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La città considerata come principio ideale delle istorie italiane Riproduce il testo della prima edizione, apparsa nella rivista "Il Crepuscolo" in quattro puntate nell'ottobre e nel dicembre 1858
LA
CITTÀ CONSIDERATA COME PRINCIPIO IDEALE DELLE ISTORIE ITALIANE I . In
un paragone tra l'economia rurale delle Isole Britanniche e dell'Insubria
inserto in questi fogli sul cadere dello scorso anno, abbiamo
dimostrato come l'alta cultura (high farming), essendo una precipua
forma della moderna industria, una delle più grandi applicazioni
del capitale, del calcolo, della scienza, ed effetto in gran parte
d'un consumo artificialmente provocato dall'incremento delle
popolazioni urbane, non si può spiegare se non per l'azione delle
città sulle campagne. Ed
ora, per quanto l'angustia dello spazio il consente, vorremmo
ampliare questo vero fino al punto di dire che la città sia l'unico
principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane
ridursi a esposizione evidente e continua. Senza questo filo ideale,
la memoria si smarrisce nel labirinto delle conquiste, delle
fazioni, delle guerre civili e nell'assidua composizione e
scomposizione degli stati; la ragione non può veder lume in una
rapida alternativa di potenza e debolezza, di virtù e corruttela,
di senno e imbecillità, d'eleganza e barbarie, d'opulenza e
desolazione; e l'animo ricade contristato e oppresso dal sentimento
d'una tetra fatalità. Fin
dai primordii la città è altra cosa in Italia da ciò ch'ella è
nell'oriente o nel settentrione. L'imperio romano comincia entro una
città; è il governo d'una città dilatato a comprendere tutte le
nazioni che circondano il Mediterraneo. La fede popolare derivò la
città di Roma dalla città d'Alba; Alba da Lavinio, Lavinio dalla
lontana Troia; le generazioni dei popoli apparvero alla loro mente
generazioni di città. Non così nascono, nè così si rappresentano
alle menti dei popoli, i regni di Ciro, di Gemscid, d'Attila, di
Maometto, di Cinghiz-Khan, di Timur-Leng. Figli di tribù
pastoreccie, vissuti sotto le tende, i conquistatori dell'Asia solo
dopo le vittorie si fondano una sede di gloria e di voluttà in
Babilonia, in Bagdad, in Delhi; le quali, come nota Herder, altro
non sono che grandi accampamenti murati, ove l'orda conquistatrice
raccoglie le prede della guerra e i tributi della pace. La
prisca Europa fu dapprima un'immensa colonia dell'oriente, come in
questi tre secoli l'America fu colonia dell'Europa. Ma per due vie,
e con due ben diversi gradi di civiltà, qui pervennero le genti
orientali. Le une peregrinarono lentamente per terra, tragittando al
più l'uno o l'altro Bosforo, e traendo seco dall'Asia, coi
frammenti delle lingue e religioni indoperse, la pastorizia e una
vaga agricultura annua, senza fermi possessi privati, quasi senza
città: per vicos habitant; talora senza villaggi: ne pati quidem
inter se junctas sedes; in tugurii non murati: ne cœmentorum quidem
apud illos aut tegularum usus; sovente in sotterranee caverne:
solent et subterraneos specus aperire; eosque multo insuper fimo
onerant, suffugium hiemi (Tac.). Vaganti
per lo squallido settentrione in sempiterna guerra, e mescolate qua
e là colle tribù aborigene dell'Europa selvaggia, esse apparirono
poi barbare a quelli altri popoli che, oriundi pur dall'Asia, erano
approdati navigando alle isole e penisole della Grecia, dell'Italia
e dell'Iberia. Questi,
uscendo dalle città dell'Egitto, della Fenicia, della Lidia, della
Frigia, della Colchide, non pensavano poter vivere nella nuova
patria se anzi tutto non consacravano a stabile domicilio uno
spazio, urbs: e lo chiudevano con cerchio di valide mura, che il
corso dei secoli non ha dovunque distrutte. Prima essi facevano le
mura; e poi le case. E così fermati per sempre ad un lembo di
terra, erano costretti ad assegnarlo con sacri termini ai cittadini,
affinchè questi avessero animo di fecondarlo con perseveranza e con
arte. L'agricultura era provida e riflessiva, perchè la dimora era
immobile e il possesso era certo. Quelle
colonie non erano mai d'uomini dispersi come le tribù arabe
dell'Africa settentrionale, o i boers della meridionale, o i
rancheros e i backwoodsmen dell'America. Col nome di colonia gli
antichi Itali intendevano sempre che i popoli si propagassero d'una
in altra città, riproducendo lo stabil vivere della patria: Colonia
est coetus eorum hominum qui universi deducti sunt in locum certum
ædificiis munitum (Serv.). Coloni sunt cives unius civitatis in
aliam deducti, et ejus jure utentes a quâ sunt propagati (Gell.). Ai
nostri dì ancora, per tutto il settentrione, la famiglia possidente
ama stanziar solitaria in mezzo alla sua terra: suam quisque domum
spatio circumdat (Tac.). Quivi ha la sua casa paterna, non una villa
di temporario diporto; non tiene palazzo nella città più vicina;
non cura aver consorzio e parentela cogli abitanti di questa. Le
città sono mercati stabili, vaste officine, porti alimentati da
lontani commerci: non hanno altro vincolo colle terre circostanti
che quello d'un prossimo scambio delle cose necessarie alla vita,
non altrimenti che navi ancorate sopra lido straniero. In
Italia il recinto murato fu in antico la sede comune delle famiglie
che possedevano il più vicino territorio. La città formò col suo
territorio un corpo inseparabile. Per immemorial tradizione, il
popolo delle campagne, benchè oggi pervenuto a larga parte della
possidenza, prende tuttora il nome della sua città, sino al confine
d'altro popolo che prende nome d'altra città. In molte provincie è
quella la sola patria che il volgo conosce e sente. Il nostro
popolo, nell'uso domestico e spontaneo, mai non diede a sè medesimo
il nome geografico e istorico di lombardo; mai non adottò
famigliarmente quelle variabili divisioni amministrative di
dipartimenti e di provincie, che trascendevano gli antichi limiti
municipali. Il pastore di Val Camonica, aggregato ora ad uno ora ad
altro compartimento, rimase sempre bresciano. Il pastore di Val Sàssina
si dà sempre il nome d'una lontana città che non ha mai veduta, e
chiama bergamasco il pastore dell'alpe attigua, mentre nessun
agricultore si chiama parigino, nemmen quasi a vista di Parigi. Questa
adesione del contado alla città, ove dimorano i più autorevoli, i
più opulenti, i più industri, costituisce una persona politica,
uno stato elementare, permanente e indissolubile. Esso può venir
dominato da estranee attrazioni, compresso dalla forza di altro
simile stato, aggregato ora ad una ora ad altra signoria, denudato
d'ogni facoltà legislativa o amministrativa. Ma quando quell'attrazione
o compressione per qualsiasi vicenda vien meno, la nativa elasticità
risorge, e il tessuto municipale ripiglia l'antica vitalità. Talora
il territorio rigenera la città distrutta. La permanenza del
municipio è un altro fatto fondamentale e quasi comune a tutte le
istorie italiane. I
monumenti non rivelano peranco a qual tempo sia da riferirsi la
prima fondazione delle città in Italia. Ma i monumenti egizi ci
additano con data certa tre grandi rivolgimenti, che agitarono tutte
quelle regioni da cui vennero ai nostri lidi i più antichi
fondatori di città. Sono la spedizione d'Osimandia sino alle
frontiere dell'India (A.c. 2500) e quella di Sesostri fino in Europa
(1800); e fra l'una e l'altra l'irruzione dei pastori dalle regioni
del Caspio all'Egitto (2000). Verso i tempi a cui si attribuisce la
fondazione di Roma (750) l'Italia era già tutta seminata di città
ben antiche. Ma esse appartenevano a più lingue e religioni, che si
erano stabilite qua e là combattendo e si contendevano il terreno. Le
città più grandi erano di più recente origine; erano le colonie
greche, fra le quali Crotone poteva armare nel suo dominio centomila
uomini; e Sibari poteva tenerle fronte; e le cinque Siracuse (Syracusae)
nel loro complesso pareggiavano qualsiasi moderna capitale. Grandi
erano pur quelle che sembravano d'origine quasi greca, ma
contemporanea coi primordj della cultura greca, ed erano
probabilmente pelasghe, come Cortona e Pisa; grandi pure le altre
città nutrite da commercio marittimo, come le colonie fenicie,
principalmente nelle isole. Gloriose per solida bellezza ci appaiono
le ruine delle città degli Etruschi; ma lungo il Po forse la vita
delle loro colonie fu troppo breve; appena lasciò vestigia di
edificj; e a piè dell'Alpi, ove alcuni vanno imaginando le prime
fonti di quella civiltà, lasciò appena qualche rozza pietra. Le
città di tutti i popoli Umbri, Oschi, Sabelli erano assai minute;
le trenta città dei Latini tenevano appena lo spazio che altrove ne
occupa una sola: ciò proveniva forse dai riti delle loro religioni
e dalle regole della loro milizia. Le
colonie greche in Italia sono interamente libere e regine; non hanno
vincolo fra loro nè colle città madri, benchè abbiano l'amicizia
di queste e talvolta il soccorso. Le città dette propriamente
italiche sono libere in sè; ma il supremo diritto di guerra e di
pace è limitato da patti federali più o meno larghi colle altre
della medesima lingua, o da trattati colle rivali, o dall'autorità
delle più potenti. Le colonie partecipano alle guerre, alle paci,
alle alleanze delle città madri, e sorgono o cadono colla fortuna
di queste. Ma ogni città si governa da sè, dentro i termini della
sua terra. E anche quando è costretta a guerre non sue, milita
sotto le sue proprie insegne e i suoi capitani. L'indole armigera e
magnanima è comune a tutte. Tale è la prima êra delle città
italiane. Roma,
sorta al confine di tre lingue, la latina, la sabina, l'etrusca,
pare costituirsi dalla vicinanza e dalla graduale coesione di tre
colonie, poste forse a vigilar reciprocamente all'estremo confine,
sui colli che sorgevano come isole in mezzo alle paludi, presso il
confluente di due fiumi arcifinj il Tevere e l'Aniene. Le tre
castella nel corso degli anni divennero tribù d'una città comune,
in cui per l'opportunità del luogo potè accasarsi maggior numero
di Latini, e la loro lingua prevalse. Pel connubio delle tre stirpi,
le loro tradizioni religiose, civili e militari nei posteri si
vennero confondendo. Roma fin da origine ebbe ad unificare in sè
tre sistemi; ebbe a darsi una civiltà triplice, ad esercitare un
triplice ordine d'idee. Colla combinazione di queste, ella si pose a
capo delle tre nazioni, e quindi mano mano di tutta la penisola,
assimilando, appropriando, assorbendo, mentre ognuna delle altre
genti rimase confitta nelle sue idee prime; epperò predestinata a
soccombere ad una volontà retta da più vasto e potente pensiero. Nel
seguito delle guerre, in molte città vennero poste come colonie,
cioè come presidii perpetui, centinaia anzi migliaia di famiglie
romane; fra le quali furono divise le terre confiscate alle famiglie
più avverse o a tutto il comune. Ma restò sempre alle sole città
italiche l'onore e il profitto della milizia romana. Uomo d'altra
nazione non venne mai scritto nelle legioni della repubblica. Anzi
l'antica coorte si componeva d'un manipolo romano e d'uno latino; e
il centurione latino si alternava nel comando col romano. La milizia
italica durò finchè durò la milizia romana. Da Roma uscì
l'esercito; dall'esercito romano uscì la nazione. Ma,
collegate a Roma o a lei sottomesse, le città italiche non hanno più
il diritto di guerra, di pace, di federazione. Le native loro leghe,
fondate nelle origini, nelle lingue, nelle religioni, nelle memorie
d'una potenza e d'una gloria comune, rimangono disciolte. Non solo
si toglie loro il diritto di far congressi, ma quello d'acquistar
beni e contrar parentele nel seno d'altra città. Quelle che non
divengono del tutto romane, non devono più conoscere se non sè
medesime e Roma: cœteris latinis populis connubia, commerciaque et
consilia inter se ademerunt (Liv.). Così
mentre il romano propagava per tutti i municipj la sua milizia, il
suo commercio, l'usura, i possedimenti, i connubj e i varj gradi
della sua cittadinanza, le singole città, quanto più si
congiungevano a Roma, tanto più si disgiungevano dalle città
consanguinee. Ma nella dispersione delle leghe, nell'oblìo delle
lingue e delle religioni, nell'esterminio delle minime città, il
cui territorio colle immani confische delle guerre sociali e civili
era inghiottito forse in un solo latifondio, quei municipj ch'erano
largamente radicati nelle campagne, sopravvivevano; anzi si
chiudevano più saldamente in sè, per la maggior distanza dal
centro comune. Tutto ciò che non si fece romano, ebbe a farsi più
strettamente municipale. Nè
le sole famiglie più oscure si saranno attenute all'antico nido; ma
forse quelle appunto ch'erano state in altro tempo più illustri.
