Aphra Behn
di Sacha Rosel
"Tutte le donne insieme
dovrebbero cospargere di fiori la tomba di Aphra Behn, (...) perché fu
lei a guadagnare loro il diritto di dar voce alle proprie
opinioni". Quante donne, studiose di letteratura e non, devono
essere rimaste affascinate da queste parole, pronunciate da Virginia
Woolf nel 1929 nel corso di una conferenza sul tema "Le donne e il
romanzo" e poi inserite nel suo famoso "A Room of One’s Own"?
Gli ultimi quaranta anni hanno visto in effetti un crescente interesse
nei confronti dell’opera di Aphra Behn, la prima donna scrittrice
professionista che la storia letteraria inglese abbia conosciuto,
vissuta tra il 1640 e il 1689 durante la Restaurazione, quella fase di
"libertinaggio" e di ritorno alla monarchia che seguì la
dittatura puritana di Cromwell. Seconda tra i suoi contemporanei
soltanto a Dryden quanto a prolificità, Aphra fu una donna in grado di
spaziare dal teatro alla prosa, dalla traduzione dal francese e dal
latino alla poesia, componendo ben diciassette opere teatrali e tredici
opere in prosa tra romanzi e racconti, tra cui Oroonoko, romanzo
breve che fu ristampato spesso nel corso di tutto il diciottesimo
secolo. Eppure, la sua figura e la sua opera hanno dovuto attendere tre
secoli prima che critici e lettori ne riscoprissero il valore e
l’importanza, dopo che i loro predecessori le avevano liquidate come
esempio di letteratura oscena e immorale, innominabile più di qualsiasi
altra perché scritta da una donna.
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Nota: Quest’articolo è apparso, diviso
in due parti, sulla rivista "Leggere Donna" di Luciana Tufani
Editrice, nel corso dell’annata 98-99.
Titoli di Aphra Behn ristampati in Italia
recentemente:
IL GIRAMONDO (con testo a fronte), a
cura di Viola Papetti, Milano, Rizzoli, 1998, L. 14.500
OROONOKO (con testo a fronte), a
cura di Maria Antonietta Saracino, Torino, Einaudi Serie
Bilingue, 1998, L. 22.000.
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Al di là della condanna
generalizzata di molti studiosi sulla letteratura "terrena,
sensuale, demoniaca" (Macaulay) della Restaurazione, c’è
stata infatti una tendenza ancor maggiore a cancellare la
presenza di Aphra Behn dalla storia letteraria perché sentita come
inadatta ad una donna e soprattutto usurpatrice di una posizione
professionale e intellettuale tradizionalmente considerata estranea alla
sfera del femminile. Secondo i suoi detrattori, la colpa maggiore di
Behn fu quella di utilizzare lo stile tipico (e maschile) del suo tempo,
caretterizzato da una franchezza espressiva e da un’esuberanza erotica
accentuate.
L’ultimo
squarcio del nostro secolo ha invece visto una rivalutazione
della scrittura di Aphra e un riconoscimento del suo status
di "major writer". Le sue opere vengono ristampate
di continuo e con successo, e non solo nei paesi anglofoni:
l’Italia ha visto proprio nell’anno 1998 la ristampa di
due tra le sue creazioni più famose, la commedia Il
Giramondo (con testo a fronte), curato per la Rizzoli da
Viola Papetti,( precedentemente La Tartaruga, 1981); e
inoltre il romanzo breve Oroonoko, or the Royal Slave
(schiavo di sangue reale), curato da Maria Antonietta
Saracino per la Serie Bilingue di Einaudi.
In The
Rover (Il Giramondo, 1677), Behn affronta uno dei
temi a lei più cari: la contraddizione donna=prostituta.
