Filosofia - Mitologia - Letteratura
Significato e problemi dell'empirismo
Si e soliti raccogliere sotto l'etichetta di "empirismo inglese" l'opera di quei
filosofi che, tra Seicento e Settecento, svolsero un'assidua polemica contro certi esiti propri del razionalismo, sottoponendo a revisione critica alcuni fondamentali te- mi della tradizione metafisica razionalistica. Si e costituita cosi una distinzione tra tradizione razionalista e tradizione empirista che sarebbe giunta fino a Kant il quale, accogliendo alcune istanze fondamentali dell'una e dell'altra, le avrebbe entrambe
"superate": e uno schema piuttosto semplicistico che trae origine dallo schema della storia della filosofia moderna proposto da Hegel. La
realtà storica e molto più complessa e sfumata, ne e sempre possibile una netta distinzione: si
potrà infatti notare quante istanze empiristiche sono presenti nel razionalismo
(abbiamo gia ricordato l'impegno empiristico di alcuni dei suoi rappresentanti), e quanto razionalistica sia la critica svolta dall'empirismo inglese per il suo insiste- re, come si
vedrà, sui compiti della ragione umana. Abbandonando dunque il presupposto dell'opposizione
razionalismo-empirismo, si potrà tuttavia sottolineare come una profonda
continuità di problemi colleghi quelli che sono indicati quali massimi esponenti dell'empirismo inglese: Locke, Berkeley, Hume. Riprendendo in vari modi la tradizione empirista che
pare prevalente nella tradizione inglese (si pensi a Bacone e a Hobbes e alla fisica di Newton, se non si vuol risalire addirittura ad Occam), il richiamo all'esperienza di- viene sempre
più apertamente polemico contro la metafisica tanto scolastica quanto platonica e cartesiana, e insieme impegno allo studio di problemi che sono
propri del mondo umano, problemi di ordine fisico, morale, politico, religioso. La
critica dell'intelletto, delle sue capacita e dei suoi limiti, non si riduce a mostrare
l'origine empirica di tutte le nostre conoscenze, ma diviene una teoria della ragione che analizza i propri limiti e i propri compiti: i propri limiti, attraverso un'analisi degli strumenti della conoscenza, rifiutando quanto di aprioristico si presentava nella tradizione razionalistica; i propri compiti in rapporto non a un'astratta
costruzione di un sistema di conoscenze, bensì in rapporto al mondo umano in cui 1'uomo si trova ad operare. Sulla via aperta da Locke nell'analisi della ragione, si colloca la critica di Berkeley al concetto di sostanza materiale e quello assai
più radicale di Hume al concetto di causa e di sostanza spirituale (io penso). Ma in tutti questi autori il problema della conoscenza non e per se
prevalente: gia in Locke il problema dell'analisi della conoscenza, dei compiti della
ragione, era sorto dalla necessita di chiarire concreti problemi di ordine politico e religioso (di qui, tra
l'altro, il nesso tra Locke e gli sviluppi del deismo). In
Berkeley la critica della sostanza materiale e in rapporto alla sua polemica antiateistica con
finalità squisitamente apologetico-teologiche. In Hume, l'esito scettico della critica della ragione avvia ad un
più attento esame delle complesse componenti che governano il conoscere e l'operare umano e conduce all'analisi della radice sentimentale e istintiva delle nostre convinzioni intellettuali e morali,
impegnando altresì l'autore sul piano della saggistica e della critica storica e politica. Di qui il nesso profondo, come si
vedrà, tra l'empirismo inglese e l'Illuminismo: che proprio l'empirismo non solo aveva aperto la via per una critica della
metafisica, ma aveva impegnato la ragione in un'opera di liberazione da antichi
tabù, nella volontà di sottoporre tutto il mondo umano ad una critica razionale. A questa critica non sfuggirono scale tradizionali di valori e neppure la stessa religione di cui sempre
più nettamente si tenterà di eliminare l'aspetto soprannaturale, per ricondurla nei limiti dell'umana ragione, fuori e contro ogni dogmatismo ecclesiastico.
