura e nella tradizione, e devono portare il loro patrimonio storico, culturale, etnico, religioso, nella posizione originale per avere una identità sufficiente ad evitare che le loro scelte siano completamente casuali [Hall 95: 4].

È la conclusione di un processo di revisione iniziato negli anni Ottanta [cfr. infra pag. *], criticato dai liberali più ortodossi poiché segue la strada della riduzione del campo di applicazione della propria teoria alla sola sfera politica [Kymlicka 89a: 58, Baynes 90]. Vale forse la pena sottolineare che le relazioni umane in cui siamo immersi non sono solo relazioni esclusive, dove i partecipanti vengono scelti, ma spesso sono relazioni aperte, senza esclusioni a priori [Rasmussen-Den Uyl 95].

Capacità di astrazione

Il motivo determinante che distingue i liberali è che, per quanto l’individuo sia influenzato dal contesto, esso è sempre capace di astrarsene e di valutare criticamente il contesto stesso. Anche senza i distinguo di Rawls, la sua teoria potrebbe essere letta in termini di capacità di ragionamento post-convenzionale á la Kohlberg, cioè della capacità dell’attore di sviluppare decentramento, differenziazione, riflessività, di considerare il punto di vista altrui [Baynes 90].

Ammettere la capacità di astrazione non nega l’influenza dell’immersione in un contesto sociale. Per i liberali i comunitaristi confonderebbero le proposizioni che seguono: 1) pensare alla natura e alla felicità umana senza pensare al contenuto socio-culturale; 2) pensare che natura e felicità umane non incorporino un contenuto socio-culturale.

La seconda è falsa, ma non c’è ragione per cui astrazione implichi proprio quell’alternativa. È questa la posizione abbracciata dall’individualismo sociologico, basato sulla nozione del "sé vivente" [cfr. supra pag. *], che cioè legge la teoria rawlsiana come da applicarsi ad effettive situazioni di vita, per cui assume che le persone non siano connesse da intrinseci legami sociali.

La prima posizione, suggerita da quello stesso Tommaso D’Aquino eletto come punto di riferimento da MacIntyre, per cui l’astrazione non necessariamente esclude aspetti della natura [cfr. Rasmussen-Den Uyl 95], è abbracciata dall’individualismo morale, basato sul "sé astratto" [cfr. supra pag. *], che presuppone la capacità di scelta morale irriducibile al mero svolgimento di dati ruoli, cioè le persone non possono fuggire i legami sociali ma possono valutarli criticamente. Se l’individualismo sociologico merita l’attacco comunitarista, allo stesso tempo il comunitarismo è basato a sua volta su un "sé (encumbered) vivente" [Thingpen-Downing 87: 643-645].

La replica liberale.

1- Irrealismo

I liberali rivoltano l’accusa metodologica di una teoria non realistica. Sarebbero piuttosto i comunitaristi a violare la percezione che abbiamo di noi stessi: nella realtà non ci consideriamo intrappolati nel contesto presente, ci domandiamo piuttosto che persone vogliamo essere [Gutman 85], non ci affidiamo ad una mera scoperta (discovery) dei fini [cfr. supra nota n. , p. *]. Sono certi stessi comunitaristi ad ammetterlo: l’agire non è solo auto-scoperta, i confini del sé sono flessibili e, benché costituiti dai suoi fini, possono essere rintracciati [Sandel 82].

2- Accordo persona antecedente ai suoi fini

Certi liberali forzano questo punto per avvicinarli alla propria posizione e semplificano: per Sandel i confini del sé sarebbero costituiti dai fini ma suscettibili di modifica, per Rawls il sé precede i suoi fini ma i confini sono fissati antecedentemente. Entrambi accetterebbero perciò che la persona è antecedente i suoi fini, il disaccordo starebbe solo sul dove, nella persona, fissare i confini del sé. E questa non è materia di filosofia politica e di dibattito col liberalismo [Kymlicka 90].

Insomma, di questa istanza comunitarista esisterebbero due versioni, una forte (strong claim) per cui l’auto-scoperta sostituisce il giudizio, e una debole (weak claim) per cui il sé è costituito dai fini ma ricostituibile. Se la prima è inaccettabile, la seconda è assorbita dal liberalismo contemporaneo [Kymlicka 90].

3- Poco utile

La concezione aristotelica dei comunitaristi, per cui il bene è determinato dai ruoli, sarebbe di poco aiuto in una società come quella moderna. Da una parte i ruoli e le norme sociali non determinano l’identità. Svolgiamo ruoli diversi, la maggior parte dei ruoli non prospettano un bene unico, spesso siamo noi a scegliere i ruoli proprio per il bene connesso [Gutman 85: 129]. Cioè non accade logicamente che poiché "io sono il figlio o la figlia di qualcuno, il cugino o lo zio di qualcuno; sono un cittadino di questa o quella città, un membro di questa o quella corporazione o professione; appartengo a questo clan, quella tribù, questa nazione, perciò ciò che è bene per me deve essere il bene per colui che calza questi ruoli" [MacIntyre 84a, cit. in Gutman 85: 128-129].

Inoltre le norme sociali vanno valutate per il loro effetto sul sé, non vanno considerate esse stesse parte dell’essenza delle persone. Il sé liberale è autonomo nel senso che non risulta arricchito da nessuno degli obblighi costitutivi che rendono qualcuno una persona particolare [Waldron 89: 291-296].

Dall’altra certi bisogni, interessi, valori travalicano la specifica comunità in cui viviamo e appartengono alla "comune umanità". Ciò non comporta di negare che alcuni aspetti della vita morale della persona sono particolari, tanto che si suole distinguere diritti e doveri speciali (originati da promesse, obbligazioni, ruoli) da diritti e doveri generali (i diritti umani).

L’attenzione va spostata dalla contrapposizione comunitarismo-individualismo (intesa come tra valori a sostegno di una visione comunitaria e valori a sostegno dell’autonomia) a quella particolarità-astrazione (tra coscienza della realtà concreta delle norme di una specifica società o contesto e la capacità di astrazione liberale) [Waldron 89: 291-296].

 

Dalla comunità liberale alla visione comunitarista

Accenniamo brevemente al modello di comunità che hanno in mente i liberali per criticarlo dal punto di vista comunitarista. Ulteriori approfondimenti avverranno diffusamente nella ricerca e la problematica del concetto stesso di comunità sarà affrontata in conclusione del capitolo [v. infra pag. *].

La comunità del liberalismo deontologico.

Comunità indipendente dai fini

È facile scorgere un parallelo tra l’idea di sé e di comunità proposte da Rawls: così come valori e fini di una persona sono sempre attributi scelti e mai costitutivi del sé [v. supra pag. *], così il senso di comunità è solo attributo e non costitutivo della società. La società è "antecedente ai fini" [Sandel 82: 64, cfr. Ferrara 92: xv].

È una situazione subordinata di "una tra le altre", indipendente dai fini dei membri, e dove i membri sono a loro volta indipendenti dai fini della comunità, definita com’è dalla giustizia che non presuppone alcun fine particolare [Sandel 82].

Il modello di comunità di Rawls

Il liberalismo deontologico nella persona di Rawls fa un apprezzabile sforzo per superare il modello di comunità dell’individualismo tradizionale (su cui si fondano le idee di homo oeconomicus o homo politicus) [Rawls 85, cfr. Sandel 82]. Sintetizziamo i caratteri del nuovo modello.

I membri posseggono scopi condivisi, interessi complementari o sovrapposti, in opposizione alla società privata, strumentale ai fini dei singoli, cui si aderisce per contratto. L’individuo può essere altruista, non è necessariamente egoista (che coopera per massimizzare i propri interessi). La qualità dei sentimenti è più importante dell’idea di unione a scopo di sfruttare i vantaggi della cooperazione.

La critica permane

Nonostante questo modello possa apparentemente risultare coerente con il pensiero comunitarista, resta legato alla concezione moderna di interessi, autonomia del singolo, cooperazione. La comunità è "un insieme di persone libere con capacità simili o complementari che possono cooperare nel realizzare la loro natura per quanto compatibile" [Rawls 85, cfr. Sandel 82]. La coesione comunitarista non è fondata sul calcolo, sull’interesse che conduce alla cooperazione, ma sull’adesione a valori comuni, sulla partecipazione alla felicità comunitaria fondata sull’amicizia [v. supra pag. *].

Il modello di società che di fatto si è imposto nella tradizione liberale è attaccato sui due fronti normativo e metodologico. Rispetto alla dimensione metodologica ignora l’ineludibile dimensione morale che informa i rapporti tra le persone nella realtà, ignora quell’immersione dell’uomo nella comunità di cui si è anzi detto [v. supra pag. *].

Da punto di vista normativo, non è affatto desiderabile. Anzi il modo di vita che più si avvicina al modello liberale, quello statunitense per intenderci, mina la felicità dell’individuo, fondato com’è sulla frammentazione, sulla precarietà delle relazioni umane. "La società americana vede effettivamente individui relativamente dissociati e separati e che continuamente si separano", e il liberalismo giustifica questa "mobilità", la considera come attivazione di libertà il cui perseguimento produce felicità. "Invece riflette un senso di perdita reale" [Walzer 89].

La comunità comunitarista.

Strong View of Community

In diretta alternativa al modello proposto da Rawls (che pure risulta evoluto nella prospettiva comunitarista), Michael Sandel avanza ciò che definisce una visione "forte" della comunità (strong view of community) [Sandel 82]. La ragione per cui ci soffermiamo proprio su questo modello è perché è l’unico chiaramente esplicitato in letteratura. Altre deduzioni sono state già fatte e verranno aggiunte in seguito.

Lo stesso concetto primitivo di relazione viene messo in discussione a favore dell’idea di affezione, attaccamento emotivo alle persone. Soprattutto ciò che viene contestato è l’idea di scambio e reciprocità che permane nella proposta rawlsiana e che sfocia nella cooperazione (per quanto altruistica). Presuppone impersonalità e neutralità (coerentemente con la teoria della giustizia): solo così il "membro cooperatore" può ragionevolmente accettare ciò che gli altri accettano, e l’idea di vantaggio razionale di ogni partecipante viene assicurata dalla posizione originale [Rawls 85]. Il motivo incoraggiato è qui quello della solidarietà, della condivisione di un comune sentire, della partecipazione al bene comune [Sandel 82].

 

La neutralità

Il concetto di neutralità è centrale nel liberalismo contemporaneo [Kymlicka 89b]. È il comune denominatore che lega autori per altri versi molto differenti [Ferrara 92: xxii].

Introduciamo la neutralità definendola come l’atteggiamento che risponde all’esigenza di non favorire un comportamento o una concezione di vita rispetto agli altri. La portata generale di questa nozione ci consente di ricondurvi le diverse accezioni di neutralità ovvero l’applicazione in campi diversi. Di due in particolare ci interesseremo: la neutralità politica e soprattutto la neutralità morale.

 

La neutralità politica (la politica del giusto vs. la politica del bene)

La posizione liberale.

Nella filosofia politica, la neutralità si applica al ruolo dello Stato difronte ai diversi stili di vita e concezioni del bene (cioè valori e visioni del mondo) dei cittadini. Essa asserisce pertanto che lo Stato dovrebbe essere neutrale rispetto ad ogni concezione del bene, cioè "non dovrebbe premiare o penalizzare particolari concezioni di vita buona, ma piuttosto assicurare un contesto neutrale dove concezioni di bene differenti e potenzialmente conflittuali possano essere parimenti perseguite" [Kymlicka 89b: 165].

A livello di singola decisione essa può dirsi neutrale "solo se è giustificabile senza fare appello alla presunta superiorità intrinseca di qualche particolare concezione della vita buona" [Larmore 87: 44]. A livello invece di più ampia teoria della giustizia, neutralità significa che l’accettazione dei principi di giustizia prescinde dall’accettazione di concezioni del bene controverse [Rawls 85].

Neutralità consequenziale e giustificatoria

Nel liberalismo sono esistiti due tipi diversi di neutralità: la neutralità consequenziale (consequential neutrality o neutral political concern) e la neutralità giustificatoria (justificatory neutrality o exclusion of ideals). La prima prevede che lo Stato aiuti in eguale misura i differenti modi di vita; prevede cioè che le conseguenze della politica siano neutrali. La seconda prevede che lo Stato sostenga sì certi modi di vita piuttosto che altri, ma non contro gli altri; prevede cioè che siano neutrali le giustificazioni della politica [Kymlicka 89b: 166].

Il liberalismo contemporaneo (Rawls in primis) abbraccia la neutralità giustificatoria. Infatti la libertà di espressione di tutte le idee non comporta che tutte le idee avranno pari peso: le idee si confrontano sul mercato delle idee —così si sostiene— e quelle più soddisfacenti cacciano quelle meno soddisfacenti. Inoltre i diversi stili di vita hanno costi diversi, e l’equa ripartizione delle risorse non darebbe effetti neutrali [Kymlicka 89b: 166]. D’altra parte questo è coerente con la focalizzazione del liberalismo sulle regole piuttosto che sui contenuti: una volta assicurate regole di espressione e di comportamento giustificate, non vi deve essere giudizio sui contenuti.

La giustizia.

La giustizia è il primo dei valori

In un’ottica liberale la giustizia è il primo dei valori delle istituzioni sociali. Essa costituisce "il valore dei valori": quando l’individuo entra nella sfera pubblica, ne limita la concezione del bene di modo che tra valori individuali e giustizia prevalga la giustizia, così evitando che concezioni conflittuali del bene possano mettere a repentaglio la convivenza civile [Sandel 82].

Giustizia secondo equità (Rawls)

Come risulta la neutralità nella giustizia? Quali principi (perché l’impostazione filosofica liberale ha bisogno di principi universali) di giustizia escludono uno sbilanciamento verso una particolare concezione del bene?

L’invenzione della posizione originale [v. supra pag. *] è il dispositivo che consente di formulare dei principi di giustizia neutrali cui ogni soggetto posto sotto il velo di ignoranza perviene. Rawls definisce questa formulazione giustizia come equità (justice as fairness).

Essa si articola in due principi: 1) "ognuno ha eguale diritto ad un quadro completo di diritti e libertà fondamentali"; 2) "la disuguaglianza sociale ed economica è ammissibile soltanto se: [2.1] è connessa ad uffici aperti a tutti secondo pari opportunità; [2.2] è volta a garantire il massimo beneficio ai meno avvantaggiati" [Rawls 85].

È insomma una sorta di contrattualistica massimizzazione delle condizioni minime alle quali può essere in ogni caso garantito il rispetto della dignità di persona morale [Sacconi 88: 24-25].

Politica del giusto vs. politica del bene

Rawls a dire il vero elude il termine "neutralità" per evitare confusioni (per esempio per distinguere la sua neutralità dal senso comune che la vuole consequenziale). Gli preferisce l’espressione di "priorità del giusto sul bene" [Rawls 88]. Kymlicka ne critica l’ambiguità, in quanto sarebbe un’idea che si presta a molteplici interpretazioni: afferma la neutralità sul perfezionismo [v. infra pag. *], ma anche il deontologico sul teleologico [Kymlicka 89b: 169]. Se ad uno studioso della filosofia politica (come Kymlicka) questo appare ambiguo, è coerente con la nostra lettura multiforme della neutralità e con il nostro approccio multidimensionale al dibattito comunitarismo-liberalismo.

D’altra parte la contrapposizione tra politica del giusto e politica del bene è ampiamente codificata (sin da Sandel [Sandel 82]). La prima, tipicamente liberale, neutrale ai diversi valori, antepone il concetto di giustizia ad ogni concezione del bene. La seconda, attribuita al comunitarismo (almeno al primo comunitarismo), muove da una particolare concezione del bene condivisa dalla comunità per definire criteri di giudizio morale e di giustizia.

Neutralità rispetto a credo perché troppo importanti

Vale la pena osservare come la neutralità rispetto a particolari concezioni del bene (come il credo filosofico o religioso), che configura la concezione liberale di giustizia come politico-pratica (non metafisica o epistemologica), non si deve alla convinzione che esse siano poco importanti, ma anzi —spiega Rawls— alla convinzione che esse siano troppo importanti per trovare una soluzione politica [Rawls 85]. Le istituzioni allora dovrebbero astenersi dal giudicare e garantire pari opportunità (nel senso di neutralità giustificatoria di cui sopra) di espressione e credo.

Neutralità come ingiudicabilità non risoluzione del conflitto

Sottolineiamo che la neutralità sottende qualcosa di più dell’inevitabilità del disaccordo sull’ideale di vita [Walzer 90: 14]. Lo Stato deve essere neutrale non solo perché non c’è accordo pubblico nel ponderare i diversi valori e i diversi schemi di vita, ma perché non deve valutarli affatto [Kymlicka 89b]: lo Stato non deve aver interesse a dettare standard morali, non deve diventare un "meta-genitore" [Skoble 92: 110-112]. Questa medesima impostazione condurrà a delle interessanti (e in certa misura dirompenti) conclusioni in campo morale [v. infra pag. *].

La critica comunitarista.

1- Critica alla priorità della giustizia

Critica alla priorità della giustizia. Sandel legge all’indietro le conseguenze delle assunzioni liberali circa il concetto del sé. Accettare la priorità della giustizia sul bene comporta che l’identità delle persone siano precedenti al bene (così infatti la posizione originale). Invece le identità delle persone sono costituite dal fine ultimo: l’idea di bene (è questo l’assunto dell’etica teleologica). Perciò la giustizia non può essere prioritaria [Sandel 82, Gutman 85].

Per MacIntyre i regimi liberali sono limitanti e comunque contraddittori per una ragione diversa. Essi non possono reggersi a lungo basandosi sulla libertà e sulla giustizia come unico messaggio morale, devono farsi portatori parziali di messaggi sostantivi (la passione per la nazione di appartenenza, per esempio). Ma contemporaneamente di fatto si verifica un’inflazione di diritti (di cui parleremo oltre e di cui sveleremo lo stretto legame con la priorità della giustizia) a fronte di ogni bisogno o volontà, con ciò prendendo posizione difronte a dilemmi morali favorendo una o l’altra parte [MacIntyre 84a, Rasmussen-Den Uyl 95].

2- Lo Stato non deve essere neutrale

Lo Stato non deve essere neutrale. I comunitaristi contestano ai liberali di non tener conto che nella realtà le valutazioni individuali richiedono la condivisione di esperienze e la partecipazione a decisioni collettive [Sullivan 82]. In verità i liberali contemporanei riconoscono l’importanza delle attività collettive di individui e gruppi [Rawls 71]. Ciò su cui si dividono senz’altro sono le istituzioni dove quest’attività dovrebbe avere luogo.

Per molti comunitaristi —per lo più dal lato dell’impegno civico [v. cap. 1, pag. *]— devono esistere degli spazi pubblici organizzati dove scoprire i propri valori attraverso attività politiche di discussione, critica, esemplificazione, emulazione [Crowley 87]. Ma di più: lo Stato non deve mantenersi neutrale, deve promuovere (vuoi con sgravi fiscali a chi la sostiene, vuoi con il suo intervento diretto) una particolare concezione del bene [Raz 86].

Essendo che il bene individuale richiede l’interazione sociale, lo Stato sarebbe l’unica e necessaria arena adeguata in cui formulare le nostre concezioni del bene [Kymlicka 89b: 174] e comprenderebbe una scala ordinata dei diversi stili di vita in conformità alle pratiche esistenti [Kymlicka 90].

Questa posizione, nota come perfezionismo (state perfectionism), non esaurisce l’arco della proposta comunitarista. Se infatti si rinuncia alla coincidenza Stato-comunità e si guarda a modelli più partecipativi e autonomi di governo, non dev’essere necessariamente lo Stato la sede del confronto.

Lungo questa direzione il divario tra comunitaristi e liberali sembra divenire meno profondo. In fondo gli stessi liberali riconoscono la necessità di una struttura culturale comune, che però ritengono di dover coniugare con l’autonomia dell’individuo attraverso l’idea del mercato culturale (dove le idee fanno a gara) e della libertà di associazione. Non negano nemmeno l’opportunità di deliberazioni collettive, ma contestano la sede: non l’apparato dello Stato, ma le libere associazioni [Rawls 71, Kymlicka 89b].

Sono gli stessi liberali ad ammettere peraltro che la neutralità politica presenta dei limiti, ma diversi da quelli indicati dalla critica comunitarista, come difficoltà applicative, i presupposti affatto scontati della fede nelle assemblee non statali e viceversa della sfiducia nello Stato [Kymlicka 89b]. I liberali sembrano però non rendersi conto che tutto questo risale alla controversia sulla natura della persona (non alla mera sfiducia verso il singolo che addebitano ai comunitaristi), considerata capace o no di scelta autonoma, informata o no dai fini e dalla concezione condivisa di felicità comunitaria

3- Lo Stato non può essere neutrale

Lo Stato non può essere neutrale. Articoliamo in tre punti la critica alla neutralità nella politica e nel giudizio degli organi dello Stato sottesa dalla teoria liberale.

3.1 -- Il giudizio dipende da un giudizio morale

In primo luogo il giudizio sul carattere giusto o ingiusto di leggi che regolano comportamenti che investono la "sfera privata" dei cittadini (quali l’aborto o l’omosessualità) dipende almeno in parte da un giudizio sostantivo sulla moralità di tali pratiche. Osserviamo come questo pre-giudizio riguardi, per dirla in termini liberali, fondamentalmente cosa vada incluso nella "sfera privata" (libera) e cosa nella "sfera pubblica" (soggetta alla giustizia) [cfr. Ferrara 92 xxvi-vii].

3.2- Neutralità mantenuta?

In secondo luogo, anche ammesso che corti e legislatore possano in teoria mantenersi neutrali riguardo alle questioni su cui vi è controversia nella comunità, può risultare impossibile determinare se la neutralità sia stata mantenuta o quale fra due opzioni alternative meglio la mantenga, senza ricorrere a concezioni sostantive.

3.3- Riproducibilità condizioni

Infine la possibilità di erigere un sistema di leggi e di istituzioni "neutrali" richiede condizioni non sempre riproducibili [Ferrara 92: xxvii-xxx].

 

La neutralità morale (pluralismo)

La posizione liberale.

Il principio generale della neutralità in campo morale si esprime nell’astensione dal giudicare la scelta individuale in base ad uno standard di vita buona. Essa è vincolata soltanto dai principi di giustizia laddove minacci la libertà di scelta altrui, tutelata dai diritti. Questi valgono solo in ambito pubblico, mentre la moralità privata non è discutibile in virtù della separazione delle sfere dell’agire [v. supra pag. *].

Tolleranza come indifferenza

La questione della fratellanza diviene problematica soprattutto nell’affrontare non tanto il rapporto con il simile ma con il diverso [Ferrara 92: xxxvi]. Per il liberalismo, da Locke a Rawls, la fratellanza si esprime nella tolleranza della diversità, nel senso però di indifferenza per l’altro. Le differenze culturali sono inessenziali, viste come stili di vita scelti il cui posto è nella sfera privata (ingiudicabile) o in associazioni volontaristiche (sottratte al giudizio dello Stato). La convivenza è assicurata non dalla comprensione dell’altrui punto di vista ma dalla rinuncia a valutarlo [Gray 94].

Così nella posizione originale di Rawls "le parti non hanno interesse per gli affari degli altri" [Rawls 71], che sembrano echeggiare le parole di Thomas Jefferson "it does me no injury for my neighbour to say there are twenty gods, or no God" [Ferrara 92: xxxvi-vii].

Critica dell’individualismo radicale

Questa posizione deve affrontare non solo la critica comunitarista, ma anche quella dell’individualismo radicale postmoderno [Ferrara 92: xxxviii]. Poiché i radicali considerano una minaccia alla vitalità di un regime liberal-democratico l’uniformità di opinioni ed orientamenti, incoraggiano l’emergere delle diversità, ritenendo una quanto maggiore differenziazione una ricchezza per una società democratica [Ferrara 92: xxxvi-viii]. Per essi la tolleranza dovrebbe trasformarsi in responsabilità e sensibilità verso l’altro (responsiveness e receptivity): il cittadino dovrebbe incoraggiare il desiderio dell’altro di essere diverso, unico, di perseguire la propria visione del bene, di sperimentare ed esplorare [Kateb 89].

La critica comunitarista.

1- Il pluralismo indebolisce l’identità collettiva

Indebolimento dell’identità comunitaria. Il comunitarismo, concorde nel respingere l’indifferenza per l’altro, giunge a conclusioni opposte del liberalismo radicale. Evidenzia come, oltre al presunto vantaggio di una convivenza pacifica che la tolleranza come autonomia porterebbe, si debba considerare anche il costo dell’indebolimento dell’identità collettiva [Ferrara 92: xxxvii-viii].

L’eterogeneità delle posizioni in seno al comunitarismo ci impone di essere più cauti nel sostenere che l’istanza comunitarista è di assorbire la diversità in un’unità collettiva, "qualcosa cui va posto rimedio" [Ferrara 92: xxxvii-viii].

Un percorso di analisi (non seguito in questa ricerca) potrebbe spostare l’attenzione dalle relazioni intra-comunità alle relazioni inter-comunità: se è possibile immaginare una maggior coesione all’interno della comunità, potrebbe provocare tensione tra comunità diverse. John Gray, per esempio, sostiene uno strong pluralism contro l’annullamento delle differenze e che la cultura è un prodotto della sedimentazione della storia, di eredità e riconoscimento [Gray 94].

2- Il pluralismo nega la comunità stessa

Minaccia per la comunicabilità. Il punto è che il pluralismo minaccia il senso stesso della comunità. Abbiamo visto come non si può definire il merito e alcun giudizio morale al di fuori della comunità, al di fuori di una comune visione del mondo [cfr. supra pag. *]. E una società di individui isolati che non possono giudicare le loro azioni (fino all’emotivismo) in nome della neutralità è una società dove le persone non si parlano o non possono comprendersi [cfr. supra pag. *]: "solo una comunità completamente demoralizzata può tollerare tutto". Il pluralismo aumenta la frammentazione della società, accresce la separazione delle sfere dell’agire, insomma riduce il dialogo tra le persone.

3- Capacità di astrazione dal contesto

Astrazione. Liberali e individualisti radicali concordano nell’ammettere l’influenza della comunità sulla formazione dell’identità dell’individuo, ma allo stesso tempo rivendicano la capacità dell’individuo di distanziarsi dal proprio imprinting, di criticare gli ordinamenti in cui si è formato per affermare così la sua autonomia (i liberali) o la sua autenticità (i radicali) [Ferrara 92: xxxviii].

È questo il punto (già più volte rimarcato) fondamentalmente criticato dai comunitaristi, cioè questa capacità di astrazione, che essi non ritengono né reale né desiderabile.

4- La neutralità liberale non riesce nemmeno a garantire il pluralismo

Garanzia di pluralismo. Infine la neutralità liberale, per la sua astensione dal giudicare, è in teoria persino incapace di garantire l’esistenza di una cultura pluralistica, sarebbe cioè auto-sconfiggente.

Poiché per me liberale tutti i comportamenti e i punti di vista sono leciti e altrettanto indifferenti, allora non solo sono indifferente a che uno sia cattolico e l’altro protestante, ma a rigore anche a che uno sia contrario al pluralismo stesso.

Sotto il profilo politico, dato che l’autonomia risulta dalla possibilità di scegliere tra una gamma di opzioni, cioè dal pluralismo, ogni tentativo collettivo dello Stato liberale di proteggere questa basic structure pluralista sarebbe contro i principi liberali di giustizia, anche a rischio che il mercato culturale minasse la cultura pluralistica [Cragg 86].

Questa è la critica più temibile per i liberali, ed effettivamente apre le porte ad una impostazione mitigata, che cioè definisca un sostrato di valori comune inattaccabile, sul quale cioè l’esercizio del giudizio sia non solo possibile ma necessario. Il liberale Kymlicka evidenzia infatti le due altre improbabile vie d’uscita: o confidare che i modi di vita buona si sostengano autonomamente sul mercato senza l’assistenza di un’istituzione regolatrice (come lo Stato), rischiando così di ignorare ad esempio l’esistenza delle generazioni future; o (e si torna alla divisione fondamentale tra le parti) negare che il valore delle scelte autonome dipenda da una cultura, cioè affermare che la capacità individuale sia autosufficiente, ma è inadeguato perché la dipendenza dalla cultura è innegabile [Kymlicka 89b].

5- Di fatto neutralità fasulla

D’altra parte di fatto la pratica liberale sottende presupposti affatto neutrali. La difesa della neutralità nasconde così l’adesione ad un modello di vita, quello occidentale democratico capitalistico.

Un "pluralismo forte" (strong value pluralism) non dovrebbe sostenere alcun regime, istituzione, stile di vita, costituendo un riferimento interpretativo entro il codice di una particolare cultura e tra culture diverse [Gray 94, cfr. Rasmussen-Den Uyl 95].

La proposta

L’alternativa comunitarista non è il ritorno all’intolleranza integralista. Ma una richiesta di maggiore attenzione per l’integrità di quei sistemi di credenze che caratterizzano una comunità [Selznick 89]. D’altra parte il riconoscimento della sempre più frequente appartenenza delle persone a comunità multiple, richiede la "fedeltà ad una comunità più ampia" che "limita le lealtà parrocchiali, ma non le estingue" [Selznick 93: 35].

Incorporazione moralità nel diritto positivo?

Uno dei percorsi suggeriti è l’incorporazione di spezzoni significativi della moralità di una comunità o della maggioranza dei suoi membri all’interno delle norme del diritto positivo [Selznick 89, cfr. Ferrara 92: xxxvii-viii]. Ma significherebbe accordare un’importanza ai diritti e alle regole universale decisamente contestata da molti comunitaristi (Etzioni compreso) [v. infra pag. *].

Maggioritarismo?

Maggioritarismo. Inoltre questa soluzione offre spunti alla contestazione liberale di maggioritarismo. Essa muove da una concezione che i comunitaristi trovano senz’altro riduttiva della comunità, per dirla con le parole del liberale conservatore Tibor R. Machan, "un mucchio di persone diverse da noi". Se comunità significa semplicemente questo, allora l’equilibrio tra autonomia degli individui e coesione della comunità che i comunitaristi cercherebbero (ancora però secondo lo schema liberale) si risolverebbe nella regola della maggioranza. I comportamenti moralmente accettabili sarebbero cioè quelli condivisi dalla maggioranza della comunità, emarginando gli esclusi.

I comunitaristi praticamente impegnati obbiettano che la democrazia, che pur funziona nel prendere le decisioni politiche in base alla regola della maggioranza, prevede un insieme di regole costituzionali date per condivise dalla generalità della popolazione che limitano la materia d’intervento della maggioranza [Selznick 93: 35].

A nostro avviso questo ordine di risposte ancora è legato ad una visione politica e giuridica del vivere sociale. Più sostanzioso (per quanto più astratto) pensare che il vivere sociale e la democrazia non si fermino al "sommare voti" [Etzioni 93a: 15], che anzi spesso la concezione di comunità comunitarista non coincida con un’istituto regolato da votazioni ma sia di natura più informale.

Relativismo

Relativismo. Ancorare la morale al contesto non comporta relativismo morale. Si ha relativismo quando si è convinti che nessuna tradizione morale può essere legittimamente ritenuta superiore ad un’altra, poiché incommensurabili. Ma questa è semmai l’accusa che i comunitaristi muovono ai liberali e alla filosofia moderna analitica.

Il comunitarismo piuttosto rifiuta la possibilità di valutare tradizioni morali in base a standard indipendenti da ogni tradizione [MacIntyre 88, cfr. Ferrara 92: xxiv-xxvi]. Com’è possibile allora che una tradizione o un sistema di valori venga respinto? Accade quando esso è internamente inconsistente, cioè insufficiente o erroneo rispetto ai suoi stessi parametri [MacIntyre 88]. Ma discutere di commensurabilità di teorie scientifiche o morali ci porterebbe decisamente più lontano di quanto ci siamo promessi in questa occasione.

Universalismo e diritti

Neutralità in campo politico e neutralità in campo morale si incontrano ancora nella centralità dei diritti accordata dalla teoria e soprattutto dalla pratica liberale. Sono i diritti —l’evidenza più chiara dell’essere quella liberale un’etica delle regole— che stabiliscono il quadro dove ciascun individuo può esercitare la propria autonomia, cioè la propria libertà di scelta e di perseguire la propria concezione di vita buona [Gutman 85: 123].

