Donne che scrivono

Grazia Deledda

Nasce a Nuoro in Sardegna nel 1871. Frequenta le scuole elementari a Nuoro e poi continua la sua educazione con un insegnante privato e con la lettura di romanzi d'appendice e della narrativa tardo romantica.
Nel 1900 sposa Palmiro Madesani, romano, si trasferisce prima a Cagliari ed in seguito a Roma.
Nel 1892 pubblica il suo primo romanzo: Fior di Sardegna.
Nel 1926 le viene attribuito il premio nobel per la letteratura.
Muore nel 1936 a Roma.

Elias Portolu

Si racconta del contrasto tra due fratelli divisi dall'amore per la stessa donna. Elias riesce a liberarsi di questo amore solo diventando prete.
"Una cosa è il sogno, un'altra è la realtà, Elias Portolu. Io non ti sconsiglio se tu hai la vocazione, ma ti dico che neppure ciò ti salverà. Uomini siamo, Elias, uomini fragili come canne; pensaci bene."

Novelle di Grazia Deledda

L'assassino degli alberi

La leggenda di aprile

 

 

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Bibliografia

Nell'azzurro    1890
Stella d'oriente   1891
Amore regale   1892
Fior di Sardegna   1892
Racconti sardi   1894
Anime oneste   1895
Le tentazioni   1895
Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna   1895
La via del male   1896
Il tesoro   1897
L'ospite   1898
La giustizia   1899
Il vecchio della montagna   1900
La regina delle tenebre   1901
Dopo il divorzio   1902
Elias Portolu   1903
Cenere   1904
I giuochi della vita   1905
Nostalgie   1906
L'edera   1906
Amori moderni   1907
L'ombra del passato   1907
Il nonno   1908
Il nostro padrone   1910
Sino al confine   1910
Nel deserto   1911
Chiaroscuro   1912
Colombi e sparvieri   1912
Canne al vento   1913
Le colpe altrui   1914
Marianna Sirca   1915
Il fanciullo nascosto   1916
L'incendio nell'oliveto   1918
Il ritorno del figlio - La bambina rubata   1919
La madre   1920
Cattive compagnie   1921
Il segreto dell'uomo solitario   1921
Il dio dei viventi   1922
Il flauto nel bosco   1923
La danza della collina   1924
A sinistra   1924
La fuga in Egitto   1925
Il sigillo d'amore   1926
Annalena Bilsini   1927
Il vecchio e i fanciulli   1928
Il dono di Natale   1930
La casa del poeta   1930
Il paese del vento   1931
La vigna sul mare   1932
Sole d'estate   1933
L'argine   1934
La chiesa della solitudine   1936
Cosima   1937
Il cedro del Libano   1939