Locke: la vita e le opere
John Locke (nato a Wrington, Bristol, 1632, morto a Oates, Essex, 1704), studiò al Christ Church College di Oxford ove divenne baccelliere e maestro delle arti e insegnante di greco, di retorica e di filosofia morale. Trovandosi a vivere in un momento particolarmente turbinoso della vita politica del suo paese (1649:
decapitazione del re Carlo I e avvento di Cromwell al potere; 1660: restaurazione della monarchia degli Stuart, che
cadrà nel 1688 con l'instaurazione della monarchia costituzionale di Guglielmo di Orange, 1689), di famiglia non estranea ai sommovimenti politici, e quindi legato da amicizia con alcuni protagonisti dei principali avvenimenti della storia d'Inghilterra, Locke si impegno assai
presto in problemi di ordine religioso e politico (gia nel 1660-67 scrive alcuni testi, solo recentemente pubblicati, sui poteri ecclesiastici del magistrato civile e sulla legge naturale). Dopo essere stato al seguito dell'ambasciatore inglese presso
l'elettore di Brandeburgo (1665), rientrato a Oxford prosegui i suoi studi
occupandosi di problemi fisici (nel 1668 entro nella Royal Society) e svolgendo atti- vita di medico. Torno ad occupazioni politiche collaborando con Lord Ashley (poi conte di
Shaftesbury), personalità di primo piano della vita inglese dell'epoca: e di questi anni (1667) il primo
Saggio sulla tolleranza. Le nuove relazioni con uomini di cultura attorno al conte di Shaftesbury lo impegnarono in problemi
più schiettamente filosofici: scrisse, come base di una discussione con loro, il
"primo abbozzo" di quello che sarà il Saggio sull'intelletto
umano, poi elaborato nel "secondo abbozzo" (1671): molti dei temi che saranno affrontati nel grande
Saggio sono qui discussi con estrema chiarezza, anche se lo sfondo culturale a cui si riferiscono gli abbozzi (l'ambiente culturale oxoniense e londinese) e diverso da quello cui
più direttamente si riferisce il Saggio che, soprattutto per il quarto libro, nuovo rispetto allo schema degli abbozzi, e piuttosto da mettere in relazione con la
più ampia e diretta conoscenza della cultura francese, soprattutto cartesiana. Fu varie volte in Francia, poi, tornato a Londra vicino al conte di Shaftesbury, quando questi fu accusato di tradimento (1681) si ritiro a Oxford, quindi in
Olanda, più sicuro riparo dalle accuse che si rivolgevano contro di lui come familiare del conte. Rientro in Inghilterra al seguito della moglie di Guglielmo di Orange un
anno dopo la rivoluzione del 1688. Iniziava un periodo estremamente fecondo: Locke, che da tempo andava lavorando al suo
Saggio, lo pubblico nel 1690; lo stesso anno pubblicava, anonimi, i Due trattati sul governo (nel 1689 era comparsa
l'epistola
De tolerantia cui seguirono altre due di uguale argomento); nel 1693 comparivano i
Pensieri sull'educazione; nel 1695 La ragionevolezza del cristianesimo (postuma la
Parafrasi e note sulle Epistole di San Paolo, come anche la Guida
dell'intelletto).
Una nuova teoria della ragione
Il pensiero di Locke si collega sia al filone baconiano, sia all'impostazione
problematica ed empirico-scettica della prima metà del Seicento che aveva trovato
un'esemplare espressione in Gassendi. Peraltro in questa prospettiva Locke era confortato dalla
"filosofia sperimentale" del suo amico Boyle, fisico e chimico insigne. Sono
determinanti poi in Locke le influenze e le suggestioni di altri grandi esponenti della nuova cultura del Seicento, quali Cartesio e Hobbes, da cui egli mutua problemi e
addirittura materiali linguistici; ma la sua opera è aliena dalle costruzioni sistematiche cui avevano dato mano tali autori partendo dal modello meccanicista. L'indagine di Locke, strettamente connessa alla problematica religiosa e
politica dominante nell'Inghilterra della restaurazione, si propone di vagliare,
prioritariamente rispetto ad ogni discorso sui principi della morale e della religione, i limiti dell'intelletto umano, di
"esaminare la nostra stessa capacita, e vedere qua- li oggetti siano alla nostra portata, e quali invece siano superiori alla nostra
comprensione". Preliminare sarà dunque l'esame critico degli strumenti della
conoscenza e del loro uso: in questa sottolineata priorità sta anzitutto
l'originalità e l'importanza della posizione di Locke. Ponendo l'accento sull'indagine di Locke attorno ai compiti e ai limiti della ragione, si e potuto parlare di razionalismo per definire la sua posizione, piuttosto che di empirismo. Infatti,
più che spiegare l'origine delle conoscenze dai dati sensibili, Locke e soprattutto attento ad
elaborare una teoria critica della ragione che determini i modi del suo funzionamento; teoria, ovviamente, di una ragione empirica; di qui la radicale differenza dal
razionalismo di tipo cartesiano. Delle sue riflessioni sul problema della ragione ci restano due manoscritti
(Abbozzi, I e II, pubblicati solo recentemente) e il Saggio sull'intelletto umano (1690). La tradizione interpretativa ha considerato gli
Abbozzi come formulazioni parziali che raggiungerebbero la completezza solo nel
Saggio in particolare per l'aggiunta del libro IV, ed ha inquadrato del resto il pensiero di Locke in una linea progressi-. va e autonoma di speculazione gnoseologica che avrebbe il suo apice in Kant. La . critica
più recente tende a considerare i diversi scritti come elaborazioni in se stesse complete, che crescono arricchendosi per
l'ampliamento della problematica del:. loro autore. E certo comunque che in essi troviamo un corpo comune di dottrine.