L’ideologia del tempo, caratterizzata da un nuovo spirito
libertino che aveva spazzato via le costrizioni
dell’intolleranza puritana, continuava a relegare le donne
ad un ruolo subordinato. La sfera "pubblica", per
quanto permissiva potesse essere in fatto di costumi
sessuali, non apparteneva che al lato maschile del mondo,
libero di vagare da un’avventura all’altra in nome del
dio Desiderio; alle donne invece era concessa unicamente la
sfera "privata" della vita domestica. Chiunque tra
loro decidesse di intraprendere la strada del libertinaggio
doveva accettarne le regole, secondo cui la donna o era
preda vergine da tramutare in puttana o puttana da
trasformare in "cast mistress", ossia in amante
abbandonata. Aphra, dopo una breve parentesi matrimoniale
tra il 1664 con un enigmatico Mr. Behn, commerciante di
origini olandesi, visse da vedova per tutta la vita, sebbene
le siano attribuiti una relazione con John Hoyle, noto
bisessuale dell’epoca, e alcuni amori lesbici (a sostenere
questa tesi é soprattutto Maureen Duffy, autrice della
biografia sull’autrice The Passionate Shepherdess,
London, Cape, 1977). Sebbene nessuno dubitò mai della sua
condizione di vedova, spesso la sua carriera venne
osteggiata, trasformando quella denominazione neutra in
qualcosa di innaturalmente lussurioso e bestiale (famoso é
l’appellativo razzista di "lew’d widow",
vedova libidinosa, con cui un anonimo a lei contemporaneo la
descrisse). Naturalmente, ciò che i suoi detrattori
consideravano veramente "innaturale" era
l’assenza di un uomo "fisso" nella sua vita di
donna (e quindi di proprietà per legge affidata al
maschio) e, viceversa, la presenza in lei di disturbanti
appropriazioni di un codice di condotta proibito, perché di
esclusivo appannaggio maschile. Ancora oggi, laddove un uomo
sessualmente attivo é considerato positivamente, una donna
altrettanto attiva non può che essere una
"puttana". Ma per i suoi nemici Aphra non era una
puttana qualsiasi. Era una scrittrice, una
donna-che-pubblica; in altre parole, una donna pubblica,
esposta come merce sessuale agli occhi di tutti.
The
Rover é una delle opere in cui Aphra pose in dubbio
l’equazione donna=puttana. La commedia é una continua
messa in scena di ciò che Papetti chiama "desideri di
situazione" scatenati dal giramondo del titolo, e che
trasformano anche gli avvenimenti più crudeli e violenti
(tentativi di incesto e stupro) in episodi da fiera o
scherzi da carnevale, festività durante la quale l’opera
é ambientata. Ai nostri occhi contemporanei un approccio
così spensierato nell’affrontare un tema serissimo come
quello della violenza sessuale appare senza dubbio
sgradevole e di cattivo gusto; non bisogna però dimenticare
che, per la donna che per prima osò varcare la soglia della
letteratura professionista, non doveva esser facile venire a
patti con il proprio sesso, contrastante con la
"casta" maschile a cui aveva deciso di appartenere
e per le cui convenzioni (in grado di portarle denaro e
fama) era evidentemente disposta a rinunciare a una parte di
sé. Questo però non le impedì di contestare i canoni del
femminile imposti dall’epoca, attraverso le eroine da lei
create.
Da un
lato c’é Hellena, la vergine destinata al convento e
ignara del mondo, che decide di salire sulla
"giostra" dell’amore usando le stesse armi del
maschio: il discorso arguto e la curiosità instancabile;
attuando inoltre il cross-dressing (ossia il travestimento
maschile) riesce a valicare i confini del proprio sesso e a
ottenere la libertà solitamente riservata all’uomo. La
vergine acquista dunque una sua indipendenza legandosi
all’amato senza ingabbiarsi nella morsa asfissiante del
matrimonio, che la abbandonerebbe per sempre al
marito-tutore e proprietario. Lo status di donna
indipendente diventa l’arma per sconfiggere la legge della
castità e per annullare il confine tra esperienza e
desiderio di esperienza.
Angellica
Bianca é invece la prostituta-merce che si rivela essere
l’unico personaggio che conosce la purezza, la sofferenza
e l’amore. Mentre gli altri sono invischiati nel gioco
dei sentimenti e della spensieratezza, Angellica diventa
passione non appena incontra il libertino Willmore. A lei,
creatura candida come suggerito dal doppio nome, sono
affidate le poche parole drammatiche della commedia, che
adombrano una verità ulteriore dietro il carnevale
dell’amore. E’ lei che rischia di far scivolare tutto in
tragedia e a richiamarci all’amarezza della realtà.