L'assassino degli alberi

Vivevano una volta ad Orune, fierissimo villaggio sardo posto su un'alta montagna, e famoso per le sue inimicizie, due amici, uno povero e l'altro benestante.
Il povero si chiamava Martinu Selix, soprannominato Archibusata (Archibugiata), forse perché usava moltissimo questa parola come intercalare. Del resto non pareva d'istinti feroci, e l'archibugio egli non poteva usarlo, perché era tanto povero da non potersene procurare uno col relativo porto d'arma. Faceva il contadino, seminava molto grano, era giovine, forte, di colorito acceso, con nerissimi occhi torvi e sospettosi.
Sarvatore Jacobbe, il benestante, era invece una specie di piccolo possidente, vestito in costume, ma con giacca di velluto. Aveva tratti signorili, e quando viaggiava portava la polveriera attaccata a un grosso cordone di seta nera. Possedeva bestiame, cavalli, cani, due servi, un gran tratto di terreno piantato a vecchi ulivi ed olivastri; aveva una bella sorella e molta presunzione.  Tutti dicevano:  - Martinu Selix si crede qualche cosa perché va in compagnia di Sarvatore Jacobbe. Si crede forse che gli dà la sorella per isposa!
Ma Archibusata non ci pensava neppure. Faceva dei servizi delicati all'amico; qualche volta, quando questo era a Nuoro, per affari, o si trovava occupatissimo per le elezioni, Martinu andava all'ovile, guardava se il servo pastore faceva il suo dovere, se le cose andavano bene, e infine rendeva cento altri piccoli servigi.
Egli non ne provava alcuna umiliazione, sebbene la bella Paska lo riguardasse quasi come un servo, e lo mettesse spesso in caricatura.
Le donne d'Orune sono belle, superbe, strane, argute, dotate di selvaggia intelligenza. Parlano in modo meraviglioso, un linguaggio caldo, arguto, pieno di immagini fantasiose; fingono entusiasmo, ira, meraviglia per molte cose; hanno camicie ricamate, corsetti gialli, occhi profondi e bui come la notte. Ballano volentieri, siedono per terra all'orientale, e implorano terribilmente vendetta dal cielo contro le terrene offese.  Il padre di Paska e di Sarvatore, per esempio, era morto in reclusione, condannato, Dio ci liberi, per omicidio. I figliuoli naturalmente dicevano ch'egli era innocente, e ogni anno Paska, per il funereo anniversario rinnovava la ria, piangendo, strappandosi la cuffia, cantando funebri versi estemporanei: inoltre mandava uno scudo a Nostra Signora di Valverde perch'Ella castigasse tremendamente coloro che testimoniando il falso avevano fatto condannare il defunto.
Paska era ambiziosa e presuntuosa quanto il fratello. Da bambina, secondo il costume del paese, era stata fidanzata ad un uomo tanto ricco quanto maturo. Venuto però in bassa fortuna il fidanzato, la maliziosa bimba non aveva più voluto sentir parlare di matrimonio. Ora chi sa ciò che ella sognava, quando seduta sui calcagni, sul lucido pavimento della chiesa, agitava lievemente le labbra di melograno, con gli occhioni smarriti in alto, tra i rozzi affreschi della volta.
Era alta e flessuosa, con un rigido profilo bronzino. Sembrava una madonna di bronzo. Gli uomini anche i più benestanti temevano farle la corte: figuriamoci quindi se Martinu Selix osasse neppure guardarla in viso. Egli non lo diceva, ma le era anzi antipatica.
Come tutte le donne benestanti di Orune, paese dedito alla pastorizia, Paska sapeva fare a perfezione i formaggelli, il burro, sas tabeddas, le treccie e tante altre cose che si plasmano col formaggio di vacca passato al fuoco. Ora, un giorno Martinu la trovò seduta per terra, accanto al focolare, facendo formaggelli.
Per un po' stette a guardarla freddamente, tossendo e raschiando con famigliarità; poi, non sapendo cosa altro dire, si provò a criticarla sul modo con cui ella terminava i formaggelli, indugiandosi cioè a intagliare o un pulcino o una lepre nella loro estremità.
- E via, date un colpo così e così, e lasciate di perder tempo a far quelle minchionerie, ché tanto tutto vien masticato! - egli disse.
Ella arrossì e rispose superbamente: - Cosa ve ne intendete voi? Già! Dalla esperienza fatta sul vostro formaggio!
Allora toccò a Martinu arrossire. Con quelle parole Paska gli buttava in faccia la sua povertà.  - Archibugiata! - gridò fra sé. - Se un'altra volta mi parla così la prendo a schiaffi, com'è vero Cristo!
E se ne andò offeso e mortificato.