Dominio politica sull’etica

Anzi, la sfera oggetto di sindacato morale si assottiglia tanto da essere sottratta all’etica stessa a favore della politica: è la politica che decide il confine delle sfere dell’agire, in particolare di quella pubblica, soggetta ai principi di giustizia, da quella privata tutelata dai diritti, libera da vincoli. Ma ciò non fa che enfatizzare piuttosto che negare (come fanno Rasmussen e Den Uyl [v. cap. 1, pag. *]) la portata del liberalismo in campo etico.

Principi moralità moderna (MacIntyre)

La moralità moderna e liberale si basa infatti sui seguenti principi, incorporati nell’idea rawlsiana della posizione originale: "è costituita da regole a cui ogni persona razionale in certe condizioni ideali darebbe il suo assenso" (la scelta minimale nella posizione originale); "queste regole pongono limiti e sono neutrali rispetto a interessi rivali e concorrenti" (nella posizione originale non importa il contenuto degli interessi); "sono neutrali anche rispetto a insiemi di credenze rivali e concorrenti intorno alla migliore maniera di condurre una vita umana"; "le unità che forniscono l’oggetto della moralità, così come i suoi attori, sono esseri umani individuali, e nella valutazione morale ciascun individuo deve contare per uno e nessuno per più di uno"; "il punto di vista dell’attore morale, costituito dalla fedeltà a queste regole, è uno e il medesimo per tutti gli attori morali, indipendente da ogni particolarità sociale" [MacIntyre 84b].

Diritti: incommensurabilità e universalità

La logica dei diritti manifesta le due caratteristiche (solo apparentemente dissonanti) salienti del discorso morale liberale: l’incommensurabilità e l’universalità. Da una parte gli argomenti morali antagonisti non sarebbero confrontabili perché riflettono premesse diverse e insindacabili. Dall’altra vi è la pretesa di proporre argomenti razionali e impersonali, delle regole che assicurino la coesistenza proprio tra queste divisioni e potenzialmente conflittuali visioni del mondo [MacIntyre 84a].

Centralità dei diritti (Nozick, Dworkin)

C’è una corrente molto importante del liberalismo, che va da Locke a Nozick e Dworkin, che fa perno sulla centralità dei diritti per costruirvi una teoria della giustizia o politica. Per essa gli individui godono di diritti in quanto tali, non cioè in quanto appartenenti ad una comunità. Anzi nega un dovere di appartenenza e di contribuzione dell’individuo nei confronti della società: le autorità e lo Stato possono pretendere degli obblighi dai cittadini solo mediatamente in base al loro consenso o se va a loro vantaggio; il Leviatano non può infrangere questi limiti, sono insuperabili. Perciò il diritto ha precedenza assoluta nei conflitti sociali [Ferrara 92: xxx].

 

La critica comunitarista.

Critica all’inflazione di diritti

Critica all’inflazione di diritti. Una prima critica muove da una constatazione di fatto che vede gli Stati Uniti (dove il dibattito liberalismo-comunitarismo ha preso avvio) come un regime tendenzialmente liberale caratterizzato da una massiccia "inflazione di diritti" [Etzioni 93a: 5]. Non è perciò un caso che di esso si abbia l’immagine comune di "regno degli avvocati".

1- Diritti intoccabili

Una prima ragione per allarmarsene è che si sta diffondendo la convinzione per cui tutte le attività pubbliche sono tutelate da diritti intoccabili, e solo i diritti poi contano. Fino ad ignorare le condizioni e le ragioni che ne hanno suggerito la codificazione, o gli altri interessi in gioco. Fino a considerare l’ambito tutelato dal diritto come impenetrabile da chiunque e per qualunque ragione. Insomma, il rischio è che dal noto principio liberale del "posso fare ciò che voglio (finché non leda gli altri)" si scivoli al "posso fare ciò che voglio perché ho il diritto di farlo" [Etzioni 93a: 8-9].

Il principio non può essere estrapolato come diritto dal contesto che lo informa: una condotta morale non può essere supina adesione a regole fissate o precetti ideologici di cui si è persa la coscienza del significato. La fedeltà ai principi richiede fedeltà alla situazione e ad un ideale, ad uno scopo [Selznick 95: 36].

2- Svaluta gli scopi morali

Una seconda ragione è che quest’inflazione di diritti ne svaluta gli scopi morali, fino a distruggere addirittura l’ordine morale [Selbourne 94]. Ma questo sembra sottendere la concezione per cui possa essere soggetto a valutazione morale solo ciò che è disinteressato, in virtù del fatto che solo ciò che è sottratto alla sfera dei diritti e degli obblighi è espressione di libera scelta.

Proposta: moratoria e riesame diritti pro responsabilità

La proposta è dunque quella di istituire una moratoria, un periodo di transizione durante il quale porre un freno alla produzione di nuovi diritti. Inoltre molti diritti meritano di essere riesaminati —si intuisce— in modo da favorire un’ottica di responsabilità piuttosto che di diritto: piuttosto che attribuire una sfera di diritto a tutti i soggetti deboli o alle situazioni in pericolo, sarebbe preferibile ricondurre alle loro responsabilità i soggetti che possono provocare danni [Etzioni 93a: 9].

Ma la responsabilità (almeno dal punto di vista comunitarista) ha senso soltanto in un contesto di pratiche e tradizioni condivise e comprese. Il mancato riconoscimento dell’appartenenza ad una comunità, in particolare ad una storia, porta a conclusioni del tipo: "non devo nulla ai neri perché non ho mai posseduto schiavi" [MacIntyre 84a].

Critica all’essenza del diritto

Critica all’essenza del diritto e della libertà. Se la critica appena illustrata sembra avere per obbiettivo soprattutto quella corrente a sostegno del diritto come area intoccabile di libertà privata, ancora si muove utilizzando un linguaggio e degli schemi pur sempre liberali [cfr. Ferrara 92: xxvii-xxx]. Non è un caso infatti che provenga dai comunitaristi più politicamente impegnati e più interlocutori. L’approccio filosofico conduce ad un più radicale affondo.

I diritti non sono prioritari

I diritti non possono essere prioritari, perché dipendono da concetti etici più profondi [cfr. Rasmussen-Den Uyl 95]. A questo proposito Sandel legge il liberalismo come politica dei diritti, volta a limitare la sfera politica (dalla sfera privata), e il comunitarismo come politica del bene comune, volta ad estendere sfera politica (cioè fare delle virtù dello stare insieme virtù personali) [Avineri-De Shalit 92].

Su questo terreno sarebbe da registrare un avvicinamento tra liberali —disposti ad ammettere che i diritti sono appoggiati su qualche nozione del bene (teoria parziale del bene)— e comunitaristi —che di fatto apprezzano i diritti "liberali" [Baynes 90].

I diritti sono finzioni

Ma MacIntyre contesta la fondatezza stessa dei diritti: sono addirittura finzioni. Non ci sono valide ragioni per sostenerli: essi sono finzioni, convenzioni accettate senza giustificazione morale, come lo è l’utilità. La virtù moderna è basata sulle passioni: non esistendo più alcun criterio condiviso, la morale è fatta di sole regole, entro le quali esercitare le proprie arbitrarie passioni. La virtù (al singolare) è la disposizione ad obbedire alle regole [MacIntyre 84a]. Il bene dell’uomo si identifica invece con il bene degli altri come comunità, con l’agire secondo virtù (plurali) storicamente e attualmente costituite [MacIntyre 84a].

Nella modernità gli individui lottano per ottenere il riconoscimento, sia esso l’onore. Ma l’onore è così un parametro esterno. Ciò che importa (dalla tradizione aristotelica, ma anche dalle saghe islandesi o per i beduini del deserto occidentale) è invece ciò in virtù di cui assegniamo l’onore, non l’onore (o qual si voglia altra misura esterna) [MacIntyre 84a].

I liberali replicano di non pretendere che i diritti siano criteri etici che sostituiscano le virtù o i costumi sociali [Rasmussen-Den Uyl 95]. Né che la libertà di scelta sia il valore più importante: "sono i progetti e i compiti", cioè l’oggetto della scelta, "le cose più importanti della nostra vita, e proprio per questo dobbiamo essere liberi di rivisitarli" [Kymlicka 89a, 90]. Ma ammettono che "comunque il liberalismo non è stato sempre chiaro sulla funzione dei diritti" [Rasmussen-Den Uyl 95]: ha sostenuto in passato la tesi della libertà come valore intrinsecamente importante [Kymlicka 90], che fa da contraltare all’esigenza di tutelarla attraverso i diritti. Questa tesi è sbagliata: se così fosse, più esercitiamo la libertà di scelta migliori sarebbero le nostre vite, mentre questa visione esistenzialista dell’eterno mutare è falsa [Taylor 79, Kymlicka 90].

Ciò nonostante la contestazione comunitarista resta intatta: difendere quanto più ampi margini di libertà per le persone senza dire loro cosa vale la pena di fare è inutile (il liberalismo —alla stregua delle scienze moderne— sarebbe troppo poco prescrittivo) e pericoloso. Si ricollega così alla già illustrata critica di emotivismo [v. supra pag. *]: gli individui sono liberi di agire come credono ma non hanno criteri per guidare il loro agire. La concezione liberale della libertà "diventa indistinguibile dalla mera licenza o capriccio" [Spragens 92].

Anche specificare una concezione meta-normativa del liberalismo (peraltro in aperta critica al punto di vista liberale dominante), per la quale diritti e libertà di scelta formano il contesto dell’agire che viene invece mosso da istanze morali e influenzato dal contesto [Rasmussen-Den Uyl 95], oltre a presupporre la discussa neutralità dei diritti [cfr. supra pag. *], non sottrae al dibattito sulla rivedibilità delle scelte, anzi sulla stessa possibilità di scelta, ovvero sulla critica e astraibilità dal contesto.

Critica all’universalismo

Critica all’universalismo. Il cuore del ragionamento comunitarista è che la pretesa universalistica di una moralità transculturale e astorica (e perciò dei principi che ne discenderebbero) è impossibile. Non solo le regole della moralità sono apprese in qualche forma socialmente specifica e particolarizzata, ma i beni in riferimento a cui, e ai fini dei quali, va giustificato ogni insieme di regole, sono beni a loro volta socialmente specifici e particolari.

Centrale fra questi beni è il godimento di un particolare genere di vita sociale, vissuta attraverso un particolare insieme di relazioni sociali. Non si esclude che potrei trarre beneficio in maniera eguale da altre forme di vita, ma questa verità ipotetica non diminuisce in alcun modo l’importanza della tesi che i miei beni li incontro effettivamente qui, fra queste persone particolari, in queste relazioni particolari. [MacIntyre 84b, cfr. Ferrara 92: xxiv-xxvi].

Ogni moralità appartiene ad un contesto storico, e ogni teoria deve essere aperta alla massima confutazione. La filosofia analitica non offre un criterio di scelta tra alternative, abbandona l’individuo alle sue preferenze e al suo arbitrio (entro l’ambito prestabilito dai diritti) [MacIntyre 84a].

La filosofia (politica e morale) liberale non sa situare la tanto esaltata libertà di scelta: quest’ultima è decontestualizzata [Spragens 92]. Per dirla con una locuzione di Taylor (che ricorda per significato la citazione di Walzer in apertura di capitolo): "la pretesa di essere liberamente autodeterminanti è indeterminata" [Taylor 79]: infatti non si può specificare il contenuto della nostra azione al di fuori di una situazione che suggerisca dei fini, che ci impartisca almeno una forma di razionalità [cfr. Kymlicka 89a: 47-48]. La visione di una persona è cioè comprensibile solo guardando alle azioni entro una narrazione che coinvolge altre comunità, la famiglia, il vicinato, eccetera [Avineri-De Shalit 92].

Minimalismo liberale.

La critica comunitarista alla neutralità liberale è accreditata dalla scelta di alcuni liberali di ridurre la portata della neutralità. In particolare di restringerla al solo contesto politico.

Così Larmore, che si iscrive nella corrente detta del minimalismo liberale. La neutralità andrebbe intesa soltanto come atteggiamento dello Stato verso interessi contrapposti, non come principio fondante dell’etica liberale [Larmore 87]. O Dworkin che propone una non communitarian community solo politica [Dworkin 89].

Lo stesso John Rawls "ritratta" a più riprese negli anni Ottanta [Rawls 80, 85]. Recentemente comincia a sostenere che il suo meccanismo della posizione originale vale sì per determinare diritti e responsabilità politica, ma non è necessariamente un "ritratto accurato" della nostra privata auto-comprensione [Kymlicka 89a: 58].

Insomma tutta la costruzione rawlsiana si ridurrebbe, per le parole dell’autore stesso, semplicemente in "una idea fondamentale intuitiva che si suppone implicita nella cultura pubblica di una società democratica" [Rawls 85].

 

Comunità e critica

I temi della critica

Il comunitarismo è stato ampiamente criticato non solo dai liberali, ma anche da posizioni che gli sembrerebbero (e lo sono per molti versi) vicine. Riassumiamo i principali temi della critica (due obiezioni, di maggioritarismo e relativismo, sono state sollevate esplicitamente poche pagine sopra [v. supra pagg. * e *]).

Nostalgia.

La prima impressione che si ha del modello di comunità comunitarista (ed è verosimile rispetto alla prima fase dell’elaborazione del pensiero) è che si ispiri a esempi dell’antichità, come la poleis greca o la comunità medievale o quella dei coloni in terra americana, esaltandone le prerogative di spontaneità e coesione.

Critica di Phillips

Ma questi modelli non possono essere ritenuti desiderabili perché erano società oppressive, dove la solidarietà e i fini comunitari erano imposti e basati sul patriarcato, sullo schiavismo e il razzismo. Il comunitarismo sarebbe perciò "storicamente naive" [Phillips 93, cfr. Hall 95, Kymlicka 89a, 90].

Critica femminista

Questa via è percorsa anche dalla critica femminista. Merita una segnalazione particolare poiché il comunitarismo appare (ed è di fatto) molto attraente per il femminismo in quanto contesta il presupposto liberale dell’agente autonomo e promuove la dimensione affettiva. Ma diventa inaccettabile quando è "celebrazione neo-romantica della comunità", della tradizione, dei modelli antichi di famiglia, con il rischio di riprodurre il sessismo e il patriarcato presenti nelle culture invocate ad esempio [Frazer-Lacey 93].

Gemeinschaft di Tonnies?

Insomma il comunitarismo sembrerebbe riprendere la classica posizione di Tönnies (del 1887) a favore della comunità (gemeinschaft), rapporto tra gli uomini basato sull’identità di volontà, sulla comprensione come comune sentire, in contrapposizione alla società (gesellschaft), basata sullo scontro di interessi egoistici, sul calcolo [Bagnasco 92, Boudon-Bourricaud 91]. Dopotutto Tönnies e il comunitarismo sono accomunati dalla reazione verso l’illuminismo, direttamente il primo, indirettamente (in quanto introduzione alla modernità) il secondo [cfr. Bagnasco 92]. Ma questa distinzione non solo è semplicistica; l’elogio della gemeinschaft trascura che essa non è quel modello puro come è stato idealizzato, spesso incorpora calcolo, conflitto, violenza [Boudon-Bourricaud 91].

La difesa comunitarista

A ulteriore testimonianza di quel moto di avvicinamento delle posizioni antagoniste, i comunitaristi recitano un parziale mea culpa. A dire il vero è un’ammissione di colpevolezza per conto terzi. Questa critica potrebbe essere imputata ai primi comunitaristi —si spiega— mentre i neo-comunitaristi (da Walzer a Selznick) non cercano un ritorno alle comunità tradizionali con le loro pratiche discriminatorie, ma promuovono un’adesione comunitaria basata sulla partecipazione aperta, sul dialogo, su valori sentitamente condivisi [Etzioni 93a: 14].

D’altra parte la stessa società odierna sarebbe un mix delle due condizioni sociologiche di gemeinschaft e gesellschaft, perché esistono isole di senso comunitario [v. infra pag. *] e una tendenza di ricerca di spessore comunitario. Ciò che si invoca è piuttosto una new gemeinschaft, non oppressiva e non gerarchica, dove permanga la libertà di scelta (della comunità e di dissentire) ma sussistano legami comuni [Etzioni 93a: 122-23].

Conservazione.

La filosofia comunitarista sarebbe intrinsecamente conservatrice dello status quo. Sostiene infatti l’immersione nella comunità, in particolare l’attaccamento alle tradizioni, e nega la capacità dell’individuo di astrazione dal contesto e di critica.

La difesa comunitarista

Proprio il comunitarista più tacciato di apologia del tradizionalismo replica all’accusa. La presa di coscienza che le persone sono immerse in una comunità che tanta parte della loro personalità determina non va intesa come supina accettazione delle limitazioni che l’appartenenza impone difronte ad ogni cambiamento. È piuttosto un punto di partenza per la riflessione [v. infra pag. *]. Il punto cruciale contestato ai liberali è che è illusorio cancellare la particolarità [MacIntyre 84a, 88, cfr. Ferrara 92: xvii-xviii].

Anche nei fatti, nella proposta politica i comunitaristi non sono conservatori. I conservatori esaltano sì la responsabilità personale, ma solo entro sfere limitate dell’agire e in modo che non possa avere esiti destabilizzanti. Sono invece riluttanti ad accettare la responsabilità collettiva e preferiscono la logica degli incentivi e delle sanzioni.

Il comunitarismo promuove invece l’intelligenza collettiva della comunità e, attraverso la combinazione di ragione pratica e riflessione teoretica, è aperto alla critica della tradizione, ma alla luce delle premesse della comunità stessa e delle altrui esperienze. Una moralità critica richiede apprezzamento per le tradizioni e l’adesione alla particolarità [Selznick 93: 35, MacIntyre 84a].

Integrazione.

Il comunitarismo auspica —questa la critica di integralismo o totalitarismo— l’affermarsi di una unica concezione del bene per tutta la comunità, con questo negando il pluralismo e l’esistenza stessa di culture dissonanti.

Si ricaverebbe dal teorizzare un finalismo che trova fondamento nella comprensione condivisa della comunità, cioè nel far derivare i criteri etici e l’ideale di felicità dei singoli come momenti del percorso verso la comune eudaimonia.

Anche quando il modello proposto incorpora conflitto e disordine come fattori caratterizzanti di una comune comprensione del mondo (MacIntyre), facendoli apparire come potenziali fonti etiche (da cui si trarrebbe la preservazione del conflitto come ideali), il criterio metaetico di valutazione delle diverse tradizioni o comunità resta quello dell’integrazione: è migliore quella più integrata [Freytag 95].

Una prima critica è metodologica: fondare l’etica sui ruoli sociali risulta improbabile difronte all’aumento di complessità sistematica della vita moderna in termini di opportunità e relazioni in cui una persona è coinvolta, che dunque riduce la prominenza di ruoli sociali ben definiti [Freytag 95].

Ma è chiaro che la critica più forte è normativa: avverte il rischio della deriva fanatica sulla strada dell’integrazione (e la cronaca lo testimonia: si pensi all’islamismo o al razzismo). Infatti il membro della comunità non pretende che tutte le comunità condividano le sue norme, ma certamente sostiene quelle della sua [Waldron 89], a costo di sopprimere il dissenso od espellere (come nell’antica Grecia) le minoranze.

La difesa comunitarista

La principale difesa esplicita comunitarista consiste nel constatare che le nostre comunità contemporanee (occidentali), anche quando sono territoriali, sono di fatto pluraliste e democratiche. E semmai il problema è che sono troppo anemiche piuttosto che troppo potenti [Etzioni 93a: 16]. Perciò non può far male insistere in direzione di una maggiore coesione.

Gerarchia.

Questo punto della critica concerne il modo in cui il comunitarismo vorrebbe affermare l’integrazione. Se è vero che le persone che non condividono una certa cultura possono essere messe sotto pressione senza il ricorso alla coercizione, certa critica rivela una pericolosa tendenza ad ammettere la gerarchia, le sanzioni come mezzi legittimi per sostenere una concezione del bene sulle altre. Nonostante la lettura organicista della società che molti comunitaristi offrono, autorità, gerarchia, punizione sono temi ricorrenti (anche da un punto di vista linguistico) [Freytag 95].

Ma senza pensare all’autoritarismo e alla forza, il rischio della filosofia comunitarista è, nel proporre criteri di giudizio ispirati alle relazioni interne con i fini [v. supra pag. *], di sottovalutare i valori esterni. Potrebbe cioè darsi che far dipendere i comportamenti e i giudizi delle persone dal bene comune avvenga a scapito di valori esterni quale la democrazia [Sacconi 91].

La difesa comunitarista

Tutto il filone comunitarista che insiste sulla partecipazione (Barber, Selznick) contraddirebbe questa critica. L’etica delle virtù in quanto etica del carattere dovrebbe essere per natura l’opposto di ogni imposizione. Inoltre il valore della democrazia potrebbe essere a sua volta costituente di quel bene comune e comune comprensione che anima la comunità, diventando cioè criterio etico ancora più forte di regole concordate o imposte.

 

Il concetto di comunità

Una prima approssimazione.

Abbiamo fatto un gran parlare di comunità senza però precisare meglio il concetto. È stata una scelta deliberata e comune nella letteratura comunitarista [cfr. Waldron 89, Smith 96]. La nostra decisione deriva dall’intento di orientare la ricerca alla filosofia piuttosto che alla sociologia e di mantenere aperte le più ampie possibilità applicative.

I comunitaristi vengono accusati di essere vaghi per eludere la difficoltà applicativa delle loro teorie. Perciò tentiamo un primo approccio al concetto. Questo argomento è stato accostato alle critiche al comunitarismo perché proprio il discorso sul concetto di comunità costituisce una (parziale) risposta.

Tipologia di definizioni

Innanzitutto precisiamo che, visto il tipo di ricerca, il tipo di definizione di comunità che cerchiamo è di valore. È infatti possibile distinguere tre ordini di definizioni: le definizioni descrittive, tipicamente degli scienziati sociali per dar conto (comunque in modo astratto) delle forme sociali come osservate nel mondo reale; le definizioni di valore, tipicamente di filosofi, politici, del senso comune, circa come le persone dovrebbero relazionarsi agli altri; infine le definizioni proattive, impiegate dai policy makers per pianificare lo sviluppo della società civile [Smith 96].

Il comunitarismo, tanto filosofico che politico, tende ad utilizzare il secondo tipo di definizioni. Così faremo noi, che abbiamo scelto di privilegiare la dimensione normativa rispetto a quella descrittiva [v. cap. 1, pag. *], e che tuttavia profilo tutto sommato astratti dalla specifica realtà civica.

Etzioni

Etzioni definisce la comunità come "gruppo di persone che condividono legami affettivi e una cultura". È definita da due caratteristiche: richiede una rete di relazioni tra individui motivate da affetto; comporta di assumersi un impegno a favore di un insieme di valori condivisi, norme, significati [Etzioni 93a: 14].

Affettività

Il tratto fortemente caratterizzante, che va al cuore della critica al liberalismo, è l’intensità affettiva delle relazioni tra le persone [cfr. Solomon 94: 277]. La comunità è cioè costruita non per proteggersi o per un tornaconto egoistico ma per vocazione alla socialità, per realizzarsi nello stare assieme.

Il fine comunitario

Non si dà a priori un fine particolare della comunità: è "un insieme open-ended e immensamente complesso di relazioni tra i suoi membri". Il comunitarismo nella sua valenza metodologica si accontenta di constatare l’esistenza di legami comunitari-affettivi ignorati dal liberalismo. Nella sua valenza normativa suggerisce che i fini debbano essere ordinati alla coesione, ma evidentemente anche a seconda del tipo di comunità essi non sono universalmente ordinabili.

Pluralità di comunità

Per così com’è definita la medesima persona può (e di fatto accade) appartenere ad una pluralità di comunità, annidate come "scatole cinesi" [Etzioni 93a: 32, Freytag 95].

Federalismo + comunità intermedie

Il modello di società risultante, "comunità di comunità" [Etzioni 93a], è il prodotto di una dimensione gerarchica federale e di una dimensione trasversale.

L’unità della comunità non va cioè perseguita ad ogni costo, a scapito delle sub-comunità che la costituiscono, ma vanno raccordate in un regime federale [Selznick 93: 34].

La dimensione trasversale riguarda quelle comunità cosiddette intermedie, non cioè istituzionali (come la parrocchia, le associazioni, ecc.) che, connesse tra loro, attraversano gli ordini della gerarchia.

Non coincide con la comunità amministrativa

La comunità in questione non coincide necessariamente con la ripartizione amministrativa: lo Stato o la regione. La comunità può esserne un segmento, ma è un concetto tanto flessibile da potersi estendere fino a coprire un raggruppamento più largo, come "la cultura occidentale o persino il genere umano" [Horvath 95: 525].

Comunità non residenziale

Ma non è necessariamente nemmeno residenziale, cioè legata ad uno specifico territorio occupato dai membri (come la città o il quartiere). La comunità non residenziale o non geografica che incrocia altre comunità (come la religione, la scuola, il luogo di lavoro) è esplicitamente citata da Etzioni per sostenere l’attualità del comunitarismo [Etzioni 93a: 15, 32, cfr. Smith 96].

Comunità di interessi?

Più dubbio è coinvolgere nel concetto le comunità di interessi, basate cioè sul comune interesse per un dato tema (come le associazioni sportive, di consumatori). Esistono però comunità di interessi più forti, che spesso nascono in difesa da una minaccia esterna (per esempio i comitati di quartiere contro la criminalità o la costruzione di un’autostrada) [Smith 96].

Partecipazione (Barber)

Partecipazione. La comunità non è infine un’unità monolitica. Non solo perché a sua volta composta di sotto-comunità (per ciascuna di esse si riproporrebbe il problema). Ma perché è partecipativa.

Uno dei primi comunitaristi, Barber, rifiuta il concetto di unitary democracy, basata su una volontà organica (á la Rousseau), comunità monolitica dove il cittadino è costituito dalla comunità (self abandonment), evidentemente troppo esposta a critiche di integralismo, totalitarismo. A favore della strong democracy, che richiede consenso creativo, consente uno spazio per il dissenso e il diritto delle minoranze di ritenere di essere comunque nel giusto, escludendo cioè la prevaricazione di una concezione di bene, dove la virtù principale è l’empatia [Barber 84].

Comunitarismo dialogico (femministe)

Su questo solco è addirittura maturata una corrente originale del comunitarismo detto comunitarismo dialogico promosso dal femminismo. Cerca di trovare nell’io relazionale un equilibrio tra l’autonomia della persona, il rifiuto dell’assorbimento nella comunità-soggetto, e l’astrazione astorica. Afferma l’unicità della figura umana ma in relazione con gli altri, con le pratiche e le istituzioni. Da una parte cioè supera l’importanza della comunità in sé, dall’altra l’individualismo liberale, esaltando i processi relazionali di reciproca formazione dell’identità, di riconoscimento e accettazione delle diversità [Frazer-Lacey 93].

Esiste una comunità di questo tipo?

Esistono oggi comunità che rispondano al concetto sinora illustrato? Sembrerebbe di sì, a sentire i comunitaristi. Le isole di appartenenza etnica (oltre al più ampio senso nazionale) dentro le metropoli, come la Chinatown newyorkese o Little Havana a Miami sono un esempio [Etzioni 93a: 120].

D’altra parte la "tecnologia postmoderna", se da un lato consente un orizzonte globale al limite planetario, dall’altro consente alle persone di lavorare in modo remoto (telelavoro) e perciò di tessere le relazioni umane nel loro quartiere [Etzioni 93a: 121].

Inoltre il senso di comunità è riscoperto nel luogo di lavoro o di studio. Si pensi ai campus dove si alimenta un orgoglio dell’appartenenza. Si ricordi che una più corretta traduzione dal giapponese del concetto tanto in auge di qualità totale sarebbe qualità insieme [Landier 87] percepita come un’appartenenza ad un’idea olistica dell’impresa. E si pensi alle esperienze (assai discusse) di Microsoft o Ask Group.

Una proposta di interpretazione.

Crediamo che molte delle critiche liberali cadrebbero difronte ad una definizione di comunità più fluida, meno vincolata dall’esigenza di distinguerla o applicarla nella realtà qui e adesso. Uno dei più sottili critici citati, Matthew Freytag, riconosce: "una lettura più fluida, melodica di tradizione, autorità, punizione farebbe cadere molte delle critiche", per poi precisare che non risulterebbe dai testi dei comunitaristi (MacIntyre nella fattispecie) [Freytag 95]. Proprio ad una lettura più fluida di MacIntyre risaliremo per suggerire uno spunto per una possibile evoluzione del concetto di comunità.

Comunità come tradizione+pratiche (MacIntyre)

Consideriamo che la comunità specifica cui una persona appartiene è definita da due dimensioni: la dimensione temporale-storica delle tradizioni e quella sincronica-attuale delle pratiche.

Tradizione

La tradizione consiste nella duplice contestualizzazione delle intenzioni del soggetto entro la sua stessa storia personale ed entro il loro ruolo nella storia del contesto [MacIntyre 84a]. È la sedimentazione delle pratiche nella storia intergenerazionale per quanto partecipa a formare oggi la personalità e i criteri etici.

Pratica

La pratica è definita da MacIntyre come "attività di cooperazione umana coerente, complessa, socialmente stabilita attraverso cui i beni interni sono realizzati nel raggiungimento degli appropriati standard di eccellenza, che parzialmente definiscono" [MacIntyre 84a].

Questo concetto di comunità è più ampio di quello di Etzioni, perciò più versatile, meno esposto a critica di gerarchia o di integrazione. Si presta ad un’ancora più marcata interpretazione reticolare della società, come network di pratiche e tradizione, ma è più del ruolo, è infatti un’attività complessa e coerente, e con ciò impedisce di pensare ad un’infinita varietà di comunità individuali (ciascuno con tradizioni e pratiche distintive).

Ma contemporaneamente è schierato con l’etica delle virtù, anzi ne incorpora l’essenza: l’eccellenza interna alle pratiche. Supera così la componente forte dell’affetto che sembrerebbe mancare, a favore di un senso di appartenenza al contesto più astratto ma più vincolante (basato sul concetto di pratiche di eccellenza, meglio definibili dell’affetto).

Olismo e processi sociali (non struttura): linguaggio

Il comunitarismo non solo aderisce ad un’interpretazione dei processi sociali piuttosto che della struttura (questo senso di attività è sempre insito nella visione aristotelica) [Hall 95]. La lettura che diamo qui della comunità è organicistica dove il finalismo che ispira l’etica comunitarista in quanto teologica pervade tutti coloro che appartengono alla comunità. È la lettura più fedele a quella aristotelica di koinonia, comunità connessa con la totalità, sistema di attributi e relazioni in contrapposizione al realismo di Platone [Boudon 91].

Inoltre l’ordine delle attività umane non è meramente seriale o coeso (come insinua la critica), anzi suggerisce l’aumento della complessità ordinata dal modello [Freytag 95]. La comunità informa il modo in cui l’individuo ordina i beni da raggiungere tramite eccellenza in specifiche forme di attività integrate in un ordine complessivo che può prevedere persino il conflitto e la difformità [Freytag 95].

Unità narrativa

Questo concetto di comunità è tanto fluido da prestarsi ad enfatizzare la specificità del contesto a prescindere dalla condivisione del luogo geografico o di interessi, in termini del linguaggio comune necessario a consentire la comunicabilità.

Il linguaggio di MacIntyre si adatta bene con la richiesta di Kahn [Kahn 90, cit. in Horvath 95: 523] di un approccio integrato che incorpori la conversazione, la storia, la visione e la comunità, e sembra coerente con quella preferenza per la forma narrativa caratteristica del postmoderno.

Se la conversazione è la forma della comunicazione umana in generale, si può parlare di comunità come unità narrativa, come narrazione adatta per comprendere le azioni altrui. Identità personale e narrazione si condizionano reciprocamente, se non sono persino coincidenti [MacIntyre 84a, Freytag 95]. Scrive Barbara Hardy: "Viviamo delle narrazioni e intendiamo la nostra vita in base alle narrazioni che viviamo".

Dramma

Nella prospettiva qui proposta (che vale a superare la critica), il ruolo del soggetto non è solo quello di attore (che rappresenta) ma anche di autore (che crea). O meglio: è co-autore, poiché il "dramma" degli altri esercita costrizioni sul quello che egli scrive [MacIntyre 84a].