Sdegnose, e contente nell'odio, esse avranno anteposto alle
ambizioni romane la tacita riverenza dei cittadini. Questo è
nell'indole costante della nazione; e più volte si avverò. A
questa stoica accettazione d'una dignitosa oscurità si deve la
tenace e continua vita dei municipj nelle età più infauste e
desolatrici. In
ogni municipio vi furono dunque due elementi. L'uno era coloniale,
romano, latino; era nuovo e comune a tutta l'Italia; si annunciava
splendidamente nella lingua scritta, nella letteratura latina, che
si levò come un sole su tutta l'Italia. L'altro era antico; era la
reliquia d'un popolo disfatto; si annunciava nell'inculto idioma
delle plebi, che non potevano accorrer tutte ad imparare una nuova
lingua nelle scôle e nel foro di Roma; ma la raccoglievano
fortuitamente e spezzatamente negli eserciti, nei mercati e lungo le
grandi vie che portavano nelle lontane provincie le legioni. In
quell'uso tumultuario dovevano mutilarsi e impoverirsi le
inflessioni, ridursi a costruzione semplice e diretta la
trasposizione latina, torcersi i suoni giusta le pronuncie indigene.
E così nel dialetto s'improntava indelebile la memoria di quel
singolo popolo al quale il municipio aveva appartenuto. Chi segni
sulla carta una linea per Firenze, Bologna, Padova, Udine, trova nel
confine dei dialetti il preciso confine antico di quattro nazioni.
Questi termini immobili d'una geografia anteriore ai Romani rimasero
aderenti alle mura dei municipii. Ma indarno più oltre, al di là
delle Alpi Giulie o Retiche ove le città non ebbero larga radice
nei popoli, andremmo a cercare i confini antichi delle nazioni che
vennero ondeggiando con perpetuo flusso e riflusso per quei vaghi
spazj. Dopo
le guerre civili e le proscrizioni e la conquista della Liguria e
della Rezia, al limitare dell'êra nostra, v'è in Italia una sola
nazione, unificata e rappresentata in una sola città. Le altre non
hanno autorità sovrana se non in quanto sono ascritte alle tribù
di questa; schierate sotto le sue insegne, hanno parte alle spoglie
del mondo. Ma quell'unica sovranità è già in nome del popolo
afferrata dai Cesari. I Cesari sono l'ultima conseguenza e l'ultima
espressione dell'unità. Le
legioni vengono relegate alle frontiere. Roma è data in guardia ai
pretoriani. L'Italia è armata; e tiene colle armi un immenso
imperio. Ma le sue città sono tutte inermi. Così si compie l'êra
seconda.
II . Ottaviano
non avrebbe mai potuto affrontare tutte le tradizioni e le
consuetudini dei Romani. Egli non tentò abrogare il consolato o il
tribunato; ma si fece a grado a grado console perpetuo, perpetuo
tribuno, censore, pontefice. Tutto il rituale religioso e politico
che aveva consacrato agli occhi del popolo le antiche famiglie
trionfali, venne magnificando una famiglia sola, i suoi congiunti, i
clienti, i servi. Circoscritto l'esercito alle fide coorti pretorie
e urbane e ai lontani presidii dei confini, si negò il ritorno ai
veterani; la milizia divenne un esilio. I senatori amministrarono in
silenzio le provincie pacifiche; divennero ignoti alle provincie
militari. Giureconsulti quasi privati, non sospetti di potenza
presso i popoli o di favore presso le legioni, poterono continuare
in pace le loro deduzioni. L'antica Roma del diritto civile,
illuminata dalla filosofia stoica, potè per alcune generazioni
sopravvivere, tollerata dai capitani che avevano disarmato i patrizj
e avevano interesse a compiere il pareggiamento iniziato dai
tribuni. I giureconsulti, precorrendo sempre colla dottrina alla
legge, giunsero perfino a sentenziare che la schiavitù era cosa
contro natura: Bella etenim orta sunt; et captivitates secutae et
servitutes, quae sunt naturali juri contrariae! Ma non è vero che
l'umanità dei giureconsulti fosse ispirata dai Cesari; poichè la
fratellanza di tutti gli uomini, societas caritatis, si vede
annunciata, già mezzo secolo avanti l'êra nostra, negli scritti di
Cicerone, insieme al principio della tolleranza universale:
universus hic mundus civitas communis deorum atque hominum. Nè mai
veruna dottrina posteriore poteva abbracciare con più largo vincolo
di benevolenza tutte le genti e tutte le religioni. In
seno alla pace, l'Italia, meta comune di tutte le nuove vie che
collegavano le provincie, porto d'un mare tutto suo, dimora delle
famiglie che avevano conquistato i regni, versò i tesori del mondo
nella decorazione delle sue città e de' suoi campi. Il Tevere,
diceva Plinio, è ornato e vagheggiato da più ville che non tutti
gli altri fiumi della terra. A
misura che si estinguevano le famiglie educate nell'eredità degli
onori e delle conquiste, e che il senato si faceva ossequioso e il
popolo si disusava dalle armi, la truce ragione di stato dei Tiberii
e dei Seiani poteva placarsi. I capitani che la fortuna inalzava al
comando delle legioni e al nome di Cesari, non furono più spinti a
incrudelire contro i privati per propria salvezza. Interrotta dal
solo Domiziano, potè continuarsi nell'imperio una serie d'uomini
come Vespasiano, Tito, Nerva, Traiano, Adriano, Antonino, Marco
Aurelio. Ma con tutta la loro saviezza, pur non potevano non
obbedire alla logica del potere che li traeva ad emanciparsi sempre
più dall'aura popolare, dalle armi cittadine, dalle republiche
municipali, dal predominio dell'Italia, la quale irradiava le native
sue istituzioni su tutto l'occidente. Cominciarono essi a coscrivere
nelle estreme provincie le legioni che dovevano presidiarle. E
siccome è nella natura delle cose che gli armati non restino
inferiori di condizione agli imbelli, infine, sotto Caracalla (A.
212), la cittadinanza romana fu accomunata a tutti i sudditi
dell'imperio. Il che vale quanto dire che fu abolita. Ai
medesimi tempi la violenta morte di Papiniano e Ulpiano troncò la
viva tradizione della giurisprudenza. Alla generosa e provida scôla
che voleva la ragione interprete della natura e duce dell'umanità,
seguì tosto la fantastica setta di Plotino, che sperava nell'estasi
e sprezzava il mondo e lo abbandonava alla violenza e al caso. Così
nella terza êra le città italiche, opulente, ornate d'arti e di
lettere, penetrate da un alto senso di ragione e d'umanità, erano
vicine a perdere insieme alla cittadinanza romana ogni distintivo di
nazionalità. Era un decadimento velato dall'apparenza della
prosperità della cultura e del dominio. Ciò che i Cesari avevano
rispettato e adulato nelle città italiche, era il soldato romano,
il cittadino romano. Abolito il soldato e il cittadino, l'Italia,
sebben sede dell'imperio, non era altro omai che una provincia. Dopo
Caracalla, per tutto il secolo III, i capitani d'un esercito sempre
più straniero si contesero colle armi l'imperio e la vita. Ma
tutti, per orgoglio militare e per illimitato arbitrio, dovevano
aborrire ogni rappresentanza municipale; e più di tutto quella che
pareva una continuazione della repubblica romana. Aureliano e
Diocleziano si proposero ad esempio le autocrazie dell'oriente, il
regno della forza in tutta l'asiatica ostentazione. Il gran punto
era che l'Italia non fosse più amministrata per municipii da curie
composte di maggiorenti o di eletti del popolo, ma per vaste
prefetture, affidate a favoriti (comites) a modo delle satrapìe
persiane. Tanto assoluta divenne poi l'autorità di questi prefetti,
che in alcune provincie dell'oriente essi giunsero a prendere
apertamente il nome di despoti. Ultimo e inevitabile effetto di
questo modo di governo è stringere per ogni provincia in una sola
mano armi, giudizii, tributi, opere publiche; non soffrir norma o
misura; non dare sicurtà alle cose o alle persone, al diritto o
all'onore. Fu questo per la civiltà italica un profondo
sovvertimento. Con Diocleziano ebbero principio sette secoli di
barbarie, fino al risorgimento dei municipii, verso l'anno mille. E
per la verità, che sogliamo noi significare anche oggidì quando
chiamiamo barbara l'Asia? Non è già che non siano quivi sontuose
città; che non siavi agricoltura e commercio, e più d'un modo di
squisita industria, e certa tradizione d'antiche scienze, e amore di
poesia e di musica, e fasto di palazzi e giardini e bagni e profumi
e gioie e vesti ed armature e generosi cavalli e ogni altra
eleganza. Ma noi, come a fronte dei Persi e dei Siri i liberi Greci
e Romani, sentiamo in mezzo a tuttociò un'aura di barbarie. Ed è
perchè in ultimo conto quelle pompose Babilonie sono città
senz'ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri
inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sè verun atto di
ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del
fatalismo. Il loro fatalismo non è figlio della religione, ma della
politica. Questo è il divario che passa tra la obesa Bisanzio e la
geniale Atene; tra i contemporanei d'Omero, di Leonida e di Fidia e
gli ignavi del Basso Imperio. L'istituzione sola dei municipii
basterebbe e infondere nell'India decrepita un principio di nuova
vita. Adeguata
alle provincie dell'Asia, l'Italia cadde al pari di esse sotto il
flagello della fiscalità. In breve si vide desolata la campagna,
disgregato dagli esattori il retaggio avito della città. Intanto
le false legioni, coscritte fra quei medesimi barbari ch'esse
dovevano combattere, e prive di quell'arte militare ch'è il frutto
e il compendio d'un'alta civiltà, erano di tanto infida e vana
difesa che poco dopo Caracalla già le orde nomadi poterono
penetrare nel mezzo dell'Italia, che non per ciò dai Cesari venne
armata; pensarono essi ch'era meglio vederla desolata che vederla
forte. I popoli, non potendo più distinguere in quel diluvio
straniero gli eserciti amici dai nemici, disfacevano i ponti e le
strade per disviare le invasioni. Le città isolate in mezzo a
squallide solitudini caddero in rapida miseria e ruina. Poco dopo
Costantino, S. Ambrogio le chiamava: semirutarum urbium cadavera. Già
si sa perché Costantino avesse abbandonato l'Italia. Finchè
l'Italia era la sede dei regnanti, sempre la memoria del suo primato
suonava nell'animo delle nazioni come la voce del diritto. E le
nuove pompe asiatiche, delle quali divenivano solenni legislatori e
antistiti gli eunuchi, non potevano senza amaro disdegno esser
mirate dal popolo romano sempre ricordevole dell'antica potenza e
maestà. Quindi irresistibile nei Cesari il pensiero di trasferire
sul limitare dell'Asia la sede dell'imperio, volgendo a tal uopo la
stessa poetica tradizione che poneva in quei luoghi la madrepatria
di Roma. Quindi l'Italia tramutata in frontiera, spogliata di quelle
difese e di quei privilegi che si riservano alla sede dei regni. Nella
quarta êra le città d'Italia sono adunque sottomesse al régime
asiatico, subordinate ad una capitale quasi asiatica, civilmente e
moralmente associate all'Asia. Anzi in tal condizione rimasero molte
città marittime per tutto quasi il medio evo; fu questa la forma