La critica dell'innatismo. Idee semplici e idee complesse
L'indagine sui limiti dell'attività dell'intelletto umano, e quindi sui suoi oggetti specifici, ha inizio con la critica della dottrina dei principi e delle idee innate: e una critica che coinvolge indubbiamente un pilastro del pensiero cartesiano, ma che negli scritti lockiani ha per oggetto
più diretto il platonismo di Herbert di Cherbury e in genere dei "platonici di Cambridge" che avevano ripreso un
innatismo di tipo platonico. Se i principi e le idee (ad esempio principio di
identità, principio di non-contraddizione; i principi morali di fedeltà e di giustizia; le
verità matematiche) fossero congeniti o innati, essi, dice Locke, dovrebbero
manifestarsi universalmente alla coscienza, cioè dovrebbero essere effettivamente noti a tutti:
l'esperienza quotidiana invece fa costatare che quelle idee, che si
vorrebbero innate, sono ignote per esempio ai fanciulli e agli uomini incolti (popolazioni intere, come le scoperte geografiche hanno mostrato, sono prive di idee morali e religiose). Contro
l'innatismo, Locke oppone, come fonte delle nostre idee,
l'esperienza: la sensazione in rapporto alle cose esterne e la riflessione che percepisce le
operazioni interne dell'anima.
In primo luogo, dunque, i nostri sensi, venendo in rapporto con particolari
oggetti sensibili, fanno pervenire nella mente parecchie idee o immagini distinte delle cose, secondo i vari modi nei quali sono modificati da quegli
oggetti. E così acquistiamo le idee che abbiamo del giallo e del bianco, del caldo e del
freddo, del duro e del soffice, dell'amaro e del dolce, e di tutte quelle che
chiamiamo qualità sensibili. E questa grande sorgente della maggior parte delle nostre idee, dipendenti interamente dai nostri sensi, e da essi derivate alla nostra
intelligenza, io la chiamo sensazione. L'altra sorgente, dalla quale l'esperienza trae
l'intelligenza di idee, l'ha ogni
uomo in se stesso, e sebbene non sia un senso (non avendo niente a che fare con gli oggetti esterni), tuttavia gli e molto simile, e potrebbe abbastanza
convenientemente essere chiamata senso interiore. Queste idee riguardano le
operazioni della nostra mente in noi: operazioni, che, quando l'anima viene a
rifletterci su e a considerarle, forniscono l'intelligenza di quest'altra specie di idee che essa non potrebbe mai avere dalle cose esteriori. E tali sono il pensare, il
credere, il dubitare, l'amare, il temere, l'affermare, il comparare, e tutte le differenti azioni della nostra mente, delle quali, avendone noi coscienza in noi stessi, ed avendone spesso fatto esperimento in noi, riceviamo entro la nostra
intelligenza idee cosi distinte, come quelle che noi riceviamo dai corpi quando colpisco- no i nostri sensi. Ma,
poiché io chiamo l'altra sorgente senso esterno o sensazione , cosi, per distinguerla, chiamo questa riflessione o senso interno.