Perciò l’uomo può dare un contributo alla storia, può persino criticare la comunità. Ma entro lo stesso contesto che lo definisce. La narrazione per essere intelligibile deve essere vincolata (dal senso della storia) ma entro questi vincoli esiste una molteplicità indefinita di sensi possibili. Al tempo stesso ha un carattere imprevedibile e teleologico, poiché il nostro presente è determinato dal passato ereditato e dal futuro immaginato [MacIntyre 84a].

Da questa concezione discende anche il senso di responsabilità che può sopravvivere alla critica a Kant (al quale è invece ispirata la responsabilità deontologica dei Communitarians di Etzioni). Il soggetto deve essere sempre pronto a spiegare ciò che ha fatto, perché il suo agire si riflette su quello altrui, e può sempre interrogare gli altri sulla loro responsabilità [MacIntyre 84a]. Questo vale solo entro una continuità storica, negata invece dall’atomismo, dalla separazione delle sfere dell’agire e tra ruoli e individuo di quel filone di pensiero che unisce l’esistenzialismo, la filosofia analitica, il liberalismo.

Ricerca medievale

Questo punto di vista evolutivo della comunità come narrazione è coerente con la tradizione del pensiero nella quale il comunitarismo si iscrive. Richiama infatti l’idea di ricerca medievale per cui è necessaria una concezione preventiva almeno parziale del bene, ma la meta della ricerca si precisa solo con la ricerca stessa. La comunità determina il punto di partenza morale [MacIntyre 84a].

Tradizione vivente

Si precisa così la nozione di tradizione come tradizione vivente, "discussione che si estende nella storia [nelle tradizioni] e si incarna nella società [nelle pratiche]", la quale verte a sua volta sui valori delle tradizioni [MacIntyre 84a].

Una risposta alle critiche.

1- Nostalgia? Comunità come narrazione e pluralismo fondante.

Nostalgia. All’accusa di nostalgia è perciò possibile offrire una replica più robusta che una proposta politica meno oppressiva. Basata su una concezione che supera la distinzione gemeinschaft-gesellschaft e intacca la materialità dei rapporti tra le persone come fondante del concetto di comunità.

2- Conservazione? No, scriviamo un pezzo di storia (ricerca medievale).

Conservazione. Concepirla come narrazione in divenire, che le persone partecipano a costruire risponde alla critica di conservare il presente. La continuità storica, che plasma le pratiche stesse, non impedisce la loro messa in discussione, anzi offre l’appoggio necessario per farlo.

3- Integrazione? Appartenenza a comunità plurime, ciascuna coesa.

Integrazione. Asserire l’appartenenza ad una pluralità di comunità, che non necessariamente coinvolgono il complessivo modo di vita delle persone, è la fase di un percorso del quale la definizione bidimensionale di comunità come narrazione è un passo successivo. Ciò che importa è la comune comprensione, la coscienza della specificità del contesto, non l’integrazione verso un modello unico di vita.

4- Gerarchia? No, etica del carattere

Gerarchia. Infine il modello suggerito tende a decostruire l’ordinamento gerarchico e a funzionare più che altro sulla base non solo di cooperazione e autodisciplina [Selznick 93: 36] ma, secondo i dettami dell’etica del carattere, per perseguimento di ideali condivisi.

 

La critica metodologica

Per sferrare un’ulteriore critica, la più preoccupante —vedremo—, i liberali rivoltano la questione metodologica contro il pensiero comunitarista.

Anacronismo o utopia.

Il comunitarismo sarebbe inadeguato a spiegare la realtà odierna. Per quanto possa essere eventualmente desiderabile, l’ambizione di ripristinare il senso della comunità sarebbe illusoria in una società moderna inevitabilmente frammentata, caratterizzata da mobilità geografica, pluralità di relazioni, di culture [cfr. in Etzioni 93a: 14].

Una filosofia del genere sarebbe inutile per affrontare quello che è il vero problema della nostra era (post-moderna): la disintegrazione. Questo è stato centrato dai comunitaristi, ma la soluzione non può essere di suggerire una direzione opposta alla tendenza in corso [Freytag 95].

L’etica comunitarista avrebbe così senso solo in una società comunitarista, dove la morale è effettivamente informata all’idea di virtù ed eccellenza. Ma in una società dedita a perseguire i beni di efficacia (o esterni) non si può far conto su alcuna attrazione collettiva verso un qualche ideale condiviso di felicità (a meno di non ricorrere ad istituzioni repressive) [Freytag 95].

La difesa comunitarista

La risposta comunitarista corre lungo tutto questo capitolo, anzi è una delle intuizioni fondamentali che animano questa filosofia ed è d’altra parte uno dei principali motivi di contrasto con il liberalismo. L’uomo non è quell’essere autonomo, isolato e razionale presupposto dal liberalismo, si è affermato secondo il punto di vista comunitarista [v. supra pag. *]. Le persone sentono un legame oltre-che-razionale con gli altri, con i vicini di casa, con i compatrioti, non sono immuni dall’appartenere ad una storia specifica, ad una specifica comunità, anche se magari è una comunità non residenziale (come gli ebrei, gli omosessuali, i cubano-americani) [Etzioni 93a: 15] o addirittura una narrazione che informa i criteri etici e il linguaggio [v. infra pag. *].

Abbiamo scelto di non indagare questo aspetto [cfr. cap. 1, pag. *], alcuni spunti di ricerca di tracce comunitarie sono stati offerti, inoltre gli stessi liberali ammettono un’influenza più o meno marcata del contesto (salvo poi garantire la possibilità di astrarsene e criticarlo) [v. supra pag. *].

Il nodo che si vuole evidenziare isolando questa critica dalle altre consiste nel fatto che tende a mettere in discussione l’opportunità stessa della filosofia comunitarista, la coerenza con la realtà sociale che intende interpretare. Non è più solo questione di definire il concetto di comunità, ma di riflettere sul peso che in futuro potrà o dovrà avere l’idea stessa di comunità. Ci promettiamo di riprendere questo discorso nelle conclusioni.

 

 

 

 

 

 

 

Parte seconda

 

Fondamenti comunitaristi

per un’etica degli affari

Capitolo terzo

I livelli del

confronto

L’unico modo per un’impresa di esistere e per il capitalismo di sopravvivere è essere parte dell’intera società.

(David T. Kearns, Presidente Xerox)

 

 

Nei precedenti capitoli abbiamo studiato la filosofia comunitarista, spesso in esplicita contrapposizione al liberalismo. Essa si propone come un’alternativa o quantomeno una correzione necessaria al liberalismo, che è insufficiente ad interpretare la realtà sociale (questione metodologica) poiché trascura l’importanza del giudizio morale e dei valori nel formare l’identità delle persone e i loro rapporti interpersonali, ed è soprattutto incapace di offrire dei criteri per comprendere e guidare i comportamenti delle persone verso un ideale di bene (questione normativa), nel nome dell’autonomia, della tolleranza e della neutralità.

Emerge una distinzione in due parti della nostra ricerca, dovuta fondamentalmente alla ricerca della chiarezza attraverso un’impostazione deduttiva: se nella prima parte l’oggetto della filosofia era la globale concezione del mondo, in particolare l’oggetto dell’etica è il comportamento umano in generale, in questa seconda ci concentreremo sul mondo degli affari. Va sottolineato che questo non sottende una ripartizione dell’etica per aree di competenza [v. cap. 4, pag. *] tanto che non risparmieremo rimandi alla prima parte.

Nella seconda parte indaghiamo quanto la filosofia etica comunitarista costituisca uno schema adeguato per la lettura e soprattutto la prescrizione dei comportamenti nel mondo degli affari rispetto alle teorie di matrice liberale basate sui principi.

Questo capitolo introduce il comunitarismo all’etica degli affari attraverso una serie di approssimazioni successive al livello di analisi, illustrando di volta in volta le principali conclusioni che è possibile trarne. In seguito verranno esaminate le principali teorie antagoniste, accomunate nel patrimonio genetico dalla discendenza liberale e moderna.

 

L’ambito eticamente significativo

Preliminare al confronto con teorie rivali è capire quale livello del mondo degli affari sia più interessante studiare. Il business cui si riferisce l’etica degli affari è volutamente un concetto generico. Precisarne la portata significa scegliere un grado di astrazione diverso rispetto al quale discutere delle teorie etiche [Sacconi 88: 33]. Al diverso grado di astrazione, ovvero alla diversa specificazione del significato del termine affari, corrisponde una diversa definizione del soggetto eticamente rilevante, l’unità base di indagine.

Il comunitarismo ambisce a fornire una integrale concezione del mondo. Pertanto la questione (meta-etica) del raggio d’azione della teoria etica potrebbe sembrare fuorviante; la risposta non può che essere: ogni ambito del mondo degli affari (così come ogni sfera dell’agire umano) è compreso nell’interpretazione e nell’etica comunitariste.

Nondimeno vogliamo valutare il grado di originalità e di interesse pratico che la scelta del livello offre rispetto all’applicazione del comunitarismo all’etica degli affari. Il grado di interesse non è infatti funzione solo del livello in sé (altrimenti risulterebbero secondaria ogni dissertazione sui livelli "meno interessanti"), né è una scelta arbitraria. Vedremo come invece dipenda dalla specifica teoria in esame. Il comunitarismo si presta ad essere studiato con conclusioni fertili secondo determinati indirizzi piuttosto che secondo altri, dove più presta il fianco ad alcune delle critiche che gli vengono mosse (anticipate nella prima parte [v. cap. 2, pag. *]).

Distinguiamo tre livelli applicativi in accordo con varie fonti. Individueremo quello più fecondo per approssimazioni successive, mettendo in luce via via le principali conclusioni suggerite in merito dalla filosofia comunitarista e gli inconvenienti cui va incontro. La scelta del livello non è neutrale, perciò la nostra proposta originale va valutata come combinazione dell’applicazione del pensiero comunitarista a questo (e non ad altri) particolare livello.

 

Macro etica degli affari

Prendendo a prestito la terminologia dell’economia, è possibile individuare un livello macro dell’etica degli affari (macro business ethics) [Sacconi 88: 33-34, 93b: 204]. Sarebbe una sorta di filosofia dell’economia, cioè l’economia è considerata come etica con un’enfasi sulla giustizia economica (distributiva) [Solomon 93a: 98-99, 93b: 203]. Il soggetto eticamente rilevante è l’istituzione (di vario tipo: le imprese, lo Stato) nell’ambito del sistema delle organizzazioni economiche considerato come tutto [Shaw 96: 496]. Il business è un sottosistema sociale basato su determinate istituzioni, le imprese appunto [Sacconi 88: 34]. Perciò l’etica del business studia in particolare la giustificazione dell’assetto lungo il continuum che va dalla regolazione statale al laissez faire [Sacconi 88: 39].

Il contributo comunitarista: la giustizia.

Il comunitarismo suggerisce spunti interessanti (almeno nell’evidenziare i limiti altrui più che nel proporre un’alternativa) nella misura in cui interviene nel dibattito sulla giustizia. Innanzitutto il liberalismo non esprime un’idea univoca di giustizia, saremmo cioè difronte ad un vizio teorico (questione metodologica) poiché esisterebbero almeno due concezioni della giustizia entrambi liberali ma incommensurabili, per cui è impossibile preferire l’una all’altra. Entrambe si definiscono neutrali ma hanno presupposti e conseguenze profondamente diverse [MacIntyre 84a].

Le due concezioni sono riconducibili a quelle dei due filosofi liberali Robert Nozick [Nozick 74] e John Rawls [Rawls 71]. Per Nozick una distribuzione è giusta se tutti sono legittimati a detenere ciò che possiedono, cioè se a questi beni sono giunti attraverso una serie di trasferimenti giusti. Per Rawls è inevitabile che i soggetti, una volta posti in una situazione astratta di ignoranza reciproca (dietro il velo di ignoranza) [v. cap. 2, pag. *], definiscano una distribuzione giusta secondo due principi: i) ognuno ha diritto al più ampio sistema di libertà fondamentali; ii) l’ineguaglianza è giustificabile solo quando a beneficio dei meno avvantaggiati e accompagnata alla parità delle opportunità (difference principle) [Beauchamp-Bowie 93: 598]. In pratica tutti i beni sociali primari vanno distribuiti in modo eguale, a meno che una distribuzione ineguale vada a vantaggio di coloro che sono già meno avvantaggiati.

La giustizia di Nozick presuppone la priorità del diritto legittimo di acquisizione sull’uguaglianza (per cui dovrebbe essere assicurato il diritto fondamentale di proprietà e di distribuzione dei propri beni, anche se genera disuguaglianza —si parla giustizia procedurale— senza voler proporre un modello di società [Beauchamp-Bowie 93: 599]), la giustizia di Rawls, detta giustizia secondo equità (justice as fairness) sostiene esattamente il contrario.

Entrambe le teorie sottendono un’idea di uguaglianza, ma radicalmente diversa: Nozick afferma l’eguaglianza rispetto al titolo legittimo (entitlement), per cui ha rilevanza solo la testimonianza su ciò che è stato acquisito in modo legittimo nel passato; Rawls propone l’eguaglianza rispetto ai bisogni, per cui è irrilevante come coloro che adesso si trovano in uno stato di grave bisogno siano venuti a trovarsi in tale stato [Ferrara 92: xxii-xxiv], e si parla propriamente di egualitarismo (uguale accesso ai beni primari) [Beauchamp-Bowie 93: 595]. Questi diversi presupposti conducono inoltre a conclusioni pratiche opposte poiché sono gruppi sociali diversi a guadagnare e perdere [MacIntyre 84a].

Al tempo stesso queste due concezione di giustizia hanno in comune tratti caratterizzanti del liberalismo tutto. Esse ignorano la contestualizzazione degli individui. Ne ignorano la dimensione sincronica dell’immersione nella comunità: per entrambi la società è il mero insieme di individui ciascuno con i propri interessi personali, limitati vuoi dai diritti fondamentali (Nozick) vuoi dalla prudente razionalità (Rawls).

Ne ignorano anche la dimensione diacronica della storia passata: serve solo a legittimare il titolo (Nozick), o contano i bisogni attuali indipendentemente da come sono stati originati (Rawls). Come risultato ignorano le differenze morali tra gli individui [Beauchamp-Bowie 93: 597] e l’idea stessa di merito, e non potrebbe essere altrimenti visto che è definibile soltanto rispetto all’appartenenza ad una comunità/narrazione [v. cap. 2, pag. *]. Infatti per Nozick conta solo la legittimità; per Rawls il merito è definito dalla giustizia [MacIntyre 84a].

A partire da questa critica è possibile immaginare un modello comunitarista di giustizia che abbia come fulcro la partecipazione degli individui alla vita della comunità. La distribuzione dei beni sarebbe giusta quando avvenisse in accordo alla concezione comune della vita buona, e sarebbe di per sé occasione di felicità [cfr. Beauchamp-Bowie 93: 595]. Il presupposto in questo caso è l’esistenza della comunità così come definita dai comunitaristi [v. cap. 2, pag. *].

Evidentemente tale concezione di giustizia non può non tener conto dei bisogni degli individui. Ma da una parte pretende il contributo degli individui alla comunità (eventualmente immaginabile in termini di responsabilità, nel senso però definito dall’etica delle virtù [v. cap. 2, pag. *]). Dall’altra non è indifferente né riguardo alla natura dei beni distribuiti, né alle motivazioni della distribuzione.

Rispetto alla prima, non potrebbero essere moralmente lecite le attività che violassero il bene comune (ad esempio l’industria pornografica). Rispetto alla seconda, la tradizione aristotelica, di cui il comunitarismo si alimenta, disapprova l’attività economica volta a produrre beni in eccesso rispetto alla soglia che garantisca l’autosufficienza della comunità-polis [Bano 92: 135-137], cioè la cui motivazione ultima sia il perseguimento del profitto.

Il contributo comunitarista: congiunzione di valori etici ed economici.

Più specificamente a proposito di etica degli affari, nel fare proprio l’approccio aristotelico dell’etica delle virtù, il comunitarismo costituisce una giustificazione dell’argomento di Margaret Radin contro la mercificazione universale di ogni attività umana. Ogni attività umana è caratterizzata da una componente non mercificabile (mercificazione incompleta), e l’etica dovrebbe promuovere un’idea di giustizia sociale che valorizzi questa componente, attraverso la legittimazione della regolazione e dell’intervento dello Stato, che sottragga determinati beni al mercato [Sacconi 91].

Giustizia liberale come arte della separazione

La teoria liberale degli standard separati nelle varie sfere della vita sociale [v. cap. 2, pag. *, cap. 4, pag. *] è evidentemente ostile a questo ragionamento. In accordo con essa, scopo della teoria morale è di erigere pareti tra le diverse sfere, e la giustizia può essere concepita come arte della separazione, per cui ogni sfera sociale è regolata dai principi distributivi appropriati al bene che è tipico di quella data sfera. Si ha così che i criteri validi per l’allocazione delle merci non dovrebbero essere estesi ad altri beni, come il corpo umano, la salute, la casa, l’ambiente, la partecipazione politica [Walzer 83; Sacconi 91]. Se per un verso questo dovrebbe mettere al sicuro le sfere "più preziose" tutelandole in base a criteri speciali, dall’altro sottrae alla morale comune il giudizio delle forme dell’attività economica.

Al contrario, per l’etica delle virtù, l’attività di perseguire l’ideale di eccellenza costituisce essa stessa felicità: il valore (interno) della pratica trascende dal mero valore monetario (esterno) della remunerazione [Sacconi 88]. Perciò l’attività economica non va giudicata solo in base a quest’ultima o ad altri indicatori economici, ma soggetta al giudizio complessivo basato sulla concezione di vita buona condivisa dalla comunità.

Economia subordinata all’etica

La priorità dell’economia sulle altre attività, accordata in età moderna, viene capovolta nell’ottica comunitarista, assoggettata alla politica, o meglio insieme a questa all’etica [cfr. Bano 92].

 

Delle perplessità.

Per Solomon il livello macro si scontrerebbe di per sé stesso con due ordini di limiti.

Difficoltà applicative. In primo luogo un limite pratico: una teoria di macro etica è irrilevante per il mondo degli affari quotidiano e inaccessibile per coloro che dell’etica degli affari non fanno soltanto una materia di studio; difficilmente produce precetti normativi applicabili concretamente sul lavoro. Ma questa caratteristica potrebbe essere addebitata a gran parte delle teorie in ogni scienza [Solomon 93a: 99, Solomon 93b: 203].

Insufficienza teorica. Esibirebbe anche un limite teorico, poiché le teorie a questo livello sarebbero incomplete, ignorano il contesto concreto e sono indifferenti al particolare ruolo che le persone giocano nel mondo degli affari. L’inaccessibilità o l’inapplicabilità al manager comune non sarebbe dunque solo un problema pratico, ma un fallimento della teoria [Solomon 93a: 99, Solomon 93b: 204].

Che questo approccio presti poca attenzione all’individuo va condiviso ("ha poco da dire all’individuo in quanto contrapposto al policy maker, cioè lascia l’etica fuori dall’etica degli affari" [Shaw 96: 497]), ma l’impressione è che questi problemi siano più che altro due facce di un presunto limite che è tale solo rispetto a certi presupposti, che cioè il destinatario delle teorie etiche sia il manager comune o l’imprenditore che cerchi di imparare un comportamento etico.

Il proposito è evidentemente lodevole (insegnare l’etica degli affari), ma va esplicitato e non è necessario screditare gli approcci diversi da quello prescelto (e di conseguenze le teorie che li accolgono). D’altra parte l’interesse per questo livello non è semplicemente accademico, investe un livello di decisioni complesso che possiamo dire la politica (a questo livello si riferisce infatti il politics model [Shaw 96]). Perciò semplicemente confessiamo il nostro maggiore interesse per la responsabilità degli individui e per le teorie etiche che la considerino come il focus privilegiato.

Originalità. Inoltre il comunitarismo aggiunge poco di peculiare ed originale alle varie altre posizioni anti-liberali e l’elaborazione teorica sugli effetti economici della giustizia sociale è piuttosto scarsa [Smith 96]. Gli spunti cui abbiamo accennato (il giudizio sul profitto, la questione del merito) saranno ripresi in seguito a partire dal livello di studio per cui opteremo.

 

Micro etica degli affari

Il livello micro dell’etica degli affari (micro business ethics) [Sacconi 88: 34, Solomon 93b: 204] (altrove riferito come standard model [Shaw 96]) riguarda gli individui nel business [Sacconi 88]. Il soggetto eticamente rilevante è l’individuo che opera nell’ambito dell’organizzazione [Sacconi 88: 34, Shaw 96: 493, 494]. Il business è definito come l’attività di un’impresa [Sacconi 88: 39]. L’etica degli affari studia i concetti che definiscono il comportamento degli individui nell’impresa e le loro responsabilità morali [Solomon 93b: 204, Shaw 96: 493]. In particolare affronta i problemi di politica interna (internal policy) [Freeman-Liedtka 91] che si pongono alla direzione. I temi caratteristici sono il rispetto e la promozione dell’integrità dei lavoratori, i conflitti tra valori o culture diverse, la partecipazione alla gestione, i termini del contratto di lavoro, il licenziamento, eccetera.

Il contributo comunitarista: moralizzazione massima.

A questo livello la tentazione di considerare l’impresa come la comunità di riferimento è forte. L’applicazione della filosofia comunitarista a questo livello costituisce la via della moralizzazione massima all’etica manageriale [Sacconi 91]. La moralizzazione minima consiste nel progettare regole organizzative e incentivi per procurare un comportamento moralmente accettabile, evidentemente partendo dal presupposto che gli uomini sono "cattivi" e vanno in qualche modo ingabbiati entro un insieme di principi che assicuri le minime condizioni di convivenza e soddisfacibilità dello scopo comune [Sacconi 91].

Delle perplessità.

Questo approccio si espone a numerose critiche, tanto relative al livello in sé stesso, quanto dovute alle teorie che su questo livello si esercitano. Ci concentreremo sui limiti incontrati nell’applicazione del comunitarismo all’impresa come comunità; muoveremo da queste critiche per argomentare come il limite stia proprio nel considerare comunità l’impresa.

1- Ignora il contesto socio-economico

Ignora il contesto. A considerare gli operatori-decisori come astratti agenti morali, il modello appare cieco verso il contesto socio-economico che crea i dilemmi morali. Dando troppo peso alla scelta individuale finisce per trascurare le istituzioni, la realtà sociale, eccetera [Shaw 96: 495].

2- Si presta a PBE

Vocato alla teoria dei principi. Questo livello si presta ad essere studiato da teorie che diremo basate sui principi [v. infra, pag. *], di matrice deontologico-kantiana. Apparentemente è più fecondo di conclusioni operative, sia perché è focalizzato sull’individuo, sia poiché vengono insegnati ai managers degli schemi di principi morali da applicare al caso concreto (frequente il metodo dei case studies): come vi si comporterebbe un utilitarista, o un deontologico? [Shaw 96: 493-494].

Proprio queste due prerogative espongono l’approccio a dei limiti: da una parte i principi etici costituiscono un fattore oggetto di calcolo di convenienza da parte del decisore; dall’altra, non essendoci consenso su quale teoria etica applicare o su quali criteri debbano guidare la scelta della teoria, risulta assai meno concreto di quanto sembrasse ("resta su un quadro astratto e irrealistico delle nostre vite morali: lascia il business fuori dalla business ethics" [Shaw 96: 495-98]). Richiama la critica all’emotivismo contestato all’etica (generale) liberale [v. cap. 2, pag. *]. Sarà ripreso oltre nella critica all’etica dei principi [v. infra, pag. *].

Il contributo comunitarista (ripresa): la competenza manageriale.

Tentiamo ora di immaginare quale potrebbe essere il ruolo di una delle figure chiave delle organizzazioni imprenditoriali del nostro secolo, il manager (eletto a personaggio rappresentativo della modernità [cfr. n. , cap. 1, pag. *], in un contesto di impresa come comunità comunitarista.

MacIntyre, il più originale tra i comunitaristi, nega l’esistenza di una competenza manageriale peculiare [cfr. cap. 1, pag. *]. La competenza manageriale, cioè l’"abilità di porre in opera capacità e conoscenza per raggiungere certi fini" [MacIntyre 84a: 97] che valga non solo entro l’attribuzione che gli stessi professionisti si conferiscono ma che faccia riferimento ad una abilità reale, è una finzione.

Essa consisterebbe cioè nella presunzione di saper operare al fine di massimizzare l’efficienza indipendentemente dai fini, cioè di essere moralmente neutrale, e ovviamente nella presunzione di poter operare, cioè di essere in grado di agire effettivamente sulle "leve di potere". Si compone di due parti: l’esistenza di un insieme di fatti neutrali (osservazioni empiriche) e la possibilità di generalizzazioni in forma di legge applicabili a casi particolari ricavati dallo studio dell’insieme (predizioni causali) [MacIntyre 84a].

Sono invece le stesse distinzioni tra fatto e valore, tra neutralità descrittiva e prescrittività ad essere messe in discussione in base agli argomenti della filosofia neo-aristotelica di matrice teleologica [cfr. cap. 1, pag. *]. Inoltre l’imprevedibilità sottrae le leve al presunto controllo sociale dei managers. Insomma, il manager non avrebbe alcuna competenza specifica su cui basare la "scienza manageriale", né la scienza sociale è in grado di predire i comportamenti umani nemmeno lontanamente alla stregua delle scienze naturali come pure ha preteso [MacIntyre 84a].

Delle perplessità (ripresa).

Il paradosso della legittimità del manager. MacIntyre sembra però imbattersi in un paradosso: dopo aver negato la legittimità dell’autorità del manager (basata sulla loro pretesa competenza neutrale), conclude attribuendo ai managers una legittimità morale ben più estesa (in quanto campioni di eccellenza) [Sacconi 93]. Adottare la logica dell’eccellenza piuttosto che quella dell’efficienza [v. cap. 4, pag. *] incorpora la dimensione etica nella teoria d’impresa, consente di operare secondo criteri che non invocano la neutralità morale.

Ma proprio una volta che si definisca —ed è plausibile— il manager come promotore dell’eccellenza, e in questo portatore di un’eccellenza superiore, egli acquista una legittimità morale alla sua autorità ancora maggiore di quanto potesse godere come portatore di una competenza "tecnica", fino a paventare il rischio di autoritarismo [cfr. cap. 2, pag. *].

Insomma, se l’autorità del manager weberiano è legittimata in base ad una finzione, la competenza tecnica moralmente neutrale, che maschera un’ideologia affatto neutrale, l’autorità del manager (aristotelicamente eccellente) è legittimata in base ad un effettivo criterio morale condiviso, la virtù, e perciò ne esce esaltata.

Il paradosso è tale soprattutto per coloro che non vedono di buon occhio il comunitarismo. Si può infatti argomentare innanzitutto che l’eccellenza non è ordinata omogeneamente tra tutti i membri della comunità (impresa), l’eccellenza è sempre interna alle pratiche, cioè ai diversi ruoli svolti dai diversi membri. Perciò il manager non necessariamente è campione di eccellenza, cioè il più eccellente tra i membri, deve essere eccellente per il suo ruolo, così come lo sono gli altri lavoratori nei loro rispettivi ruoli. Resta in piedi l’obiezione che comunque la legittimazione dell’autorità del manager abbia fondamenta morali, perciò più solide.

Ma soprattutto si deve rilevare che MacIntyre non aborrisce il manager di per sé, ma per i fondamenti filosofici che sottendono la figura del manager weberiano (attualmente dominante).

Sta di fatto che, in questo esercizio di immaginare un’impresa comunitarista, risulta arduo tratteggiare una figura di manager dal ruolo non ambiguo. Potrebbe darsi una sorta di maestro di virtù, effettivamente membro eccellente rispetto agli altri che costituisca un modello e sia promotore di virtù, meno implausibile quando si consideri l’allargamento della portata della capacità relazionale in rapporto alla capacità tecnica che sempre più si afferma nella realtà d’impresa. Questa ipotesi apre il campo ad altre critiche.

4- Eccesso di morale e sottovalutazione dei valori esterni

Dominio della morale. Sembra che tutta la vita d’impresa debba essere letta in termini di morale. La dimensione morale è così importante da assorbire ogni altro ambito. La negazione di differenti sfere dell’agire umano rischia di essere portata alla conclusione estrema per cui tutto l’agire umano si risolve in una questione di morale. È ovvio che alla dimensione morale attribuiamo una grande importanza, ma potrebbe darsi una dimensione morale che accompagna altre dimensioni, come quella tecnica. La filosofia comunitarista, nel leggere l’impresa come comunità, rischia di esasperare la prima ed ignorare le altre, o meglio tende a ricomprenderle in termini morali.

In particolare basare il giudizio morale sui valori interni alle pratiche porta a trascurare i valori esterni. Ad esempio una procedura democratica di elezione delle cariche dirigenziali non è un requisito tra i più importanti [Sacconi 91]. È un altro aspetto che suggerisce il rischio di autoritarismo: la legittimazione dell’occupante del ruolo è determinata esclusivamente dalla virtù interna alla pratica così come criteri morali e membri sono espressi dal sentire condiviso della comunità (impresa).

5- Totalitarismo (identità individui definita totalmente dall’im presa)

Dominio dell’impresa. Sappiamo che per quanto concerne la teoria sociale (dimensione metodologica) il comunitarismo afferma che l’identità delle persone sia costituita dall’appartenenza alla comunità. Se è innegabile che la vita lavorativa sia un momento importantissimo nella vita di una persona e formativo della sua identità, considerare l’impresa come comunità ci porterebbe a pensare che l’identità dei lavoratori sia costituita dalla vita d’impresa, e poiché neghiamo la separazione delle sfere dell’agire, è l’identità dei lavoratori in quanto persone (non in quanto lavoratori) ad essere costituita dalla vita d’impresa. Il che è palesemente esagerato.

L’etica dei valori afferma una sorta di infusione dal basso, attraverso l’agire nella comunità, delle virtù. Le virtù che attraverso l’esercizio formano il carattere morale di una persona sarebbero dunque apprese entro l’impresa, come se la vita delle persone si esaurisse nella vita d’impresa. È una prospettiva evidentemente totalitaria, in cui la visione del bene è unica ed è quella dell’impresa, ed è per di più una prospettiva irrealistica.

6- C’è un parallelo tra la struttura d’impresa e la concezione comunitarista di comunità ma non è necessario ricorrere al comunitarismo

Comunitarismo superfluo. Che il mondo degli affari esibisca realtà facilmente interpretabili come comunità oggetto di descrizione e prescrizione comunitarista è certo. L’impresa di successo richiede il miglior contributo possibile da parte di ciascun lavoratore, e nessun singolo può tirare avanti la squadra. Il successo individuale è futile se l’impresa fallisce. Ciascuno contribuisce al bene del tutto, il successo individuale è valutabile solo nella misura in cui partecipa al successo collettivo [Skoble 94: 337].

"L’idea di essere un giocatore di squadra nell’impresa rispecchia l’idea di contribuire al bene comune nella teoria sociale. Nel pensiero sociale comunitarista, ci si aspetta che ciascuna persona subordini le preferenze individuali al bene della comunità, e infatti inquadri la sua concezione di interesse personale in termini di servizio reso alla comunità. Nell’impresa ci si aspetta da ciascun lavoratore che pensi ai suoi bisogni individuali in termini di bisogni dell’impresa. C’è un parallelismo strutturale tra il pensiero sociale comunitarista e le istituzioni commerciali d’impresa basato sull’idea della subordinazione delle preferenze individuali al bene comune. In entrambi i casi rischi e benefici sono collettivi." [Skoble 94: 337-338].

Il mondo degli affari non si esaurisce però nel modello dell’impresa. La figura di imprenditore, per esempio, si presterebbe più facilmente ad un’interpretazione in chiave individualista [Skoble 94: 338]. Ma quand’anche la struttura d’impresa possa essere interpretata come microcosmo del comunitarismo, non ce n’è bisogno, anzi mina la libertà di scelta dei membri dell’organizzazione [Skoble 94: 338].

Matrice comune dei problemi: impresa come comunità

Tutti questi problemi possono essere ricondotti ad una fonte comune: l’approccio che considera l’impresa come la comunità di riferimento etico. La vita d’impresa o il mondo degli affari sono solo momenti, per quanto importanti, della vita sociale delle persone e la nostra identità non si esaurisce certo entro tali ambiti.