Ora avvenne che Sarvatore pensò d'innestare tutti gli ulivastri e i vecchi ulivi del suo incolto chiuso.
Voleva farne un bel podere. Era nella vallata dell'Isalle, vicino a questo fiume, un luogo ubertosissimo e bello quanto mai.
Sarvatore fece le cose nel modo splendido con cui i possidenti del Nuorese usano far l'innestatura. Invitò cioè tutti i suoi amici contadini e gli uomini più capaci d'innestare. Tutti prestano gratis l'opera loro, ma in ricambio godono una bellissima giornata, piena di canti e di pasti abbondanti: più che giorno di fatica può dirsi una festa bucolica, nel doppio senso della parola. Anche i pastoriprendono parte alla cerimonia; e un poeta latino, - dato n'esistesse ancor uno, - potrebbe trarre una amenissima egloga da questa festa.
Nel giorno convenuto gli amici di Sarvatore Jacobbe vennero tutti al chiuso, a cavallo, con donne in groppa. E vennero i pastori del padrone, con pecore ancor vive stupidamente legate alla sella, e formaggio fresco entro le bisaccie.
In breve i fuochi furono accesi sotto i vecchi ulivi grigi e il fumo salì in gloriose colonne su per l'aria profondamente azzurra.
Maggio rideva nella valle: i cavalli frangevano con le loro corse le altissime erbe, i grani ondulavano argentei in lontananza, gli oleandri curvavano sulle acque verdi del fiume i ciuffi dei loro bottoni di cupo corallo. E calde fragranze passavano con la brezza.
I pastori facevano un po' di tutto. Aprirono qualche alveare, traendone il miele caldo e giallo come oro liquefatto: scannarono le pecore, le scuoiarono, tirandone giù la pelle che si separava azzurrognola dal corpo roseo ed ignudo delle bestie; cucinarono i sanguinacci fra la cenere ardente, e arrostirono le carni su lunghi spiedi di legno, scherzando e ridendo con le donne che li aiutavano.
Paska era naturalmente la regina della festa. Le altre donne, che le stavano intorno come ancelle, non le lasciavano far nulla; ma ella presiedeva, con l'alta persona bizantina che ogni tanto fremeva come gli esili giunchi del fiume.
E un po' sparsi da per tutto, i contadini segavano attenti, quasi con religione, i contorti ulivastri ed i vecchi olivi. Pietro Maria Pinnedda, il famoso innestatore, andava da un gruppo all'altro, guardando coi suoi grandi occhi grigi e maligni. Il suo volto era acceso; un principio di barba gialla gli dorava le guancie.
Infilzata la marza sul tronco reciso, giallo e fresco, lo si attorcigliava strettamente con un tralcio di vincastro; poi lo si ricopriva di terriccio impastato, sul quale il fiero dito di Pietro  Maria, dopo aver ben palpato e premuto intorno alla marza, segnava una croce, augurio e preghiera di buona riuscita.
Alla marza infine s'infilava un piccolo triangolo di foglia di fico d'India, fresco cappuccio contro gl'incipienti e fecondi ardori del sole. Così d'albero in albero, le chiome selvaggie degli ulivastri rotolavano sulle alte erbe fiorite, e gl'innestatori parlavano di banditi, di negozî, d'alberi, di donne e di storie passate. Salivano le alte voci sonore, qualche canto bizzarro, che sembrava il grido selvaggio di un'anima che piangeva cantando, svaniva lontano, fra gli alberi, sotto i quali l'erba serbava una larga ruota di frescura più intensa; svaniva nei silenzi della valle, nel fiume, al di là del fiume. E le zucche arabescate, colme di vino rosso, circolavano, riscaldando vieppiù il sangue di quei fieri uomini dai denti splendidissimi, dalle vesti aspre e scure.
Martinu Selix prestava a tutti aiuto: rideva mostrando tutti i suoi denti stretti, sembrava felice: pareva il sopraintendente di Sarvatore, il quale non faceva nulla, con le mani incrociate sulla schiena e il volto sorridente.
Qualcuno degli invitati restava urtato dai modi troppo padronali del Selix: specialmente Pretu-Maria Pinnedda lo fissava spesso con uno sguardo metallico e iroso.
Il giovinotto rosso dai grandi occhi grigi e maligni era innamorato di Paska, e provava gelosia dell'amicizia che Sarvatore concedeva al Selix. L'aria di padronanza presa in quel giorno da Martinu lo urtava più che mai, e per urtare Pretu-Maria bastava un soffio d'aria. Già due volte s'eran dette parole aspre, causa il modo di stringer il vincastro. Martinu diceva: - Non occorre stringerlo molto.
E l'altro asseriva il contrario.
Parlando di Paska, un momento che Sarvatore era lontano, uno disse scherzando, non senza ironia: - La mariteremo a Martinu Selix.
- Archibugiata! - egli rispose con un fiero lampo negli occhi. - Ti pare una cosa impossibile?
- Archibugiata - disse l'altro. - Tutto è possibile in questo mondo.