della loro barbarie. Il nome di duci o volgarmente dogi, che
portavano i prefetti militari inviati da Bisanzio, rimase poscia ai
magistrati di quelle che risursero alla libertà primitiva. Ma
la rimanente Italia soggiacque ad altra più profonda sovversione
dell'ordine municipale e a più intenso grado di barbarie,
quand'ebbe a stabili abitatori suoi gli stessi barbari. Pel
volgo degli scrittori, l'invasione gotica e longobarda è l'ultimo
esito d'un'inveterata guerra tra Roma dominatrice e le nazioni
vergini e libere del settentrione. Non è così. Goti e Longobardi
non avevano mai avuto a difendere i patrii deserti dalla conquista
romana; non combattevano pei loro diritti; ma erano in uno od altro
modo mercenarj o vassalli o profugi nelle terre bizantine; e fattisi
ribelli, venivano riversati per ripiego dei governanti verso
l'Italia, ch'era divenuta per questi una frontiera al di là dai
mari e dai monti. Or
è a notare che già dai tempi incirca di Caracalla, ossia
dall'abolizione della cittadinanza romana, si era tentato sostituire
un nuovo popolo militare a quello che si voleva disarmare. Si era
fondato lungo il Reno e il Danubio un nuovo modo di milizia, e con
esso un nuovo modo di tributo, e una nuova possidenza, aborrente
tanto dalla proprietà italica quanto dalla comunanza germanica. Già
sotto Alessandro Severo e sotto Probo i soldati, lungo quei confini,
ebbero assegni stabili di terre con dote di bestiami e servi, e col
diritto di trasmetterle ai loro figli insieme al dovere della
milizia. Fossero dapprima Romani o nol fossero, essi dovevano
d'allora in poi radicarsi sui loro terreni. Ecco
legalmente istituita una casta militare in un imperio propositamente
disarmato. Ecco fondato il diritto feudale, col fedecommesso
condizionato alla milizia, col godimento senza libera proprietà,
coll'appartenenza dei servi non all'uomo ma alla gleba, col tributo
non pagato in moneta al principe, ma fornito in viveri
dall'agricoltore al soldato. Questo nuovo diritto sociale doveva col
tempo dilatarsi dall'estrema frontiera alle provincie interiori, a
tutto l'occidente, alla stessa Italia. Probo aveva detto che quella
nuova istituzione avrebbe reso inutile ogni altro esercito: Dixit
brevi milites necessarios non futuros (Script. R. It. I.). Ma il
compimento del suo sistema era già il più barbaro modo di
conquista; poichè disfaceva la possidenza e riduceva a perpetua
servitù l'agricoltura. E venendo i nuovi signori a vivere nelle
loro stazioni militari fra i servi avvinti alla gleba, i vetusti
palagi delle città restavano condannati a solitudine e ruina, e
riducevasi la società municipale a poca e misera plebe. Era la
primitiva barbarie del settentrione trapiantata stabilmente nel
mezzodì; era troncato l'intimo commercio tra la città e la terra. Allorchè
le milizie barbare poterono espandersi senza freno sulle interne
provincie, l'isolamento delle città riescì maggiore in quanto
codesti Goti, Eruli, Longobardi che si appropriarono successivamente
sia le terre sia le rendite, erano bensì cristiani, ma della setta
ariana poco diffusa nelle città d'Italia; e i più degli
agricoltori erano, come porta il nome, tuttavia pagani. Perlochè
quando Radagaiso con duecentomila Goti penetrò fino negli Apennini
ove poi fu disfatto e preso (406), i contadini videro in quella
irruzione d'un esercito cristiano una vendetta degli antichi Dei,
posposti dai nuovi imperanti. "Invase subito Roma infinito
spavento; accorrono in città tutti i paesani (fit omnium paganorum
in urbem concursus); esclamano tutti di soffrir questo perchè
furono negletti i riti de' sommi Dei (quod neglecta fuerint magnorum
sacra Deorum); ferve di bestemmie tutta la città (fervent tota urbe
blasphemiae; vulgo nomen Christi... probris ingravatur) (Script. R.
It. I.)". E poco
stante, Alarico, che aveva già distrutto in Grecia i templi di
Cerere Eleusina e di Giove Olimpico, atterrò in Roma la statua
della Vittoria, palladio del popolo (410). Quella
stessa ragione di stato che aveva determinato i Cesari ad
allontanarsi da Roma, aveva dovuto indurli a mutare il giuramento
che per quelle soldatesche avventizie era l'unico vincolo di fedeltà,
e che divenne poi in occidente, sotto il nome d'omaggio, il nodo
supremo dell'ordine feudale. Sarebbe stato assurdo che gli eserciti
di Bisanzio dovessero prestar tuttavia giuramento agli Dei del
popolo romano, all'aquila di Giove, all'ara della Vittoria. Era
necessario un nuovo giuramento e una nuova insegna: ut eum solum
arbitrarentur Deum quem coleret imperator (ib.). Perciò la milizia
e il comando dovevano divenir privilegio dei seguaci d'una nuova
fede: Jussit... christianos solos militare, gentibusque et
exercitibus principari (ib.). I Goti dunque, i Vandali, i
Longobardi, nell'aggregarsi in uno od altro modo alle forze
bizantine, dovevano per primo atto di disciplina sottoporsi al
battesimo. Ciò avendo essi cominciato a fare quando la dottrina
d'Ario, ripulsa poco prima nel concilio di Nicea (325), era salita
in favore a Costantinopoli, il cristianesimo pervenne a loro sotto
la forma ariana. Al che valse assai la versione che Ulfila, vescovo
ariano, fece delle scritture in lingua gotica, a quei tempi incirca
che S. Gerolamo le traduceva in latino. Questo
è un fatto semplicissimo; nè si vede come Pierre Leroux potesse
riputare astuzia di corte l'avere imposto di preferenza alla milizia
la dottrina degli Ariani, perchè questi "lui paraissaient
infiniment moins révolutionnaires (Enc. Nouv.
- Arianisme, Athanase)". Tuttociò
che si può dire è che l'arianismo si accostava molto al mosaismo,
che certamente non è dottrina servile. E infine se la corte
bizantina seguì per qualche tempo l'arianismo, lo abbandonò tosto
e per sempre. Onde se vi fu arte nell'inviare genti ariane in paese
non ariano, è mestieri dire ch'essa non oltrepassò il triviale
precetto divide et impera. Intanto
erano isolate nel secolo quinto e sesto le città, perché vi si era
introdotto di recente l'uso rituale della lingua latina, o
conservato forse in alcune il primiero uso della greca, ma nelle
campagne, presso la casta militare, dominava la fede ariana e la
lingua gotica, e presso le genti rustiche il culto degli antichi
Dei. Ebbene,
in tanta confusione, la forza dei municipii, comunque prostrati e
conculcati, fu tanta, che il rituale latino potè uscirne ad
occupare insensibilmente tutta la superficie dell'Italia. E a misura
che il paganesimo spariva dalle campagne, i confini tra l'una e
l'altra diocesi vennero a coincidere all'incirca con quelli delle
antiche giurisdizioni municipali, che rappresentavano altri più
vetusti termini di popoli e religioni. Era come una selva atterrata
che ripullula da sepolte radici. La stessa casta longobarda,
opponendo un vescovo ariano ad ogni vescovo latino, accettò e sancì
quelle prische circoscrizioni. Il municipio fu più forte della
conquista. Qui
si affaccia una dimanda. Quali sarebbero le sorti della civiltà e
nazionalità italiana, se nel secolo IV la lingua rituale non fosse
stata in Italia la latina, ma la greca o la gotica? - Si può con
fondamento rispondere che in ambo i casi sarebbe riescito assai
maggiore lo smarrimento delle voci latine e l'intrusione delle voci
greche o gotiche. Quindi maggiore il divario tra la nuova lingua
italiana e la latina e quelle delle altre nazioni consanguinee.
Epperò sarebbe maggiore l'isolamento intellettuale e morale, e più
difficile quella comunanza d'idee coi popoli antichi e coi moderni
che giovò tanto al nostro incivilimento e più al loro. Inoltre i
libri latini, che vennero a salvarsi perché la gente raccolse
piamente e conservò come sacro o quasi sacro ogni ritaglio di
manoscritto latino, sarebbero stati negletti, e forse di proposito
distrutti come mero rimasuglio di pagani; e pur troppo anche così
sovente lo furono. Onde si sarebbe forse perduta la memoria del
latino, così come avvenne dell'osco, e più ancora dell'etrusco. E
ora staremmo forse ignari e muti, come innanzi alle pietre etrusche,
così anche innanzi alle iscrizioni latine. E insieme alla lingua
sarebbe sepolto quel tesoro di sapienti pensieri e di magnanimi
affetti che per le lettere latine si trasmise a noi e inspirò tante
splendide azioni, e informò le nostre moderne leggi e la vita
intima delle nostre famiglie. L'Italia avrebbe potuto soggiacere a
quello stesso infortunio, che afflisse la Persia e la Battria e
l'Egitto. Il danno sarebbe stato comune a noi e a tutte le nazioni
che collo studio della lingua latina si apersero l'adito all'eredità
intellettuale e morale della madre Italia. Fingiamo poi che una
comune calamità avesse colpito la lingua latina e la greca; e dopo
le orride devastazioni dei Goti e dei Vandali, potremmo imaginarci
di errare come i Beduini sulle ruine di Tebe e di Ninive. Un'altra
quistione venne già più volte agitata. Quali sarebbero state le
sorti dell'Italia, se i Longobardi avessero disteso il regno loro a
tutta la penisola o almeno a Roma? - Valga il vero. Alarico Visigoto
ebbe Roma e tutta la penisola dall'Alpi a Cosenza, ove morì; ed
ebbe pure tutta Italia Odoacre Erulo; e tutta Italia Teuderigo
Ostrogoto e l'ebbe col consenso dell'imperator d'oriente. E tutte
queste tre complete unità di regno in breve svanirono; e non
lasciarono altra memoria che di ruine; e l'Italia restò più debole
che non fosse prima; mille volte più debole che non quando le sue
città, sebben divise da lingue e religioni, e accese di fiere
inimicizie, pur tuttavia seppero resistere a Brenno, a Pirro, ad
Annibale. Il dominio dei Longobardi fu men vasto di quello dei
Visigoti, degli Eruli, degli Ostrogoti e molto più lontano dal
raggiungere l'unità, ed ebbe più poderosi nemici dentro e fuori;
eppure durò due secoli, quando quello degli Ostrogoti che abbracciò
tutta Italia durò solo sessant'anni; e quelli degli Eruli e dei
Visigoti assai meno. Tutti
questi regni, ed altri, caddero non perchè fosse loro troppo
angusta la terra e poca la gente, sicchè non potessero affrontarsi
con qualsiasi altra potenza dei tempi loro; ma perchè non avevano
radice nei popoli; perchè si erano grettamente appresi alla glebe
dei feudi e alle chiuse delle Alpi, e non all'antica forza
municipale, al comizio, al tribunato, al foro; non si erano
assimilate le città come i Romani; non le avevano fraternamente
ascritte alle tribù e alle legioni. Avevano bensì i loro malli e
arringhi, i loro parlamenti armati, ma in disparte dei popoli. E non
erano più che i consigli di guerra di una casta militare; non erano
più che lo stato maggiore d'un esercito disseminato per una terra,
sulla quale da più generazioni esso nacque e rinacque come pianta
parasita, senza prendere innesto sul tronco nativo, nè appropriarsi
la legge della sua vita. I
Longobardi occuparono certamente due terzi dell'Italia; poniamo,
comprese montagne e paludi, sessanta mila miglia di superficie.