I limiti del pensiero comunitarista rispetto a questo approccio non ne invalidano la portata generale, ma precisano il respiro del concetto di comunità cui guarda, che è quello della complessiva società secondo il modello della polis, di cui certo il mondo degli affari è parte. È nell’ambito della comunità in senso ampio che avviene l’educazione alle virtù, non in un’organizzazione cui si accede ad una determinata età della vita e in modo (in parte) volontario e (in parte) contrattualistico.

Distinguo

Alcuni autori confondono in questa stessa categoria di micro etica degli affari alcuni autori [Sacconi 88, Solomon 93a, 93b] un livello diverso, con connotazione e implicazioni molto differenti. È il livello che riteniamo più interessante per esercitare il nostro studio, e perciò lo trattiamo separatamente. Il seguito del capitolo e il capitolo seguente vertono proprio sulla prospettiva comunitarista a questo livello dell’etica degli affari.

 

Etica del ruolo degli affari

La terminologia (originale) allude all’ambito di ricerca che comprende gli individui nel loro ruolo nel business e contemporaneamente il ruolo del business nella società [Solomon 93b: 204].

Il business non coincide né con il sistema economico né con la singola impresa. È quella particolare caratterizzazione della vita sociale che coinvolge gli individui che svolgono attività economica senza isolarli dalla comunità più ampia cui inevitabilmente appartengono, anzi questa ne influenza la concezione della morale comune.

Il soggetto eticamente rilevante è la comunità-società [Horvath 95: 522], o meglio, ancora l’individuo ma indissolubilmente immerso in una comunità più ampia. Questo livello esalta la dimensione personale (piuttosto che considerare l’etica degli affari come una politica pubblica). Ma la nostra etica degli affari non è personale nel senso di privata o soggettiva, è piuttosto autocoscienza del fatto che ciascuno è una specifica ma inseparabile parte del mondo degli affari con un influenza significativa delle virtù e dei valori di quel mondo [Solomon 93b: 205].

Perciò l’oggetto di studio riguarda le relazioni di ruolo, il rapporto tra i valori degli individui e della comunità e gli obbiettivi dell’impresa in generale (human level [Freeman-Liedtka 91]), ma anche il comportamento morale dell’impresa, gli scopi morali (societal level [Freeman-Liedtka 91]), la responsabilità nei confronti di altri agenti morali [Sacconi 88: 39] (in particolare la comunità in cui è inserita).

Non significa considerare l’impresa come unità decisionale (come invece sottintendono Sacconi e Solomon ad esempio [Sacconi 88: 39, Solomon 93a, 93b]). Questo approccio anzi ci esime dall’annosa questione se l’impresa vada considerata o meno una persona o un agente morale [v. infra pag. *] A noi interessa l’etica degli individui per il loro fare l’impresa.

Questo approccio supera il parallelismo con l’economia che i termini micro-macro fanno intuire. Questa distinzione è infatti inadeguata: l’unità di base negli affari di oggi non è né l’imprenditore o il consumatore individuale né il sistema che abbraccia tutto; è l’impresa [Solomon 93a: 110, 93b: 204]. Benché l’unità esistenziale della responsabilità e di interesse sia l’individuo, l’individuo nel mondo degli affari di oggi non opera in un vuoto sociale, perciò la nostra unità fondamentale di comprensione deve essere l’impresa, o meglio, il lavoratore nell’impresa [Solomon 93b: 204].

Le persone negli affari sono in definitiva responsabili come individui, ma come individui in un contesto d’impresa dove le loro responsabilità sono almeno in parte definite dai loro ruoli e doveri nell’impresa. Gli affari sono definiti a loro volta dai loro ruoli e responsabilità in una comunità più ampia [Solomon 93a: 111].

Come questo livello risolve i limiti dei precedenti

A supporto della scelta di questo livello sugli altri riesaminiamo i problemi sollevati in precedenza per vedere come li possiamo meglio affrontare.

Il principale pregio è di essere centrato sulla responsabilità individuale e nello stesso tempo di prendere in considerazione il contesto socio-economico (diremo meglio: comunitario) in cui l’individuo opera. La prima prerogativa lo rende un approccio potenzialmente fecondo di indicazioni operative. Il focus sulla responsabilità individuale è, da un punto di vista teorico, essenziale per rispettare il requisito di prescrittività che definisce un giudizio come morale [v. infra pag. *]. La seconda prerogativa lo rende più realistico e aumenta la complessità di cui sa dar conto, ampliando la gamma di teorie rivali che vi si possono cimentare (oltre all’etica dei principi).

Per quanto concerne l’applicazione del comunitarismo all’etica degli affari, questo livello segna il superamento dell’analogia impresa-comunità, più facile ma riduttiva e persino fuorviante, risultando evidente che la filosofia comunitarista con comunità fa riferimento ad un ambito più ampio e continuativo di quanto possa essere la realtà lavorativa.

Se essa offre stimoli e criteri morali essi vanno considerati nel quadro più complessivo della vita comunitaria, così come non può essere una sfera dell’agire autonoma e separata. Perciò vengono meno le pericolose conseguenze di eccesso di legittimazione morale dei managers o di esaurimento dell’identità individuale nell’identità in quanto membro dell’organizzazione.

 

Teorie rivali

Per quanto cerchiamo di tratteggiare i lineamenti di una filosofia comunitarista autonoma, abbiamo visto come storicamente sia stata elaborata in antitesi di altre teorie che abbiamo raccolto (in accordo con la pressoché totalità degli studiosi) sotto il cappello del liberalismo.

Parimenti, nell’applicazione all’etica degli affari, essa si contrappone a tutta una serie di teorie che condividono l’assunzione e l’approccio liberale, in particolare sono basate su principi (PBE, principale base ethics).

Communitarian Business Ethics?

Solo convenzionalmente è possibile parlare di un’etica comunitarista degli affari. Il comunitarismo non può sottendere infatti un’etica speciale valida specificamente per gli affari [v. cap. 4, pag. *]. Ciò che ci accingiamo a studiare è come la filosofia comunitarista possa interpretare i problemi peculiari del mondo degli affari.

 

Cosa non è?

Prima di affrontare le teorie antagoniste sgomberiamo il campo da ciò che l’approccio comunitarista all’etica degli affari non è, servendoci di questa impostazione negativa per delinearne i primi lineamenti.

Non è una teoria del comportamento organizzativo o manageriale.

Il discorso comunitarista sull’etica degli affari non è una teoria sociologica o del comportamento o di management bensì una teoria di filosofia morale applicata. Il proposito di superare questa separazione vedrebbe nel comunitarismo il contesto più favorevole [Hall 95, Horvath 95], ne abbiamo già accennato [v. cap. 1, pag. *]. Ma questa ricerca si occupa appunto di etica e non pretende di interpretare alla luce del comunitarismo il comportamento organizzativo.

Innanzitutto si distanzia sia dai numerosi studi sociologici sulla comunità, fosse solo perché esplicitamente normativa. In secondo luogo (la differenza è più sottile), pur condividendo delle teorie sulle motivazioni l’intento prescrittivo e l’interesse per i valori, essa rivendica un contesto marcatamente filosofico (etico), cioè discute direttamente (criticamente e razionalmente) il problema delle norme morali [Sacconi 88: 14].

Giudizio morale: requisiti

Un giudizio morale per essere tale deve essere caratterizzato da requisiti materiali (la morale ha a che fare con differenti concezioni del bene comune o dell’armonia sociale) e da requisiti formali (regole semantiche della sua costruzione). Questi ultimi si articolano nei seguenti [Sacconi 88: 15-19].

Universalizzabilità: un enunciato che giudica un caso particolare deve poter essere esteso a tutti i casi analoghi per i tratti rilevanti. È una condizione debole (cioè non implica necessariamente imparzialità) che pretende che al minimo non dipenda dai nomi propri di cose o persone citate in giudizio [Sacconi 88: 15-19].

Prescrittività: i giudizi morali sono guida all’azione, perciò non deve esservi impossibilità di agire in più modi alternativi ("dovere implica potere"). La possibilità va intesa non solo in senso prima logico e poi fisico, ma anche psicologico [Sacconi 88: 15-19, cfr. Fieser 96: 462].

Precedenza: un principio morale deve aver precedenza su eventuali criteri di azione concorrenti (cioè deve essere sovraordinato all’egoismo o alla prudenza) [Sacconi 88: 15-19].

Per il management la dimensione valoriale è strumentale ad altri scopi, per l’etica degli affari è il fine. Senza contare che mentre il management o le teorie sui comportamenti accordano una prevalente attenzione per la singola organizzazione, noi abbiamo esplicitato un livello di studio più complesso.

Non è una teoria di Corporate Culture.

L’approccio comunitarista all’etica degli affari non è una qualche forma di teoria della cultura d’impresa o organizzativa (corporate culture). La confusione potrebbe essere suggerita dalla condivisione di un approccio integrazionista, in particolare della teoria di Emile Durkheim (che ne è l’autore di riferimento), che operano tanto alcuni autori comunitaristi [Solomon 93a], tanto esponenti della corporate culture [Dahler-Larsen 94].

La corporate culture studia le filosofie, le ideologie, i valori, le assunzioni, i credo, le aspettative, le attitudini e le norme condivise che legano assieme un’organizzazione [Kilmann-Saxton-Serpa 85: 5, cit. in Dahler-Larsen 94]. Promette la possibilità di gestire la cultura dell’impresa, in quanto invenzione umana che crea solidarietà e significato e ispira l’impegno e la produttività [Deal 85: 301, cit. in Dahler-Larsen 94], al fine di migliorare l’integrazione sociale e l’impegno, in ultima istanza di guadagnare in innovazione, produttività e ottenere un vantaggio competitivo [Deal-Kennedy 82, Peters-Waterman 82, cit. in Dahler-Larsen 94]. È decisamente un miglioramento rispetto all’immagine impersonale della burocrazia, individualista e meccanicista, e riconosce che l’impresa è prima di tutto una comunità [cfr. Solomon 93a: 125-135].

La corporate culture non si muove entro la dimensione morale. Per spiegarlo ci serviremo del confronto con la moralità durkheimiana che Dahler-Larsen propongono (a loro volta in modo strumentale): l’apparente analogia cela in realtà una distanza dovuta proprio alla mancanza della comprensione della dimensione morale. Il potere integrativo della corporate culture appare simile al meccanismo della moralità di Durkheim, cioè lo spostamento dalla razionalità verso l’impegno emotivo e la motivazione basata sui valori. Si ricorre cioè al "trucco" di sostituire l’azienda alla società come ambito del sacro. Ma la corporate culture ignora tre idee, le condizioni della moralità di Durkheim affinché sia possibile mantenere unità morale a fronte dell’alta divisione del lavoro, facendoci concludere che questa similitudine è poco più che casuale [Dahler-Larsen 94].

La prima idea è che i valori utilitaristici moderni sono problematici per la moralità. La corporate culture sfrutta razionalmente la leva affettiva per fini commerciali, cioè esalta strumentalmente la dimensione morale nell’impresa, che resta gesellschaft, o addirittura la rende ancor più tale. Sarebbe cioè un tentativo di usare il sacro per scopi profani (efficacia, performance).

La seconda idea è l’autonomia. Essa, elemento essenziale della moralità (assieme alla disciplina come senso del dovere, e al bene come attaccamento alla collettività, che possono essere compresi nell’attaccamento all’impresa), è ignorata dalla corporate culture. Un atto è morale solo se eseguito liberamente e senza coercizione. Ma i membri dell’organizzazione sono considerati come culture’s symbol-lovers, incapaci di sindacato morale. Non c’è feedback sui valori proposti dalla corporate culture, che perciò opera ad un livello di complessità più basso di Durkheim (e del comunitarismo).

La terza idea (la più forte) è che solo la società stessa è fonte e oggetto di moralità, e anche gli organi intermediari sono parte di un progetto societario. La corporate culture lega l’organizzazione alla società solo in modo strumentale, nella misura in cui serve la domanda di miti, ma sostanzialmente si riferisce ad un ordine culturale interno al quale i membri si adattano. In questo trova un forte limite, perché non può dimostrare connessioni a valori societari che motivino il lavoro dei membri (è perciò possibile far produrre cibo spazzatura) [Dahler-Larsen 94]. La corporate culture tende ad essere troppo chiusa, a vedere gli affari come un’area separata e isolata, con valori diversi da quelli della società circostante [Solomon 93a: 134].

Il comunitarismo in combinazione con il livello di applicazione adottato è molto diverso. Si propone in alternativa ai criteri utilitaristici o liberali non certo asservendosi a strumento. Che l’individuo sia soggetto morale è assunzione, tanto da ricondurre alla dimensione individuale anche il discorso etico sul ruolo dell’impresa. Infine il nostro approccio riconosce l’esperienza professionale come dissolta nell’esperienza societaria nel senso più ampio.

Non è una teoria funzionalista o integrazionista.

Teoria funzionalista: business come sussidiario alla società, creato per servire le funzioni economiche in una divisione del lavoro istituzionale che risulta nella stabilità sociale. Regolazione di condizioni concorrenziali piuttosto che di specifiche condizioni sociali come strumento adeguato di governo. Implicitamente il business esiste e agisce con il permesso della società ed entro le aspettative della società [Wood 91: 67].

Non è rievocazione nostalgica della comunità perduta.

Infine l’approccio comunitarista all’etica degli affari non è rievocazione nostalgica del perduto senso comunitario. Esercitare l’etica comunitarista nel mondo degli affari costituisce l’occasione per ribadire la lontananza da ogni celebrazione della comunità perduta. Proprio molte imprese moderne rappresenterebbero invece quella comunità (reale) cercata da alcuni autori comunitaristi [Solomon 93a: 115-16, 93b: 210], senza dover ricorrere ad alcuna idealizzazione.

Spostare il focus alla comunità più ampia di cui l’impresa è parte, questo è il livello adottato, espone al rischio di rivendicare una nuova polis, cui riteniamo di doverci (viste le obiezioni sollevate) e poterci sottrarre grazie alle specificazioni che abbiamo impresso alla teoria comunitarista [v. cap. 2, pag. *], in particolare alla vocazione pluralista della morale condivisa e alla concezione discorsiva di comunità.

 

Gli antagonisti

L’etica degli affari è affollata da un gran numero di teorie diverse, oltre ai tre livelli di cui si è detto. Una di queste è evidentemente la filosofia comunitarista. Mappare la disciplina esula dai fini della nostra ricerca, perciò ci accontentiamo di identificare quelle scuola nella misura in cui si chiariscono le ragioni per cui il comunitarismo vi si pone in alternativa.

Teorie dell’impresa amorale.

Nel dibattito sulla responsabilità sociale d’impresa, cioè sul ruolo dell’impresa nella società, in particolari sui doveri che quest’ultima attribuisce alla prima, che è uno dei campi più indagati dell’etica degli affari, strettamente attinente al livello che abbiamo adottato, ad un estremo sta la posizione che nega ogni responsabilità sociale per il business.

La teoria fondamentalista risale a Milton Friedman, per cui il business ha una sola responsabilità: "quella di accrescere il profitto fintanto che permane nelle "regole del gioco", cioè intraprendere una concorrenza aperta e libera, senza imbroglio o frode" [Friedman 70]. È connessa alla cosiddetta visione del riconoscimento legale, per cui l’impresa non è una creazione della società ma un’entità autonoma posseduta e guidata da un gruppo liberamente costituito [DeGeorge 90, Klonoski 91: 9].

La mancanza di responsabilità sociale dell’impresa è giustificata anche —posizione funzionalista-fondamentalista— in base alla separazione, all’insegna del pluralismo radicale, delle sfere dell’agire: ad ognuno il suo compito, si direbbe, e la funzione degli affari è di massimizzare il profitto attraverso una competizione vigorosa (l’impresa non è un’organizzazione caritatevole), mentre spetterebbe al governo badare al benessere generale [Klonoski 91: 9, Bowie 91a: 57].

Douglas Den Uyl (cui si devono argomentazioni filosofiche liberali e anti-comunitariste [per esempio v. cap. 1, pag. *]) rilancia Friedman come un teorico dell’accordo individuale, cioè afferma che l’impegno a rispettare i contratti e gli accordi implica il rispetto per i diritti individuali da essi scaturiti. L’impresa non deve sentirsi socialmente responsabile oltre agli accordi stipulati [Den Uyl 84, cit. in Klonoski 91: 10].

A questa teoria si riconduce anche il modello tradizionale degli azionisti, per cui i managers sono responsabili soltanto difronte ai proprietari dell’impresa, e unicamente di perseguire il profitto [Klonoski 91: 10]. È una specie di approccio basato sul ruolo (role-based) perché il ruolo dell’impresa e di coloro che la guidano determina le responsabilità dell’impresa stessa [Klonoski 91: 10].

Responsabilità negativa.

Una prima reazione contro la concezione dell’impresa amorale friedmaniana è sostenere la responsabilità negativa dell’impresa verso la società, cioè in termini di restrizioni della libertà. Sulla base del fatto che limitazioni dei diritti di proprietà sono già legittimate moralmente e legalmente (coltivare marijuana sul proprio terreno è vietato) e che la proprietà richiede una certa cura e attenzione (mentre l’investimento speculativo ha il profitto per unico scopo).

La conclusione è che l’impresa deve rispettare un certo standard morale minimo (moral minimum) perciò non può essere guidata dal mero profitto. Se la società non può imporre doveri positivi sulle imprese, può imporre restrizioni negative contro attività potenzialmente dannose [Beauchamp-Bowie 93: 51-52].

Diritti e politica pubblica.

Politica pubblica.

C’è un filone dell’etica degli affari rivolto a dotare l’autorità politica di strumenti che le consenta interventi di public policy. Ciò che manca a queste teorie e che invece è assolutamente centrale per l’etica è l’attenzione per la responsabilità individuale. In particolare l’etica degli affari non riguarda soltanto il top management, ma riguarda tutti i lavoratori, tutti coloro che hanno a che fare con il business (cioè virtualmente tutti noi) [Solomon 93a: 112-13, 93b: 207].

Enfasi sui diritti.

Spesso alla base di questo approccio sta un’enfasi primaria sui diritti, siano essi i diritti della libertà d’impresa in quanto tale, siano i diritti dei lavoratori, dei clienti, della comunità o i diritti civili. Il comunitarismo non nega l’importanza dei diritti, ma avverte che concentrarsi sui diritti può oscurare la responsabilità [v. cap. 2, pag. *]. Propone perciò di passare dall’ottica di detenere dei diritti all’ottica di riconoscere i diritti altrui, cioè dell’assunzione di responsabilità [Solomon 93b: 209].

Teorie della persona o dell’agente morale.

Una strada per assegnare responsabilità sociale all’impresa è di considerarla come soggetto unitario che agisce alla stregua degli individui, che sono in quanto tali moralmente responsabili (per quanto in modalità diverse come risulta dal dibattito che abbiamo illustrato nella parte prima).

Secondo una prima versione, l’impresa come collettività agisce come un individuo (è una persona metafisica), e perciò può essere moralmente colpevole, avere diritti e doveri, va considerata cioè alla stregua di una persona morale, membro della comunità insieme alle altre persone [Klonoski 91: 10-11].

Questa posizione si espone a diverse critiche: l’impresa non è punibile come è punibile un individuo (le conseguenze sono eventualmente subite dai proprietari), e non gode della capacità di reciprocità morale, escludendo la possibilità di essere membro a tutti gli effetti della comunità [Klonoski 91: 11].

Di questo approccio esiste una varietà per cui l’impresa è un agente morale basata su una natura della personalità diversa da quella umana: è un sistema intenzionale cui si può ascrivere un’agenzia morale secondaria. Un’impresa opera come risultato di azioni individuali primarie e perciò non è moralmente autonoma, ma le azioni dell’impresa non possono essere ridescritte solo come l’aggregato di quelle singole azioni (esisterebbe una struttura interna decisionale, CID, corporate internal decision, che costituisce il carattere dell’impresa). Essa è perciò responsabile delle azioni che ricadono sotto il "suo" controllo (cioè quando esiste la possibilità di agire diversamente), anche oltre i doveri imposti per legge, e titolare di diritti [Klonoski 91: 11, Bowie 94].

Più che porsi come teoria alternativa, questo della persona/agente morale è un approccio sovrapponibile ad altri, compreso l’approccio comunitarista. Tuttavia, il livello di ricerca adottato, che afferma la centralità della responsabilità dell’individuo (nell’esperienza di operare nel mondo degli affari), supera questo tipo di discussione. Anche quando parleremo del ruolo dell’impresa, ci riferiremo alle persone nello svolgere il ruolo di partecipanti all’impresa.

Responsabilità affermativa: Corporate Social Responsability.

La responsabilità sociale d’impresa (CSR, corporate social responsability) come attività positiva dell’impresa verso la società (affirmative action) è stato l’approccio alla dimensione morale degli affari dominante negli anni Sessanta e Settanta (dal quale è scaturita l’etica degli affari come disciplina codificata), nato in reazione all’economia neoclassica per cui la sola responsabilità dell’impresa è massimizzare il profitto entro i vincoli (quanto minori) della legge [Stark 93: 39]. La diversità delle teorie della CSR vengono ad unità nell’affermare l’impresa come istituzione sociale che ha un qualche dovere di agire nell’interesse del bene comune [Mahon-McGowan 91: 80, cit. in Klonoski 91: 12].

Del concetto di responsabilità sociale esistono numerose definizioni. Nel 1960, Keith Davis la definì come: "decisioni e azioni prese per ragioni che sono almeno parzialmente oltre i diretti interessi economici e tecnici dell’impresa" [Davis 60, cit. in Carrol 91: 40]. Nel 1971, il Committee for Economic Development la descrisse con tre circoli concentrici: un primo livello include le funzioni economiche fondamentali (crescita, prodotti, lavori); il livello intermedio suggerisce che le funzioni economiche devono essere esercitate con una sensibile consapevolezza che esse cambiano valori e priorità sociali; il terzo livello ritrae responsabilità emergenti e vaghe di migliorare l’ambiente sociale [Carrol 91: 40].

È evidente che la CSR non è esaurita dall’attenzione che da sempre le imprese prestano per gli interessi ad esse esterni, come l’attività di pubblica relazione, di relazione con i clienti, eccetera; la differenza sostanziale è che il rapporto con gli stakeholders non va concepito in termini meramente economici, ma appunto morali [Goodpaster-Matthews 82: 113].

Alla CSR si richiamano le teorie basate sull’idea di un contratto sociale tra l’impresa e la società [Klonoski 91: 12-13, Bowie 91a: 56], implicito [Donaldson 81, 85, 89] o addirittura in quanto effettivamente stipulato: lo statuto [Bowie 83], e le teorie storiche-ideologiche che fondano la CSR su un fondo ideologico [Lodge 90].

Stakeholder

Un altro figlio della corrente del contratto sociale, che ha goduto di enorme favore, è l’approccio dei portatori di interesse (stakeholder approach) che contesta, su base kantiane, alla concezione classica di considerare le persone solo come mezzi [Beauchamp-Bowie 93: 54]. Le imprese sviluppano una rete di relazioni con diversi gruppi che hanno un interesse (stake), e con ciò sono al servizio della società nel senso più esteso [Bruono-Nichols 90, cit. in Klonoski 91: 13].

In senso stretto, gli stakeholders (talvolta detti primary stakeholders) sono "quegli individui o gruppi identificabili su cui l’impresa dipende per la sua sopravvivenza (azionisti, lavoratori, clienti, fornitori, uffici statali chiave)". In senso più ampio sono "coloro che sono toccati dall’attività dell’impresa in termini di prodotti, politiche, processi di lavoro (gruppi di pubblico interesse, gruppi di protesta, comunità locali, uffici statali, associazioni di categoria, concorrenti, sindacati, stampa)" [Bruono-Nichols 90, Freeman 84, cit. in Klonoski 91: 13].

Un’estensione di questa teoria è la constituency theory, che si differenzia nel fatto che i soggetti in relazione con l’impresa non sono necessariamente individui o gruppi di individui, ma per esempio oggetti naturali o animali [Klonoski 91: 13].

Alcuni sostenitori della teoria degli stakeholders tradiscono un’inclinazione che può ancora essere ricondotta al modello tradizionale friedmaniano, per cui agli occhi dei managers gli stakeholders non sono tutti paritari, essi sono vincolati da un rapporto fiduciario con la proprietà che devono in primo luogo onorare [Beauchamp-Bowie 93: 54-55].

Un’altra via per affermare la CSR è quella del legal creator (o legal framework): l’impresa esistere solo come creatura della legge [DeGeorge 90], solo grazie al permesso sociale [Den Uyl 84]. Perciò la società, in quanto autorizza o crea l’impresa, può legittimamente pretendere che essa svolga certe attività e sia eventualmente punita fina all’eliminazione [DeGeorge 90]. Questa impostazione è simile ad un’altra denominata cittadinanza d’impresa (corporate citizenship): in virtù del suo statuto, l’impresa diventa un’entità legale con una presenza nella società per molti aspetti simile all’individuo-cittadino, e come tale ha doveri e diritti [Klonoski 91: 13].

Per alcuni autori il carattere privato dell’impresa si risolve nel carattere pubblico. Sarebbe cioè una proprietà comune (common property) piuttosto che privata, e ovviamente le sue responsabilità vanno estese a partecipare al bene comune [Klonoski 91: 14]. Anche mantenendo la natura privata della proprietà azionaria, essa richiederebbe una particolare prudenza e un impiego ispirato al pubblico [Klonoski 86, cit. in Klonoski 91: 14].

Da non confondersi con la CSR vera e propria, il filone della sensibilità sociale d’impresa (corporate social responsiveness) o dell’impatto o compenetrazione sociale, che della CSR è una varietà. La responsabilità sociale nasce dal potere sociale di cui gode il business. Le decisioni nel mondo degli affari hanno conseguenze importanti sulla società, perciò le decisioni degli operatori economici non sono solo economiche, perché sono interrelate entro un sistema sociale unitario [Davis 90, Davis-Frederick-Post 88, cit. in Mahon 91].

Affine l’approccio della gratitudine o reciprocità morale: le imprese traggono molti benefici dalla società in cui operano (educazione, sistema legale, infrastrutture), perciò le devono qualche ritorno [Sohn 82, cit. in Klonoski 91]. Questa varietà di CSR cerca di superare l’attenzione per l’obbligazione e le motivazioni per conferire al business un ruolo proattivo di miglioramento sociale [Carrol 91: 40; Bowie 91a: 58; Beauchamp-Bowie 93: 53]. Ma mentre il termine responsabilità è associato a connotazioni etiche, sensibilità sembra mancarne ed apparire debole nel sostenere la CSR [Klonoski 91: 14]; si espone —per dirla á la MacIntyre—- all’emotivismo [v. cap. 2, pag. *].

Utilitarismo.

L’utilitarismo come teoria etica ricerca il maggior bene per il maggior numero di persone, cioè massimizza il bene complessivo. Gli atti sono giudicati in base a come le conseguenze migliorano il bene complessivo [DesJardins-McCall 90: 37].

L’utilitarismo a sostegno della responsabilità sociale d’impresa muove dal presupposto che essa sia di beneficio della società o favorevole per maggior numero di persone. Inoltre è pure nell’interesse del business stesso poiché, in un’epoca in cui ci sono tante attenzioni e rivendicazioni per l’impatto sociale, è l’unico modo per assicurare l’economicità (di lungo periodo) [Klonoski 91: 15].

Oltre a problemi di misurazione (quale nozione di bene? come quantificarlo?) e incommensurabilità (alcuni beni non possono essere individualmente sacrificati nemmeno a fronte di un miglioramento del benessere generale; infatti la tutela di essi sarebbe garantita da un meccanismo esterno come i diritti), l’utilitarismo, nel concentrarsi sul rispetto delle procedure (richiama il per ciò detto liberalismo procedurale), tende a trascurare la responsabilità individuale e il carattere morale delle persone [Solomon 93b: 208-209, DesJardins-McCall 90: 37-41].

Problema: perché i managers dovrebbero comportarsi eticamente?

Sia compreso nella categoria della CSR [Klonoski 91: 14], sia una categoria a parte, l’utilitarismo esplicita la risposta più comune all’interrogativo: perché i managers dovrebbero comportarsi eticamente? Un comportamento etico sarebbe conveniente per l’impresa poiché anticipa le restrizioni sia della legge sia del mercato e, se nel breve periodo aumenta i costi dell’impresa, nel lungo periodo essa è premiata dal mercato. In genere le decisioni secondo CSR non differiscono da quelle ispirate da considerazioni di profitto di lungo periodo [Stark 93: 39].

Proprio difronte a quell’interrogativo si pone il problema principale nell’esercitare la CSR. Infatti il comportamento etico apparirebbe non essere sempre nell’interesse dell’impresa, cioè etica e interesse possono confliggere [Stark 93: 39]. Inoltre, quand’anche favorisca l’interesse dell’impresa, agire eticamente con un siffatto fine non sarebbe realmente etico dal punto di vista della filosofia morale basata sull’altruismo: è il paradosso della motivazione, per cui le motivazioni della maggior parte delle persone sono un confuso mix di interesse, altruismo e altre influenze, e invece di gestire questa complessità, molti studiosi di etica degli affari ritengono che il manager sia etico solo quando non persegue il suo interesse, cioè egli è etico solo quando questo gli costa [Stark 93: 40-41].

Una possibile via d’uscita suggerita è improntare l’etica degli affari alla moderazione, al pragmatismo e al minimalismo: muova dal riconoscere che etica e interesse possono confliggere, che le motivazioni sono complesse, e fornisca indicazioni su come agire senza pregiudicare l’interesse (della propria carriera e dell’impresa) [Stark 93: 48]. Corrisponde ad uno dei percorsi indicati per superare i problemi del liberalismo, proprio attraverso il minimalismo (restringere la portata della teoria al dibattito politico [v. cap. 2, pag. *]), il pragmatismo, la moderazione (avvicinamento delle posizioni [v. cap. 1, pag. *]).

Un’ulteriore evoluzione della CSR è la teoria dell’attività sociale d’impresa (CSP, corporate social performance): ponendo attenzione sui risultati del comportamento, non sulle motivazioni, i processi o le strutture organizzative, si propone di superare la tradizionale alternativa tra la visione degli affari come funzione o categoria in conflitto con la società (business in society) e la visione degli affari come sistema autonomo interagente con il macrosistema sociale (business and society) [Wood 91: 66-67]. Dovrebbe costituire una teoria che abbraccia tutte le varietà finora incontrate di corporate social responsability e corporate social responsiveness, e offrire indicazioni più concrete sulle responsabilità d’impresa, da includere quale fattore in tutte le tradizionali decisioni d’impresa [Carrol 91: 40].

 

Contrattualismo.

La necessità della CSR deriva da un calcolo razionale basato sulla considerazione che la diffusione di comportamenti opportunistici ha effetti destabilizzanti sulle istituzioni economiche. L’adozione di codici etici (che predefiniscono la responsabilità d’impresa verso gli stakeholders, e non possono essere estranei a qualche criterio di giustizia economica), oltre all’adozione delle configurazioni ottimali di contratti e diritti di proprietà, ridurrebbe i costi di transazione grazie alla prevenzione dell’opportunismo [Sacconi-De Colle 95: 1-2].

La funzione del codice di comportamento etico è di risolvere il problema di mancanza di fiducia, nello stabilire criteri generali (ma non generici) che definiscano l’ambito di legittimità dell’autorità entro l’impresa e le prerogative dei portatori di interessi, e nel fornire incentivi cosicché tutti i partecipanti possano razionalmente calcolare il rispetto degli impegni [Sacconi-De Colle 95: 11].

L’etica basata sui principi.

Tutte le teorie alternative della nostra carrellata hanno in comune l’idea di proporre come centrali alcuni principi etici astratti e razionali come guida per l’attività dei membri delle imprese [Solomon 93a: 113-14]. Per questo le raccogliamo nella comune categoria di etica basata sui principi (PBE, principle based ethics), l’impostazione prevalente nell’etica degli affari [Horvath 95, Beauchamp-Bowie 93: 54-55, Bowie 91a: 56, DesJardins 84].