Tramite questa duplice esperienza (esterna e interna) noi abbiamo delle idee
semplici perfettamente chiare e distinte: "per esempio, quelle di bianco, nero, caldo, freddo, morbidezza, lunghezza o estensione, unita, e tutti i particolari gusti e
odori, e altre qualità sensibili, anche di quelle di cui non abbiamo i nomi, e per
pensare le quali abbiamo differenti maniere". Dove e da sottolineare che tale
semplicità non va intesa in senso cartesiano, come semplicità logica che derivi dalla loro chiarezza e distinzione; la
semplicità delle idee sta proprio nel loro derivare direttamente dall'esperienza. Le
idee semplici costituiscono gli elementi primi del pensiero, che si
impongono necessariamente al soggetto senziente (data la passività della sensazione) e solo perciò sono chiare ed evidenti. La
passività della sensazione non garantisce pero la rispondenza piena delle idee semplici alle caratteristiche delle cose
esterne: secondo una posizione tipica della tradizione empiristica del Seicento (ma che era fatta propria anche dai cartesiani in rapporto ad una concezione
meccanicistica del mondo fisico), Locke ammette infatti la distinzione fra idee di
qualità primarie (estensione, solidità, figura, mobilita) e idee di qualità secondarie (colore,
sapore, odore); se le prime trovano un'adeguata rispondenza negli oggetti del mon- do esterno, le seconde sono semplicemente modificazioni del soggetto senziente che non hanno alcuna
conformità con le qualità reali degli oggetti che le producono. Proseguendo la sua analisi del processo conoscitivo, Locke mette in
evidenza come la mente, operando sulle idee semplici (cioè sui dati dell'esperienza presenti nel soggetto), formi, componendole, le
idee complesse, come del resto operando ulteriori separazioni produce idee astratte. Cosi tutte le idee che costituisco- no le strutture fondamentali del nostro sapere sono ricondotte ad un'origine
empirica: senza l'esperienza l'intelletto e una tabula rasa. Le idee complesse possono essere di modi, di sostanze, di relazioni. Tra le
idee di modi (modi in quanto affezioni di sostanze, che non pretendono di esistere per se), Locke esamina il formarsi delle idee di spazio e di tempo: lo
spazio nasce dalle idee semplici che provengono dalla vista e dal tatto
giustapponendo e correlando quindi sensazioni diverse di corpi differenti e distanti; il tempo
nasce dall'interiore esperienza di un flusso continuo di idee che si succedono l'una all'altra: questa esperienza di durata noi proiettiamo anche sulla
realtà. Particolare importanza riveste l'analisi dell'idea di sostanza: la sostanza, che nella metafisica tradizionale (cosi come nel cartesianesimo), costituisce il fondamento ultimo della
realtà e l'oggetto proprio della metafisica, diviene in Locke un'idea formata dall'intelletto attraverso
l'unificazione di idee semplici diverse che ci si presentano nell'esperienza sempre insieme e che quindi ci fanno
supporre non conoscere l'esistenza di un sostrato o sostegno che costituisce il
fondamento di quelle qualità o attività che provocano le nostre idee semplici.
Ciò e vero tanto per la sostanza detta materia che per la sostanza detta spirito. Quando noi vediamo coesistere in un medesimo luogo una determinata
solidità e estensione, una determinata capacita di suscitare idee sensibili, chiamiamo corpo o materia il sostrato al quale riteniamo che queste
qualità si riferiscano; cosi quando vediamo coesistere certe attività testimoniate dal senso interno, come le capacita di
percepire, scegliere, agire, di muoversi, chiamiamo il sostrato di queste
attività spirito. Ma si tratta di nomi dati a realtà che non si conoscono, sicché
tanto il corpo quanto lo spirito ci restano ignoti, pur riconoscendoli esistenti in forza delle idee
semplici che essi producono in noi. Proprio perché le sostanze sia materiali sia spirituali sono inconoscibili, Locke sostiene che
"non saremo mai in grado di sapere se un qualunque essere materiale pensi o no: essendo impossibile a noi, mediante la contemplazione delle nostre idee e senza la rivelazione, scoprire se
l'Onnipotente non abbia dato a certi sistemi di materia, acconciamente disposti, il potere di percepire e di pensa- re"; infatti,
"noi non sappiamo in che consiste il pensare, ne a quale specie di sostanze
l'Onnipotente abbia voluto dare quel potere". Questa pagina, che prospetta
l'ipotesi di una materia capace di pensare,
avrà larga eco nei pensatori dell'Illuminismo, e giustificherà sbocchi materialistici. Nelle relazioni rientra il rapporto di causa ed effetto (trattato sempre sotto
l'angolazione della causa efficiente, senza cioè riferimenti alla causa formale,
materiale e in particolare finale): Locke, pur non mettendo in dubbio (come farà
invece Hume) la realtà del rapporto causale, riconosce che nell'esperienza la nostra capacita di individuare le cause e gli effetti e fondata sulla
constatazione empirica, talvolta erronea, di una certa successione tra gli avvenimenti; noi siamo portati s considerare tale successione in termini di rapporto tra causa ed effetto. Nasce
così l'idea di relazione di causa-effetto, ma l'esperienza non ci dice nulla della
necessita di tale rapporto, e si limita a indicare rapporti probabili. Al fondo poi
dell'idea di causa sta un'idea di potere (o potenza) che secondo Locke si ricaverebbe direttamente dalla nostra esperienza interiore, ma che siamo peraltro
portati a trasferire anche alla realtà esterna. Molto importante, soprattutto per il nesso che vedremo con la teoria del
linguaggio, e altresì l'analisi delle idee generali o astratte: sono tali le idee che
otteniamo mediante un processo di generalizzazione delle idee particolari (tratte da cose particolari), eliminando da queste (astrazione) le circostanze di luogo e di tempo e ogni altra determinazione particolare relativa a questa o quella cosa
individuale esistente nella realtà. In tal modo le idee divengono capaci di
rappresentare più individui. Cosi ad esempio conoscendo molti uomini formiamo l'idea astratta di uomo, eliminando tutte le caratteristiche proprie dei singoli individui. Costruzioni della nostra mente, le idee generali o astratte non trovano
corrispondenza in alcuna struttura metafisica della realtà: esse rappresentano non
l'essenza o sostanza reale (sempre individuale e inconoscibile), ma un'essenza
nominale che e uno schema o modello di cui l'intelletto si serve per classificare
più cose particolari che presentano qualche somiglianza fra loro. Il generale, l'universale non appartengono dunque alle cose esistenti, ma
"sono invenzioni e creazioni dell'intelletto, fatte da esso e per il suo uso". Alle idee generali o astratte corrispondono i nomi o parole generali; questi sono segni che servono a designare le idee
generali e si applicano a quegli individui che rientrano nell'idea generale.