Erano sempre stati piccola nazione: Langobardos paucitas nobilitat
(Tac.). Si vuole che, quando vennero, annoverassero sessantamila
combattenti. La conquista poteva dunque dare in sorte d'ogni uomo il
dominio d'un miglio di terra. Ma se fossero stati pure in doppio
numero, molti ebbero a perire nelle pugne, negli assedii, nelle
marce. Stettero tre anni sotto Pavia, presso grandi fiumi, in
campagne impaludate; assediarono lungamente Oderzo, Mantova, Ravenna
e altre città in sito insalubre. L'Italia era da due secoli
devastata; dopo la peste di Narsete, quasi deserta. Ma le operose e
sobrie stirpi degli agricoltori e degli artefici, sebbene in
condizione dura e vile, potevano d'una ad altra generazione rifarsi.
Non così una casta militare, logorata assiduamente dalla guerra
straniera e civile; dalla perenne guerra privata, dalla faida, dal
duello, dalla custodia delle gole alpine, dai presidii nelle lagune
della Venezia e dell'Esarcato e nelle maremme della Toscana, dal
clima ovunque insolito e maligno, dalla intemperanza boreale, dai
disordini del saccheggio, della conquista, della vita feudale. Epperò
se i Longobardi, dopo i primi anni, non si allargarono più oltre,
egli è che non avranno potuto; egli è che tutte le conquiste
trovano termini insuperabili in ciò che la forza espandendosi si
consuma. Occupando per lungo quasi tutta la penisola, i Longobardi
non poterono spaziar mai liberamente fino all'uno o all'altro dei
due mari; ma dovettero soffrire lungo i lidi una catena di città
nemiche, da Grado e Venezia sin oltre Bari, e da Roma sino a Reggio.
Ciò non era senza pericolo e molestia e disonore. Ed era perchè
non ebbero gente quant'era mestieri alle mortifere fatiche degli
assedj, che, inesperti di macchine e di navi e d'ogni scienza
militare, non potevano nemmeno tentare con aspettazione di vittoria
sì vicino alle navi nemiche. E la pochezza di loro numero si può
misurar materialmente anche dall'angustia delle città che furono
loro primarie fortezze e sedi dei principi, come Pavia, Cividale,
Spoleto e Benevento. L'esercito
longobardo, non avendo dietro a sè nazione che riparasse alle
assidue perdite, dovè per necessità ricorrere a gente straniera.
Fin dalla prima spedizione ebbe ausiliarj Sassoni, probabilmente
pagani, e per ciò congedati in breve; nell'assedio di Cremona ebbe
a chiamare ausiliarii Slavi. I
superstiti delle guerre, radunando in sè le eredità dei caduti,
dovevano colle successive generazioni andarsi mutando in fastosi
patrizj. Si avviavano al campo con séguito grande di scudieri,
palafrenieri, paggi, valletti e fanti d'ogni maniera. Onde il
pronipote di chi nella prima invasione era stato seminudo
alabardiere, marciava capitano d'una cavalcata di cortigiani e di
servi. E tutto un esercito accozzato di tali brigate feudali, doveva
esser molto simile per fedeltà e valore ai Sepoi dell'India. Codesta
miscela d'indigeni, avversi per tradizione di famiglia e per
religione ai dominatori ariani, dovette render sì pericolosa nelle
guerre contro i Franchi la condizione dei Longobardi, che questi per
necessità ebbero infine ad uniformarsi alla religione del maggior
numero; onde l'arianismo si spense prima del regno. Questa ragione
è più istorica che quella dell'apostolato della regina Teudelinda,
che altrimenti avrebbero uccisa. Al tempo delle prime irruzioni (A.
400), nell'Europa meridionale e in Africa gli invasori erano quasi
tutti ariani; ma già prima della discesa dei Longobardi (568) i
Visigoti avevano ceduto nelle Gallie ai Franchi, seguaci della
chiesa latina (507); poco dipoi furono esterminati in Africa i
Vandali (534); gli Ostrogoti in Italia (553). I Visigoti di Spagna,
ai tempi di Leovigildo (568), per ragioni simili alle già dette si
erano dovuti accostare alla chiesa latina; l'arianismo era obliato
anche a Bisanzio. Onde, fin dall'arrivo loro, i Longobardi erano
omai quasi soli al mondo di loro setta; e non potevano più
aggregarsi a rinforzo se non gente d'animo nemico. A questa potevano
infeudar terre, ed imporre omaggi e giuramenti e nuovi nomi
longobardi. Ma infine, come le false legioni avevano tradito
l'imperio, i falsi Longobardi dovevano tradire il regno. Nè al
regno avevano mai posto amore veruno i popoli d'Italia, ai quali
significava miseria e avvilimento. Tutte le loro memorie e affezioni
erano pel riacquisto di quell'antico stato colle cui leggi si
reggevano le famiglie, e colla cui lingua si dinotava ogni cosa
sacra. Nei
quattro secoli in circa del dominio gotico e longobardo, la barbarie
andò crescendo; poichè nessuno poteva inalzarsi se non seguendo e
imitando i barbari. Le città non erano apprezzate se non come
fortezze; i cittadini, come tali, non avevano parte nelle cose del
regno; nè avevano potere alcuno sulle proprie sorti; il municipio
era quasi disciolto e abolito. Le buone tradizioni si andavano
sempre più spegnendo di generazione in generazione. Il male non è
il bene; barbarie, ruina, distruzione non è progresso. Milizia,
agricoltura, commercio, scienze, lettere, l'alfabeto stesso,
andavano in oblio. La gente più non aveva valore nè virtù. I
barbari si andavano spegnendo, insieme alle città che avevano
desolate.
III . Non
più favorevole alle città italiche fu l'èra settima, o vogliam
dire la dominazione di Carlomagno e de' suoi posteri e pretendenti,
per l'indole sua feudale e rusticana. Ma giovò ad esse l'odio suo
contro i Longobardi, e più ancora la debolezza e caducità delle
sue istituzioni. Chiamato
dal clero, Carlomagno ne' primi anni suoi (774) si fece re dei
Longobardi, mollemente avversato dai loro duchi, ai quali conveniva
il re più lontano. Epperò egli dapprima potè conservarli nei loro
stati, poi scoprendoli riluttanti e infidi, ovvero trovatosi più
potente, si diede a farne esterminio. Solo appiè delle mura di
Brescia, fece appiccar mille dei loro masnadieri: mille curtisianos
(Rod. Not. V. Rosa, I feudi 51). Ma gli fu forza lasciare ai
Longobardi l'ampio stato di Benevento. Per, questo, e per la parte
di conquista promessa al pontefice, ridusse il regno a poco più
della metà. I suoi tentativi per aggiogarvi la nascente Venezia
ebbero esito inonorato; la città fu più forte del regno. Parrà
che alla milizia longobarda diseredata, o almeno disgregata,
Carlomagno potesse facilmente supplire cogli Austrasii, cioè co'
suoi Fiamminghi e Valloni, che si erano già sovraposti alle Gallie
e alla Germania. Ma, sebbene i regni fossero orridamente spopolati,
la milizia era privilegio di pochi. E nel mezzo secolo che durò in
Francia il governo di Carlomagno (768-814) la casta militare, per le
spedizioni incessanti e le lontane traslocazioni, rimase attrita e
dispersa. Molte famiglie armigere caddero per orfanezza e miseria in
servitù dei potenti, che si usurparono dominii immensi. Una delle
cose che Sismondi pose in chiara luce, e diremo una delle sue
scoperte istoriche, è questa che sotto il re senza fine lodato e
ammirato "l'antique et glorieuse nation des Francs s'etait
presque anéantie" (Hist. des Fr. III)". Il che renderà
più probabile ciò che si è detto intorno al deperimento dei
Longobardi. Ma
la forza militare dell'imperio scemò più ancora per l'accessione
del clero al sistema feudale. Pare che lo stesso Carlo non fosse
della progenie venuta già nelle Gallie coi Merovingi, ma d'una
famiglia episcopale di Metz, che Leo deduce dalla gente romana dei
Tonantii Aureoli. E certo la fortuna di quella famiglia presso i
Merovingi ebbe principio con uno di quei titoli di domesticità (maior
domus) i quali dai barbari solevano darsi appunto agli indigeni.
Quando i maggiordomi col favore del clero giunsero al comando delle
armi, e poscia al regno, e poscia all'imperio, ed ebbero associato
secoloro il pontefice alla suprema presidenza della società
feudale, tutte le terre vennero a partirsi tra militari e prelati;
ma questi potendo continuamente accrescere, giunsero infine ad avere
la più larga porzione. Si sa che Alcuino, benchè straniero,
accumulò quattro abbazie, Tours, Ferrières, S. Loup, S. Josse, con
ventimila servi della gleba, cioè con un territorio che potrebbe
avere adesso duecentomila abitanti. Perciò
la casta militare, che nel regno dei Merovingi era estranea al
sacerdozio e nei regni ariani gli era nemica, fu necessariamente
tratta ad invadere le dignità della chiesa. Perocchè solo a questa
condizione e sotto questo titolo, poteva ritenere le antiche
signorie, sicchè non trapassassero in famiglie suddite e avverse. Laonde
vediamo ai nomi dei nostri vescovi, prima orientali o greci, e
poscia romani, succedere allora i nomi franchi d'Ansperto,
d'Anselmo, d'Ariberto, d'Arderico. In un documento bresciano
Gabriele Rosa fra centotrentuno preti numerò soli venticinque di
nome romano, sia che i più fossero veramente di famiglie franche o
longobarde, sia che studiassero di confondersi con esse imitando i
loro usi. I
figli della casta militare, investiti delle donazioni clericali
ch'erano probabilmente subinfeudate in minori famiglie armigere,
riscossero l'omaggio dei vassalli combattenti; imposero loro i
capitani di guerra; più tardi li condussero essi in campo;
comparvero con usbergo e cimiero nelle battaglie; restarono talora
uccisi sul campo. Ai tempi di Ottone I, il conte di Milano Bonizone
da Carcano, abusando feudalmente dell'autorità datagli
dall'imperatore su la città "virtute ab imperatore acceptâ,
velut dux castrum procurando, regebat (Land. Sen.)" procacciò
l'arcivescovato a suo figlio Landulfo, che investì nei satelliti di
sua famiglia tutte le sacre prebende: "universos ecclesiasticos
honores et dignitates feris et saevissimis laicis tradidit". La
barbarie longobarda non era almeno entrata nel santuario; aveva
depressa la magistratura ecclesiastica, non l'aveva invasa. Ma le
infeudazioni caroline l'apersero all'ambizione delle famiglie
militari; la deviarono da ogni preparazione di studi. Fu allora che
in questa classica terra di Catullo e di Virgilio, prelati, non
curanti di lettere come i selvaggi loro progenitori, si ridussero a
fare appiè delle carte la croce dell'illetterato; poterono dettar
testamenti in quel famoso latino "per Warimbertus... nepoto meo".