Tradiscono la stessa matrice che anima il liberalismo, su cui ci siamo dilungati nella prima parte. Questo giustifica perché la maggior parte degli autori [DesJardins 84, DesJardins-McCall 90, Klonoski 91, Solomon 93a, 93b, Horvath 95] tra esse e l’approccio comunitarista sancisca una netta separazione e contrapposizione, pur essendo comune il tema della responsabilità sociale d’impresa. Non vogliamo affermare una relazione di necessità tra PBE e liberalismo (chi è liberale abbracci la PBE e viceversa il sostenitore della PBE faccia suo il liberalismo), ma rimarcare il comune riferimento alla medesima visione del mondo e alle medesime assunzioni. Ribadiamo questa matrice liberale nel suggerire alcune ragioni per cui la PBE mostra la corda.

1- Non è dato un criterio di scelta dei principi.

Non è dato un criterio di scelta dei principi. Alla persona, che pure conosca le diverse teorie, queste stesse, che pure ambiscono a dargli delle indicazioni valide su come agire, non danno un criterio per scegliere quale teoria abbracciare o impiegare in un dato caso, tanto che nessuno sembra essere apparso come dominante [Horvath 95: 510]. Ripropone il tema dell’incommensurabilità morale e del relativismo etico [cfr. Horvath 95: 511] fino all’emotivismo [v. cap. 2, pag. *].

Anche all’interno della stessa teoria i principi sono raramente non ambigui, e non potrebbe essere altrimenti essendo essi astratti dal contesto in cui vanno adoperati, orientati alle procedure più che ai contenuti (in particolari ai fini delle persone) [DesJardins 84: 55], e di fatto non consentono di prevedere l’evoluzione dei casi reali (genericità) [cfr. Horvath 95: 501]. L’etica delle virtù comunitarista è invece teleologica e radicata nell’attaccamento delle persone alle comunità che ne definiscono l’identità e la morale.

2- I principi sono regole astratte, esterne e soggette a calcolo.

I principi sono regole astratte, esterne e soggette a calcolo. Il tratto distintivo della PBE, i principi appunto, hanno natura impersonale, distinti dalle persone che devono usarli. Sono regole esterne (si parla infatti di etica delle regole [v. cap. 2, pag. *]), che vanno internalizzate, adottate, accettate come se fossero proprie e applicate, quando non sono oggetto di vero e proprio calcolo razionale. Spesso anzi la riflessione morale, sottratta dalla sua locazione più vera, viene messa nelle mani di esperti che riflettono da una posizione di neutralità sui problemi morali [cfr. Kruschwitz-Roberts 87, cit. in Collier 95: 144]. Questo crea un gap tra persona e principio, e lascia aperto l’interrogativo: perché dover comportarsi eticamente? [DesJardins 84: 56].

3- È ignorato il carattere della persona.

Ignora il carattere della persona. La PBE è volta ad affermare regole valide in generale, proprio per consentire la convivenza e il perseguimento di fini esterni da parte di persone potenzialmente moralmente in conflitto. Così finisce per ignorare il carattere morale della persona (cui invece è informata l’etica del carattere come quella comunitarista [v. cap. 2, pag. *]). La PBE allontana la nostra attenzione dalla questione ispirativa dell’etica degli affari (perché essere etici) e dall’enfasi dell’eccellenza; "sposta l’attenzione dall’individuo come persona in carne e ossa che occupa un ruolo significativo in un’organizzazione produttiva ad una moralità astratta e trascendente dal ruolo" [Solomon 93a: 114].

4- Riguarda l’azione, non l’agente.

Riguarda l’azione, non l’agente. La PBE è troppo presa a giudicare se sia giusta l’azione (rispetto ad una varietà di criteri, dove diverse prospettive conducono a diverse strategie etiche) [Collier 95: 143-44], finendo per essere contemporaneamente oggettivista (poiché riguarda solo l’azione, non il motivo che la muove) e riduzionista (perché ignora il processo di scelta morale) [cfr. Pincoffs 86, cit. in Collier 95: 144]. Cerca di rispondere alla domanda: cosa dovrei fare?, non piuttosto a: cosa dovrei essere? (cioè che tipo di persona dovrei essere) [DesJardins 84: 56], "la PBE enfatizza il fare [bene] piuttosto che l’essere [buono]" [Furman 90: 30].

Inoltre "il focus esclusivo sull’azione tende ad assumere che tutti gli atti possano essere determinati, attraverso una valutazione razionale, se sono obbligatori, proibiti o permessi" [Furman 90: 33]. L’etica delle virtù focalizza su chi agisce (agency) piuttosto che sull’azione (action) [Collier 95: 144]. A chi sovrapponga la prospettiva dell’impresa come persona morale, il comunitarismo suggerisce lo sviluppo dell’idea di organizzazione virtuosa [Collier 95: 144]. Inoltre si innesta su una impostazione epistemologica che cerca di superare i presupposti di razionalità [v. cap. 1, pag. *].

5- Presupposto della giustificazione a priori.

Presupposto della giustificazione a priori. La stessa idea di principio sottende il presupposto che esista una giustificazione a priori indipendente, che è il fondamento della deontologia kantiana. Nella PBE sembra di leggere la convinzione che senza tale fondazione sia impossibile istituzionalizzare l’etica [DesJardins 84: 55-56].

6- Quale idea a priori sul bene comune.

L’idea a priori sul bene comune. Uno degli assiomi centrali nella letteratura della CSR e della business ethics è che le imprese hanno un dovere ad agire nell’interesse del bene comune (così è anche nell’utilitarismo). Questo impegno ovviamente richiede una definizione di bene comune, e sembrerebbe che le imprese ne abbiano un’idea innata, intuitiva, a priori [Mahon-McGowan 91: 80-81] oppure la vaghezza mini la fondatezza della teoria [Beauchamp-Bowie 93: 54]. Per i comunitaristi il bene comune è invece definito dallo stesso stare nella comunità.

7- Oltre i diritti.

Oltre i diritti. "Diritti e responsabilità sono solo parte della storia": non solo perché richiedono il consenso su ciò che costituisce il diritto e la responsabilità di chi verso chi, ma perché sono semplicemente il contrappeso dell’interesse personale, la rete in cui l’interesse personale è lasciato libero di esprimersi (ad esempio, un’impresa può venire meno alla responsabilità sociale cui era tenuta in base ad un calcolo di interesse) [Freeman-Liedtka 91: 95-96].

8- Oltre alla responsabilità sociale dell’impresa, la responsabilità della comunità verso l’impresa.

Oltre alla responsabilità sociale dell’impresa, la responsabilità della comunità verso l’impresa. La business ethics ha detto molto a proposito delle responsabilità dei managers verso i portatori di interessi, ma poco circa le responsabilità di questi e della comunità in generale verso l’impresa e il mondo degli affari [Beauchamp-Bowie 93: 55]. Concentrare l’attenzione sulla responsabilità individuale e rifiutare la separazione delle sfere dell’agire consente al comunitarismo di superare questa obiezione.

9- Conservatorismo.

Conservatorismo. La CSR è intrinsecamente conservatrice poiché dà per scontato un dato assetto economico (indesiderabile) cui cerca di porre rimedio attraverso la responsabilità sociale d’impresa. Così se il nostro sistema economico conduce alla negazione della comunità, abbiamo bisogno della CSR per affermare i bisogni della comunità. Se consideriamo l’impresa come un sistema economico basato sulla gerarchia, il comando e il controllo, e contemporaneamente riteniamo spiacevoli le conseguenze umane di vivere in un tale ambiente, allora la CSR ci dice che dobbiamo trattare i lavoratori come capaci di andare oltre il comando e il controllo. Perché invece non abbandonare l’idea dell’impresa come un sistema di comando e controllo? Potremmo iniziare con l’idea che "i lavoratori sono esseri umani complessi che hanno speranze e sogni che vogliono realizzare. E le imprese possono essere usate dai lavoratori per realizzare quei sogni in diverse dimensioni" [Freeman-Liedtka 91: 94].

10- Incompetenza.

Incompetenza. La CSR promuove l’incompetenza perché spinge i managers a "guarire" i mali della società, spesso non avendo alcuna competenza in merito [Freeman-Liedtka 91: 94]. La proposta comunitarista è allo stesso tempo più esigente (perché pretende il rispetto dell’etica comunitaria) e meno esigente (perché essendo definitoria dell’identità stessa, non è imposta ma ricercata, e le virtù sono necessarie linee guida ad ogni attività).

11- Perdurante centralità dell’economico.

Perdurante centralità dell’economico. La considerazione della dimensione sociale e morale, piuttosto che un reale allargamento della disciplina, sembra essere un contrappeso ad una perdurante impostazione economica. Proprio da questa il concetto CSR ha trovato origine attraverso (nella formulazione di Andrew Carnegie, fondatore della U.S. Steel) le idee di carità (i membri più fortunati della società devono assistere i meno fortunati) e di amministrazione (i ricchi posseggono il capitale come un fondo per tutta la società). L’intervento dello Stato ha contribuito a consolidare lo spessore sociale attribuito alle imprese, ma perseguire lo scopo economico è rimasto il loro compito principale [Freeman-Liedtka 91: 92-93].

12- Presupposto del capitalismo centrato sul profitto.

Presupposto del capitalismo. La PBE è composta di end-state theories, cioè muove dal presupposto che esiste un unico inequivocabile assetto di questo mondo (quello in accordo col principio sostenuto) ritenuto moralmente preferibile [DesJardins 84: 56]. In particolare la CSR accetta la retorica del: "capitalismo: amalo o mollalo". La caduta dei regimi socialisti avrebbe spianato la strada al trionfo del capitalismo. Ma questa conclusione non è necessariamente scontata, benché l’alternativa probabilmente non sia più tra comunismo e capitalismo, bensì tra questo capitalismo e un capitalismo migliore [Freeman-Liedtka 91: 93].

13- Presupposto della massimizzazione del profitto.

Presupposto della massimizzazione del profitto. I diversi modelli di PBE sembrano accettare l’argomento di Milton Friedman che vede le imprese solo come massimizzatori di profitto [Freeman-Liedtka 91: 93]. Un friedmaniano trascinerebbe anche la teoria degli stakeholder sotto la sua ombrella: preoccuparsi dei portatori di interessi sarebbe necessario per essere produttivi e generare profitto [Bowie 91a: 56].

14- Separazione delle sfere.

Separazione delle sfere. Società e affari non sono sfere separabili, con etiche distinte, legate da un insieme di responsabilità. Creare la società buona richiede che la comunità degli affari accetti un nuovo insieme di imperativi morali. I valori fondamentali che determinano la natura della conversazione nella comunità degli affari sono irrevocabilmente condivisi con la società nella quale il business opera [Freeman-Liedtka 91: 95].

15- Conflitto tra etica ed affari.

Conflitto tra etica ed affari. Molti studiosi esordiscono nei loro interventi riportando come credenza diffusa quella per cui etica ed affari sono termini di fatto in conflitto, per poi negarlo naturalmente. Il fatto è che pensare l’etica degli affari in termini di principi crea occasioni di conflitto, per esempio tra il perseguimento del profitto e responsabilità morali, a meno di non incorporare la responsabilità sociale come fattore necessario per una redditività di lungo periodo (e perdere con ciò l’intenzione morale), fino a far ritenere la dimensione morale troppo esigente. L’etica delle virtù comunitarista sposta il punto di vista: l’etica precede gli affari, non assoggettandoli, ma riconoscendo l’eccellenza negli affari dipendente da criteri morali condivisi e dalla virtù degli uomini.

Capitolo quarto

Proposte comunitariste

di etica degli affari

Poniamo troppa enfasi sui profitti e i risultati e poca attenzione ai processi della pratica stessa.

(Robert C. Solomon)

 

 

In questo ultimo capitolo prima delle conclusioni raccogliamo a sintesi molti dei temi trattati o abbozzati sino ad ora. Abbiamo incominciato a discutere di comunitarismo contestualizzandolo e introducendo i principali contenuti (capitolo primo), approfonditi nel secondo capitolo, che infatti attrae il maggior numero di rimandi. La seconda parte rispecchia (salvo i rimandi all’indietro appunto) un po’ lo stesso percorso avendo per tema l’applicazione del comunitarismo all’etica degli affari. Il capitolo precedente ha perciò contestualizzato l’approccio comunitarista all’etica degli affari rispetto alle altre teorie e ai possibili livelli di analisi.

In questo capitolo ci proponiamo di illustrare le principali implicazioni di etica degli affari che si evincono dalla ricerca, per lo più già annunciate, esplicitamente o sottintese, in precedenza. I temi chiave sono fondamentalmente tre: come intendere l’impresa una comunità "immersa" entro la comunità più ampia, la società; le virtù nella pratica professionale; la critica all’etica del profitto, principale ostacolo al comportamento morale.

 

Le comunità annidate

L’impresa è una comunità

Sul fatto che le imprese possano essere considerate comunità c’è un’ampia adesione e una lunga tradizione di ricerca. Alcune precisazioni si impongono.

1- Impresa comunità come persone membri (né semplice somma né entità astratta).

Dire che l’impresa è una comunità vale a dire che essa principalmente consiste delle persone membre [Solomon 94: 277]. Intendiamo cioè affermare che l’impresa-comunità non è un soggetto astratto e distinto dagli individui che ne fanno parte, e con ciò rivendichiamo l’attenzione soprattutto per questi (per esempio in termini di responsabilità), contro ogni tentativo di ridurla a qualcosa di simile ad una finzione legale: è invece un gruppo sociale di persone con risorse, interessi e scopi condivisi [Solomon 94: 272, 93a: 131, Freeman-Liedtka 91: 96].

Allo stesso tempo però non comporta che l’impresa sia nulla più che l’insieme di individui autonomi: l’idea di essere comunità anzi è definita dall’esistenza di un qualche cosa che tiene insieme queste persone. Non ci interessa l’individuo in sé ma in quanto svolge un ruolo nell’impresa [Solomon 93a].

2- Comunità non nostalgica (omogeneizzazione) ma metafisica.

L’idea di comunità come gemeinshaft, già respinta nei termini più generali [v. cap. 2, pag. *], suona tanto più superata a riguardo dell’impresa. È datata la concezione per cui si accede alla comunità-impresa come si entra in una comunità tradizionale, assimilando e internalizzando velocemente le sue tradizioni, i suoi costumi, le aspettative, con l’aspirazione di adattarsi, essere accettato, e che venga riconosciuto il lavoro ben svolto, avendo come ritorno l’esistenza e l’interesse dell’impresa e un lavoro sicuro [Solomon 94: 273].

La tendenza alla mobilità del lavoro è un sintomo (e causa) che questo quadro è cambiato radicalmente. Questa precarietà potrebbe minare la lealtà e la fiducia [cfr. Solomon 94: 273] facendoci rimpiangere quello passato, più stabile e più facile, come un modello ideale da rincorrere. Ma quella comunitarista non è un’istanza nostalgica bensì metafisica per cui ciò che chiamiamo individuo è socialmente costituito e situato [Solomon 93a: 146]. Le imprese non sono (e non dovrebbero essere) crogioli dove i comportamenti si omogeneizzano all’insegna del bene aziendale [Solomon 93a: 146].

"Essere parte della comunità-impresa non significa (e non deve significare) smettere la propria autonomia morale e diventare uno sfacchinatore dell’azienda" [Solomon 94: 283]. Tutte le comunità hanno ciò che Hegel chiama la sostanza etica che le tiene insieme. Obbligazioni, responsabilità e lealtà sono indispensabili alla comunità.. Della libertà è certamente necessaria, inclusa la libertà di abbandonare la comunità, ma non è questa che la definisce [Solomon 94: 274].

Ciò che ci interessa è quel qualche cosa che tiene insieme la comunità, che dà senso alla propria stessa identità, quella componente della nozione hegeliana di spirito (geist) che descrive il sé condiviso che tiene insieme una famiglia, una comunità e in definitiva tutta l’umanità. "Questo spirito non si riferisce alla religione, ma a quel senso di trascendenza laica, di un’entità più larga di noi che ne siamo parte, e al senso di appartenenza della maggior parte dei membri della maggior parte delle imprese" [Solomon 94: 278].

3- Le imprese sono prima di tutto comunità.

"Le imprese sono prima di tutto comunità" [Solomon 93a: 131]. Torniamo al punto di partenza con quest’affermazione forte di Solomon per ribadire la nostra prospettiva: non sociologica ma etica, non aspetto accessorio della realtà industriale ma definitorio: "ciò che tiene insieme l’impresa funzionante è precisamente quell’insieme di emozioni" (di cui si è detto poco sopra: lo spirito della comunità) [Solomon 94: 278].

In fondo molto del lavoro sul management partecipativo [Horvath 95: 521] e le confessioni degli stessi managers enfatizza il ruolo che una moderna organizzazione economica svolge nel procurare una comunità e un senso ai membri.

4- L’impresa è fonte di senso.

L’impresa è inoltre fonte di senso. Essa costituisce un’occasione di espressione e partecipazione per le persone, a detta di Douglas L. Heerema e Robert Giannini: è un momento di realizzazione del bisogno di socialità e di appartenenza; "Ortega y Gasset ha scritto: le persone non vivono insieme solamente per stare assieme. Vivono insieme per fare qualcosa insieme" [Nisbet 53, cit. in Heerema-Giannini 91: 89].

Lavorare non è solo un mezzo per conseguire benefici materiali. Anzi questi sono insufficienti a convincere le persone a lavorare [Heerema-Giannini 91: 88]. Se l’esperienza più decisiva —così osserva Tocqueville in Democracy in America— nelle vite degli individui americani è stata l’appartenenza alle tre istituzioni volontaristiche: la famiglia, la chiesa, la comunità locale, oggi spesso la domanda di comunità si soddisfa sul luogo di lavoro [Heerema-Giannini 91: 89-90].

Su questo terreno vengono incontro gli stessi sostenitori della stakeholders theory con due principi: la caring proposition, di ispirazione femminista, per cui "le imprese sono luoghi dove sia gli individui sia le comunità intraprendono attività affettive che mirano al supporto reciproco", e la pragmatist proposition, per cui "le imprese sono mezzi attraverso cui gli esseri umani possono creare e ricreare, descrivere e ridescrivere le loro visioni del sé e della comunità" [Freeman-Liedtka 91: 96].

Queste tesi fanno da supporto al pensiero comunitarista, ma andrebbero lette in chiave normativa e ottativa più che descrittiva, altrimenti questa visione idilliaca del luogo di lavoro suonerebbe in molti casi ridicola, con il rischio di offrire una visione edulcorata strumentale alla coesione della fabbrica attorno agli obbiettivi aziendali.

Infatti —proseguono Freeman e Liedtka— "dobbiamo vedere le imprese come luoghi dove possiamo essere esseri umani (prima che dipendenti) completamente senza vincoli, luoghi di gioia piuttosto che di grigia flanella, luoghi di liberazione e realizzazione piuttosto che oppressione e divieto e infine luoghi dove possiamo avere conversazioni reali e importanti sulle nostre diverse concezioni di vita buona" [Freeman-Liedtka 91: 97].

Il lavoro è un momento di realizzazione non solo dell’individuo in quanto tale ma, secondo la prospettiva cristiana, anche di innalzamento morale-spirituale. Così nelle parole di Josemaría Escrivá (fondatore dell’Opus Dei): "Ogni professione è innanzitutto l’attuazione di un principio morale, l’adempimento dell’universale vocazione dell’uomo a realizzarsi attraverso un lavoro che diviene cardine della vita spirituale e morale" [Illanes 81].

Tradizione

La nostra nozione di comunità combina la dimensione della pratica —di cui diremo di qui a poco [v. intra pag. *]— con la dimensione della tradizione, coerentemente con la matrice anti-analitica della filosofia sottostante al comunitarismo [v. cap. 2, pag. *]. Il carattere delle persone, i criteri di giudizio sono costituiti non solo dalle pratiche che attualmente svolgono, ma dalla storia, la loro e quella della stessa comunità.

Che le imprese si iscrivano in tradizioni appare scontato. Di più le imprese devono tenere nella massima considerazione la tradizione che le caratterizza. Ciò non significa ancorarsi all’idea di un passato felice cui guardare con nostalgia, ma comprendere la fonte dei valori.

Nel sostenere che l’impresa è una comunità, affermiamo come pensare all’impresa è condividere una tradizione, cioè riconosciamo all’impresa una fonte di significato per i partecipanti non solo in senso sincronico, ma anche nel legame con il passato e il futuro immaginato.

 

Il business è una pratica

Concetto di pratica

Il concetto di pratica á la MacIntyre è essenziale nella nostra definizione di comunità [v. cap. 2, pag. *]. Una pratica è, lo ricordiamo: "qualsiasi forma coerente e complessa di attività umana cooperativa socialmente stabilita, tramite cui valori insiti in tale attività vengono realizzati nel corso del tentativo di raggiungere quei modelli che pertengono ad essa" [MacIntyre 84a].

Business attività sociale

Il business è una pratica [cfr. Solomon 93a, Collier 95: 147]. È innanzitutto un’attività sociale, sin dal suo significato etimologico; guadagnare è concetto secondario, è la ricompensa per l’attività [Solomon 93a: 118]. Inoltre è dotato di intrinseci parametri di eccellenza, cioè di valori interni eletti a modello.

Obbiettivi e scopo

Dire che il business è una pratica significa riconoscere che ha obbiettivi, regole, confini e uno scopo. Distinguiamo obbiettivi e scopo di una pratica: benché connessi non coincidono. Per esempio, l’obbiettivo del solitario è disporre tutte le carte secondo certe regole, mentre lo scopo del gioco è di solito ammazzare il tempo, ma può essere qualsiasi altro. Gli obbiettivi sono interni alle pratiche, cioè sono definiti dalla pratica stessa. Lo scopo è la ragione per cui si intraprende la pratica.

Ci possono essere numerosi scopi e diversi partecipanti possono avere diversi scopi, anche rispetto alla stessa pratica. Ciò che è di fondamentale importanza notare è che in ogni pratica gli scopi sono primari rispetto agli obbiettivi [Solomon 93a: 119-21]. Il management come pratica non può essere ridotto all’obbiettivo della produzione o finanziario, è un’attività sociale (così è riconosciuto dagli stessi studi di management).

Dire che il business è una pratica significa perciò sostenere che gli affari non hanno delle logiche e persino dei valori propri (o la negazione di ogni valore morale). Significa che richiede relazioni comprensibili con gli altri. Non può essere soltanto —come suppongono le concezioni amorali— un insieme di transazioni commerciali isolate di agenti autonomi razionali, che non abbisogna di presupposti, comunità o cultura condivisi, ma che nonostante questo assicuri (attraverso la concorrenza perfetta) l’armonia e la mutua soddisfazione di tutti. Dire che il business è una pratica significa insistere che il mercato non è libero, almeno non è libero nel senso più radicale, richiede invece un complesso sistema funzionante di fiducia reciproca e comprensione condivisa [Solomon 93a: 119].

 

L’impresa è immersa nella società

Uno degli aspetti più abusati della concezione aristotelica è l’idea di appartenenza, intesa nel senso di appartenenza alla comunità-impresa, nel senso che il lavoratore sviluppi la sua identità personale ampiamente attraverso l’organizzazione nella quale spende gran parte della sua vita, fino a prefigurare quella visione idealizzata che troviamo datata.

Ma è ovvio che il modo in cui agiamo e ci consideriamo è influenzato dai diversi gruppi e dalle diverse istituzioni di cui siamo stati membri, a partire dalla nostra famiglia, la scuola, anche l’impresa: "le nostre identità individuali sono composte di una rete convergente di tali identità di ruolo" [Solomon 93a: 161-62].

Il modo in cui le organizzazioni influenzano gli individui che ne fanno parte è aristotelico nella misura in cui l’accento è posto sulla comunità più ampia che dà il significato alle persone [Horvath 95: 522]. L’originalità dell’approccio aristotelico non sta cioè tanto nel riconoscere nell’impresa una qualche forma di comunità, ma nel comprenderla entro un quadro complessivo più ampio, quello della cosiddetta società. L’individuo è membro della comunità-impresa come di altre, il tutto nell’ambito della società, che resta l’orizzonte etico significativo, la comunità in senso ampio che procura la dotazione etica.

Che l’impresa sia in qualche modo relazionata con la società appare evidente, e comunque è presupposto dell’etica degli affari che insiste sulla responsabilità sociale d’impresa. Esistono però due modelli molto diversi dell’interconnessione tra persona, organizzazione e società.

Il modello semplice.

Nel modello più semplice la persona si identifica primariamente con l’organizzazione (che gli conferisce un ruolo), e l’organizzazione ha a sua volta un ruolo entro la società [Horvath 95: 521]. Potremmo cioè immaginare la società fatta di circoli concentrici dai confini spessi, al cui centro sta sì l’individuo, ma la cui identità e morale sono determinati dalla sfera (l’impresa nel caso) più prossima, e solo indirettamente dalle sfere più lontane attraverso il ruolo che a quella è assegnato dalla sfera che la comprende.

Il posto dell’individuo è distorto: i membri dell’organizzazione sono considerati in quanto tali non in quanto persone che appartengono prima di tutto alla società. Un’etica degli affari basata su questo modello non potrebbe che essere miope, incapace di pervadere tutto l’habitat d’impresa. Di solito solo il top management deve affrontare problemi etici evidentemente derivanti dalla relazione con la società (come l’inquinamento, la chiusura di stabilimenti), mentre il management intermedio e gli altri lavoratori sono trascurati [Horvath 95: 521].

"Questo modello lascia un vuoto morale": se le persone del mondo degli affari imparano che la competizione è la base del capitalismo, che i managers hanno un interesse fiduciario nell’aiutare le loro imprese a massimizzare il profitto (come nella visione friedmaniana), si deve all’assenza di altra fonte di guida normativa diversa dall’interesse aziendale. Secondo questo modello i managers si concentrano solo sui loro ruoli entro l’organizzazione, e lavorano per vincere o per perseguire l’efficienza, "vincere o l’efficienza non è tutto, è l’unica cosa" [Horvath 95: 521], lasciando semmai ad altri (alla legge, al governo o al top management, il compito di porre dei vincoli a favore delle esigenze comunitarie).

Il modello complesso.

Nel modello complesso (che adottiamo), il concetto di ruolo incorpora tutte e tre le relazioni persona-organizzazione-società a due a due. L’individuo deve valutare l’etica del ruolo dell’organizzazione nella società e il suo proprio ruolo entro l’organizzazione in termini del suo ruolo sociale [Horvath 95: 521-522]. La comunità eticamente rilevante è la società [cfr. Dale 60, cit. in Horvath 95: 522].

Questo modello riprende esplicitamente il paradigma I&We di Amitai Etzioni [Etzioni 88]. Vede la competizione, il mercato, l’economia, come un sottosistema immerso in un più comprensivo contesto sociale e assume che la competizione non si mantenga da sola; la sua stessa esistenza, come l’ampiezza delle transazioni che organizza, dipende in gran misura da fattori contestuali, quella che viene chiamata capsula sociale. La competizione (e gli affari stessi) può aver luogo solo entro di essa, perciò si parla di encapsulated competition [Etzioni 88: 199, Horvath 95: 522].

La responsabilità individuale

L’enfasi sulla comunità, quella degli affari in quanto tale e la comunità più ampia, non deve oscurare l’importanza della responsabilità individuale e dell’individuo. È vero il contrario: è solo entro il contesto della comunità che l’individualità è sviluppata e definita. La nostra integrità individuale non è contrapposta ma dipende dalla comunità dalla quale l’integrità trae significato e occasione di dimostrarsi [Solomon 93a: 103].

 

L’etica del carattere

L’approccio comunitarista all’etica è improntato alla ricerca della persona buona piuttosto che alle regole di convivenza. Perciò si parla di etica (di derivazione aristotelica) del carattere e delle virtù contrapposta all’etica delle regole [v. cap. 2, pag. *]. L’etica degli affari è tradizionalmente di questo secondo tipo, come più volte è stato segnalato. Dunque il comunitarismo si presenta piuttosto rivoluzionario fin dalle fondamenta metodologiche in questo campo.

L’essenza di questo approccio si può sintetizzare dicendo, con le parole di DesJardins, che "definisce le buone azioni quelle attuate dall’uomo buono" [DesJardins 84: 56] e contemporaneamente "è la virtù che fa l’uomo" [Peláez 95: 11].

Implicazioni: eccellenza + inseparabilità sfere

Le implicazioni sono molteplici e verranno via via illustrate nel seguito come già è stato fatto sinora. Per esempio la scelta del livello di analisi non è immune dall’adesione a questa posizione metodologica: se infatti l’enfasi è posta sul carattere e sulle virtù (eccellenza) della persona (imprescindibile dal contesto comunitario), allora ciò che ci interessa di discutere non è la natura del capitalismo astratta dalla peculiarità delle imprese e delle comunità che servono, né l’individuo in sé, bensì —come ampiamente motivato [v. cap. 3, pag. *] — il ruolo degli affari, cioè delle persone negli affari e degli affari nella comunità [cfr. Solomon 93a].

I due aspetti peculiari che più direttamente derivano da un’etica degli affari del carattere sono: il motivo dell’eccellenza [v. infra pag. *] e l’inseparabilità delle sfere dell’agire [v. infra pag. *], che potrebbe a sua volta essere letto come enfasi del fatto che l’eccellenza può aver luogo solo entro la comunità, e questo a sua volta ricade sul tema della responsabilità sociale, da affrontare in modo nuovo [v. infra pag. *].

L’eccellenza individuale conduce all’eccellenza nella pratica del business e al conseguimento dei fini aziendali, specialmente (o solamente) quelli che contribuiscono al progresso del bene comune (o felicità) della comunità [Klonoski 91: 15].

 

L’unità dell’agire e dell’etica

Dal punto di vista comunitarista non può darsi una etica speciale, cioè relativa ad una data sfera dell’agire umano, con criteri di giudizio diversi da altre sfere. Con sfera dell’agire intendiamo ambiti diversi (come l’economia, gli affari, la famiglia, eccetera) entro la stessa comunità-società.

In particolare l’etica degli affari non è un’etica distinta ed eventualmente contrastante da quella generale della vita quotidiana, poiché il business è semplicemente parte della vita quotidiana, sostengono i comunitaristi [Ewin 95: 833, Peláez 95: 19]. Tanto meno è ragionevole pensare che etica ed affari siamo una contraddizione di termini (in passato si diceva che un libro che tratti di etica degli affari dev’essere un libro ben breve [Solomon 93a: 97], e corrisponde alla concezione amorale del motto: gli affari sono affari).

Questa convinzione nasce dall’interpretazione del discorso di Aristotele sull’economia. Aristotele distingue due differenti accezioni di ciò che noi chiamiamo economia: la nozione di oecinomicus che corrisponde al nostro affitto, che egli approva ed è essenziale per il funzionamento di una anche modesta società complessa, e la nozione di chrematisike, il commercio per profitto, che egli ritiene interamente priva di virtù: "la vita [...] dedita al commercio è qualcosa di contro natura, ed è evidente che la ricchezza non è il bene che cerchiamo; infatti essa è solo in vista del guadagno ed è un mezzo per qualcosa d’altro" [Aristotele, Etica Nicomachea, A 5, 1096a 5-7]. Disprezza la comunità finanziaria e in generale tutto ciò che potremmo definire ricerca del profitto, ogni profitto comporterebbe una sorta di furto.

È evidente che, oltre a risultarci poco accettabile, si insinua il dubbio che Aristotele fosse un po’ troppo il portavoce della classe aristocratica. Solomon però fa risalire questo disprezzo per gli affari allo scisma tra gli affari e il resto della vita [Solomon 93a: 101-2]: se tale disprezzo deriva non da elitismo ma dal ritenere che la ricerca del profitto non debba condurre a criteri etici separati dalla vita quotidiana, allora il punto di vista aristotelico è di portata generale.

La vita deve invece svilupparsi in una unità coerente. Dobbiamo pensarci come membri della comunità più ampia (la polis per Aristotele, l’impresa, il vicinato, la città o la nazione, il mondo, per noi) e cercare di eccellere, per dare il meglio di noi stessi. Il meglio di noi stessi coinvolge le nostre virtù, che sono definite dalla comunità, e quindi non c’è divisione o antagonismo tra l’interesse personale individuale e il più ampio bene pubblico [Solomon 93a: 102, Peláez 95: 19].

Dal punto di vista cristiano (che attraverso il tomismo condivide la tradizione delle virtù) il lavoro professionale è addirittura il mezzo con cui l’uomo partecipa all’opera della creazione [Peláez 95: 33], deve condurre contemporaneamente all’azione di Dio e all’amore del prossimo [Peláez 95: 36].

Di fatto separazione sfere ma indesiderabile.