Martinu scrollò le spalle come per dire: - Se volessi!
Pretu-Maria arrossì di collera, ma non disse nulla perché l'argomento gli cuoceva troppo, e capiva che parlavano così in sua presenza per farlo stizzire.
- Se voi siete furbi come l'aquila, io lo sono come la volpe! - pensò.
Ma un momento prima del pranzo, non sapendo come meglio rinnovar a Paska le sue dichiarazioni, le disse con finta amarezza: - Ora so perché non mi volete.
- Perché, avoltoio senza barba? - chiese ella, degnandosi di guardarlo.
- Perché avete idea di pigliarvi Martinu Selix.
Ella gettò un acuto grido, uno di quei caratteristici gridi che solo le donne d'Orune sanno fare.
- Chi ve l'ha detto?
- Lui stesso.
- Menzogna.
- Che mi sparino se non è vero!
E ripeté il dialogo, aggiungendovi qualche cosa di suo.
Paska si fé buia in volto, e fu per strapparsi la cuffia in segno di umiliazione e di dispetto.
Soddisfatto discretamente, Pretu-Maria la pregò di tacere, di non far scandalo; ma ella, irritata sul serio, prese a dileggiare apertamente Martinu anche durante il pranzo.
Seduti in circolo, per terra, i convitati mangiavano su taglieri di legno e su pezzi di sughero: per posata portavano i coltelli affilati e niente altro. Più che il vino, il miele, raffreddatosi ma non del tutto, condiva il pranzo, in esso immergevano le bianche fette del formaggio fresco, il formaggello arrostito, le lattughe, il pane e persino la carne. Molti lo mangiavano senz'altro, succhiandone tutta la dolcezza e sputando lontano la cera masticata.
Allegri discorsi guizzavano da un capo all'altro; risate sonore vibravano nel rezzo dei vecchi ulivi. A nord e ad oriente le montagne azzurre sfumavano nel dilagare azzurro del fulgido meriggio.
A un tratto tutta l'allegria cessò: una maligna nuvola passò sul lieto convito. Paska diceva, rivolta a Martinu: - Lo vedete il conte d'Artea, che vuole una dama per moglie!
Peccato che ad Orune non ce ne sia!
Martinu, che finora aveva risposto con calma agli scherzi salati di Paska, finì con l'irritarsi, tanto più che il vino lo rendeva più ardente e sospettoso del solito.
- Lasciami in pace, Paska, che io non ti sto cercando. Lo so bene che sono un mendicante, ma una donna migliore di te posso ben trovarla.
- Eh, sicuro! Nostra Signora di Valverde ci aiuti! Donne come me tu non ne vuoi. Le vuoi... come te stesso...
- E chi sei tu? Perché hai due soldi da spenderti? Archibugiata!
Ma sta attenta: il mondo è una scala. Chissà che i figli miei non possano far l'elemosina ai tuoi!
Paska diventò rossa come lo scarlatto che orlava la sua gonnella.
Disse: - Per ora posso farla io a te!
Martinu sbatté a terra, violentemente, una piccola tazza di latta piena di vino, che teneva fra le mani, e gridò un insulto contro la fanciulla.
- Martinu! - urlò Sarvatore.
- Non m'importa nulla di te! E di nessuno m'importa! - gridò
Martinu, con gli occhi verdi per l'ira. - Siete tanti cani rognosi!
Non dipendo da te, Sarvatore Jacobbe, e forse tu dipendi più da me, che io da te. Non ti devo nulla! Non ti devo né pane né grano né denaro; e tua sorella può far a meno di rinfacciarmi la mia povertà. Povertà non è viltà, Sarvatore Jacobbe, povertà non è viltà. Ma se credi che la mia amicizia possa farti disonore, posso ben...
- Tu sei ubbriaco.
- Ubbriaco sei tu.
- Rognoso!
- Rognoso sei tu.
Basta; ne nacque una disputa fierissima, e per poco macchie di sangue non s'unirono alle chiazze del vino che profanavano l'erba.
I due amici si rinfacciarono cose fino allora ignorate dagli astanti; e le loro fronti arsero di rossore, non si sa se più per la collera o per la vergogna.
Le donne strillavano. Bianca per terrore, Paska si pentiva delle sue parole, e con modi insinuanti cercava smorzare il fuoco da lei acceso. E il fuoco fu spento; gli amici parvero anzi riconciliarsi, e Martinu, che voleva andarsene, rattenuto a viva forza, rimase; ma non alzò più i suoi torvi occhi sul volto di Sarvatore; e questo se ne stette in un canto, sinceramente mortificato per lo scandalo dato.
Si riprese a innestare. Pretu-Maria aveva l'aria d'un uomo vittorioso; ma anche Martinu rideva di tanto in tanto, forzatamente, a misura che i tronchi innestati venivano marcati col segno della croce.