(Verri C. III). Già si sa che Carlo medesimo non sapeva scrivere; nè
alcuno darà colpa a lui dell'ignoranza del secolo in cui crebbe. Ma
gli scrittori sinceri non possono negare che le sue istituzioni
fecero le città d'Italia più barbare che non le avessero lasciate
i Goti. Da Carlomagno il secolo del ferro. Il
popolo oppresso non ebbe più il clero compagno de' suoi patimenti
come sotto i duchi ariani: "episcopos qui in depressione et
abjectione erant". Ma udì da loro quelle parole d'odio e di
contumelia che il vescovo Liutprando di Cremona avventava contro
tutta la nazione: "nihil aliud contumeliarum, nisi Romane!
dicemus": invettive, che ripetute da più venerate voci, ebbero
un'eco perpetuo nelle letterature d'oltralpe e d'oltremare:
"Protervia Romanorum!" (S. Bern.). Già
prima di Carlo (751), i prelati avevano seggio nelle nuove assemblee
di maggio, dove prevalsero in breve ai pochi magnati nei quali
Carlomagno le ridusse, mentre agli antichi campi di marzo i
Merovingi convocavano tutto l'esercito franco, così come vediamo a
parlamento nei poemi d'Omero tutto l'esercito greco. Gli atti dei
placiti e delle diete vennero scritti, e forse trattati, in barbaro
latino, tantochè i più degli armigeri si trovarono costretti ad un
taciturno assenso; infine si videro rimaner piedestanti nelle diete,
innanzi ai prelati in seggio. Per tal modo i combattenti vennero in
tutela e amministrazione dei non combattenti. Al
tramonto di quella abbagliante meteora di Carlomagno, l'imperio suo,
accerchiato da cinque nazioni nemiche, non aveva già più
difensori. Già prima ch'ei morisse, i corsari danesi infestavano
tutti i lidi della Germania; poco dopo la sua morte, incendiarono in
Aquisgrana il suo palazzo, insultarono al suo sepolcro. In pochi
anni desolarono non solo tutte le città marittime come Nantes e
Bordeaux: ma remigando su pei fiumi giunsero a Tours e Orléans;
penetrarono nei monti d'Arvernia fino a Clermont; salirono per il
Reno e la Mosella sin oltre Colonia e Treviri. Parigi, benchè isola
e fortezza, fu presa almen sette volte; all'arrivo di duecento
corsari i cittadini fuggirono tutti (865). I corsari greci
distruggevano Populonia e saccheggiavano Marsiglia; gli Arabi s'attendavano
sulle ceneri del Vaticano, sui lidi di Nizza e di Genova, fin dentro
le Alpi di Susa e del Vallese: gli Slavi superavano l'Elba; infine
gli Ungari incendiarono Sangallo, distrussero Pavia, corsero fin
sotto Narbona e Tolosa. Tanto
gelosa e improvida era la tradizione carolina, che nella dieta di
Pistes (864) si ordinò demolirsi quanti luoghi si trovassero murati
senza regia licenza. Piuttostochè armare i popoli, Carlo il Calvo
pattuì di pagare una multa per ogni corsaro che i suoi sudditi
avessero ucciso, e di rimandare ai corsari ogni prigioniero
fuggitivo, ovvero il prezzo del suo riscatto. Il flusso e riflusso
della conquista nell'inerme retaggio di Carlomagno si sarebbe
ripetuto senza fine con altri barbari, come da tempo immemorabile
nella imbelle Mesopotamia. Senonchè, nella dieta di Carisiaco
(877), i magnati si appropriarono in eredità perpetua le cariche e
i feudi. L'autorità suprema rimase disciolta; ma la mano incapace a
difender l'imperio era eziandio resa incapace a impedir la difesa. Da
quel momento non fu più fatto ostacolo a qualsiasi signore di
provedere a sè ed a suoi. In poche generazioni, sull'intera
superficie dell'imperio si venne tessendo con nuovi elementi una
feudalità locale, che ridusse a torri e castella le case, murò i
villaggi, armò i servi più gagliardi; ospitò profughi, tollerò
asili; e anzichè far traffico della propria gente a Greci e
Musulmani, come al tempo di Carlomagno, ne comperò dalle terre
germaniche e più dalle slave, per ripopolare i deserti. I
nuovi feudi non furono più sorti o allodii, cioè porzioni di
conquista divise fra commilitoni; ma concessioni del signore al
suddito o sommissioni del debole al potente. I nomi di ligio, cioè
uomo, e di vassallo cioè commilitone, vennero a dinotare chi si
giurava ad altr'uomo per seguirlo caninamente non solo in guerra
pubblica, come prima, ma in ogni capriccio di nemicizia privata.
Nella nuova feudalità la milizia si cominciò a chiamar servizio;
gli armati appresero a darsi per superbia nomi di servitù. Ma
queste leghe private, risalendo di signore in signore fino al
sovrano, costituirono una nuova ordinanza che agguerriva o almeno
disciplinava le nazioni, sebbene paresse continuata e imitata da
quella dei barbari che le avevano disarmate ed evirate, e sebbene al
disotto di codesta servitù cortese si stendesse su tutte le glebe
la servitù villana. Tutti
allora, nello sforzo d'aggregarsi alla nuova colleganza, affettarono
di portar nomi franchi, sicchè questi infine divennero promiscui a
liberi e servi. I dialetti romani della maggioranza dei nuovi
armigeri soverchiarono e seppellirono l'idioma domestico delle poche
prosapie straniere. Dall'anno ottocento al mille si andò adunque
perdendo ogni distinzione d'origini e ogni memoria di coloro che gli
istorici si compiaciono di nominare i vincitori e i vinti. Ogni
nobilità cominciò da quei nuovi e oscuri patti coi grandi della
milizia e della chiesa. "La vraie noblesse, telle qu'elle s'est maintenue comme un ordre dans
l'état, ne peut faire remonter aucun de ses titres plus haut que
cette époque d'anéantissement". (Sism.).
Disperse per entro alla selva delle castella, le città non ebbero
nemmen più il privilegio d'essere il rifugio dei potenti fra le
incursioni dei barbari; rimasero tanto più disarmate e avvilite.
Gli istorici notano che già gli antenati di Carlomagno, ed egli
medesimo, le trascuravano e spregiavano, mentre i Merovingi, che le
avevano trovate in men basso stato e non così logore da secolare
miseria, solevano dividere e intitolare per città i loro regni di
Parigi, Orléans, Soissons e Metz. Ma i Carolingi amavano stanziare
in terre aperte; Carlomagno ordinò in suo capitolare (de villis)
che in ognuna delle sue ville vi fossero tessitori, fabbri,
argentieri e altri artefici d'ogni maniera, quasi volesse trasferire
nei servi della gleba, come l'agricoltura, anche le arti delle
cadenti città. Queste andarono adunque in oscurità e miseria
sempre maggiore; divennero sovente un'appendice delle castella. "Les
plus grandes villes n'étaient plus considerées que comme des
villages, que comme la dépendance du château voisin". (Sism.). Questa
comparativa debolezza delle città si perpetuò in alcune parti
della Francia, non ostante ogni incremento del commercio e
dell'industria. Ancora oggidì sette dipartimenti che colla loro
superficie unita pareggiano il Lombardo Veneto, non hanno maggiori
città che di sei, di quattro, persino di tre mila anime (Ariège,
Haute Saône, Lozère, Landes, Creuse, Ardêche, Basses Alpes). In
quanto le istituzioni di Carlomagno assimilarono l'Italia al
rimanente imperio, dovevano adunque deprimere le nostre città;
tantochè le meno infelici furono quelle che, come Venezia, Roma,
Capua, Napoli, Amalfi, non soggiacquero all'ombra ferale della sua
legge. Ma forse furono allora mirate con maggior sospetto le nuove
torri delle famiglie longobarde che non le città dei loro antichi
sudditi e nemici. Per ciò, quando gli Arabi cominciarono a infestar
la penisola, e già prima della calata degli Ungari, vediamo
Ludovico II chiamare all'esercito tutti gli abitanti di Brescia
(865): "ut omnes laici, qui arma ferre possent, in exercitalem
pergerent expeditionem adversus Saracenos". Senonchè, gli
armigeri avendo ucciso il conte Bertario, minacciati della vendetta
di Ludovico, si apprestarono a difendere le mura anche contro di
lui: "commotus est populus universus; arma capere, portas
claudere proclamabant". (V. Rosa ib.). Brescia adunque aveva già,
ovvero aveva ancora, le sue mura. Pochi anni dopo, le ebbe anche
Milano (868-881), che i Goti da tre secoli (538) avevano
smantellata. Nel 905 ebbe mura anche Bergamo. Le città fortificate,
là dove non vi sono eserciti stanziali, fanno supporre qualche
ordine di custodia e d'armamento nei cittadini; e dove la
popolazione è scarsa e le città quasi deserte, fanno supporre
qualche armamento esteso a tutte le classi. In Italia adunque le
mura e le milizie urbane risorsero per quella medesima impotenza e
dissoluzione per cui sorsero le castella. E
così mentre oltralpe i feudi soprafacevano le deboli città, in
Italia si poterono alzare, una a fronte dell'altra, due milizie.
L'una urbana composta di liberi artefici, mercanti, scribi e altri
superstiti delle famiglie degli antichi giureconsulti e sacerdoti,
divisa per arti o per porte, pronta ad accorrere sulle mura,
ricordava le tribù civiche della prisca Italia; celava in sè il
principio d'un risorgimento integrale. L'altra sparsa per le foreste
del contado, composta di castellani e torrigiani e dei loro bastardi
e bravi, si attruppava intorno alle romite muraglie di Biandrate, di
Castel Seprio, di Castel Marte, ove una gotica strategia aveva posto
il ricapito delle cavalcate feudali. La diversità delle
giurisdizioni e delle leggi, ch'erano romane nella città e
confidate a giudici elettivi, mentre nelle campagne erano più
sovente longobarde o saliche, e confuse colla disciplina militare e
coll'arbitrio feudale, fecero sì che il servo della gleba potesse
anch'egli farsi franco, purchè solo riescisse a fuggire e a
lucrarsi colle braccia il pane nella prossima città o nella sua
giurisdizione. Quindi crescente ogni giorno il popolo urbano; e per
forza di ciò, maggiore ogni anno nel contado la necessità d'armare
altri gagliardi, e interessarli con franchigie e feudi e livelli
alla difesa delle castella. Le
città, non appena riscosse dal letargo dei secoli gotici,
espandevano dunque in circuito un'influenza avvivatrice, che
rigenerava anche il patto feudale; ed era più possente, ov'esse
erano mercati e officine di più largo contado, mentre le città
piccole e povere della montagna o delle terre basse e impaludate, e
quelle che avevano più patito per le ultime invasioni, dovevano
rimaner più ligie alla feudalità. Pertanto esse dovettero recare
fino a più tarda età, non l'impronta longobarda, ma l'impronta
dell'età dei Longobardi, non perchè fossero in origine più
barbare, ma perchè trovarono intorno a sè minori sussidii a uscir
dalla barbarie. Il
fatto supremo si è che per tutte le dominazioni gotiche, longobarde
e franche si era trasmesso nella ierarchia episcopale quell'ordine
di preminenza in cui le città stavano fra loro nei tempi in cui
quella erasi instituita. Sempre Roma era stata nell'ordine sacro la
prima città d'Italia; sempre Milano era stata la seconda Roma; il
primato ambrosiano comprendeva Torino e Genova, si dilatava
oltremonti fino a Coira e Ratisbona. Le città non emergevano dunque
come dal fiume dell'oblio, ma come da lungo sonno, con tutti gli
orgogli dell'antico stato. Epperò
quando Milano era ancora silenziosa, propter hominum raritatem, e i
vuoti suoi spazii erano occupati di pascoli e vigne, vediamo alla
morte di Ludovico II l'arcivescovo Ansperto trar seco in arme i
vescovi di Cremona e Bergamo per togliere a forza il cadavere
dell'imperatore al vescovo di Brescia e dargli sepolcro in Milano.