Le idee e il linguaggio
Date queste premesse, la realtà esterna, la cui esistenza e dimostrata
dall'evidenza con cui le idee semplici si presentano nella sensazione attuale, sembra
essere conoscibile per noi nei limiti di una sensata probabilità: la sensazione ci da la
pro va dell'esistenza della realtà, ma questa e conosciuta sempre nell'ambito delle; idee; la mente infatti non ha altro oggetto immediato che non siano le sue
proprie idee e la nostra conoscenza non e altro che "la percezione del legame o
concordanza, o della discordanza o contrasto tra le idee". Locke, entrato in
più diretto contatto con la cultura francese contemporanea e con la problematica che vi si svolgeva anche per la circolazione
manoscritta delle Regulae di Cartesio, ha (nel Saggio e in particolare nel IV
libro) costruito una teoria dell'intuizione (come chiaro ed immediato
riconoscimento dell'accordo ' o disaccordo di due idee) e della dimostrazione
(come accordo o disaccordo fra due, idee ottenuto con certezza per la mediazione
di altre idee intermedie). Ma tanté l'intuizione che la dimostrazione restano sempre nell'ambito delle idee,
sicché ancora una volta, l'orizzonte del nostro sapere rimane limitato nell'ambito
delle nostre idee e dei segni o nomi che le rappresentano: a essi infatti si applica la
costruzione logica che costituisce la conoscenza. Attraverso lo strumento dell'intuizione Locke ritiene possibile una
conoscenza intuitiva della nostra propria esistenza, dell'io, ma non come sostanza
pensante, bensì come connessione dei diversi stati che costituiscono la nostra vita
interiore: un'idea quindi di relazione costruita da noi raccogliendo i vari atti o mo- menti della nostra vita cosciente. Con la dimostrazione Locke ritiene di poter giungere a Dio come prima causa dell'universo. Assai
più ristretta invece, rispetto alla conoscenza intuitiva e dimostrativa (o razionale), resta la conoscenza
sensibile, che non si estende oltre gli oggetti presenti ai nostri sensi. Particolare importanza ha nel Saggio (libro III) la trattazione del linguaggio che rientra nella parte della filosofia detta da Locke semiotica (le altre parti della filosofia sono la fisica e la pratica). La semiotica tratta dei segni con cui
l'uomo si rappresenta la realtà (tali segni sono le idee) e dei segni con cui l'uomo comunica le proprie idee: questi segni sono le parole. Cosi tanto la conoscenza quanto il
linguaggio costituiscono sistemi di segni nel cui ambito si costruisce tutta la
conoscenza umana. AI linguaggio Locke dedica particolare attenzione perché esso
costituisce il necessario mezzo con cui l'uomo esprime e comunica le proprie idee.