Due giorni dopo Martinu Selix partì per la festa di San Francesco di Lula. Partì sul far della sera, a piedi, a testa nuda: così era il suo voto. La notte lo colse in viaggio: allora il pellegrino cambiò direzione e invece di proseguire verso San Francesco, scese verso l'Isalle e s'appostò fra gli oleandri. A notte alta, mentre la sacra rugiada del cielo pioveva sulla dormiente natura, e l'acqua del fiume rabbrividente rifletteva la gran pace arcana della luna al tramonto, e più distinti salivano i profumi dei giunchi, Archibusata compié la sua terribile vendetta senz'arma. Strappò le marze dagli alberi innestati con tanta cura e religione.

Ma nel rivarcare il muro, un uomo gli si rizzò inesorabile davanti; e nel pallido albore lunare brillò la canna d'un fucile.
- Io lo sapevo, faina maligna! - gridò Sarvatore Jacobbe. - Ora potrei ammazzarti come un cane, ma ti farò qualcosa di peggio.
Tre uomini uscirono dai roveti.
- Voi avete veduto - disse loro Sarvatore. - Questo pellegrino noi non lo uccideremo, non è vero, e non lo denunzieremo neppure, non è vero? Martinu Selix, tu mi servirai gratis, tu mi farai il servo per altrettante settimane quanti alberi hai assassinato.
La strana sentenza echeggiò potente nella gran pace rorida della valle. Martinu Selix proseguì il suo pellegrinaggio; ma al ritorno entrò come servo in casa dei superbi Jacobbe, e per tre anni subì il suo castigo morale e materiale.