Di fatto accade sovente che un’azione considerata moralmente lecita nell’azienda X è ritenuta illecita nell’azienda Y: è la prova dell’esistenza diffusa di una morale aziendale diversa da impresa ad impresa e ovviamente distinta dalla morale corrente [Gagliardi 92].

Non a caso Norberto Bobbio ha messo in guardia gli imprenditori contro il pericolo di restare prigionieri di una "ragion d’impresa" mutuata dalla ragion di Stato machiavellica, in considerazione della quale tutti i mezzi possono essere leciti difronte al fine del profitto.

Ma è una situazione indesiderabile da una prospettiva comunitarista. Lo è meno da quella liberale: anzi, proprio l’impermeabilità delle sfere è presupposto per le idee di tolleranza come indifferenza e per il relativismo etico emotivista di cui è stato detto [v. cap. 2, pag. *]).

"Parte del problema è il modo in cui tendiamo a separare (o fingiamo di separare) i nostri affari dalle nostre vite personali, come se fossero indipendenti, come se uno lasciasse i propri valori fuori dalla porta dell’ufficio". Invece, non solo passiamo una gran parte delle nostre vite nell’"ufficio", ma i nostri valori non sono divisi in due o più categorie (o sfere) [Solomon 93a: 105].

Inoltre questa (falsa) separazione di affari e valori personali conduce ad un’altra deprimente conseguenza. Visto che tendiamo ad identificare la parte personale delle nostre vite come piacevole (che lo sia o meno), caratterizziamo la parte degli affari come "lavoro", intendendo non solo sforzo ed energia ma un ostacolo, definito da doveri, obbligazioni, responsabilità. Il risultato quindi è che il lavoro risulta spiacevole, deleterio per un miglioramento del sé, d’interesse solo in virtù del risultato prodotto, sia esso il salario o la ricchezza che si riesce ad accumulare [Solomon 93a: 105].

Un atto riguardante l’attività professionale quando ispirato solo da un fine immediato, separato o peggio in contrasto con la felicità complessiva, scinderebbe l’uomo in due e la società in corporazione antagoniste; frustrerebbe sia la realizzazione della persona umana sia il bene comune [Peláez 95: 19].

Il dovere non è contro il piacere, ma forma la felicità.

Il fulcro dell’etica aristotelica è il concetto di felicità, che nella fattispecie (eudaimonia) è nozione unificata ed onnicomprensiva [v. cap. 2, pag. *]. Il punto è vedere la propria vita come una unità (si parla di etica olistica), non separare il personale dal pubblico o dal professionale, il dovere dal piacere. Il punto è che fare il proprio dovere, adempiere alle responsabilità e alle obbligazioni non è in senso contrario alla vita buona (un altro modo di esprimere il medesimo concetto di felicità), ma anzi contribuisce alla vita buona, a diventare il tipo di persona che uno aspira ad essere (che include ciò che uno fa per vivere), cioè fa parte della felicità.

Perciò un buon lavoro non è uno che paga bene o relativamente facile ma uno che significa qualcosa, che appaghi, nel senso che dia il modo di esercitare le virtù che tendono alla felicità, del sé certo, ma come è costituita dal vivere in comunità (in una specifica comunità) [Solomon 93a: 105-106]. Il business non è una questione di volgare interesse personale, ma è di interesse vitale della comunità.

I valori e le virtù dell’etica degli affari non sono disgiunti da quelli della vita quotidiana, attengono tutti alla vita sociale comunitaria, di cui gli affari sono un ambito del tutto permeabile. "Le virtù che rendono uno orgoglioso nella sua vita personale sono essenzialmente le stesse essenziali ad un buon business" [Solomon 93a: 105].

 

Le virtù

Dall’efficienza all’eccellenza: le virtù

Efficienza: insufficiente.

Attorno al criterio dell’efficienza si dispiegano nell’ambito professionale le logiche della modernità e del liberalismo, fino a delineare una vera e propria etica dell’efficienza [cfr. Horvath 95], tale per cui la persona (operatore negli affari) è buona finché è efficiente.

L’efficienza sarebbe dunque contemporaneamente moralmente neutrale e criterio morale. Presuppone infatti quella razionalità weberiana muta riguardo ai valori (già criticata a proposito della competenza manageriale [v. cap. 3, pag. *]), per cui tutte le fedi sono ugualmente razionali [Aron 67, cit. in MacIntyre 84a] e dunque non esiste alcuno standard morale applicabile. Non solo, è (kantianamente) indifferente anche ai fini per i quali andrebbe perseguita.

Ma va perseguita, è questo il criterio dominante della logica d’impresa, il criterio con cui giudicare il comportamento degli operatori. Un criterio etico solo apparentemente moralmente neutrale (così come il liberalismo d’altra parte), razionale ed esterno alla pratica, in quanto non è illuminato dal fine né tantomeno dal valore interno ad essa.

Si espone così all’ormai nota critica di emotivismo [v. cap. 2, pag. *]. Non per niente Weber individua nell’organizzazione burocratica (e nel manager) l’unica in grado di appellarsi a criteri razionali di efficienza neutrali, ma non dà criteri di applicazione dell’efficienza [Bittner 65, cit. in MacIntyre 84a].

Dal punto di vista dell’etica delle virtù l’efficienza non può però essere un valido criterio morale. Essa è razionale, tecnica [cfr. Martinelli 86: 60-61], trascura la dimensione affettiva, ed eletta a valore abbandona i soggetti al mero arbitrio, per cui ogni fine vale quanto l’altro o meglio non importa nulla. L’unico standard esterno che appare coerente è il quello mercato: ciò che uno (individualmente o collettivamente) guadagna è la misura del suo successo.

Questa misura del successo prescinde dal prodotto o dal servizio reso [Horvath 95: 514]. La ragion d’essere degli affari —si potrebbe obbiettare— è far bene il lavoro. Ma quale lavoro? Senza una ragione etica coerente per giustificare la particolare pratica degli affari, l’efficienza da sola non può essere sufficiente: "le persone possono essere efficienti in lavori sbagliati" [Horvath 95: 514].

Dall’efficienza all’eccellenza..

Il comunitarismo contrappone all’etica (più che al criterio) dell’efficienza l’etica dell’eccellenza (che è anche criterio l’idea dalla portata concettuale e applicativa più estesa).

L’etica dell’efficienza presuppone un modello conflittuale basato sulla competizione, dove le persone misurano il successo in base al criterio esterno all’attività dell’efficienza. L’etica delle virtù invece propone un modello cooperativo basato sulle relazioni innate degli individui in un gruppo più ampio, dove il "successo" è misurato in termini di eccellenza o virtù personali [Horvath 95: 524].

Eccellenza: concetto di tendenza.

Quello dell’eccellenza è un motivo largamente richiamato nella letteratura manageriale degli ultimi anni (basti ricordare il celebre In Search of Excellence [Peters-Waterman 82]). È il segnale della generale tendenza a reindirizzare l’attenzione dalla quantità alla qualità. Il concetto aristotelico di eccellenza che qui adottiamo ha una portata decisamente più ampia, ed è un concetto essenzialmente etico, non tecnico (benché, in quanto l’etica riguarda il comportamento delle persone, negli affari nel caso, ovviamente ha un risvolto operativo).

Virtù e felicità.

Eccellenza e virtù sono i modi in cui è alternativamente tradotto il termine greco aretê. La virtù si connota infatti per l’eccellenza, cioè il fare bene qualcosa, e il profilo strettamente morale rispetto cui considerare quest’eccellenza, insomma è l’eccellere moralmente [Horvath 95: 518]. Ciò che è essenziale è il valore intrinseco del riuscire, non le conseguenze esterne dell’azione [Horvath 95: 518], è ciò che MacIntyre definisce valori interni alla pratica. Ricordiamo [v. cap. 2, pag. *] che egli infatti definisce una nozione fondamentale (non secondaria ad altri criteri, come l’utilità) di virtù come: "qualità umana acquisita il cui possesso ed esercizio ci consente di raggiungere quei valori interni alle pratiche" [MacIntyre 84a].

La virtù o eccellenza (al contrario dell’efficienza) non può essere astratta dal fine che serve. La virtù non è solo un "cosa" fare ma anche un "perché": è nella natura della virtù motivare oltre che indirizzare la persona, è una sorta di sentire dal contenuto tanto cognitivo che affettivo. Essere virtuosi non è uno sforzo ma un intrinseco piacere (da cui il connotarsi dell’etica comunitarista delle virtù come etica del carattere) [Horvath 95: 519]. Ma il perché è naturalmente illuminato dal fine (telos) cui è orientato l’agire (si parla infatti di etica teleologica).

Questi concetti di fine e virtù, vissuti nel breve termine conducono all’hesuchia, la soddisfazione che sorge dall’aver bene svolto il proprio lavoro [Horvath 95: 519]. Vissuti lungo l’intera durata della vita, conducono all’eudaimonia, cioè il vivere felici o secondo virtù, dove la relazione virtù-eudaimonia è interna (non quella strumentale mezzo-fine) [v. cap. 2, pag. *]. La vita felice è infine una meta condivisa e determinata dalla comunità, perciò le virtù non sono realizzabili fuori dalla vita associata.

Le virtù sono, nell’antica Grecia come nell’approccio neoaristotelico comunitarista, intrinsecamente connesse ai ruoli che le persone svolgono nella comunità [Horvath 95: 520]. Il ruolo è il collegamento fondamentale tra la comunità e l’individuo. Il ruolo attribuisce all’individuo identità e obblighi morali volti a servire la comunità grazie all’attività svolta entro quel ruolo [Horvath 95: 518]. Ciò che permette all’individuo di soddisfare l’impegno previsto dal ruolo sono le virtù.

 

Una lista di virtù?

Stilare una lista di virtù sarebbe poco produttivo. Così come distinguere le virtù generali (come coraggio, integrità, obbedienza, altruismo), che cioè riguardano tutti i ruoli ovvero le persone in quanto tali, dalle virtù specifiche di certi ruoli (come quello del manager) [Horvath 95].

Solomon avanza l’ipotesi che determinate qualità possano essere virtù in un contesto e non esserlo in altri. La spietatezza, ad esempio, può essere considerata una virtù in certi aspetti del business o forse nelle operazioni militari, "ma sarebbe un errore generalizzarlo come una virtù essenziale per tutti in ogni circostanza" [Solomon 93a: 108]. Noi sosteniamo: è un errore considerarla una virtù nel momento in cui non è applicabile come criterio di giudizio fuori dalle porte dell’ufficio. Non sarebbe cioè coerente con le idee comunitarista dell’impresa immersa e di eccellenza a tutto tondo la possibilità di criteri di giudizio diversi nelle diverse sfere dell’agire. Solomon infatti specifica impiegando un’espressione presa a prestito da Nietzsche: "la virtù delle virtù dipende sempre da un contesto più ampio, un contesto in cui la pratica stessa è valutata per il suo valore sociale" [Solomon 93a: 108]. Noi però continuiamo a ritenere che le virtù siano costituite dal contesto comunitario, non una fantomatica meta-virtù, giudizio sui criteri di giudizio.

MacIntyre d’altra parte un elenco delle virtù e di queste distinzioni non ne fa. Sarebbe comunque un elenco aperto e poco aggiungerebbero ai fondamenti teorici dell’etica delle virtù qui proposta, che è l’oggetto che abbiamo inteso indagare fin dal principio.

Areté e techné.

Quello sulle virtù è un discorso che pretende di esaurire ogni accadimento nell’impresa? Che fine fanno le abilità tecniche?

Abilità tecnica (identificabile nella nozione greca di techne) e virtù (areté) sono concetti distinti ma connessi. Sembra chiaro che possedere un’abilità tecnica non comporta necessariamente virtù (è il caso dell’attività illegale). La virtù è invece necessaria accanto all’abilità tecnica poiché ne imprime la direzione in vista del fine comunitario [Shaw 95: 862].

Intendendo la virtù come eccellenza della persona nel proprio ruolo, perciò nel proprio campo professionale, essa —è un’affermazione più forte— comprende l’abilità di svolgere al meglio il proprio lavoro. Di più, dal punto di vista comunitarista non è concepibile un’attività lavorativa estrapolata dal contesto (morale) comunitario, perciò sottratta al giudizio secondo virtù.

Infatti mentre una buona qualità tecnico-scientifica o artistica non appartiene in (potenzialmente) uguale maniera a tutti gli uomini e può essere impiegata per un fine solo parziale o perverso, la virtù morale può essere richiesta in pari modo a tutti e comporta di agire bene in relazione alla totalità della condotta umana [Peláez 95: 12]: di qui la superiorità della persona virtuosa sul professionista meramente efficiente [Peláez 95: 13].

Dalla concorrenza al merito

L’agon ieri

L’idea di eccellenza mal si adatta all’idea di competizione come "guerra" per la supremazia di uno contro l’altro quale è spesso correntemente intesa. Essa si rifà piuttosto alla concezione greca originaria della gara (agon): un’arena nella quale le persone possono lottare per l’eccellenza. La competizione è sì uno stimolo per migliorare i risultati, ma in questo contesto una persona può perdere la gara con un’altra e ancora essere vincitore rispetto al proprio massimo personale [Horvath 95: 515].

L’agon oggi

Quanto subentra un criterio esterno (con l’ambizione di neutralità) di misurazione e di "vittoria" (come l’efficienza), cambia la natura della competizione. In questo modello di gara la vittoria di uno esclude la vittoria di un’altro, la persona vince contro i concorrenti. La vittoria sugli altri sostituisce il miglioramento personale come fine primario. Per di più essa è misurata dal successo materiale (il profitto, la quota di mercato per l’impresa, la ricchezza o il potere per gli individui). Questi criteri esterni di bontà spingono le persone verso la logica dell’acquisizione (pleonexia), lontano da quella interna della soddisfazione personale per aver fatto un buon lavoro [Horvath 95: 515], fino a deprimere le stesse motivazioni personali [cfr. Deci 75, Deci-Ryan 85, cit. in Horvath 95: 515].

Dall’individualismo a...

Il passaggio dalla competizione greca alla concorrenza moderna corrisponde ad una visione fondamentalmente individualista. Infatti la ricerca della supremazia sugli altri è a scapito della percezione del ruolo dell’individuo nella società. Questa prospettiva individualista è per MacIntyre un tratto caratteristico del moderno mondo degli affari [MacIntyre 84: 137-38, 196]. L’etica dell’efficienza diventa, per dirla con Mitchell e Scott, l’etica del vantaggio personale [Mitchell-Scott 90].

Variabili decisionali a confronto.

Il comunitarismo riprende l’approccio etico aristotelico con una particolare attenzione per l’appartenenza comunitaria. La virtù e l’eccellenza sono il fulcro dell’etica proposta, detta perciò etica delle virtù (in contrapposizione all’etica delle regole astratte) o etica dell’eccellenza (in contrapposizione all’etica dell’efficienza).

Confrontiamo puntualmente l’etica dell’eccellenza con l’etica dell’efficienza rispetto ad alcune dimensioni. Le variabili, cioè i fattori che contano nell’assunzione delle decisioni, sono virtù ed eccellenza piuttosto che efficienza e utilità. Il riferimento etico, cioè le basi su cui le persone misurano la validità delle alternative, è il ruolo svolto nella comunità, al contrario dalla logica degli affari della modernità che vede le decisioni come emergenti dalle proprie intuizioni innate, indipendenti da un più ampio contesto sociale. I valori, per l’etica delle virtù, sono interni, legati al carattere della persona e al fine della vita, mentre per l’etica dell’efficienza sono valutazioni esterne riguardo a chi ha vinto, cioè mentre la prima guarda a "chi sono", la a seconda a "ciò che posso ottenere" [Horvath 95: 515-16].

Infine le due impostazioni si distinguono anche per il linguaggio utilizzato dagli individui. Coloro che abbracciano l’etica dell’eccellenza tendono ad esaltare la collaborazione e conversano a partire da un quadro normativo morale di riferimento in termini di buono/cattivo; coloro che abbracciano l’etica dell’efficienza tendono ad esaltare la competizione e utilizzano un quadro di riferimento centrato sul potere in termini di forte/debole [Horvath 95: 516, cfr. Piliavin-Charng 90: 33].

Il problema di differenziazione del ruolo quasi necessariamente si pongono ai professionisti che lavorano in istituzioni sociali basate su modelli competitivi, su una giustizia conflittuale, su un’economia liberista, sul pluralismo politico, perché queste istituzioni non sono in linea con le norme morali comunemente accettate [Wangerin 90: 176-177, cit. in Horvath 95: 516].

Meritocrazia.

L’enfasi sull’eccellenza presuppone un senso particolare di giustizia, la meritocrazia, nella quale il merito o l’eccellenza è ricompensato almeno in termini morali [cfr. Solomon 93a: 153].

Nel mondo degli affari il merito, pur dicendosi essere il criterio di valutazione delle persone, ha di fatto un ruolo ambiguo. Il duro lavoro troppo spesso non è remunerato quanto dovuto, la fortuna troppo spesso confusa con il merito, le raccomandazioni troppo spesso sostituiscono lo svolgimento del lavoro [Solomon 93a: 153-54].

L’etica delle virtù assegna il merito in base al valore interno della pratica, mentre la realtà d’impresa moderna premia la vittoria sul mercato, cioè è basata su valori esterni. Solomon lamenta dunque: "poniamo troppa enfasi sui profitti e i risultati e poca attenzione ai processi della pratica stessa" [Solomon 93a: 153-54]. Ad esempio sembra purtroppo meno apprezzato il manager che invece di agire prontamente sotto pressione sappia evitare tanta pressione.

Il merito infine non può prescindere dalla comunità: richiede criteri etici (di eccellenza) condivisi [v. cap. 2, pag. *]. E la comunità in questione non può essere l’impresa, ambito sì sociale ma isolata o autonoma; è ancora la comunità più ampia in cui opera. Si avrebbe se no una dissociazione delle persone che rischiano di agire in base a criteri etici (quelli comunitari e quelli aziendali) divergenti o persino conflittuali, aprendo così (come peraltro accade di fatto con l’etica liberale) veri e propri dilemmi morali: è prioritario seguire la morale del senso comune o far prevalere le logiche degli affari?

Virtù contro la responsabilità?

Il nostro approccio, come specificheremo in seguito [v. infra pag. *], apre le porte ad una impostazione collettiva e collaborativa del lavoro, in linea peraltro con gli studi manageriali contemporanei che enfatizzano il lavoro di gruppo.

Come già si è avuto modo di sottolineare che l’etica delle regole non annulla il senso del dovere [v. cap. 2, pag. *], così il fatto che il lavoro dell’individuo sia misurabile in riferimento solo allo sforzo e al successo complessivi del gruppo non implica che l’individuo non sia responsabile dei suoi sforzi personali e del lavoro complessivo. Anzi, l’etica delle virtù, focalizzata sull’adempimento (partecipato, ragione di felicità, non controvoglia) del ruolo entro la comunità-società, ma anche entro la comunità-impresa ed entro l’eventuale gruppo di lavoro, esalta la responsabilità individuale.

Non è infatti fatalista, né comporta mediocrità o conformismo, e non solo perché i ruoli nel lavoro di gruppo sono spesso complementari (perciò la deficienza di uno non può essere immediatamente scaricata sul resto del gruppo) ma perché ciascun membro si sente orientato al successo del progetto [cfr. Solomon 93a: 156]. L’eccellenza è mutua ispirazione e supporto, incluse le controversie e le contraddizioni, nel conseguimento verso uno scopo comune [Solomon 93a: 157].

Professionismo.

L’etica delle virtù comunitarista ha degli affari una visione professionale, per utilizzare le categorie di DesJardins [DesJardins 84: 58]. I ruoli che le persone interpretano negli affari possono essere intesi in modi diversi che raccogliamo in due categorie.

Nella concezione strumentale (instrumental view) gli individui occupano ruoli che sono meri mezzi verso altri fini (il profitto per il datore di lavoro, i salari per i dipendenti). È la concezione burocratica del business, dove l’organigramma dà il significato ad ogni posizione. La posizione stessa e l’individuo che la riveste hanno valore solo fintanto che sono mezzi efficienti per fini esterni. Gli individui sono incoraggiati a pensare ad essi stessi come ai giocatori di un ruolo. Al di fuori di questo ruolo gli individui significano poco di per sé. Come risultato ad essi è negata l’unità della vita, essenziale nel perseguimento della vita buona.

Nella visione professionale (professsional view) le posizioni occupate dagli individui sono valutabili in sé, non solo come mezzo verso altri fini, sono cioè valori interni. Il valore delle posizioni può essere conseguito solo attraverso la pratica dell’attività. Gli individui che occupano quelle posizioni derivano significato e valore dal perseguimento dei beni interni. Questi beni sono essenzialmente sociali, sviluppati in una lunga storia sociale e contribuiscono al bene futuro della società. Diversamente dagli impieghi (jobs), le professioni (professions) non richiedono che l’individuo partecipante sospenda il perseguimento della vita buona mentre lavora.

Il professionismo è la chiave per ripensare con l’ottica della virtù al rapporto tra lavoratori e tra lavoratori e impresa e la società. Il professionismo [cfr. Solomon 93a: 136-144] comprende il principio del servizio (service motive) [Bowie 88], ma non solo di servizio all’impresa, anche —è l’istanza più specificatamente comunitarista— un senso di servizio sociale [cfr. Solomon 93a: 138-39]. Dice Bowie: "gli uomini degli affari che si considerano professionisti sono motivati a fare bene, e nel fare bene l’impresa farà bene" [Bowie 88, cit. in Solomon 93a: 139-40], e ancora: "gli affari possono davvero far bene se si cerca di fare bene" [Bowie 88, cit. in Solomon 93a: 136-7].

Il lavoro professionale occupa un posto centrale sia nel raggiungimento della massima realizzazione personale, sia nello sviluppo della società civile (per cui si dice sia "cardine" di tutte le virtù) [Peláez 95: 16]. Per questo esso esige la massima perfezione [Peláez 95: 33], che ci riporta all’unità di capacità tecnica e virtù morale [v. supra pag. *].

Collaborazione: dalla giungla all’amicizia.

Collaborazione come tendenza comune

L’insistenza su comportamenti collaborativi è una tendenza ormai ampiamente studiata e praticata con favore nelle imprese. Ma l’approccio tradizionale li valorizza in un’ottica di massimizzazione e di ottimalità e trascura la dimensione morale. Sottende l’idea che la vita sia un gioco attuato con e contro altri soggetti [Solomon 94: 280-81]. L’idea insomma è che la collaborazione sia al servizio dell’interesse, in particolare l’interesse personale o quello di massimizzare i risultati d’impresa, eventualmente per via dello stimolo delle motivazioni.

Quella aristotelico-comunitarista è una prospettiva completamente diversa. La collaborazione non è uno strumento, è essenziale allo stare insieme, alla comprensione comunitaria, all’esistenza stessa della comunità nella quale le vite delle persone sono immerse. Suggerisce che un altro fondamento della razionalità vada considerato, diverso dall’interesse individuale, quello dell’essere nella comunità [cfr. Solomon 94: 279].

Anche Smith

Una concezione analoga si potrebbe rintracciare —a detta di Solomon— persino nel padre del capitalismo Adam Smith: "era molto più vicino al punto di vista di Aristotele (come ci possiamo aspettare dalla sua amicizia con Hume) che alle parodie friedmaniane". Per Smith e Hume gli uomini sono naturalmente sociali e benevoli, cercano la reciproca approvazione e "desiderano essere ciò che è approvato dagli altri o ciò che essi approvano negli altri". Non si nega che Smith parli di interesse individuale, né il prevalere di fatto di una certa attitudine competitiva, ma la natura umana va compresa —egli sostiene— prima di tutto in termini di solidarietà sociale e cooperazione [Solomon 94: 282].

Se questo richiamo a Smith serve a giustificare una messa in discussione del presupposto di troppi economisti della razionalità dell’uomo egoista (iscrivendosi peraltro in una fertile tradizione di ricerca), a noi sembra che il far derivare l’interesse individuale, piuttosto che dall’egoistico vantaggio personale in quanto tale, dal "desiderio di approvazione e rispetto dei nostri compagni" —così spiega Solomon di Smith [Solomon 94: 282]— possa dare un’impressione fuorviante, riprodurre quell’agire per interesse (per quanto interesse volto all’approvazione sociale) da cui l’etica delle virtù comunitarista si distingue.

Il rischio è confondere un’impostazione ancorata alla tradizionale relazione mezzi-fini (mi comporto in modo da ottenere l’approvazione sociale che è mezzo per essere felice) con quella relazione interna per cui la virtù è fonte stessa di felicità, dove la virtù/felicità non si svolge in un vuoto ma nello sforzo congiunto della comunità, non è frutto di calcolo utilitaristico costi/benefici o imposta in base a regole o principi astratti [Solomon 93a: 108-9].

Collaborazione contro competizione?

L’etica delle virtù comunitarista non è contro alla competizione di per sé. Può essere il modo di provare la propria eccellenza, e può essere stimolo a migliorarsi. Ma non è vero viceversa: che la competizione sia misura dell’eccellenza; l’eccellenza è misurata dai suoi fini (e i fini hanno un respiro comunitario).

Si sente continuamente lamentarsi di perdita di competitività e non stupirebbe che venisse rinfacciato all’impostazione collaborativa-virtuosa di aggravarla. E se invece dipendesse proprio da un eccesso di competitività? Dall’ossessione dell’"essere il migliore", invece che promuovere fini più alti attraverso la promozione di "fare del proprio meglio" [Solomon 93a: 158-59].

Ciò cui l’etica delle virtù si contrappone come alternativa è l’etica della competizione, l’idea che prevalere nella gara sia un criterio di giudizio morale (chi vince è buono), che fa il paio con le concezioni neo-hobbesiana che gli affari seguono il principio "ciascuno per sé stesso" e darwiniana che "c’è una giungla là fuori" [cfr. Solomon 93a: 148]. La metafora della giungla [cfr. Solomon 94], della lotta per la sopravvivenza o il predominio contro gli altri, sono la negazione della concezione aristotelica per cui le persone sono prima di tutto membri della comunità, per cui la felicità si realizza insieme.

L’eccellenza del manager: mediatore

Ne risulta una diversa figura del manager eccellente, più politica, con una funzione di mediatore. "Il manager eccellente sa che l’eccellenza è spesso più evidente in ciò che non accade o sembra accadere con poco sforzo piuttosto che in risultati drammatici o mozzafiato. Il miglior manager è segnalato da una situazione di assenza di problemi piuttosto che dall’abilità drammatica di pompiere" [Solomon 93a: 155].

Anche quando si esalta la dimensione culturale e si attribuisce al manager un ruolo di integrazione, di promotore della convergenza verso obbiettivi comuni, non si dimentichi che l’etica comunitarista esige qualcos’altro, cioè una coesione innanzitutto morale e non d’impresa ma comunitaria.

 

La prudenza o ragion pratica

L’etica delle virtù rifiuta regole e principi di portata universale, lo si è ribadito svariate volte. Difronte alla complessità (crescente) della realtà, regole e principi sono infatti di poco aiuto. È come se —questa la similitudine proposta da DesJardins— ci trovassimo perduti in mezzo alla giungla: cosa ci servirebbe una mappa o un manuale (i principi)? Le mappe servono solo quando uno sa già in che punto si trova, e i manuali non possono sperare di coprire tutte le situazioni possibili. Ciò di cui abbiamo bisogno è una guida, una persona con esperienza nei percorsi della vita [DesJardins 84: 56-57].

La moralità è una questione di carattere, al cuore della quale non stanno regole o teorie ma quale sorta di persona stiamo cercando di essere e quale tipo di vita cerchiamo di raggiungere. Questo pone due ordini di problemi, tanto più evidenti nell’etica applicata quale l’etica degli affari, quando cioè si deve passare dalla teoria alla pratica: come si acquisiscono le virtù e soprattutto come si "applicano" le virtù (ci permettiamo una certa approssimazione per introdurre in modo chiaro le questioni).

Come si acquistano le virtù?

L’educazione alle virtù. Si è parlato di educazione alle virtù [v. cap. 2, pag. *] per sottolineare che le virtù si acquistano solo parzialmente grazie all’apprendimento formale presso le istituzioni. Esse maturano (in quanto abiti sentimentali) con l’esercizio e grazie all’educazione sociale: "le persone diventano virtuose facendo cose virtuose" [Shaw 96: 498]. Ciò presuppone l’esistenza di modelli di comportamento: la virtù si perfeziona praticandola sotto la guida di persone più virtuose, più che una teoria morale servono esempi morali [Shaw 96: 498].

Come si applicano le virtù?

La pratica delle virtù. L’altra problematica deriva dalla considerazione che persone diverse, a seguito di esperienze diverse, abbiano maturato linee di guida che possano risultare confliggenti. Il lavoratore potrebbe per esempio avere un’idea molto differente di quale sia la soluzione migliore da quella degli azionisti o dei dirigenti aziendali. Casi come questi si configurano come veri e propri dilemmi morali [Duska 93, cit. in Shaw 95: 850].

La via d’uscita è insita nel comunitarismo stesso. Da una parte l’orizzonte etico di riferimento è abbastanza ampio (la comunità-società, non l’impresa o l’esasperazione sull’esperienza particolare del singolo, sulla base della nozione complessa di pratica [v. cap. 2, pag. *]) da conferire una visione della comunità e dei criteri etici convergenti verso una comune concezione del bene.

D’altra parte l’intenzione di non richiudere su se stessa la comunità ed escludere i portatori di valori diversi, la constatazione che non tutti evidentemente sono comunitaristi, il riconoscimento della specificità della storia delle persone, induce a trovare risposta al dilemma morale su un piano meno generale, limitato ma forse più utile, di sapere pratico [cfr. Shaw 95: 850].

Esiste tra le virtù una centrale, così in Aristotele e in Tommaso d’Aquino ("madre di tutte le virtù", "sorgente di ogni bene"), che risolve il problema in questione: è la phronesis o saggezza o prudenza (nel senso etimologico di lungimiranza) o meglio ragion pratica [v. cap. 2, pag. *]. È difficile darne una definizione chiara e completa [Klonoski 91: 15], ma dalla letteratura si evince che è in generale l’abilità di applicare lezioni imparate nel passato a nuove situazioni nel presente ovvero lezioni generali alle fattispecie particolari [DesJardins 84: 57].

È una virtù che agisce in ogni virtù. Il suo compito non è stabilire il fine ultimo della vita umana, ma determinare i mezzi per perseguire quel fine operando nei casi particolari conformemente a quelle direttive, perché l’agire virtuoso pretende che anche le vie verso il fine giusto siano giuste [Peláez 95: 40, 49].

Comporta di adattare il ragionamento alla situazione e di evitare di forzare le situazioni concrete per inquadrarle in categorie preconcette. È l’antitesi della razionalità burocratica weberiana e ben si presta alle esigenze della vita professionale, che presenta scelte sempre concrete e particolari [DesJardins 84: 57].

La prudenza è una sapienza etica perché non deriva dalla natura, non è innata, bensì dalla situazione e dall’esperienza. Educare alla prudenza significa educare alla capacità di decidere autonomamente, al senso di responsabilità individuale [Peláez 95: 43].

 

La critica al fine del profitto

Questa metafora dell’industria come una giungla dove lottare per la sopravvivenza contro i concorrenti in nome della massimizzazione dell’efficienza è, più che la disonestà o ogni altro, uno dei principali ostacoli alle virtù nel mondo degli affari. L’altro è il mito del profitto.

Il fine degli affari

Gli scopi di un’attività sono cruciali per comprendere come la virtù sia costituita nell’ambito di quell’attività (dato che la virtù è costituita dai fini della pratica). Solo identificando gli scopi possiamo studiare quali tratti del carattere aiutino a perseguirli [Ewin 95: 834].

1- È normativo, non fattuale

Il primo degli errori fondamentali dell’etica degli affari tradizionale è dare per scontato un fine, cioè assumere che la funzione dell’impresa (o della professione) sia un’asserzione fattuale. Il fine degli affari è invece una questione normativa: questo fa dell’etica degli affari un’etica come è comunemente intesa [v. cap. 1, pag. *], cioè normativa, volta non tanto a descrivere ma a suggerire comportamenti morali. Per esempio l’affermazione "la General Motors assume centomila persone" esprime un dato di fatto; l’affermazione "la General Motors dovrebbe essere gestita in modo da massimizzare il profitto degli azionisti" non è fattuale ma normativa [Beauchamp-Bowie 93: 49].