Il linguaggio e un sistema di segni: ma il segno linguistico e questa e la
particolare e originale posizione di Locke non si riferisce direttamente alla cosa
significata, bensì all'idea, la quale idea e a sua volta segno della cosa. La
corrispondenza tra segno linguistico e idea non e naturale ma arbitraria, e una
corrispondenza posta con scelta arbitraria dagli uomini che assumono un suono articolato (parola) come segno di un'idea. L'analisi delle parole si deve svolgere, per Locke, come analisi dei termini o parole generali, quelli
cioè che indicano le idee generali o astratte. Il linguaggio, infatti, per le necessita della comunicazione, procede non per nomi individuali o propri (se ogni idea particolare dovesse avere un no- me distinto, i nomi sarebbero infiniti), ma per nomi generali a ciascuno dei quali corrisponde una classe di oggetti. Si rileva qui
l'importanza delle idee generali o astratte di cui si e detto sopra: attraverso
l'astrazione, le idee diventano
rappresentazioni generali di gruppi di oggetti che hanno qualche somiglianza fra loro; e i nomi di quelle idee generali diventano nomi generali applicabili a tutti gli
oggetti che rientrano in ciascuna idea generale. Le idee generali servono cosi alla suddivisione delle esistenze reali in classi e permettono di dare a esse un nome generale che complessivamente le indica. Si comprende
l'originalità della dottrina lockiana dell'arbitrarietà del segno: tale
arbitrarietà non e propria solo del segno linguistico, ma e anche dell'idea astratta che e un segno
"inventato" preso a indicare una classe di esseri reali (classe che non ha alcuna corrispondenza nella costituzione interna delle cose, ma
rappresenta un'essenza nominale). Cosi tutta l'attività dell'intelletto si svolge
attraverso segni e la conoscenza stessa e un sistema di segni: di qui l'identificazione di semiotica e logica.
Religione razionale e tolleranza
Sempre il medesimo appello alla ragione, come guida sicura in tutto l'orizzonte dei problemi umani, sta alla base dei problemi politici e religiosi che Locke
affronto in diversi momenti della sua vita, in rapporto alla situazione della
società inglese del suo tempo: anzi andrà ricordato che questo tipo di problemi e
prioritario e prevalente nell'opera di Locke e che anche le riflessioni del Saggio
sull'intelletto umano sono stimolate dalla necessita di chiarire questi problemi. Richiamo dunque alla ragione: di fronte ad un complesso di norme etiche e religiose si tratta da un lato di sottoporle al vaglio di una sensata ragione, e
quindi di chiarire l'origine e il senso di una serie di idee complesse dettate dal
legislatore e dal costume; dall'altro di rendere possibile la costruzione di una religione
razionale fondata sulla possibilità di giungere, a prescindere dalla Rivelazione e col solo ausilio della ragione, alla dimostrazione di
verità quali l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima. Accanto alla religione razionale, Locke riconosce uno
spazio privilegiato alla Rivelazione cristiana il cui messaggio di salvezza si riassume in una tesi centrale che costituisce
l'unico articolo di fede insegnato dal Nuovo
Testamento: Gesù e il Messia, l'inviato di Dio promesso nell'Antico Testamento. Questa e la fede salvifica che si completa nel pentimento e nelle opere della fede di una vita dedicata al bene. Tale estrema semplificazione della fede
cristiani,: polemica con le costruzioni dogmatiche delle Chiese, che sono causa di scismi e persecuzioni costituisce la ragionevolezza del cristianesimo. Non vi
sarà dunque conflitto tra cristianesimo e ragione, purché il cristianesimo sia liberato dalle sottigliezze dei teologi (quindi dal fanatismo e dal
dogmatismo) e non rifiuti l'esame dell'intelligenza, lampada di Dio nell'uomo: e
con questa che ci si deve sforzare di intendere la Sacra Scrittura, accettando
anche, quanto l'intelligenza non può comprendere, ma ritenendoci obbligati solo a
ciò che e intelligibile. La Rivelazione infatti, fondata sulla testimonianza logicamente verace
di Dio, rimanendo sempre in accordo con i dettami della ragione, colma i vuoti la: sciati dalla nostra conoscenza naturale e ci determina ad accettare o
respingere, proposizioni di cui altrimenti avremmo un giudizio di sola
probabilità; la rivelazione aiuta la ragione nei suoi più ardui problemi. Si elimina cosi dal piano
religioso (pur lasciato autonomo: qui la conoscenza nulla ci impone o comunque ci da solo il probabile) ogni forma di irrazionalismo e di fanatismo e si rende