Lo vediamo negarsi alteramente al comando del pontefice romano che
lo chiamava a concilio. Questa preminenza era innata alla città;
era la tradizione d'una grandezza anteriore alla chiesa ambrosiana,
anteriore al papato, all'imperio, alla conquista romana: Mediolanum
Gallorum caput. Ecco le radici dell'istoria moderna abbarbicarsi
negli imi ruderi delle età primitive. L'istoria d'Italia è una e
continua; non ha principio se non coll'Italia. A
questa preminenza civica, trasformata in supremazia rituale, gli
arcivescovi attinsero la forza di reggere col voto loro tutte le
elezioni dei pretendenti alla corona d'Italia. Ansperto acquista
feudi favoreggiando Carlo il Calvo; Anselmo incorona Berengario;
Andrea invita al regno Ludovico di Provenza; Lamperto invita prima
Rodolfo di Borgogna, poi Ugo di Provenza, Arderico patroneggia
Berengario d'Ivrea; la dieta di Milano proclama Lotario figlio
d'Ugo; Valperto chiama in Italia Ottone e lo scorta a Roma. Ad ogni
siffatta mutazione, il primato acquistava sempre favori e rendite e
dazii e feudi, finchè non ebbe raccolto in sua mano tuttociò che
la corona poteva dare: maximos redditus imperiali auctoritate
recipiebat... super stratas regales, in exitu quolibet de Comitatu,
habuit teloneum; et dum intrabat aliquis... dabat telonariis
archiepiscopi, immo innumerabilibus telonariis, censum. (Galv.). E
coi dazii di tutte le strade aveva acquistato, d'autorità
imperiale, la loro custodia e la giurisdizione e la forza armata per
tutto il contado, che forse abbracciava in parte altre diocesi: Et
archiepiscopus tenebatur custodiri facere passus; et omnibus
damnificatis infra territorium restituere de suo. Un conte inviato
dal re non poteva aver incaricato o autorità di contrastare ai
voleri d'un primate, che faceva i re e li disfaceva. L'autorità del
conte trapassò dunque nel primate, non per effetto di rivoluzione
popolare, ma d'autorità imperiale, per continui patti coi principi
nuovi o lontani, e per primitiva e costante tendenza, ch'ebbe la
politica carolina, di condurre alla confusione della milizia col
sacedozio. Era l'ultimo termine d'un moto di discesa e d'un politico
discioglimento. Or
com'ebbe principio la separazione dei due principii? - Quando
Bonizone e Landulfo ebbero prodigato ai loro armigeri le funzioni
sacerdotali, la coscienza dei popoli si oppose. Cacciato Landulfo,
ucciso Bonizone, si venne a termini di pace. Ma quali? Per quanto
possiamo raccogliere da Galvaneo, si convenne che gli officii sacri
restassero separati dalle investiture militari, che sembra si
conservassero nei congiunti e aderenti dei Carcano. Anzi pare che in
essi si perpetuasse l'eredità, e se ne costituisse il nuovo ordine
dei Capitani delle Pievi: Landulphus archiepiscopus, expoliatis
omnibus ecclesiasticis personis, quarum bona per nefandam
investituram civibus tradidit, quos Capita Plebium appellavit; unde
et Capitanei dicti sunt. Landulfo per tal modo dovè trovarsi d'un
tratto capo d'un'ierarchia ecclesiastica, probabilmente eletta dai
popoli, e d'una milizia feudale eletta da lui e avvinta al suo
parentado. Una simile rivoluzione contro il clero armigero, si vede,
pure al tempo degli Ottoni, in Cremona. Onde si può tentare la
congettura che da quel tempo, i feudi che i Carolingi e pretendenti
avevano abbandonati ai prelati, trapassarono per molta parte in un
corpo di capitani, che divenne ereditario e indipendente. In questo
ritorno del feudo clericale a feudo militare, l'Italia seguiva un
moto contrario a quello che le avevano impresso per due secoli le
istituzioni caroline. I
capitani delle pievi rurali, essendo per tal modo quasi
un'emanazione della città, seguirono il suo vessillo nelle
successive guerre, eziandio contro gli imperatori della famiglia
Salica; la quale obbedienza non si sarebbe prestata da chi non
avesse avuto investitura da altre mani. Perlochè possiamo dire che,
mentre la feudalità oltralpe si conservò regia, qui divenne
municipale. Era una milizia diocesana, consolidata, forse per
intenzione del fondatore, in un ordine di cittadini: civibus
tradidit... capitanei dicti sunt. Così si restaurava uno dei
distintivi più antichi della città italica: la milizia rurale
immedesimata col patriziato civile. Ma si apriva l'adito ad una
nuova lotta fra le due milizie, fra i capitani del contado e la
milizia urbana, fra le castella e la città. Infatti,
nella prima metà del secolo seguente (1018-1045), l'arcivescovo
Ariberto, ponendosi sopra tutti gli altri Pari del regno, andò in
Germania per patteggiare egli solo a Corrado il Salico la corona:
suorum comparium declinans Heribertus consortium, invitis illis ac
repugnantibus, adit Germaniam, solus ipse regem electurus. Arn. In
ricambio ottiene il diritto di conferire ai suffraganei vescovi di
Lodi e di Cremona, non solo l'ordine episcopale, ma la feudale
investitura: ut sicut consacraverat, similiter investiret. E di
questo modo procede Ariberto a soverchiare tutti i magnati e agitare
tutta l'Italia: totam evertit Italiam, alios re, alios spe,
benevelos faciens. Lodi resiste, ma viene oppressa; oppressa
Cremona; oppressa Pavia, che gli Ungari del re Berengario avevano già
spogliata di tutte le reliquie della regia fortuna; Asti è invasa
col pretesto delle nuove sette. Ariberto, pontefice armato, e quasi
re della vasta provincia ambrosiana, va con un esercito in Borgogna
a propugnare le ragioni di Corrado. Reduce, s'involge in guerra
civile coi capitani, forse già in quelle due o tre generazioni resi
indocili dall'eredità. Egli oppone ai capitani la fanteria urbana,
che serrandosi intorno al sacro carro, affronta in campo la
cavalleria. In ciò forse fidando, Ariberto si scioglie affatto
dalla legge feudale; rompe guerra allo stesso Corrado. Chi si
figurasse che il principio di questa potenza fosse in Ariberto, e
non nella città, dovrebbe discredersi allorchè lo vede, già
presso al termine della sua carriera (1042), lungamente esule,
insieme ai capitani. La città era dunque più forte di lui e dei
capitani. La città era ormai libera, non perchè avesse avuto da
Carlomagno o da Ottone gli scabini o i consoli o i giudici o altre
siffatte inezie, ma perchè aveva le armi. Non
è meraviglia dunque s'essa nelle seguenti generazioni perseverasse
a imporre alle città vicine quello stesso primato che Ansperto e
Ariberto e gli altri avevano imposto già per due secoli a nome suo.
Ma non è poi meraviglia che tutto il cerchio delle città finitime,
per necessità di difesa, rimanesse perennemente nemico di Milano.
Una volta che le città si erano costituite in potenze militari
indipendenti, valeva per loro, quanto per i più vasti imperii
moderni quel fatale principio d'ogni diplomazia: gli Stati finitimi
sono naturalmente nemici. Alla qual ferrea legge non si sfugge se
non per la via delle federazioni, in cui gli Stati trasportano più
lontano i termini d'onde ha principio un altro campo di
deliberazione politica e d'azione militare. Fra
le città nemiche a Milano v'è senza dubbio Pavia, che divenuta
città regia dei Longobardi, s'era nel secolo VIII disciolta dal
primato ambrosiano (Verri). Ma v'è pur Cremona, città che, non si
saprebbe dir come, non ebbe duca dai Longobardi; e anzi fu da loro
ostilmente manomessa; e nondimeno ebbe più guerre con Milano che
non alcun'altra città. E v'è pur Lodi Vecchio, Laus Pompeia, città
più di tutte romana per la sua fondazione, pei nomi delle aque e
dei poderi, nè compresa parimenti nel novero dei ducati longobardi.
Ma essa doveva respinger la mano che il primate stendeva sulle
investiture, vale a dire sugli onori e i possedimenti. E se quell'angusto
territorio, allora quasi inculto, chiuso nelle dieci miglia fra il
Lambro e l'Adda, si paragona alla diocesi d'Ariberto, la quale si
stendeva per una superficie almeno venti volte maggiore dalla foce
dell'Olona al Gottardo, si vede qual necessità costringesse Lodi a
farsi alleata di tutti i nemici di Milano. Per una simile necessità,
Mantova, che solamente ai tempi di Carlomagno (805) aveva potuto
ristaurare il suo prisco stato municipale dandosi un vescovo, si
moveva contro Verona. E simile necessità moveva Crema contro
Cremona; la quale, per un gioco di parole fondato nell'oblio delle
antiche lingue, si attribuiva un diritto quasi di accrescitivo. E
solo colla tardissima fondazione del vescovato di Crema si restaurò
appieno il diritto municipale di quel popolo; che per dialetto, cioè
per prima origine, si palesa agnato, non a Cremona, ma a Bergamo e
Brescia. Per
converso Brescia, città ch'era stata longobarda quant'altra mai,
pure non avendo ragione di confini con Milano, ed essendo assai più
forte, e lontana, e avvolta in altri vortici d'ostilità, sovente
con città nemiche a Milano, non ebbe a contrarre inimicizia seco.
Ed è altra legge di diplomazia che, come gli stati contigui hanno
occasione a offendersi e mutilarsi, così gli stati alterni tendono
a collegarsi contro il comune vicino e nemico. Gli stranieri si
stupiscono di vedere fra le città d'Italia quella medesima
perseveranza nelle offese che non si stupiscono mai di vedere fra
regno e regno, perchè non sanno intendere l'indole militante e
regia di quelle città. La prova che la causa delle inimicizie che
accerchiavano Milano era nella sua potenza, o per più giusto dire,
nella sua ambizione, è questa che molte delle altre città, quando
la videro soverchiata e distrutta, e pensarono di non averla più a
temere, si collegarono a sollevarla dalla ruine. Ma
v'era fra le teocrazie instituite dai Carolingi in Italia un altro
più ampio circolo di confini e d'ostilità; la vasta chiesa
ambrosiana poneva limite alla crescente potenza di Roma. Già nei
primi anni d'Ariberto, l'imperatore Enrico II volle vietare la
consuetudine delle nozze che il clero ambrosiano aveva commune col
greco. Poco dopo la morte d'Ariberto, Ildebrando, non ancora
pontefice, ritentò quella riforma. Si destò una guerra civile, che
intrecciandosi alla lutta fra i capitani e il popolo, arse per
diecinove anni (1056-1075). Ma l'idea che vedesi sovrastare a tutte
quelle battaglie cittadine è sempre questa che Milano non debba
apparire ai posteri minore di Roma: "O insensati Mediolanenses,
esclama il vecchio Arnulfo,... scripta sunt haec in romanis
annalibus. Dicetur enim in posterum subjectum Romae Mediolanum".