2- Non è il profitto

Il secondo errore sta nel dare per scontato un fine che è sbagliato [Ewin 95: 834]. Secondo la prospettiva dell’etica delle virtù comunitarista va criticata quella matrice che accomuna tutta una serie di posizioni di fatto dominanti nell’etica degli affari, che ha per nucleo l’idea del profitto come fine degli affari. Abbiamo già visto come anche le posizioni che si propongono come alternative (come la stakeholders theory) all’originaria posizione friedmaniana finiscano di fatto per essere raccolte sotto il medesimo cappello in nome dell’invocazione di principi universali e regole di comportamento [v. cap. 3, pag. *].

Le regole di comportamento mirano ad isolare spazi di autonomia una volta assolti i compiti definiti nei confronti degli altri soggetti. Risulta più chiaro pensando alle regole che dovrebbero vincolare le imprese rispetto al contesto esterno: mirano ad imporre l’assolvimento della cosiddetta responsabilità sociale d’impresa [v. cap. 3, pag. *] isolando un ambito nel quale l’impresa possa funzionare secondo le proprie logiche, che si suppone diverse dall’etica quotidiana, ridotte al fine del profitto. L’etica delle virtù aristotelica contesta proprio questa semplificazione al fine del profitto.

 

L’etica del profitto

Illustriamo perciò le principali posizione del dibattito attorno all’idea di profitto per meglio comprendere quella originale comunitarista.

La posizione friedmaniana.

L’affermazione da cui prende il via il dibattito è di Milton Friedman. Egli afferma che il profitto è il fine ultimo dell’impresa e l’unica responsabilità dei dirigenti è incrementarlo, ogni altra pretesa "sociale" è un’imposizione infondata [Friedman 70].

1- Argomenti originari

Gli argomenti a sostegno della sua tesi sono originariamente due. 1) Gli azionisti sono i proprietari dell’impresa, perciò i profitti gli appartengono. I managers sono agenti degli azionisti e hanno l’obbligo morale di gestire l’impresa nel loro interesse. 2) Il profitto è la remunerazione degli azionisti (così come lo stipendio lo è dei lavoratori e dei managers, il margine lo è dei fornitori, e via di seguito per tutti gli stakeholders). Questi accordi contrattuali e volontari massimizzano la libertà economica e la libertà economica è la condizione necessaria perché possa darsi libertà politica [Beauchamp-Bowie 93: 50].

In risposta alle critiche volte ad affermare responsabilità sociali dell’impresa che esulino dal perseguire il massimo profitto, ulteriori giustificazioni sono state addotte, vuoi da Friedman stesso vuoi da coloro che ne hanno fatta propria la tesi.

2- Esecutivi non eletti

Innanzitutto i dirigenti delle imprese non sono eletti in rappresentanza dei cittadini perciò mancano del mandato sociale che una società democratica richiede per chiunque si arroghi di intervenire sulla società (come indubbiamente prevede l’assunzione della responsabilità sociale d’impresa). È anche vero però che le pretese di responsabilità morale sono indipendenti dalle pretese di legittimità politica, perciò la mancanza del mandato politico non ostacola l’assunzione di responsabilità morali [Goodpaster-Matthews 82: 110].

3- Tassa sociale occulta

La responsabilità sociale sarebbe per Friedman una sorta di "tassa sociale occulta". Se il fine è massimizzare il profitto, obbedire a responsabilità sociali (che comporta oneri economici) implicherebbe una riduzione della remunerazione degli azionisti, prezzi più alti, stipendi più bassi, o una perdita di competitività [Friedman 70]. Vale la pena sottolineare che, anche in questo caso, non va frainteso la natura degli obblighi: non politica (la legittimazione richiesta ai rappresentanti del popolo, come i tributi dello Stato che sono imposti), ma morale (l’assunzione spontanea di responsabilità e gli oneri connessi) [cfr. Fieser 96: 461].

4- Bluff parte delle regole del gioco

A sostegno della tesi di Friedman viene l’affermazione di Albert Carr per cui la violazione delle intuizioni morali, quando non contravviene alla legge, fa parte delle regole del gioco del mondo degli affari come bluffare rientra nelle regole del gioco del poker [Carr 68]. Questa posizione è interessante perché ripropone la similitudine del gioco cui sono stati piegati gli affari. E fa emergere con evidenza come questi accostamenti siano semplicistici. Infatti mentre il giocatore di poker conosce le regole del gioco ex ante, non così coloro che sono coinvolti (volontariamente e no) nel business, come lavoratori, consumatori, cittadini: essi di fatto possono ignorare persino quali pratiche siano legalmente permesse [Fieser 96: 461].

Fare i conti con la "friedmanite".

Lo schema concettuale friedmaniano non appartiene soltanto a Friedman e ai suoi sostenitori, ma è di fatto condiviso da gran parte dei critici che propongono obblighi sociali. Che il profitto sia il fine ultimo degli affari è presupposto, i primi ritenendolo l’unica responsabilità "sociale", gli ultimi rivendicandone altre a parziale limitazione, ma pur sempre fine "naturale".

Il posto della super legal morality obbligation

Ecco così che risulta complicato trovare un posto per questa responsabilità sociale, intesa come obblighi morali extra legali (super legal morality obbligation). Valga a titolo di esempio l’approccio al dibattito per approssimazioni successive sviluppato da Fieser [Fieser 96].

Egli (come Friedman) assume la natura dell’impresa definita da due principi: 1) il principio del profitto (the profit principle), per cui essa cerca di produrre un profitto e 2) il principio legale (the law principle) per cui deve rispettare la legge [Fieser 96: 458]. Sembrano assunzioni intuitivamente ragionevoli: il principio del profitto distingue l’impresa da attività produttive non-profit, come associazioni e club (non meno importanti ma assai meno critiche da un punto di vista della responsabilità sociale, esplicitamente riconosciuta come fondante); il principio della legge è ovviamente condivisibile non interessandoci ora allo studio dell’economia illecita (generalmente ciò che è vietato è immorale).

In questo contesto qual’è la sede degli obblighi morali extra legali? Il principio del profitto, il principio legale, o costituiscono un terzo fattore accanto a questi? [Fieser 96: 458] Fieser liquida i primi due casi (in seguito affiancheremo la critica comunitarista).

1- Nel principio del profitto?

Dell’ipotesi che risiedano nel principio del profitto vi sono due impostazioni. Nella versione debole la buona etica deriva dai buoni affari ("good ethics results in good business"), cioè essere etici condurrebbe alla profittabilità nel lungo periodo (fondamentalmente in ragione della fiducia tra i soggetti) [cfr. Hartley 93, cit. in Fieser 96: 459]. Il difetto di questo approccio starebbe nel trascurare le pratiche di breve periodo che perciò non avrebbero incentivo ad essere morali. Nella versione forte i buoni affari derivano dalla buona etica ("good business results in good ethics"), cioè il perseguire il profitto comporta la soddisfazione dei consumatori, la soddisfazione dei consumatori presume prodotti sicuri. Ma questo (che probabilmente prende le mosse dall’evidenza empirica della tendenza al consumo di prodotti ecologici) presuppone che la domanda di consumatori e lavoratori sia moralmente giusta [Fieser 96: 459]. Inoltre —aggiungiamo— presuppone che consumatori e lavoratori abbiano la capacità di valutare i prodotti dell’impresa e il loro impatto sociale.

2- Nel principio legale?

La seconda ipotesi che gli obblighi morali risiedano nel principio legale è sottesa da due correnti di pensiero. Il contrattualismo sociale o positivismo legale asserisce che le obbligazioni morali sono in generale confinate alla legge, quell’insieme minimale (cioè intuitivamente condivisibile dalla più ampia quantità di persone) di regole sociali di mutuo beneficio. L’obiezione è ovvia: vi sono troppi comportamenti (anche non negli affari) legali ma dai più ritenuti immorali (come l’infedeltà). Per l’approccio maggioritario costituiscono obbligo morale sole quelle istanze condivise dalla maggioranza in un dato contesto, e dato che le società in cui viviamo sono pluralistiche le uniche ampiamente condivise sono quelle incorporate nella legge [Fieser 96: 463-465]. Ma la legge ha forza morale solo se c’è un metro di giudizio morale esterno alla legge, e inoltre la legge è un istituto reattivo, che richiede tempo per comprendere i mutamenti della società ed adeguarvisi, e nel frattempo pratiche immorali sarebbero legali [cfr. Stone 75, cit. in Fieser 96: 465].

3- Terzo fattore?

All’ipotesi rimanente, quella per cui gli obblighi morali costituiscono un fattore terzo rispetto a profitto e legge, si rifanno diversi principi. Il principio del danno (harm principle) afferma che gli affari dovrebbero evitare di provocare danni non assicurati [cfr. Hoffman 91]. Il principio dell’imparzialità (fairness principle) che gli affari dovrebbero essere giusti. Quello dei diritti umani che dovrebbero rispettare i diritti umani. Tutti questi principi hanno il pregio di fare riferimento a nozioni universali e indubitabili (benché per esempio MacIntyre abbia criticato l’idea di diritti umani [cfr. MacIntyre 84a]), ma contemporaneamente troppo generali per aver efficacia pratica [Fieser 96: 459-460], come peraltro il comunitarismo ripete continuamente [v. cap. 2, pag. *].

Il principio dell’autonomia, per cui gli affari non dovrebbero ostacolare le scelte razionali delle persone (ad esempio il controllo dei lavoratori non dovrebbe interferire con la vita privata) o il principio di veracità (veracity principle), per cui gli affari non dovrebbero essere ingannevoli (riguarda in particolare la pubblicità), non sono al contrario universalmente accettati ed inoltre restano in larga misura astratti [Fieser 96: 460].

Fieser infine, nel contestare anche la stakeholder theory [v. cap. 3, pag. *] sulla base del fatto che non sono dati criteri per ordinare la priorità degli interessi e che di fatto i codici etici adottati sono un mero tentativo di pubbliche relazioni e vietano comportamenti già illegali [Fieser 96: 460-61], conclude (per esaurimento) che non vi è spazio alcuno per gli obblighi morali, perciò non esiste responsabilità sociale d’impresa [Fieser 96: 462-63].

Per di più quest’ultima sarebbe un’aspettativa irragionevole. Innanzitutto perché —sembra di capire— è la moralità stessa ad essere ambigua. Infatti l’obbligo morale è tale solo se rispetta il principio "dovere implica potere", per cui il soggetto deve essere in grado di scegliere, di comportarsi in modo etico, da intendersi anche in senso psicologico [v. cap. 2, pag. *]. Perciò basterebbe il disagio psicologico per scusare l’immoralità. Ma soprattutto "in questa società —asserisce— non ci aspettiamo dal mondo degli affari di essere morale" in quanto manca una fonte omogenea di moralità esterna, perciò non è irragionevole voler essere morali [Fieser 96: 462-63].

Il compito dell’etica degli affari si ridurrebbe dunque ad un "dialogo pre-legislativo o regolatorio con lo scopo di cambiare la legge" [Fieser 96: 465-66], che rappresenta una soluzione minimalista tanto quanto quella di Larmore o Dworkin difronte ai limiti del liberalismo [v. cap. 2, pag. *].

Le risposte comunitariste.

Questo excursus di J. Fieser ci torna utile per evidenziare alcuni dei limiti di quella che abbiamo definito [v. cap. 3, pag. *] etica (degli affari) dei principi (principle based ethics) che trova, oltre alle altre sfaccettature evidenziate, nell’idea di profitto un momento di convergenza. Tentiamo così delle risposte di stampo comunitarista alle principali tesi illustrate sinora.

1- Bluff come al poker.

Gli affari come il poker. La tesi (di Carr) che bluffare sia accettabile nella misura in cui è noto come una delle regole del gioco [v. supra pag. *] presuppone la famose concezione de "gli affari sono affari", con questo intendendo che questa sfera dell’agire umano è dotata di proprie logiche particolari, diverse da quelle di altre sfere, cioè di un’etica speciale. Perciò non solo si scontra con la difficoltà di distinguere i giocatori e l’irrealtà di una perfetta informazione su quali siano queste regole, ma con l’opporsi dell’approccio comunitarista, come più volte ricordato, a questa separazione sulla base dell’assunto che l’impresa fa parte della vita sociale, che i partecipanti all’impresa sono, prima che membri di un’organizzazione, persone che fanno parte di una comunità da cui traggono i criteri di giudizio morale.

2- Manca fonte morale esterna.

Dagli affari non ci si aspetta un agire morale. L’assunzione di Fieser per cui la società non si aspetta un mondo degli affari etico [v. supra pag. *] tradisce la medesima separazione delle sfere dell’agire. Inoltre tradisce anche la natura normativa dell’etica degli affari, che non si deve accontentare di descrivere lo stato delle cose ma deve avanzare delle istanze morali per l’appunto.

3- Non fare del male basta?

Primum non nocere. Molta dell’etica degli affari intende impedire comportamenti nocivi da parte delle imprese (contro i dipendenti, in termini di sicurezza o violazione della privacy, contro l’ambiente, ecc.). Ma non è abbastanza non fare del male: "non danneggiare consapevolmente non è il fine dell’etica degli affari" — suggerisce Peter Drucker [Drucker 74: 366-67]. L’approccio comunitarista mira a promuovere il "fare del bene" (nel senso della felicità comunitaria) [Solomon 93a: 122].

4- Tassa occulta e profitto di lungo periodo.

L’etica distrugge (ovvero accresce) il profitto. Il timore (di Friedman) che un comportamento etico comporti una riduzione del margine di profitto degli azionisti [v. supra pag. *], come la stessa replica volta a rendere più appetibile l’etica degli affari agli operatori per cui comportarsi eticamente è profittevole nel lungo periodo [v. supra pag. *] (sul cui terreno prende le mosse anche il contrattualismo) si basano sul comune assunto che il fine ultimo dell’impresa è comunque fare profitto e, nel secondo caso, scopo dell’etica degli affari sia quello di porvi dei freni al fine di tutelare gli altri interessi (le istanze degli stakeholders, cioè). Ciò che il comunitarismo obbietta è proprio questo assunto del profitto.

5- In nessuno dei tre principi.

Di più ancora, il motivo per cui Fieser non riesce a collocare gli obblighi morali, dal punto di vista comunitarista, si deve alla fraintesa natura dell’impresa data per scontata come ipotesi, quella cioè di soggetto che risponde a due principi: profitto e legge. L’impresa è invece (come è stato ampiamente spiegato [v. supra, pag. *] prima di tutto una comunità di persone, con una dimensione umana e morale, ed è una comunità a sua volta immersa in una più ampia, dove i "portatori di interesse" dell’impresa sono donne e uomini dotati di comuni criteri di giudizio.

 

Dalla responsabilità sociale all’appartenenza

Teleologia

L’insistenza nel criticare il profitto quale scopo ultimo dell’impresa si giustifica ricordando che l’etica delle virtù comunitarista è teleologica [v. cap. 2, pag. *], cioè pone particolare enfasi sul fine in quanto definisce le azioni umane. Questo finalismo trascende il campo degli affari e definisce il ruolo stesso degli affari nella società più ampia (così come il ruolo della persona nella comunità).

Si coglie la distanza con la popolare tradizione della responsabilità sociale d’impresa che la fa sembrare un ambito estraneo agli affari e al loro fine [Solomon 93a: 103]. Una volta che si esce dalla logica friedmaniana anche il tema della responsabilità sociale d’impresa va interpretato in modo diverso. La responsabilità sociale, nell’ottica comunitarista, va compresa nel senso di intendere quale sia allora il fine ultimo dell’impresa.

Il fine degli affari.

DesJardins: produrre beni e servizi che contribuiscano al bene della società.

DesJardins, apertamente promotore di un’etica comunitarista degli affari, sostiene che la funzione del business, cioè la sua responsabilità sociale, sia produrre beni e servizi che contribuiscano al bene della società. Se infatti la vita buona in generale consiste nel perseguimento dell’eccellenza, l’eccellenza negli affari si sostanzierebbe nella produzione di beni e servizi che contribuiscano a migliorare il bene sociale [DesJardins 84: 58].

Riteniamo questa conclusione ancora riduttiva. Eccellere per il mondo degli affari o per la singola impresa significa partecipare attivamente alla vita comunitaria, non solo nel senso di offrire prodotti che soddisfino i criteri morali comunitari, ma anche di offrire lavoro moralmente corretto e occasione di eccellenza per le persone che lo svolgono, cioè ancora di realizzazione e partecipazione alla felicità comunitaria. Con le parole di Peláez: "il lavoro di ogni uomo ha un fondamento etico-sociale, deve rispettare le norme morali che assicurino risultati onesti e duraturi a vantaggio di tutta la comunità e non commisurati esclusivamente a criteri di mera efficienza tecnica e di immediato interesse personale" [Peláez 95: 17].

Solomon: produzioni di qualità, orgoglio, arricchimento intera comunità.

A questa posizione si avvicina Solomon: "l’esaltazione dell’integrità e della comunità non deriva dall’adempimento di obblighi da parte degli azionisti, ma da produzioni di qualità e dall’orgoglio provato nel produrre, dall’offrire buoni lavori e remunerazioni ben meritate per i lavoratori, dall’arricchimento dell’intera comunità, non solo dal gruppo ristretto dei proprietari (magari nel breve periodo)" [Solomon 93a: 109].

Ma Solomon stesso suscita una leggera perplessità laddove afferma: "l’ideale del business in generale non è far denaro" —e questo l’abbiamo sostenuto sin dalla prim’ora— "è servire la domanda della società e il bene pubblico ed essere ricompensato per questo" [Solomon 93a: 110]. La domanda della società, per aderire alla tesi che sosteniamo, va intesa in termini prima di tutto morali e di partecipazione alla costruzione della vita buona attraverso l’appropriazione di senso da parte dei membri dell’impresa.

Se indubbiamente è condivisibile la proposta della Margaret Blair [Blair 95, cit. in Solomon 94] di attribuire valore all’impresa non in base ai tradizionali parametri economici che pongono troppa enfasi sul capitale fisico, ma in base al contributo di ricchezza complessiva che apporta alla comunità, incluso il valore dei prodotti e dei servizi, il valore per gli investitori e dei lavori creati valorizzando le abilità dei lavoratori, vale la pena di spingersi oltre. È apprezzabile l’intento di combinare la strumentazione filosofica comunitarista con la strumentazione economica, ma ricordiamo di prestare la dovuta attenzione all’arricchimento delle persone coinvolte negli affari per morale e per significato attribuito alla propria vita.

Concludiamo recuperando quel discorso sulla così comune metafora del gioco che è stato svolto a più riprese [per esempio v. supra pag. *]. Già è difficile identificare chi siano i giocatori (cioè chi sia dentro il gioco e chi fuori) e se si diano ruoli diversi (l’allenatore, gli spettatori indubbiamente partecipano al gioco ma non possono dirsi giocatori; per esempio, le banche non sono né spettatori né figure disinteressante al comportamento di un’impresa). Ma una volta che si sostenga —come sostiene l’etica comunitarista delle virtù— che lo scopo degli affari è perseguire la prosperità dell’intera società, allora nessuno dei soggetti in qualche modo legati alla comunità è escluso dalla pratica degli affari, cioè non possono darsi dei giocatori distinti da un pubblico di spettatori diversamente toccati dal business [Solomon 93a: 122]. In fondo è stato detto sin dall’inizio che considerare il business come una pratica è un assunto qualificante e ricco di implicazioni. Tra le quali che il business è un’attività umana al servizio degli uomini, "non una meravigliosa macchina o una magia del mercato" o ancora una partita di poker [Solomon 93a: 103-104].

La carità incomincia in casa.

Si è detto che adottare un’etica del carattere è prodigo di conseguenze che finiscono per riformulare l’approccio alla responsabilità d’impresa [v. supra pag. *].

"Un business moralmente responsabile non è quello che misura le sue azioni contro principi esterni", cioè le regole tradizionalmente approntate dagli studiosi di etica degli affari che recentemente prendono la forma di codici etici, "ma quello in cui le decisioni sono prese da persone buone" [DesJardins 84: 57]. Insomma "la carità incomincia in casa" [Klonoski 91: 15] nel senso che prima di tutto, prima di fare cose buone negli affari, si è persone buone.

Dovrebbe risultare meglio comprensibile ora come la bontà di un’impresa non possa essere valutata sui prodotti o sull’impatto materiale sull’ambiente. Essa stessa contribuisce infatti a formare la bontà, la virtuosità delle persone che vi partecipano, e ovviamente dev’essere coerente con l’orizzonte morale della comunità.

Questo approccio è molto più vicino alla corrente "filosofica" del comunitarismo che a quella "politica", quella guidata da Etzioni per intenderci [v. cap. 1, pag. *]. Per quanto i momenti di contatto siano numerosi naturalmente, questo segna la distanza. Etzioni propone un’etica, per quanto centrata sull’appartenenza comunitaria, deontologica [Etzioni 93a], dove lo spirito comunitario risulta nella responsabilità percepita dagli individui verso gli altri membri della comunità. Appoggiarci all’altra corrente di pensiero, per cui le persone provano un’adesione affettiva alla comunità, per cui la responsabilità sociale non va intesa in termini di senso del dovere ma di partecipazione alla felicità comune, esalta meglio le potenzialità del pensiero comunitarista benché forse offra una posizione estrema eventualmente mitigata da applicazioni concrete [v. cap. 1, pag. *].

Questo approccio si integra coerentemente in una prospettiva religiosa [cfr. Klonoski 91: 15-16], in particolare sostiene Williams: "lo scopo della vita in terra è la formazione di persone virtuose" [Williams 86]. Perciò il business non può (o almeno non dovrebbe) essere immune dal partecipare a questo progetto. Inoltre esso rappresenta una notevole opportunità per lo sviluppo del carattere delle persone. La pratica degli affari può dunque condurre allo sviluppo di valori quali "il potere inteso come servizio [v. supra pag. *], la solidarietà, la felicità e la giustizia" [Williams 86].

Dalle strategie ai fini.

L’impostazione teleologica dell’etica comunitarista coinvolge ovviamente anche le logiche interne dell’impresa. Finora il concetto di fine non ha ricevuto molta attenzione nella letteratura manageriale, semmai propensa a trattare di strategie, obbiettivi, missioni, ma sempre avendo come sincero orizzonte il bene dell’impresa di per sé [cfr. Collier 95: 146-47].

Dal punto di vista comunitarista, le imprese dovrebbero passare dalla fissazione di strategie all’indicazione dei fini che le persone devono promuovere, in modo che esse vi si identifichino, ne siano orgogliose [Collier 95: 146-47]. È evidente che non si tratta qui di motivazione, e che i fini in questione hanno un orizzonte comunitario, cioè sfondano il confine dell’impresa, anzi non sono nemmeno scelti ma costituiti dall’ideale di vita buono della comunità o, se sono scelti, sono comunque giudicati e selezionati (cioè accettati o rifiutati) dalla comunità. Concludere —come fa Collier— che "il fine dell’impresa deve essere appropriato rispetto alla felicità umana in termini che diano priorità al benessere degli stakeholders" [Collier 95: 147] è coerente con la nostra posizione laddove gli stakeholders siano pensati come partecipanti alla vita comunitaria, insomma la comunità stessa, e dove dunque la "felicità umana" possa essere intesa in senso aristotelico (sinonimo di vita buona o eudaimonia).

La virtù va contro al profitto?

Come già abbiamo visto l’eccellenza non essere alternativa alla competizione (mentre lo è l’etica dell’eccellenza all’etica della competizione) [v. supra pag. *], così virtù e valore non escludono il profitto. Ciò che si critica è il fare del profitto un fondamento etico (è bene perseguire il profitto: letteralmente Friedman sostiene che i managers "hanno un obbligo morale" di gestire l’impresa nell’interesse degli azionisti), cui si contrappone un’etica del valore e delle virtù.

Profitto soglia minima

Vanno infatti riconosciuti e fatti salvi gli imperativi di sopravvivenza e stabilità dell’impresa. Il punto non è negare la validità di questi imperativi, ma coordinarli con i quelli morali [Goodpaster-Matthews 82: 110]. Il profitto non va sacrificato —come si accusa frequentemente— ma potrebbe essere la "soglia minima", la base per consentire l’attività dell’impresa, ma non il fine ultimo che la ordina. Parlare di partecipazione dell’impresa e dei lavoratori alla comunità non è in antagonismo con il fare profitti, anzi ne è prerequisito [Solomon 94: 275].

Ricchezza materiale parte del bene

La ricchezza materiale e la produzione economica possono ben essere elementi costitutivi del bene, ma non è la massimizzazione della ricchezza "la mega-virtù" di professionisti e managers: non è affatto una virtù. Le virtù non sono prodotti fisici, ma abiti del carattere, propensioni all’eccellenza. Se questo è il fine secondo l’etica delle virtù, allora "la massimizzazione del profitto può essere un by-product di tale eccellenza, ma non la ragion d’essere delle imprese" [Shaw 95: 854].

Quando Aristotele, per il quale gli affari sono una parte essenziale della vita buona, condanna l’"avarizia astratta", cioè l’idea di profitto, come una sorta di patologia, un difetto del carattere, un vizio innaturale e antisociale, non si oppone alla ricchezza o al vivere confortevole. Non invita a smettere di pensare al denaro, ma ad un cambiamento radicale di prospettiva: il nostro vivere, la nostra professione sono solo mezzi per far soldi? O sono, come dovrebbero essere, attività che vale la pena fare per dare un senso alla nostra vita? [Solomon 93a: 104].

Il profitto non è un obbiettivo interno

Ciò che conta, appunto, nel fondare l’etica delle virtù, come già spiegato [v. supra pag. *], sono gli obbiettivi interni alla pratica, non criteri esterni di misurazione e giudizio quale il profitto. Parlare di valori e di etica delle virtù significa porre l’enfasi sulle attività e sui modi di agire che vale la pena di svolgere per essi stessi, non (solo) per la ricerca di altri beni [Solomon 94: 275]. Il profitto infatti è spesso confuso con il fine degli affari. Ma il perseguimento del profitto, che certo non è l’unico obbiettivo della pratica degli affari, secondo alcuni non è nemmeno un obbiettivo del business, ma solo una "condizione di stare nel gioco" (per quanto questa metafora ci piace assai poco), una necessità non un’aspirazione [cfr. Drucker 74, cit. in Solomon 93a: 120-21].

Ecco allora che i comunitaristi rinforzano la tesi per cui la perdita di competitività spesso attribuita ad una minore tenacia nel rincorrere il profitto si spieghi invece in termini di insufficiente inclinazione alla cooperazione e al coordinamento della comunità degli affari [Solomon 93a: 150].

 

 

Conclusioni

Rinunciando a massimizzare una felicità ridotta a vuota utilità, la società postmoderna si riallaccia all’ideale di equilibrio delle saggezze anteriori e dà contenuto pieno al vecchio obiettivo del bene comune.

(Serge Latouche)

 

 

Il proposito di questo studio era di indagare come il comunitarismo, sistema coerente di idee caratterizzanti (più che fronte eterogeneo, rissoso, talvolta contraddittorio di autori), potesse informare un approccio all’etica degli affari alternativo a quello dominante moderno basato su una matrice liberale.

Non è naturalmente stato possibile sviluppare tutti gli spunti.

Non è naturalmente stato possibile sviluppare tutti gli spunti. Per esempio si sarebbe potuto cercare di individuare i contenuti delle virtù più congruenti con il mondo degli affari, o come quelle appartenenti alle principali tradizioni di pensiero (quella aristotelica, quella scolastica o cristiana) possano essere interpretare nello specifico contesto. O ancora affrontare le tematiche più ricorrenti nell’etica degli affari (come l’impatto ambientale, la privacy, i licenziamenti, la qualità dei prodotti) da una prospettiva comunitarista.

Si è preferito approfondire i fondamenti del pensiero comunitarista [capp. 1 e 2], le principali implicazioni nella filosofia morale [cap. 2] e nell’etica degli affari [capp. 3 e 4], in pratica tratteggiando i fondamenti di un’etica degli affari comunitarista. È stato privilegiato il rigore con cui il tema è stato affrontato rispetto all’esaustività (oltre che esaurire l’illustrazione delle conseguenze di una intera visione del mondo è evidentemente impraticabile) difronte all’esiguità delle fonti specificamente dedicate a questa prospettiva dell’etica degli affari e difronte all’eterogeneità del comunitarismo.

Un primo risultato è dunque di aver contribuito a questa tradizione di ricerca emergente affrontando un campo di applicazione frequentato poco e spesso in modo approssimativo.

Pregi dell’approccio comunitarista all’etica degli affari.

Sotto il profilo sostanziale l’approccio proposto si presenta come via per il superamento dei limiti del liberalismo e della modernità e della logica degli affari ad essi improntata [v. cap. 3, pag. *].

Vantaggi: Dall’azione all’agente

Dall’azione all’agente. Innanzitutto sposta l’attenzione dall’azione all’agente. La ricerca dell’azione buona ha ispirato una varietà di principi etici di portata tendenzialmente universale, senza però offrire un criterio di scelta tra questi principi [v. cap. 3, pag. *], abbandonando cioè l’agente alla scelta di quale scuola abbracciare ovvero alla sua discrezione e arbitrio [Collier 95]. In nome della diversità delle concezioni di vita l’uomo è lasciato a se stesso, incapace di giudicare il suo prossimo e le sue stesse azioni [v. cap. 2, pag. *].

La prospettiva comunitarista, affermando la desiderabilità di una concezione di vita buona condivisa, fa discendere i criteri etici dal contributo che le azioni individuali portano al progetto complessivo di felicità comunitaria [v. cap. 2, pag. *].

Vantaggi: Etica del carattere: motivazioni e conformità aspirazioni-azioni

Enfasi sulle motivazioni. L’essere l’etica comunitarista un’etica del carattere [v. cap. 2, pag. *] enfatizza le motivazioni delle persone ad agire e ad appartenere all’impresa o alla professione, e consente la conformità tra le aspirazioni e le azioni morali. L’etica deontologica liberale è al contrario un’etica delle regole, basata cioè su principi universali che impediscano alle naturali inclinazioni dei soggetti potenzialmente conflittuali di compromettere la coesistenza pacifica (tra le altre persone, tra l’impresa e gli altri soggetti).

Ne possono risultare agenti schizofrenici che sono forzati a fare ciò che il dovere comanda senza rispetto per ciò che essi desidererebbero. E contemporaneamente, come si è appena detto, il contenuto dell’imperativo dipende da una preventiva scelta di una scuola piuttosto che un’altra. L’etica delle virtù comunitarista ha il merito di non pretendere dalle persone un’attitudine duplice, difficile da mantenere e frustrante [Koehn 95: 536, Peláez 95: 19-20].

Vantaggi: Virtù caratteristica manifesta dell’azione: modelli di comportamento

Virtù necessaria. La virtù è concepita come una caratteristica manifesta, percettibile, indispensabile all’azione [v. cap. 2, pag. *]. È perciò possibile identificare nell’impresa le persone che agiscono in modo virtuoso e quindi farne un modello di comportamento [v. cap. 4, pag. *].

Questo non è possibile nell’etica liberale poiché è riconosciuta la pluralità di concezioni della vita, non è possibile sapere ciò che è bene per gli altri, non è possibile intenderne le motivazioni, e conseguentemente suggerirgli cosa sarebbe bene fare [Koehn 95: 536]

Vantaggi: Collaborazione ed eccellenza

Pacificazione. L’etica comunitarista non è divisa dalle esigenze operative dell’impresa, ma anzi risulta coerente con le istanze di competitività. Solo la condivisione di criteri etici sinceramente sentiti (non imposti o esterni alla pratica, come l’efficienza) e non contrastanti con le motivazioni e i credo morali delle persone consente il perseguimento dell’eccellenza [cfr. Koehn 95: 537]. L’eccellenza nella pratica è possibile solo quando la spinta morale accompagna la competenza tecnica [v. cap. 4, pag. *].

Inoltre l’eccellenza ha senso soltanto quando avviene nella condizione di personale ricerca insieme alle altre persone, in un clima collaborativo, non di lotta per la supremazia contro gli altri, ma nemmeno di cooperazione allo scopo di massimizzare i propri interessi egoistici [v. cap. 4, pag. *].