possibile una ragionevole tolleranza. Il problema della tolleranza (che Locke indica come
"il più importante segno distintivo della vera Chiesa") implica quello della fede, delle istituzioni
religiose, del potere politico: nodo di problemi che erano posti a Locke dalla sua
stessa esperienza di vita civile e politica nell'ambiente inglese a lui contemporaneo. Il concetto di tolleranza e fondamentale in Locke e si connette con il
primato della ragione in tutto il mondo umano: se la fede e oggetto di una libera scelta, essa non
può essere imposta a nessuno, e responsabile e solo la coscienza individuale. La tolleranza, per chi dissente dalla religione comunemente professata, e per Locke un dovere
"religioso" imposto dallo stesso Vangelo: solo la volontà di dominio, la tirannia, non la fede hanno indotto nel mondo persecuzioni e roghi. Contro
l'uso della forza per condurre alla fede, la battaglia di Locke assume toni durissimi e gli impone di ridisegnare i rapporti fra Stato e Chiesa: lo Stato e un'"associazione di uomini, costituita solo in vista del mantenimento e
progresso dei loro interessi civili"; la Chiesa e "una volontaria associazione di uomini che si radunano di
volontà propria al fine di onorare pubblicamente il Dio nella forma che essi ritengono a lui ben accetta ed efficace per la salvezza delle anime
loro". Quindi i poteri dello Stato si esercitano per garantire e promuovere i beni
civili, la liberta, la salute del corpo, la proprietà, senza interferire nelle coscienze dei singoli; esso non
può imporre articoli di fede, dogmi, forme di culto; indirizzato a tutelare i modi di organizzazione della vita civile, lo Stato non assume come pro- pria alcuna ideologia religiosa, e
"stato laico". Il magistrato civile dovrà solo sor- vegliare perché i sentimenti religiosi, valicando i propri confini, non si trasformi- no in conflitti di sette, letali per
l'unita e la sicurezza dello Stato. Il magistrato,
cioè, non deve intervenire nel campo delle credenze e fedi individuali, pur
riservandosi di impedire che esse si traducano in azioni pericolose per la
società. D'altra parte le Chiese, cui e affidata la predicazione della fede, non potranno mai
chiedere che uno espulso dalla Chiesa per divergenze religiose venga colpito o
condannato dallo Stato. Siamo di fronte ad una netta separazione di Stato e Chiesa e alla prima coerente teorizzazione della
laicità dello Stato:
Il potere civile scrive Locke e ovunque lo stesso, e, se e in mano di un
principe cristiano, non può attribuire alla
Chiesa maggiore autorità che se fosse in mano di un principe pagano, cioè non
può attribuirle nessuna autorità.
Va tuttavia notato che per Locke la tolleranza non e illimitata: da essa sono
esclusi gli intolleranti, cioè chi "non riconosca come uno dei propri principi che
nessuno debba perseguitare o molestare un altro perché dissente da lui nella
religione", in tal senso sono per Locke esclusi dalla tolleranza i cattolici come i
musulmani (non solo perché intolleranti, ma in quanto si riconoscono soggetti a una
giurisdizione diversa da quella civile); e altresì ne sono esclusi gli atei, considerati asociali
perché la negazione di Dio coinvolgerebbe la dissoluzione dei valori e dei vincoli morali e politici. La ragione come guida principale anche nell'approccio ai problemi
religiosi (ai dogmi, ai testi sacri, alle istituzioni) considerata strumento valido per la
dimostrazione dell'esistenza di Dio e dell'immortalità dell'anima, lo spirito di
tolleranza, fondato sulla separazione delle sfere di competenza dello Stato e delle Chiese, costituiscono i cardini del
"deismo" lockiano. Questo, pur se moderato, appare la fonte comune del ben
più radicale "deismo" che si farà strada sia in Inghilterra che in Francia, in netto contrasto con le religioni storiche e le Chiese, e che
proporrà una religione razionale depurata da ogni elemento dogmatico, ecclesiastico e
"superstizioso". Coerentemente alla concezione di una società armonica e razionalmente
ordinata, non turbata da fanatismi e superstizioni, Locke nei Pensieri sull'educazione (1693) e negli altri suoi scritti
"pedagogici" si preoccupa di sottolineare l'importanza della formazione di una classe dirigente attiva, competente e di mente
aperta, la cui educazione trova il suo luogo naturale e più confacente nella
famiglia e, il suo modello nella figura del gentleman, ricco di cognizioni utili e concrete,
più che di erudizione fine a se stessa, e le cui virtù principali sono eminentemente
sociali: la prudenza e la cortesia.