La leggenda di aprile

Dei figli dell'Anno, Aprile era il più bello, alto, già, e nervosamente robusto, sebbene ancora in crescenza, come gli snelli abeti giovani delle radure del bosco. Bonaccione, anche, laborioso e innocente, coltivava, col padre, i campi e i frutteti tutti in fiore, e gli orti dove la tenera freschezza degli erbaggi era tale che neppure le farfalle, per non sciuparli, li sfioravano. La madre lo adorava: gli altri figli erano lontani e, aspettandone il ritorno, ella viveva solo della presenza di questo suo diletto fanciullo: tale, almeno, ella lo considerava ancora, sebbene Aprile la sopravanzasse di tutta la testa.
La loro casa era sul margine fra le terre coltivate e l'abetaia che s'inerpicava sui monti: casa comoda, sebbene contadinesca, dove tutti lavoravano e quindi nulla mancava.
Ma un giorno un velo d'ombra vi si diffuse. Aprile, dopo essere stato a messa nel villaggio, era tornato pallido e con le carni fredde come quando sta per venire la febbre: e alle premure della madre aveva, per la prima volta in vita sua, risposto sgarbatamente.
Ella fece subito, quasi con paura, il suo esame di coscienza: ma trovò che il suo maggior peccato verso il figliuolo era quello di volergli troppo bene. Eppure le pareva che il malessere di Aprile dipendesse da lei: e se lo sentiva con angoscia in tutta la persona.
A tavola, egli quasi non toccò cibo; e rispose risentito anche al padre che, al solito, scherzava e filosofava su tutte le cose.
- Sai cos'è il tuo male? Male di stagione: mal d'amore.
Aprile si alzò, respinse con un calcio la sedia e se ne andò senza più parlare. La madre parve svenire: il padre la rassicurò:
- Ma va là, sono i primi calori.
Infatti erano giornate di un caldo eccezionale. Nel pomeriggio soffiava già il vento estivo di ponente e il frutteto gettava via i suoi ultimi fiori, infastidito della loro poesia. Anche Aprile s'era tolto il suo vestito di lana e si aggirava qua e là, scarmigliato, imbronciato e inoperoso: oppure dormiva, e allo svegliarsi sbadigliava lungamente e si irritava per ogni piccola contrarietà. La madre era la sua vittima rassegnata e dolente.
Al padre dispiaceva sopratutto che Aprile disertasse il lavoro e che nell'orto, non più irrigato, gli erbaggi ingiallissero e si seccassero: però si spiegava l'umore del giovine e tentava di spiegarlo alla moglie.
- In questa stagione tutte le creature hanno bisogno d'amore. È tempo di cercare una sposa per il nostro Aprile.
Cercavano, enumerando ad una ad una tutte le fanciulle di loro conoscenza. Ma, secondo la madre, nessuna era adatta per il figliuolo: chi aveva un difetto, chi l'altro; chi era troppo povera e di cattivo lignaggio, chi troppo ricca o pericolosamente bella. Del resto, quando davanti al giovine bisbetico si parlava di queste presumibili spose, egli le scherniva, le disprezzava e le rifiutava tutte. Questo era un conforto strano per la madre; perché in fondo ella era gelosa della donna che gli avrebbe portato via il figlio.
Tuttavia Aprile era innamorato: crudamente, mortalmente innamorato. Di tutte e di nessuna.
Quella seconda domenica del mese che portava il suo nome, aveva veduto in chiesa, per la prima volta, le donne giovani del paese sgusciare dalle loro vesti scure, nonostante la presenza di Dio, come durante una di quelle antiche tregende, delle quali si sentiva vagamente raccontare. Il sangue gli urlava nelle vene, per il desiderio e l'orrore del peccato. All'uscita della messa si era fermato davanti alla porta della chiesa, guardando negli occhi, una per una, le giovani donne: qualcuna aveva risposto con lo sguardo: una specialmente, la più sfrontata e sensuale, la figlia del becchino, che aiutava il padre a seppellire i morti.
E negli occhi di lei, verdi e perlati, simili a quelli della civetta, egli aveva veduto tutto l'abisso dell'amore carnale.
Adesso questi occhi lo perseguitavano dovunque egli andava: e per dimenticarli e per ritrovarli, andava, andava, di qua, di là, al bosco, al fiume, ai prati più lontani dove il verde dell'erba pareva acqua stagnante. Ma non amava la donna: né lei, né altra. O meglio ne amava una che non esisteva, che era forse lassù nelle rovine del castello in cima al monte, ma che egli non avrebbe conosciuto mai.