L’etica comunitarista promuove la rappacificazione non solo entro la comunità (nel senso della collaborazione piuttosto che del conflitto), ma anche tra identità professionale e personale o tra impresa e società. Sono le virtù morali, condivise e potenzialmente in possesso di tutti, ad illuminare la capacità tecnica e ad orientarla verso un fine non parziale (eventualmente perverso) ma generale, coerente con la concezione comunitaria di vita buona [v. cap. 4, pag. *]. Anzi la persona dotata di virtù avrà un più agevole cammino di progressivo miglioramento professionale poiché la induce a perseguire l’eccellenza nella competenza che esercita, essendo sia fonte di soddisfazione personale sia impegno riconosciuto dalla comunità [Peláez 95: 14].

Vantaggi: Rilettura responsabilità sociale d’impresa

Rilettura della responsabilità sociale d’impresa. Il tema della responsabilità sociale d’impresa può essere interpretato in modo radicalmente diverso da quello dell’etica degli affari tradizionale [v. cap. 4, pag. *]. Quest’ultima è finita infatti per diventare lo strumento per mitigare le controindicazioni della logica degli affari difronte alle esigenze dei portatori di interesse, a volte mero alibi, a volte vincolo percepito dagli operatori come mortificazione della loro attività.

La prospettiva comunitarista mira a ridefinire la logica degli affari, non più fondata sul profitto e sull’efficienza che assurgono a criteri etici [v. cap. 4, pag. *] e sulla metafora della giungla come chiave di lettura del mondo degli affari [v. cap. 4, pag. *], ma sull’appartenenza delle donne e degli uomini che operano negli affari ad una più ampia comunità che informa i loro criteri etici.

Con questo però non intende reprimere l’individualità: la persona (non l’impresa-agente morale) viene invece riportata al centro del discorso. Essa ha finalmente la possibilità di contribuire, in quanto persona e in quanto svolge un’attività negli affari, ad apportare valore alla comunità, in primo luogo eccellendo in quell’attività. Il regime liberale può per converso condurre ad una cittadinanza e ad una appartenenza passive perché ha la tendenza a svolgere il principio di giustizia nei diritti piuttosto che nella responsabilità e nella partecipazione [v. cap. 2, pag. *].

Vantaggi: Immersione nella comunità e separazione sfere dell’agire ed etiche

Appartenenza. Sullo sfondo dei pregi del comunitarismo sta il fondamentale riconoscimento che le persone non sono —come sostiene il liberalismo— individui autonomi e razionali, che aderiscono alla società, alle associazioni o all’impresa volontariamente e per interesse.

Le persone, le imprese, le professioni sono immerse in comunità più ampie che definiscono i criteri etici, che formano la loro razionalità e costituiscono relazioni affettive che non possono essere trascurate.

Questa concezione del bene e la visione morale che incorpora non può valere soltanto mentre ce ne stiamo a casa con la nostra famiglia, o con i nostri amici o i vicini. Ce la portiamo appresso quando entriamo in ufficio o in ogni attività che svolgiamo. Non può perciò darsi un’etica degli affari speciale, ispirata a criteri diversi dall’etica privata o che governa altre sfere dell’agire [v. cap. 4, pag. *].

La persona, prima che membro dell’organizzazione-impresa, è partecipe della comunità nella quale vive, e non agirà (o non dovrebbe agire) sul lavoro in contrasto con l’ideale che ne motiva la vita, meglio anzi se troverà proprio negli affari un modo per realizzarlo.

Vantaggi: Valore della storia (continuità azione)

Ragion pratica. Il motivo dell’appartenenza comprende non solo una dimensione sincronica di coerenza con le pratiche della comunità, ma anche quella dimensione storica delle tradizioni che il liberalismo contemporaneo e la filosofia analitica trascurano [v. cap. 2, pag. *]. Si comprende così che l’attività umana è continua, non frammentata né in sfere dell’agire impermeabili, né in senso intergenerazionale. L’individuo da una parte deve fare i conti con la peculiarità del contesto ereditata, dall’altra è responsabile delle conseguenze future delle proprie azioni e delle ripercussioni nelle altre sfere dell’agire [Koehn 95: 536].

Non esistono precetti universalmente applicabili, e l’azione non può prescindere dal riconoscimento della particolarità del contesto. L’etica comunitarista assegna un particolare peso alla virtù della phronesis o della ragione pratica [v. cap. 2, pag. *, cap. 4, pag. *], che peraltro gode di un seguito ben più ampio del comunitarismo. Essa consente di riconoscere questa particolarità e di decidere come agire in modo da assecondare l’ideale di vita buona.

Critiche

Abbiamo già dato conto delle principali critiche mosse al comunitarismo [v. cap. 2, pag. *], facilmente interpretabili nello specifico contesto degli affari e che ancora potrebbero porsi difronte ai presunti pro (giusto per ricordarne qualcuna: l’immersione nelle tradizioni non impedisce il cambiamento e la critica alle non sempre "buone" tradizioni? L’invocazione di una comune concezione di vita buona non mina il pluralismo?).

Le precisazioni sul concetto di comunità, altrimenti deliberatamente lasciato vago, sono valse a suggerire delle risposte (va riconosciuta la specificità del contesto ma l’agire della persona influisce sull’assetto futuro; il pluralismo è ancor più a rischio nel liberalismo e comunque impedisce la comprensione tra le persone) [v. cap. 2, pag. *].

Una filosofia ...fuori luogo?

Un’ordine di critica merita però di essere ripreso, perché mette in discussione l’aspirazione o la possibilità stesse di ricercare il senso di comunità nella società contemporanea e l’opportunità di alimentare la tradizione comunitarista.

Il comunitarismo è stato accusato di essere anacronistico, di guardare ad una realtà sociale (la gemeinschaft della polis o del villaggio) che non è per nulla attuale. In questa sede, a ideale compimento del discorso iniziato con l’attualità (specialmente in campo politico) del suo successo, considereremo come invece il comunitarismo si presti come una valida strumentazione per la comprensione e l’indirizzo della realtà sociale ed economica che va profilandosi

Superamento modernità

Il comunitarismo si presenta tra quei movimenti di pensiero che rivendicano (nel caso specifico riprendendo una tradizione antica, quella aristotelica e tomistica) un superamento delle logiche della modernità (di cui la scuola liberale dell’autonomia e dei principi è depositaria) [v. cap. 1, pag. *]. Non potrebbe essere pienamente compreso ignorando questa collocazione.

Come la modernità, anche il sistema economico capitalistico appare entrato in una fase di transizione dove il paradigma esistente sembra progressivamente venire sostituito da uno nuovo. Accontentiamoci di chiamarli fordismo e post-fordismo.

Razionalità: dalla razionalità tecnica neutrale al senso comunitario

Modernità e fordismo sono un binomio inscindibile (oltre ovviamente al fatto che società ed economia sono sempre congiunte) all’insegna della concezione liberale (che affonda le sue radici certamente in Weber, ma che di Kant condivide la natura universale dei principi prodotti) di razionalità indifferente ai fini (perciò detta procedurale) e alla specifica (del contesto) dimensione morale [v. cap. 3, pag. *, cap. 4, pag. *].

L’uscita dal fordismo non può prescindere dalla considerazione della debolezza di questa logica (perché ne è il tratto caratterizzante, che informa un’intera epoca), e quel "qualcosa d’altro" che è di qua a venire si appoggerà ad una radicalmente differente. Di questa connotazione in negativo dà conto Marco Revelli [Revelli 96], della cui trattazione del postfordismo ci avvarremo come filo conduttore per trarre delle conclusioni.

Ed è questo il secondo tratto caratteristico del post-fordismo: quella che potremmo definire come la crisi del "paradigma weberiano". Di quel modello di lettura del "moderno" che finisce per esaurire nella combinazione tra razionalità strumentale di mercato e razionalità burocratica d’apparato le forme dell’integrazione sociale [Revelli 96: 214].

La posizione liberale e moderna indubbiamente vanta l’astrazione dal contesto [v. cap. 2 pag. *] e la separazione delle sfere dell’agire [v. cap. 2, pag. *] come momenti di liberazione, di scioglimento dai vincoli, dall’essere relegati alla posizione socialmente e tradizionalmente stabilita, e di difesa di spazi di espressione della propria autonomia e della propria personalità dall’intolleranza e dal conformismo.

La liberazione è all’insegna della neutralità [v. cap. 2, pag. *], di cui Stato (neutralità della legge), mercato (pari opportunità di operare), fabbrica (neutralità dell’efficienza) vengono eletti strumenti principi di attuazione. Il fordismo assorbe aree sempre più ampie di quotidianità nel mercato e nello Stato, "trasformando la sussistenza in consumo, e la cura in offerta di servizi" [Revelli 96: 214].

Incapacità di giudizio

Ma questa promessa liberatoria ha finito per generare individui incapaci di giudizio e di guida morale, incapaci persino di comprendersi perché privi di un senso comune (che non sia quello ristretto e formalizzato della legge o delle regole che si presume siano universalmente accettate; ma a rigore nemmeno la violazione del rispetto di queste regole potrebbe essere condannabile in nome della tolleranza come indifferenza) [v. cap. 2, pag. *].

Comunità intermedie

Il comunitarismo coglie in pieno questa critica. La più naturale delle conclusioni suggerite è probabilmente in termini di policy making [v. cap. 1, pag. *]: la rimodellazione della società sulla base delle comunità cosiddette intermedie (dalla famiglia alla parrocchia, dalla scuola alle associazioni politiche o culturali, eccetera) che da una parte diano un senso al vivere sociale al di là del parametro denaro o successo o vittoria, dall’altra costituiscano una terza via tra il laissez fair del mercato e lo Stato sociale il cui onere diventa in molti casi insostenibile. Tra queste comunità intermedie un ruolo centrale è giocato dal sempre più vitale settore del volontariato, che lo stesso Marco Revelli indica come lo strumento risolutivo di ricostruzione di una società civile [cfr. Revelli 96: 216-224].

Il fine di questa ricerca attiene però più che altro allo spessore teorico-filosofico del comunitarismo, solo in parte e più recentemente devoto alla pratica politica. Ci preme perciò di sottolineare tutto ciò che esso ha da offrire a favore di una diversa ottica nel considerare le relazioni tra le persone, i rapporti di lavoro e negli affari.

Razionalità weberiana

La razionalità tecnica weberiana, in nome della quale è accampata una privilegiata competenza vocata all’efficienza, depurata di ogni fine e contesto specifico, cede il passo a nuove logiche di eccellenza e legame con la comunità. Il passaggio dalla quantità in situazione di crescita illimitata alla qualità [Revelli 95: 162-63, 178], dalla pianificazione e standardizzazione dei processi ad una razionalità sistemica debole dove nemmeno le regole del gioco sono certe e mutano con il contesto, sono solo sintomi della più ampia tendenza a riappropriarsi del senso.

Ricongiunzione delle sfere dell’agire.

Questo criterio tradizionalmente dominante nel mondo degli affari ne ha consacrato la separazione dalla vita quotidiana. Il mondo del lavoro era un mondo separato e il consumo rappresentava una sorta di riscatto del senso. Sia come accostamento del privato all’economia (imponendo così il motivo del valore economico sulla felicità). Sia come rivendicazione della personalità espressa attraverso la diversità delle preferenze difronte alla produzione standardizzata. Ma questo significa separare le vite delle persone: sono separati i criteri dell’agire e di giudizio, perciò i linguaggi (morali) sono diversi e la felicità frammentata.

Il postfordismo dovrebbe invertire questa tendenza. Innanzitutto varietà e variabilità consentono una produzione aderente ai contesti diversi. Soprattutto l’organizzazione in rete dei consumatori accresce l’intelligenza che faccia da contraltare alla specializzazione della produzione [Anastasia et al. 96: 9]. Lavoro e consumo (che richiede apprendimento, competenza sempre più tanto quanto il primo), tempo di lavoro e tempo libero si confondono in una "nuova congiunzione di senso e potenza" e "contaminazione tra ambiti di vita" [Anastasia et al. 96: 13]. La vita delle persone si fa unitaria.

Affari: dal modello meccanico/antagonista e dispotico al modello organico/integrato

La fabbrica fordista è "duale e antagonista" in quanto luogo del confronto-scontro di due entità, il datore di lavoro e i lavoratori, "naturaliter contrapposte perché portatrici di interessi non solo diversi, ma tra loro incompatibili": massimizzare l’appropriazione del lavoro vivo il primo minimizzarne l’erogazione il secondo [Revelli 95: 166]. Un tale presupposto dà luogo ad un modello meccanico, basato sullo scambio e sull’interesse [Revelli 95: 192]. È inoltre "dispotica", strutturata come apparato burocratico-militare in nome della teoria weberiana [Revelli 95: 165, cfr. Reich 93: 49, Landier 87]. Anzi, anche nei rapporti con i soggetti esterni, adotta uno schema interpretativo militaresco (basti pensare alle numerosi citazioni di Von Clausewitz) che, realistico o meno, si impone come schema di comportamento.

La fabbrica postfordista promette di essere diversa. Un modello organico dove "tende a prevalere la logica della reciprocità, dell’appartenenza e delle interdipendenze, del dono, contrapposto al contratto" [Revelli 95: 188-89, 92]. L’approccio comunitarista ribadisce l’immersione dell’impresa e delle persone che ne fanno parte nella comunità: le relazioni al limite olistiche superano i confini della fabbrica. Perciò diventa cruciale l’etica delle virtù: una linea che riconosca questo "incapsulamento", che tratti i membri d’impresa come persone con un’identità unitaria, in un ambiente partecipativo e non conflittuale.

Problemi aperti

Ovviamente interpretare e affrontare una trasformazione economico e sociale tanto radicale come la transizione dal fordismo verso il postfordismo è impegnativo e l’approccio non può che essere problematico. Tanta maggiore prudenza e critica richiede l’accostamento del comunitarismo a questo nuovo ordine. Due problemi infatti si delineano con chiarezza.

L’egemonia aziendale dell’orizzonte di senso.

La crisi del modello precedente farebbe pensare alla liberazione dal dispotismo, da rapporti interni al mondo produttivo necessariamente conflittuali. Per il sindacalista Bruno Trentin il postfordismo rappresenterebbe un "potenziale di apertura, d’innovazione e di emancipazione" [Trentin 94: 17], che d’altra parte suggerisce di spostare l’obbiettivo dell’azione sindacale dalla "vecchia sciocchezza del salario" [sic] alla realizzazione dei lavoratori come persone [Trentin 94: 34], cioè alla sfera dei "bisogni postmaterialistici" [Revelli 95: 100].

Fabbrica monistica ed egemonica

Per Revelli si potrebbe dire che questa appare come una delle promesse illusorie del Duemila (come razionalità, spirito del commercio e democrazia erano le basi su cui l’età moderna promise la pace [Revelli 94: 198-201]). Questa sfiducia deriva dalla sua concezione di fabbrica postfordista "monistica ed egemonica" [Revelli 95: 185], dove l’appartenenza sarebbe da intendersi come identificazione negli obbiettivi d’impresa, presupporrebbe integrazione nella comunità-impresa costitutrice di senso.

L’aspirazione di Trentin non potrebbe perciò essere soddisfatta dalla ristrutturazione del processo materiale del lavoro; anzi, la persona sarebbe "amputata nel proprio orizzonte" essendo l’impresa il suo unico mondo vitale di riferimento [Revelli 95: 191]. La non conflittualità, l’importanza della personalità individuale, della creatività sarebbero in definitiva mera propaganda ideologica (una nuova maschera a voler dirlo con le parole di MacIntyre) mentre il sindacato non potrebbe che negoziare in posizione subalterna (vista la personalizzazione del rapporto di lavoro non riconducibile a normativa) e mentre la parcellizzazione del lavoro continua ad essere elevata nella fabbrica integrata di oggi [Revelli 95: 197].

Distinzione: diversi postfordismi

Si impone una precisazione. Revelli (come molti altri studiosi, d’altra parte) identifica esplicitamente il nuovo modello d’impresa con la fabbrica integrata, il postfordismo con il toyotismo [Revelli 95: 169]. A dare ascolto ad una diversa corrente, il modello giapponese di produzione snella, l’internazionalizzazione dell’economia, il "reticolo globale", l’attenzione per la qualità piuttosto che per la quantità sono aspetti di una sorta di "fordismo della transizione [...] che non è ancora un sistema alternativo" [Anastasia et al. 96: 3]. Il postfordismo sarebbe cioè qualcosa di ben diverso dalla fabbrica integrata, che allora potrebbe anzi essere considerata da questo punto di vista come culmine del taylorismo e della razionalità tecnica che va a massimizzare l’efficienza.

Ciò che forse più vale la pena di evidenziare è l’impostazione di fondo di questi autori per cui i percorsi verso il nuovo paradigma possono essere diversi e dipendono dalla specificità del contesto: in Italia, per esempio, potrebbe avvenire attraverso "la rete diffusa delle cittadinanze e delle appartenenze, le piccole imprese e la società civile" [Anastasia et al. 96: 4-5]. Ci basti insomma di sapere che l’impresa postfordista potrebbe essere piccola (al limite individuale) laddove immersa in una rete (al limite globale), e non mondo separato dalla vita quotidiana ma anzi ivi immerso.

Il comunitarismo è coerente e portatore di indirizzi coerenti con questo schema. Non è un caso che gli sia stata rivolta analoga critica di integralismo. In particolare un’ottica comunitarista applicata all’impresa in quanto comunità (come ipotizzato e largamente convalidato) condurrebbe —si contesta— ad una visione totalitaria, per cui comportamenti e fini degli individui sarebbero plasmati in funzione degli obbiettivi aziendali.

Comunità: concetto fluido

Ma assunzione qualificante di questa ricerca è stata proprio individuare la comunità in senso ampio e fluido come comunità eticamente significativa (su cui cioè sono calibrati i criteri etici), mentre l’impresa è indubbiamente apportatrice di senso, ma non sfera separata dell’agire o peggio totalizzante [v. cap. 3, pag. *, cap. 4, pag. *]. Allora appare chiaro come sia piuttosto il paradigma fordista a condurre a questa situazione poiché cerca di fare del sistema economico fondato sulla razionalità, l’astrazione e la separazione, un momento di aggregazione (a sua volta piegato alla razionalità).

Ci si accorge ora che —per usare le categorie di Jacques Godbout— ci si era a malapena avvicinati al livello della socialità secondaria: quella che "lega statuti e ruoli più o meno definiti istituzionalmente" [Godbout 92: 23]. Il livello quindi, più superficiale, dove circolazione delle merci e circolazione del potere sono gli unici nessi che legano tra loro gli uomini, ma in forma esteriore, astratta, impersonale, appunto. Dunque strumentale: usando l’aggregazione come mezzo, non come fine. E quindi, in qualche modo, parassitandola. Un livello che da solo non è sufficiente a generare società e a sostenerla [Revelli 96: 214-15].

Non omologgazione

Il comandamento kantiano "tratta sempre gli altri come fini, mai come mezzi" è stato negato dalla stessa tradizione moderna che in Kant ha le sue radici [MacIntyre 84a]. L’approccio comunitarista non mira all’omologazione, all’appiattimento delle individualità —come gli viene rinfacciato— ma esalta il ruolo delle persone nella comunità in cui vivono, esalta la personalità delle donne e degli uomini come si forma nel contesto delle pratiche e della tradizione (ecco il nostro concetto fluido di comunità!) in cui sono inseriti e che partecipano a costruire (come nell’idea di ricerca medievale) [v. cap. 2, pag. *].

Ora questa sfera —che con Godbout potremmo chiamare della domesticità— umiliata, compressa, assottigliata fino all’estremo nella lunga fuga fordista, lavorata ai fianchi, svuotata di compiti e funzioni, decostruita nel gran fiume della standardizzazione che considera la personalità un ostacolo alla formalizzazione e la concretezza soggettiva dei rapporti un vincolo all’uniformazione delle procedure, si prende la propria rivincita [Revelli 96: 215].

Il futuro incerto della comunità.

Astrazion prodotta dalla globalizzazione

Il fordismo esalta al suo apice astrazione e separazione che sono il leit motiv della modernità. La globalizzazione, nella versione di Pietro Barcellona, come momento di transizione più che approdo compiuto del nuovo paradigma, avrebbe questa connotazione di astrazione, maturata su tre basi: le tecnologie dell’informazione consentono la comunicazione remota senza condividere il medesimo luogo; il contesto dove avviene la produzione non è lo stesso luogo dove avviene il consumo dei prodotti; il capitale si può liberamente e facilmente spostare verso il luogo più conveniente ovunque nel pianeta. L’astrazione si fa totale quando il criterio unico o dominante di giudizio diventa il denaro, separato da ogni contesto morale.

Radicamento alla comunità

Il comunitarismo si muove in reazione a questo motivo: ripudia il valore materiale come unica misura [v. cap. 3, pag. *, cap. 4, pag. *], rivendica una comunanza di valori, una interpretazione condivisa. Lo fa appellandosi al radicamento nella comunità [v. cap. 2, *], unica vera fonte produttrice di senso e di morale, cui va ricondotto il proprio agire qualunque sia il ruolo che si riveste: il lavoratore non può smettere il suo abito sociale dentro l’impresa, così l’imprenditore non può contravvenire alla morale comunitaria (che certamente pretende onestà, solidarietà, correttezza) [v. cap. 4, pag. *].

I comunitaristi non si schierano in senso solo normativo (principale campo di studio di questa ricerca); insistono che almeno tracce di comunità resistono nella società contemporanea (la famiglia, il vicinato, il quartiere, la parrocchia, le comunità etniche nelle grandi città, eccetera), persino in quella individualista americana [v. cap. 2, pag. *].

Astrazione prodotta dalla tecnologia

Ma al motivo ideologico della modernità si è recentemente sovrapposta la possibilità offerta dalla tecnologia di una sempre maggiore astrazione. È vero che la tecnologia dell’informazione consente di lavorare a distanza, al limite a casa propria, tra la propria famiglia, nella propria città [Etzioni 93a: 121], ma così mina la qualificazione comunitaria dell’impresa, e il ruolo dell’impresa e dei suoi membri dentro una comune comunità di riferimento. È anche vero che la tecnologia della produzione permette una maggiore varietà e variabilità tendente ad offrire un prodotto specifico per i diversi contesti, ma ciò non toglie la distanza produzione-consumo, lavoro-vita.

In altre parole, la tecnologia da una parte favorisce legami più stretti tra soggetti remoti, consente la costituzione di gruppi policentrici, rende sempre più concrete nuove ipotesi di comunità non residenziali; dall’altra rischia di disumanizzare le relazioni intersoggettive, depotenzia il "sociale-storico" [Bonomi 96: 24], separa lo spazio dal luogo, si verifica ciò che Giddens chiama disembedding, estrapolazione dei rapporti sociali dai contesti locali di interazione [Giddens 90].

Quale comunità possibile?

Gli interrogativi che diventano perciò impellenti sono: quale comunità è possibile nella società postfordista? Quale connotazione assumerà la globalizzazione? Se perdurerà nel promuovere astrazione, è immaginabile una comunità priva di radicamento territoriale, che cioè condivida uno spazio comune?

Dallo spazio di luoghi allo spazio di flussi (Castell-Henderon)

Caratteristica del postfordismo, o almeno dell’ultimo scorcio del sistema precedente, sarebbe la perdita della necessità di condivisione del luogo fisico e sociale dove si svolge l’economia. Revelli propone due categorie analoghe che spiegano questo passaggio. Per la prima [Castell-Henderson 87], dallo "spazio di luoghi" (spaces of places), "spazio definito in cui una serie di processi costitutivi (produzione, decisione, identità collettiva) coincidono nel medesimo luogo", si passa allo "spazio di flussi" (spaces of flows), "dove le dinamiche proprie di un determinato territorio dipendono principalmente dalle connessioni della popolazione e delle attività di quel territorio con le attività e le decisioni che vanno ben al di là dei suoi confini" [Revelli 95: 206], decretando la crisi dello stato-nazione [Revelli 95: 212-16, cfr. Ohmae 95].

Dal territoire al reseau (Levy)

Per la seconda [Lévy 94] al concetto di territoire, dimensione spaziale dell’identità, subentra quello di réseau, dimensione degli scambi astratti, simbolici, immateriali.

Forse, per la prima volta nella storia dell’umanità, la forza soft, impersonale e impalpabile del réseau —del reticolo entro cui si organizza l’economia postindustriale— tende a prevalere su quella tellurica, materiale e fisica del territoire. Il network sul pays. La comunicazione sul controllo [Revelli 95: 208].

È dunque questa la comunità postfordista? È ben vero che questo discorso si limita al luogo dell’economia, ma l’impresa è indubbiamente una comunità determinante , e ovviamente parte di quella più ampia in cui viviamo, senza contare che altri tipi di rapporti seguono tendenze analoghe. In altre parole quand’anche dessimo per scontata la sopravvivenza di altre forme di aggregazione, per quanto domestiche, come i parenti, le associazioni, potrebbe un ambito così esteso ed importante come l’economia star fuori dalle logiche comunitarie?

Dal momento che abbiamo scelto di focalizzare la nostra attenzione sull’individuo in quanto coinvolto nel mondo degli affari, trattenendoci dal riservare all’impresa in quanto tale la natura di agente morale [v. cap. 3, pag. *], il problema non è trovare la comunità per l’impresa; è forse possibile immaginare che i membri della stessa impresa provengano da "comunità" diverse. L’idea di comunità di riferimento di ciascuno come risultato dell’appartenenza ad una rete di comunità è compatibile con il comunitarismo così come è stato qui presentato. Ma l’attività lavorativa delle diverse persone non potrà comunque sottrarsi alle virtù delle comunità cui appartengono.

Insomma, l’individuazione di: "quale comunità?" è il momento problematico tanto per la praticabilità del comunitarismo nel mondo di qui a venire, tanto per il postfordismo di per sé.

Comunità: definizione debole e vaga

La definizione di comunità (di ispirazione macintyriana) in termini di pratiche e tradizione cui appartiene la persona che è stata proposta [v. cap. 2, pag. *] è volutamente "debole" (nel senso di fluida, aperta) e forse vaga (come peraltro lo è, più o meno coscientemente, nella grande maggioranza della letteratura in proposito).

La vaghezza deliberata sulla nozione di comunità in questa ricerca si deve all’intenzione di fare un discorso metafisico, filosofico non sociologico. Inoltre, assieme alla presentazione del comunitarismo non come scuola o insieme di autori ma come lineamenti caratterizzanti, consente una maggiore versatilità nell’applicazione alla situazione specifica.

"Situazione specifica" va intesa innanzitutto in termini di stadio evolutivo. Infatti come il passaggio dal paradigma fordista ad uno nuovo non si è compiuto e ci troviamo in una fase di transizione, così è possibile un’applicazione parziale, progressiva del corpus filosofico comunitarista, eventualmente commisto a elementi liberali [v. cap. 1, pag. *].

La situazione può inoltre essere specifica in termini locali. Diversi contesti suggeriscono un diverso grado di fedeltà alle idee comunitariste (non per niente la virtù chiave è la phronesis o ragion pratica, cioè la capacità di applicare la teoria al caso specifico [v. cap. 2, pag. *, cap. 4, pag. *]), e forse ha senso legittimare quella via intermedia tra l’alternativa esclusiva liberalismo-comunitarismo che trova in Amitai Etzioni un autorevole sostenitore [v. cap. 1, pag. *].

Diversa portata comunitarismo a seconda della definizione di comunità

A seconda del modo di individuare la comunità, cambia la portata della filosofia comunitarista fino a suggerire effetti dirompenti. Un esempio è stato offerto [v. cap. 3, pag. *] nell’illustrare per approssimazioni successive l’orizzonte etico e sociale ultimo cui riferirsi nell’etica degli affari (che peraltro costituisce un paletto ben preciso piantato a delimitare questa "vaghezza").

Nazione?

Su una strada più ampia si potrebbe tentare di immaginare orizzonti comunitari diversi. Consideriamo la nazione o la patria come comunità at large di riferimento: il comunitarismo, che peraltro dal patriottismo (motivo morale e passionale) prende spunto [cfr. MacIntyre 84b, Taylor 79], può diventare il supporto ideologico a favore di rivendicazioni indipendentiste (Charles Taylor per esempio esprime la questione del Quebec in chiave comunitarista).

Comunità non residenziali?

Oppure prendiamo quelle comunità non residenziali che non condividono uno spazio fisico ma si raccolgono attorno a valori forti come la religione per cui sembra valere senza incertezze la filosofia comunitarista, fino però a profilare una giustificazione dell’integralismo, della violenza in nome dell’appartenenza e della distinzione e difesa dall’altro, che è un’altra delle critiche che le sono state storicamente rivolte.

Umanità?

Non è invece possibile considerare l’intera umanità come comunità di riferimento, perché viene a mancare la specificità del contesto, presupposto dell’etica comunitarista. Verrebbe da dire, a rischio di tautologia, che in generale non può essere orizzonte etico una comunità che non sia effettivamente fondante del senso e del comportamento.

Resta cioè problematica non solo la praticabilità del comunitarismo rispetto a forme di aggregazione basate sullo scambio o sulla comunanza di interessi, ma anche la loro capacità di conferire significato e personalità alle persone.

Coesistenza tra comunità

In ultima istanza resta problematica la coesistenza pacifica tra le comunità, e se effettivamente identità comunitaria e sistema economico confliggano o come possano coesistere. Rispetto a quest’ultimo dilemma Revelli interpreta in senso pessimistico quel passaggio al réseau che ritiene proprio del postfordismo: l’ambito della circolazione delle merci sostituirebbe la produzione d’identità [Revelli 95: 208] mentre la comunità continua a seguire una logica specificatamente locale: "anzi, quanto più l’economia si globalizza, tanto più essa si localizza" [Revelli 95: 207].

Ma anche i rapporti tra comunità sono un dilemma (che qui non è stato discusso se non marginalmente) di immenso interesse oltre che di toccante attualità. L’affermazione dei valori e della concezione del bene di una comunità può configurarsi come esclusione del diverso o violenza sugli antagonisti.

In fondo proprio sulla debolezza di una razionalità meno che sostantiva, unitaria, stabile si basava la rivendicazione della ragione come categoria universale (assorbita nella modernità contestata dal comunitarismo) a presidio della "pace perpetua", promessa andata visibilmente delusa [cfr. Revelli 96: 197-201].

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Risorse elettroniche

Il pensiero comunitarista è recente e in costante evoluzione. Perciò può essere utile sfruttare le fonti di informazione più rapidamente aggiornate, quelle elettroniche disponibili su internet.

Vengono citati solo i servizi di una certa serietà, per completezza e autorevolezza del gestore, e solidi, cioè con un basso rischio di rimozione o riallocazione (ciò nonostante l’indirizzo può essere modificato nel tempo).

 

Center for Civic Networking. Organizzazione a difesa dei valori civili, il comunitarismo giace sullo sfondo ma contiene i principali testi di Etzioni e gestisce la lista di discussione Communitarian Listserv. [http://www.civic.net:2401]

Centre for Citizenship Development. Presso il politecnico di Cambridge, dal 1993. Contiene il UK Communitarian Forum, rete aperta di discussione pratica e teorica. [http://www.anglia.ac.uk/hae/citizen/comm.htm]

Civic Practices Network. Altro sito di stampo operativo, con una succinta proposta di riferimenti bibliografici. [http://cpn.journalism.wisc.edu/cpn/]

Communitarianism Open Site. Documenti, collegamenti, bibliografia sia sui Communitarians sia sul comunitarismo filosofico. [http://vega.unive.it/~joyce/cos/]

Communities Online Forum. Discussione intorno al ruolo della comunità nella società dell’informazione. Con approccio pratico e teorico (contiene il testo di Greg Smith [Smith 96]). [http://www.webserve.bt.com/communities/]

Institute for the Study of Civic Values. Promozione del senso civico e delle comunità intermedie, presieduto da Ed Schwartz. [http://libertynet.org/~edcivic/iscvhome.html]

PSN on Communitarianism. Lista di discussione con vasto archivio sugli aspetti teorico-politici del comunitarismo. [http://csf.colorado.edu/mail/psn/communitarianism/]

The Communitarian Network (ufficiale). È il sito ufficiale dei Communitarians, il movimento politico fondato da Amitai Etzioni. Rende disponibili tutte le pubblicazioni, inclusa la piattaforma del movimento e gli indici della rivista ufficiale, The Responsive Community. Comprende la più estesa proposta di indirizzi elettronici correlati. [http://www.gwu.edu/~ccps/]

 

Etica degli affari

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Venezia, novembre 1996

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