Il popolo che, nemico egualmente ai signori della gleba militare e
della clericale, parteggiava dapprima per il riformatore, infine
quando vide Erlembaldo, il campione d'Ildebrando, a cavallo col
vessillo romano in pugno cadere ucciso, applaudì con cantici alla
vittoria del suo stendardo municipale, corse in armi a renderne
grazie appiè degli altari: "Post hoc insigne trophaeum, cives
omnes triumphales personant hymnos Deo ac patrono suo Ambrosio,
armati adeuntes ipsius ecclesiam." Retrocediamo tredici secoli,
e vediamo in simile emulazione fra Roma e Milano il console Marcello
uccidere di sua mano sul campo di Clastidio il re degli Insubri, e
l'insubre Ducario uccidere per converso sul campo del Trasimeno il
console Flaminio, e trentamila cisalpini affrontare i Romani sul
campo di Canne. Al risorgente splendore di Milano Ildebrando oppone la tradizione d'un'altra grandezza antica, ma per sempre tramontata. Egli trasferisce da Milano ad Aquileia il primato della vastissima diocesi di Como. E per lo stesso principio gli avversarj suoi gli oppongono in Roma il patriarca di Ravenna. Nè Roma, nè Aquileia, nè la celtica Milano, nè la pelasga Ravenna debbono l'origine loro e i privilegi della loro natural posizione ai Longobardi o ai Franchi. È d'uopo risalire più altamente il corso dei tempi per rinvenire il principio di quelle influenze morali che si contendono il campo. Ed ogni minor città tien pure le sue ambizioni, ovvero è posta in cimento dalle ambizioni altrui. I due capi supremi della società feudale, anzichè poter comporre quelle discordie, le avevano preparate di lunga mano colla guerra delle investiture, che precorse il secolo delle guerre municipali. La libertà delle guerre municipali non era sancita dall'antico diritto del regno, nelle cui diete le città non ebbero tampoco l'infimo seggio; non dal diritto feudale; non dal diritto canonico. Era una libertà eslege, orfana, abbandonata a tutte le smanie dell'ambizione, a tutti gli abusi della vittoria, a tutte le imitazioni della guerra privata e della feudale vendetta. L'idea della parità del diritto nella disparità delle forze, l'idea d'una giustizia federale, era un raggio di luce riservato a illuminare troppe remote generazioni. Il destino sovrastante, inevitabile, ineluttabile era quello d'un'illimitata emulazione.
IV . Se
nel regno d'Italia la casta dominatrice, soppiantata dai
conquistatori franchi, o logorata dalle guerre civili delle sei
dinastie che si contesero la corona fino al mille, aveva lasciato
deperire le tradizioni militari, anche la casta indigena, ad ogni
generazione sempre più imbarbarita, aveva nel tempo stesso quasi
obbliato le tradizioni civili. Ma le città emersero da quell'abisso
di viltà insieme e d'ignoranza, subito ch'ebbero ricuperata la
milizia, e all'ombra sua, la popolazione, l'industria, i beni, le
leggi. Nel
primo secolo dopo il mille, che si può chiamare l'êra ottava delle
città, le guerre tra i primati e le diocesi suffraganee, tra la
chiesa ambrosiana e la romana, tra i pontefici e la dinastia salica
a cagione delle investiture; e infine la prima crociata, ebbero
tutte un'indole teocratica. E alle crociate possono assimilarsi in
certo aspetto, se non le prime imprese dei Veneti in Istria e
Dalmazia, almeno quelle dei Pisani e dei Genovesi in Sardegna, in
Corsica e nelle Baleari, e quelle dei venturieri Normanni in Apulia
e Sicilia. Perocchè combattendo gli Arabi e i Greci come genti di
fede nemica, da ciò trassero popolarità e fortuna. Ma
già nel principio del secolo seguente, ossia nell'êra nona delle
città, le guerre si fecero secolari e mondane, benchè fossero in
parte effetto e continuazione delle rivalità episcopali. Dapprima
le città contesero in cerchio colle città finitime, come già
l'antica Roma con Sabini e Latini. Esse dovevano ristabilire le
giurisdizioni e i confini che la geografia militare dei barbari
aveva trasandati e manomessi. Poscia in cospetto del possente
Barbarossa le inimicizie vicinali si atteggiarono in due grandi
leghe. E finalmente, dopo trent'anni di guerra, la pace di Costanza
introdusse nella legge imperiale le città libere. Onde rimase
abolito l'antico regno e la dieta degli impotenti magnati che lo
rappresentava in Roncalia, innanzi al cui vano giudizio Federico
stesso ne' suoi primi anni aveva citato gli armigeri municipii. A
quell'eroica lotta s'intrecciò nel tempo stesso la guerra tra le
due milizie. Perocchè le leghe feudali di Castel Seprio e di Castel
Marte ajutarono Federico contro Milano, che per tanto non potè
nemmeno raccogliere a quel mortale conflitto tutte le forze del suo
territorio. Codesta guerra intestina nel seno d'ogni provincia,
prolungata per tutto il secolo seguente, trasse seco la distruzione
delle castella, la forzata aggregazione dei castellani alla
convivenza municipale, e l'abolizione della servitù della gleba. Ebbene,
qui vediamo fin da quei remoti tempi le nostre città dare il primo
esempio di quella grande innovazione sociale che ora soltanto
vediamo iniziarsi in Russia e in Polonia, quale imperiosa necessità
di tardo secolo. Tra i molti fatti che Giuseppe Ferrari trasse dalle
tenebre delle croniche municipali, e ordinò e chiarì ne' suoi
studi su i Guelfi e Ghibellini, nessuno è più degno d'essere
ricordato ai posteri e additato alla malevola Europa di quello ch'ei
raccolse in una cronica bolognese: "Nel 1236 furono liberati
tutti i contadini; e il popolo di Bologna li comperò a denari
contanti; e si decretò sotto pena della vita che non si avesse a
tener più alcuno per fedele (cioè schiavo); e il comune riscattò
i servi e le serve del contado; e i signori conservarono i loro
beni" (V. II, 231). Chi faccia ragione di sei secoli
d'intervallo, dovrà dire che questo fatto supera al paragone anche
quel glorioso decreto, col quale il parlamento britannico consacrò
cinquecento milioni di franchi a redimere tutti i Negri delle sue
colonie. Liberato
a questo o ad altro patto o anche a forza il contado, si trovarono
con ciò risuscitati i comuni rurali. Le selve e montagne, su cui la
caccia feudale aveva steso le sue gotiche interdizioni, o furono
rese all'aratro, o partecipate in possesso a tutto il popolo, come
già nella lontana êra celtica. I servi affrancati, coscritti dalla
città in cerne, riebbero anche il virile diritto di portare le armi
private che la legge feudale aveva loro interdetto sotto pena di
mutilazione o di morte. Tutte le popolazioni vennero unificate sotto
il nome della loro città, la cui legge si stese su tutta l'antica
sua terra. Fu
allora che i consoli milanesi Oberto dell'Orto e Gerardo Negro, per
sottoporre a forma di municipale giudizio anche l'arbitrio feudale,
scrissero il libro de Feudis; richiamarono la tradizione della forza
alla ragione; dettarono dalle mura d'una città d'Italia una legge,
alla quale si venne poi conformando tutta la feudalità d'Europa. Nel
tempo medesimo, dalle consuetudini dei naviganti e degli artefici si
svolse il nuovo diritto commerciale e marittimo, che parve
un'esenzione e un privilegio concesso ai mercanti, e ch'era la più
pura formula dell'eguaglianza, tra gli individui non solo, ma tra le
nazioni che il commercio conduceva a incontrarsi. E così usciva
dalle città un nuovo diritto delle genti. E
già fin dall'anno 1216, si noti bene la data, apparvero gli Statuti
municipali di Milano, che a guisa dei moderni Codici, nati seicento
anni più tardi da altra pur simile trasformazione della società,
richiamarono le nazioni al diritto romano e alla filosofia che lo
aveva inspirato. Infatti Milano, dettando al Capitano del Popolo il
giuramento di conservare gli statuti: "Vos, domine Capitanee,
jurabitis... quod salvabitis et custodietis ipsum Populum et Statuta..."
gli ingiunse che, ove questi non bastassero, si conformasse al
Diritto Romano: et si deficerent, servabitis Leges Romanas (Verri.
1288). La
terra, sgombra di servi, libera dalle sbarre e chiuse feudali, non
più stabilmente assediata dalle masnade castellane, percorsa da vie
la cui custodia, tolta ai vescovadi, fu data alle corporazioni
stesse dei mercanti, venduta, comprata, divisa, suddivisa per
progressivo influsso del diritto romano in liberi patrimonj, vide
diradarsi le foreste, sfogarsi le paludi, ristaurarsi le grandi
arginature dei fiumi già intraprese dalle antichissime città
etrusche. Ma
il dono più magnifico delle città alle campagne fu quello delle
generose irrigazioni ch'esse con pensiero provido e con braccio
possente e irresistibile condussero, ad onta di tutte le barbare
immunità, per vasti territorj intorno a Milano, a Novara, a Pavia,
a Lodi, a Cremona, a Brescia. Fa stupore, veramente stupore, che
siffatte imprese potessero aver principio e compimento in quegli
anni medesimi in cui le travagliate città combattevano fra le
stragi e le mine. Perocchè il canale del Ticino si crede intrapreso
(1179) tre anni dopo la battaglia di Legnano su le pianure medesime
ove fu combattuta. E la Muzza, il più grande dei canali irrigatorii,
fu aperto dopo la battaglia di Casorate contro Federico II e i suoi
Arabi (1239). Allora gli statuti diedero alle acque irrigatrici il
diritto di libero passo, diritto che alcune delle più civili
nazioni non sanno ancora oggidì conciliare colla nuda idea
d'un'assoluta proprietà. Epperciò un ingegnere scozzese la chiamò
con frase del suo paese la Magna Charta dell'irrigazione (Baird
Smith, Italian irrigation. V. I.). Con
altro pensiero affatto nuovo in Europa, le città condussero le
acque con tale proposito, da servire anche alla navigazione (1257).
E così si poterono tanto più facilmente diradar le selve su le
pianure, in quanto si potè allora supplire con quelle di lontane
alpi ai bisogni delle città; e si ebbe dovizia di materie a
riedificarle. Il
cronista di Bologna scrisse: "Il Comune riscattò i servi e le
serve del contado; e i signori conservarono i loro beni." Ma
egli non s'avvide, e non s'avvidero allora i popoli, che i signori,
oltre al conservare i loro beni, li avevano, per quel riscatto dei
servi e delle serve, immensamente accresciuti. Quando la foresta
feudale, sparsa qua e là di rari campi e popolata di pochi schiavi
e da frotte di porci e cignali, si tramutò in poderi coltivati da
livellarii e mezzadri, che potevano alimentare l'agricoltura coi
frutti delle loro fatiche o con prestiti di denaro altrui; quando le
vie libere e i liberi fiumi ed i canali condussero i viveri alle
città; e queste crebbero per nuove industrie a cui la rude Europa
pagava allora tributo, è chiaro che un feudatario, il quale, sullo
spazio ove gli avi suoi tenevano cento capi di schiavi, potè dar
lavoro a mille liberi agricoltori, e vide ricercarsi le sue derrate
a prezzo inaudito, si trovò, per influenza delle città, sollevato
a favolosa opulenza. E
come già fin da quel secolo vediamo in Milano l'imposta prediale
estesa a tutte le terre, e attivata l'idea d'alimentare la guerra
col credito pubblico, così già fin d'allora vediamo agitarsi la
quistione del libero commercio dei grani. In una concordia tra i
capitani e il popolo di Milano (1225), si convenne che il Comune
dovesse introdurre grano estero; e sembra in meschina misura.