Il pensiero politico
La teoria politica lockiana si delinea nei Due trattati sul governo e in particolare nel secondo. In aperta polemica con la teoria del diritto divino dei re sostenuta da
Robert Filmer (per essa l'autorità politica, derivando direttamente da Dio, e
assoluto e non può essere contestata o controllata dai sudditi) e con la teoria che fonda
l'autorità politica in analogia con la patria
potestà (di cui Hobbes era stato il più illustre sostenitore, trasferendo nel sovrano i diritti dei singoli), Locke sostiene che una
comunità politica e possibile solo quando l'autorità di governo sia limitata e la
sovranità appartenga in ultima istanza all'intera comunità dei cittadini che si
esprime attraverso l'accordo di una maggioranza, la cui forza si fonda sulla morale e sul- la consuetudine, e opera in funzione dell'interesse comune di tutti i cittadini. Alla base della teoria politica di Locke troviamo i concetti di diritto naturale e di contratto sociale. Il diritto naturale, che obbliga tutti e costituisce il
fondamento dello stato di natura, si fonda sulla ragione; questa insegna a tutti gli uomini che essi sono dotati degli stessi diritti,
sicché nessuno deve danneggiare l'altro nella vita, nella liberta, nella
proprietà. Per meglio garantire i diritti di ciascuno e promuovere il comune benessere, gli uomini addivengono a un contratto sociale fondato sui principi della legge di natura, e convengono cosi di costituirsi in
società civile o comunità politica. Dunque il contratto sociale si configura come un libero patto fra tutti i
membri della costituenda società a salvaguardia dei diritti di ciascuno; nella
comunità politica il governo spetta alla maggioranza dei suoi membri. Ciò non comporta contrapposizione fra governanti e
governati simile a quella fra padroni e schiavi, ne tanto meno l'alienazione totale da parte dei cittadini dei diritti originari
preesistenti al patto. Anzi la difesa di tali diritti naturali dagli inconvenienti dello
stato di natura e il fine della costituzione della società e del governo.
Poiché gli uomini sono [...] tutti per natura liberi, eguali ed indipendenti,
nessuno può esser tolto da questa condizione e assoggettato al potere politico di un altro senza il suo consenso. L'unico modo con cui uno si spoglia della sua li- berta naturale e s'investe dei vincoli della
società civile, consiste nell'accordar- si con altri uomini per congiungersi e riunirsi in una
comunità, per vivere gli uni con gli altri con comodità, sicurezza e pace, nel sicuro possesso delle
proprie proprietà, e con una garanzia maggiore contro chi non vi appartenga.
k fondamentale nella teoria politica di Locke l'affermazione del valore assolutamente prioritario dei diritti individuali di cui tutti sono titolari: diritti alla liberta e alla
proprietà (espressione della personalità umana attraverso il proprio lavoro che modifica la natura appropriandosela); alla tutela e alla promozione di tali diritti e destinata la
comunità politica che si esprime nel potere legislativo, l'unico potere supremo cui gli altri debbono essere subordinati, con la precisazione che in ultima istanza il potere supremo e sempre e solo del popolo che
può rimuovere il legislatore se questo viene meno ai suoi compiti e conculca i diritti individuali:
Sebbene in una società politica costituita, che poggi sui propri fondamenti e deliberi secondo la propria natura,
cioè a dire in vista della conservazione della comunità, non vi possa essere che un solo potere supremo, ch'e il legislativo, al quale tutti gli altri sono e devono essere subordinati, tuttavia,
poiché il legislativo non e che un potere fiduciario di deliberare in vista di determinati fini,
rimane sempre nel popolo il potere supremo di rimuovere o alterare il legislativo, quando vede che il legislativo delibera contro la fiducia in esso riposta.
Si configura cosi la struttura del regime democratico che non riconosce altra
fonte di potere che il popolo e la maggioranza in cui si esprime, e che ha come
finalità la difesa e la promozione dei diritti dei singoli. Di qui la necessita di
distinguere Locke riflette sull'esperienza inglese e sui difficili rapporti fra sovrano e parlamento il potere legislativo dall'esecutivo. Se il potere supremo e il
legislativo, l'esecutivo ne dipende, anche se questo potere si identifica con il sovrano. L'esecutivo, e quindi il sovrano, trae dunque potere dal legislativo e se tenta di
sostituirvisi non ha più diritto di essere obbedito. Siamo alla definizione di un
principio fondamentale per le moderne teorie democratiche, la distinzione dei poteri: Locke individua il legislativo,
l'esecutivo e il federativo (il potere di fare guerra e pace, alleanze, in genere condurre la politica estera); e se i due ultimi possono
essere collocati nella stessa persona, essenziale resta la distinzione fra legislativo e esecutivo. Essendo la teoria politica di Locke fondata, come si e detto, sui diritti
irrinunciabili dell'individuo, qualora i governanti, calpestando i diritti naturali, agendo contro la morale e la tradizione, si alienino la fiducia della maggioranza, possono considerarsi decaduti in quanto vengono meno i fondamenti del patto: si configura cosi il diritto di resistenza ai voleri del sovrano e quindi anche il
diritto di sostituirlo. Per questa dottrina si e visto nel pensiero lockiano la
giustificazione teorica della rivoluzione inglese nel 1688. L'opera di Locke, per la sua teoria della conoscenza, per il suo messaggio di tolleranza, per
l'affermazione della religione razionale, per la difesa dei diritti
civili, ha goduto amplissima fortuna nell'Illuminismo europeo che ne ha fortemente subito
l'influenza.
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