Simbolo della disperazione e del dilemma provati di fronte
alla vanità senza cuore della vita e delle persone,
Angellica é inoltre segno di una protesta, quasi un urlo
contro chi vuole condannarla al comodo ruolo di puttana, un
gemito strozzato in gola, come lo sarà il colpo che non
partirà mai dalla sua pistola per uccidere Willmore. Ma,
nonostante la sconfitta in amore, la sua figura é negazione
palese dell’happy ending convenzionale all’insegna dei
matrimoni. Un segno, Angellica Bianca, che
nasconde la firma e l’identità della nostra Aphra Behn,
donna pubblica spinta a lottare per difendere la sua
posizione leggittima di scrittrice. Attraverso Angellica,
puttana dal cuore puro, Aphra gettò la sua sfida,
continuando a scrivere per non lasciarsi ingabbiare.
In molte
sue opere, Behn mostrò un interesse verso le figure
cosiddette "emarginate": non solo la prostituta in
The Rover, ma anche i neri e gli schiavi, come ad
esempio in Oroonoko (1688); in quest’opera in
particolare l’autrice affronta il tema del rapporto tra
emarginazione del sé e alterità.
Molte/i
studiose/i si sono spesso soffermate/i sulle analogie tra il
personaggio del titolo, un principe africano deportato come
schiavo nel Nuovo Mondo, e la narratrice, identificatasi con
la persona autoriale "Aphra Behn" (di cui ci
fornisce tra l’altro molte informazioni biografiche).
Entrambi outsider, si ritrovano in una posizione anomala
rispetto alle categorie di "status" e
"autorità", lui in quanto principe e schiavo, lei
come parte delle classe bianca schiavista e nello stesso
tempo come donna. In realtà è il terzo elemento della
storia, ossia la bella Imoinda, sposa di Oroonoko, a
costituire il vero perno della vicenda. Nonostante la
tendenza dominante sia quella di ignorare tale figura,
liquidandola come moglie passiva e deliberatamente votata al
martirio (infatti verrà "sacrificata" dal marito
in nome dell’onore), Imoinda è il corpo attraverso il
quale il sé di Oroonoko e quello della narratrice (e
l’autrice dietro di lei) riescono a costituirsi. In altre
parole, la sua funzione sarebbe quella di cancellare, nello
smembramento della sua alterità, il senso di alienazione
sperimentato dagli altri due personaggi. Imoinda è figura
dell’alterità perché non solo moglie passiva ma anche,
agli occhi di Oroonoko, dominatrice sensuale del suo cuore -
di fronte alla legge (maschile) dell’onore a cui egli deve
e vuole obbedire - e amazzone in grado di colpire il simbolo
dello schiavismo, il vice governatore Byam (che però non
morirà). Secondo un’antica convenzione, l’uomo è
azione, la donna è parola; per chi viola tale norma non
c’è altro premio che la morte. Imoinda sarà eliminata
perché simbolo di una forza "distruttiva" e
"innaturale" (perché femminile) che crea degli
squilibri nel codice mentale dell’eroe, unico e legittimo
possessore del diritto alla forza.
Agli
occhi della narratrice, Imoinda è invece alterità in
quanto mera presenza femminile intesa come rivale a cui
strappare il maschio-oggetto del desiderio, ma soprattutto
in quanto lei stessa oggetto, opera d’arte e d’incisione
che porta sul proprio corpo dei tatuaggi, segni visibili di
artificiosità e barbarie (come evidentemente intesi a quel
tempo) che la trasformano in giocattolo, in bambola.
Incarnato nella figura di Imoinda si ripresenta dunque per
Aphra Behn il problema del sé femminile equiparato ad un
oggetto ed esposto agli occhi di chiunque. Se con Angellica
l’autrice poteva cercare di contestare l’equazione
donna-scrittrice = puttana purificando il suo personaggio,
ora, ad un anno dalla morte (che avverrà nel 1689), Behn
necessita di un rituale estremo per imporre la propria
statura di scrittrice e la propria fama di fronte al mondo.
Consegnando la propria, presunta, alterità di donna
all’altro personaggio femminile (Imoinda è oggetto
passivo e tatuato ma anche amazzone e moglie incinta, di
fronte al sesso negato della narratrice) e consumandole
l’energia "distruttrice", Aphra costruisce il
suo sé integro, nato dalle macerie del corpo di un’altra
donna. Attraverso lo smembramento di Imoinda, Behn ha voluto
trasmetterci tutta l’ansia di creatività e di
legittimazione del proprio sé autoriale. Non a caso il
romanzo si chiude con la parola "Imoinda": in
anticipo su tante autrici dell’Ottocento, Aphra ha voluto
dolorosamente dirci che, purtroppo molto spesso, la
creazione artistica femminile coincide o si avvicina alla
distruzione del corpo femminile.
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