- Turbolenze della sua età - diceva il padre, puntandosi l'indice sulla fronte. - Mi viene un'idea, moglie mia. Facciamo venire in casa, come servente, qualche bella ragazzina: quando se la troverà accanto vedrai che si placherà: e se qualche conseguenza ne avviene, il rimedio si troverà.
La moglie non approvava: in fondo al cuore ella preferiva Aprile irrequieto ma suo, piuttosto che sedotto da una servente qualunque. Ma poiché il marito le assicurava che avrebbe portato in casa una fanciulla di buona razza, accondiscese.
Venne la sedicenne Guendalina del boscaiuolo, che odorava di funghi, alta anche lei, con due lunghe trecce nere che, quando ella si piegava sui fornelli, ci andavano dentro e prendevano fuoco. Era ancora stordita e un po' stecchita, è vero, con gli occhi azzurri vuoti; ma appunto per la sua innocenza piacque alla madre di Aprile. Accadde però come quando si era tentato di dare una compagna al corvo addomesticato che tenevano in casa: invece di accogliere con amore la femmina, l'uccellaccio l'aveva uccisa a beccate.
Aprile, rientrato dalle sue scorribande, guardò la fanciulla come una nemica mortale: non poteva ucciderla, anche perché la madre vigilava, ma andò fuori di nuovo, tutto in tumulto. Capiva il tranello, sentiva l'affetto che Guendalina destava nella madre, e a sua volta gli pareva di essere derubato di qualche cosa e scacciato via da un luogo che era stato sempre esclusivamente suo.
Camminò a lungo, fino alla cima del monte. Tra le rovine del castello le cornacchie si abbandonavano a un'orgia primaverile: sbucavano da ogni angolo, si facevano dispetti, si rincorrevano nell'azzurro del cielo con giovani stridi d'amore. Indispettito, il giovine si arrampicò sulle rovine, tirando sassi dentro i nascondigli, dai quali gli uccelli fuggivano spaventati.
Giunto sull'avanzo di uno spalto, sedette sull'erba che vi cresceva e guardò ai suoi piedi le chine coperte di felci, il bosco, la valle fiorita. Il mondo sembrava un giardino, ma egli vi si sentiva escluso come Adamo dal paradiso terrestre. Un dolore infinito lo avvolse: il dolore della sua impotenza ad amare, mentre l'amore rideva e vibrava anche in cima alle foglie secche delle felci vecchie. E desiderò profondamente la morte.
- Ma che anche gli altri soffrano con me: sopratutto mia madre.
Si stese sull'orlo dello spalto, supino, e chiuse gli occhi. Ed anche l'infinito occhio azzurro del cielo parve chiudersi con desiderio di morte. Le nuvole lo coprirono: dai nascondigli delle rovine sbucarono i venti, spazzando via le cornacchie come foglie nere. Il freddo incrinò l'incanto della primavera: e il lamento delle cose, giù dall'acqua del fiume fino ai cespugli che coronavano le rovine, parve il pianto per la morte di Aprile.
La madre, non vedendolo tornare a casa, andò a cercarlo. L'istinto la guidava; sentiva come la traccia dell'odore di lui lungo i sentieri del bosco e tra le felci vecchie e nuove calpestate dal suo passaggio. Il vento la respingeva, la gelava tutta; ma il suo dolore e il suo rimorso erano più forti della bufera; e vinsero le pietre delle rovine, e il terrore delle tenebre che le trasformavano in mostri. Finché giunse allo spalto dove Aprile, già freddo, bianco e duro come una statua, agonizzava. La madre si strappò le vesti per coprirlo, tentò di scaldarlo col suo alito, se lo mise in grembo come il Cristo deposto: e non piangeva, non parlava. I venti urlavano per lei, e all'alba, quando tutto si placò, le cornacchie curiose, dall'orlo delle buche, allungarono il collo per guardare il gruppo della madre e del figlio morti assieme.
Per questo la leggenda popolare dice che Aprile fece morire la madre a furia di freddo.
A consolare il padre arrivò quella mattina stessa il figlio Maggio, quello che non aveva scrupoli, che era l'amante anche della Luna, e a ogni donna che incontrava, fosse pure una vecchia bacucca, regalava un bacio e una rosa.