Superbi d'una ricchezza che ogni anno per arcana virtù cresceva
insieme colle popolazioni e colle industrie, i capitani rurali,
fatti cittadini e venuti dalle loro antiche solitudini a stringersi
in numeroso e potente consorzio, poterono ripetere impunemente in
seno alla città gli usi e gli abusi feudali, recarvi seco le guerre
private e le vendette ereditarie che tra loro li dividevano.
Alzarono le torri delle loro case contro quelle delle schiatte
rivali, e sopra i tugurii del popolo; e dentro quegli inaccessibili
claustri si arrogarono d'esercitare le giustizie sommane, il diritto
del taglione, il diritto di pugno, il diritto d'omicidio e di
composizione, che la legge longobarda assicurava a chiunque potesse
gettare alle famiglie degli uccisi una vile moneta. Quindi sempre
maggiore ad ogni generazione la necessità di difendere colla forza
l'antica pace municipale: Fiorenza
dentro della cerchia antica... Sen
stava in pace, sobria e pudica. Quindi
la necessità d'armare il magistrato. Tale era la violenta natura di
questo elemento feudale, cui le città oltremontane non ebbero mai a
ricettare entro le loro mura, che alle città nostre parve beneficio
il riavere quei tremendi podestà, giudici insieme e soldati, col
cui braccio Barbarossa aveva voluto domarle: Mediolano destructa...
tota enim in conspectu ejus tremebat Italia... in urbibus Italiae
suis positis Potestatibus. (Vinc. Prag.). Ma
i podestà, mezzo legisti e mezzo soldati, erano pur uomini della
stessa tempra di quelli ch'essi dovevano raffrenare. Anch'essi erano
nell'inevitabile alternativa di scegliere tra l'una e l'altra parte
nella perpetua guerra tra il pontificato e l'imperio. Quindi la
giustizia o esercitata come un'ostilità, o come tale considerata da
quelli che dovevano soffrirla. E queste inimicizie propagate
continuamente dai podestà medesimi coll'errante loro ministerio di
città in città, si tessevano in una vasta dualità che involgeva
tutta la nazione. E andavano oltralpe a rannodarsi colle antiche
emulazioni delle due dinastie guelfa e ghibellina; l'esistenza delle
quali era ignota alle moltitudini che da loro prendevano il nome, e
lo davano in sanguinoso legato ai loro figli. Ma l'edificio
municipale, radicato per forza tradizionale nella città e nel
territorio, era così solido e fermo che nè guelfi, nè ghibellini
con esilii o confische o delitti o supplicii o battaglie o eccidii
mai giunsero per tante generazioni a soggiogarlo e assimilarlo. La
città poteva ora esser tratta verso i guelfi ora verso i
ghibellini, ora vedersi svellere dal seno una parte de' suoi figli
ora l'altra, ma la cultura municipale continuò pur sempre
l'ammirabile sua evoluzione. L'alternativa dei guelfi e ghibellini
è accessorio; le due alte influenze che la promossero, erano forze
perturbatrici e modificanti; non erano il principio della vita
municipale, come sui mari il vento e la corrente non sono il
principio pel quale il naviglio galleggia e fende l'onda, né sono
la ragione del suo viaggio. All'età
eroica delle città non partecipò tutta la nazione. Nell'Italia
meridionale i municipii avevano ben conservato un resto di vita
anche quando nella settentrionale erano fatti cadaveri. Ma negli
anni stessi in cui Venezia, Pisa e Genova cominciavano le splendide
loro imprese nel Mediterraneo, nell'Egeo, nel mar Nero, e che Milano
si apprestava nell'ineguale sua lotta col gran potentato, i
venturieri Normanni (1041), dandosi per difensori dei popoli, e
armandosi d'investiture pontificie che si arrolavano nella gran
corporazione feudale, avevano steso un nuovo dominio non solo
sull'antica terra di Benevento, ma sulla Calabria e sulla Sicilia.
Infine avevano spento anche gli stati liberi d'Amalfi (1131) e di
Napoli (1138). Il
regno normanno era feudale, ma nell'ultima e meno barbara forma
della feudalità. Il suo parlamento non era un consiglio di guerra
come i malli dei Merovingi, nè solo un convegno di principi e
prelati come le diete dei Carolingi e degli Ottoni. Esso comprese
ne' suoi tre bracci anche i magistrati delle città, ma sotto la
finzione giuridica, ch'esse fossero patrimonio domestico del re. Non
escluse del tutto l'antico principio italico; ammise alla fonte
delle leggi la città; ma la subordinò ad un principio estraneo ed
avverso; le assegnò una vita inerme, servile e languida. E di tal
modo per un'ampia parte d'Italia si prolungò anche nei secoli
moderni l'êra bizantina. Un popolo disamorato, indifferente,
abbandonò in ogni pericolo i suoi baroni, i suoi prelati, i suoi
re; soggiacque sine irâ et studio a un mutamento perpetuo di
dinastie. La terra, la cui prima conquista costò più sangue ai
Romani antichi, divenne il sogno aureo d'ogni venturiero che
sperasse vincere al gioco dell'armi una puglia. Qual divario immenso
fra il vasto infermo regno, sedente nel mezzo di tre mari, e l'umile
angolo di laguna d'onde Venezia potè resistere a Carlomagno, a
Solimano, alla lega di Cambrai! Federico II, raccolta in dote colla
moglie la potenza normanna, volle dilatarla nell'alta Italia dove già
possedeva i diritti imperiali e aveva per sè la parte ghibellina.
Vinto a Milano e a Bologna e lasciatovi prigione due volte il figlio
Enzo, rinunciò alla prova. Ma dalla sua disfatta uscì la dittatura
dei Torriani, che abbracciò in breve sette città. La dittatura
parve allora il solo vincolo possibile tra popoli che, spinti
assiduamente gli uni contro gli altri dalle due rivali influenze,
non avevano ancora aperta la mente al concetto d'un diritto
federale. Sulle
fondamenta poste dai Torriani, i Visconti eressero uno stato ch'ebbe
fino a trentacinque città e si protese fino a Spoleto, accerchiando
d'ogni parte la libera Fiorenza; pareggiò quasi in grandezza il
regno longobardo, superandolo molto di dovizie e potenza. Ma essi
non vollero aver milizia popolare. Nè solo tennero disarmate le
città; ma Ottone Visconti, il gran prelato ghibellino, atterrò
Castel Seprio, il più formidabil nido di feudatarj, e instituì
perpetuo giuramento che i podestà non lo lasciassero ristaurare.
Quindi la salvezza dello stato e l'onor della nazione data in
arbitrio dei condottieri. Le città che avevano affrontato
vittoriosamente i due Federici, si trovarono retrocesse di nuovo a
quella condizione debole e passiva che avevano prima dell'arrivo dei
Goti, e che doveva trarle nel secolo XVI a nuova desolazione. Ma
i Visconti disarmarono, non disciolsero, l'instituzione municipale.
Le rimase sempre il principio che distingue la città italica dalla
città transalpina, cioè l'intima unione sua col suo territorio, e
la tenace convivenza dei possidenti, che non vollero mai relegarsi
nella campagna che li nutriva, nè sommergersi nella capitale che
gli obliterava. Ogni qualvolta l'eredità o la guerra o la
ribellione dei popoli o l'infedeltà dei condottieri scompose
l'ampio retaggio dei Visconti, la scomposizione si fece per città,
come le rocce stratiformi e i cristalli si sfaldano nel senso della
loro formazione. Brescia, Verona, Padova or furono dominio dei
Visconti, or degli Scaligeri, or dei Carraresi, ora dei Veneti. Ma
questo era un mutar di bandiera o di presidio; poco più che un
mutar d'alleanze; non turbò, nè smosse l'intima vita municipale.
La città minore subì la legge del principe, non quella della città
ove il principe aveva stanza. Nessuna
potenza lasciò più intera e indisturbata la vita municipale alle
città suddite quanto il senato veneto. Poichè, chiuso in sè
medesimo, non esercitò forza d'assimilazione; e i corpi decurionali,
quanto più erano opulenti, armigeri e altieri, tanto più avevano
caro tenersi in disparte da chi si poteva dir maggiore di loro.
Quindi nei tempi più calamitosi la costante adesione delle
provincie alla città marittima che apriva alle loro industrie i
porti dell'oriente. Quindi la vivacità e varietà delle provincie;
ognuna delle quali aveva una vita propria, i suoi statuti, la sua
amministrazione, le sue terre, la sua industria, la sua
architettura, la sua pittura, le sue lettere, i suoi vizii, le sue
virtù, il suo carattere. Ma i veneti, pur come i Visconti,
lasciarono alle città le armi private, non curarono d'ordinare le
pubbliche. Nè già potevano assentire alle provincie
un'interessante partecipazione alla cosa federale quando la negavano
anche ai loro concittadini. La
vita municipale più intera, più popolare, più culta fu nelle città
toscane. Tutti sanno quali splendide vestigia essa lasciò nelle
lettere e nelle arti. Essa condusse un dialetto a tal proprietà ed
eleganza che ogni altro popolo della penisola e delle isole lo
preferse al suo; e ne fece il pegno della vita comune e del comune
pensiero. Ma
ciò che contraddistingue le città toscane e sopratutto Fiorenza,
è l'aver diffuso sino all'ultima plebe il senso del diritto e della
dignità civile. Superarono in ciò anche l'antica Atene; la cui
gentile cittadinanza aveva pur sempre il barbaro sottostrato della
schiavitù. L'artigiano fiorentino fu in Europa il primo che
partecipasse alla cultura scientifica. Le arti meccaniche vennero a
connettersi intimamente colle arti belle; e queste colla geometria,
coll'ottica, colla fisica. L'artista toscano non circoscrisse il suo
genio in un'arte sola. Leonardo e Michelangelo furono pittori,
scultori, architetti, geometri, fisici, anche poeti, anche filosofi.
Perlochè la varietà del loro sapere li condusse, per necessità
psicologica, dai particolari delle arti e dei mestieri ai generali
della contemplazione matematica. Ed ecco nella tradizione toscana
attivarsi a poco a poco nel corso di sei secoli il metodo
sperimentale, in cui l'occhio e la mano preparano i primi elementi
della scienza all'intelletto, e tutto il pensiero si preordina, non
a speculazione superba e sterile, ma a quella che poi Bacone chiamò
scientia activa. Già
poco dopo il mille, e avanti la prima crociata che cominciò ad
aprir gli occhi alle altre genti, Pisa fondò il mirabile e
venerando complesso de' suoi monumenti. Or, dipartendo da quello, si
tessa la successione degli artisti scienziati: un Arnolfo di Lapo,
un Brunelleschi, un Leonardo, un Michelangelo. E si vedrà la
tradizione crescente e continua che trapassa dall'arte alla scienza
operativa e scopritrice in Paolo Toscanelli che fu la guida
scientifica di Colombo, in Galileo che s'armò del telescopio, in
Torricelli che s'armò del barometro, nell'accademia del Cimento,
madre di tutte le accademie scientifiche d'Europa. Così si venne a
quella scienza esperimentale che si guarda sempre innanzi, e mira
sempre alla scoperta, e non si cura di dire: ipse dixit. Questa è
infine la vera ed intima forza che solleva l'Europa moderna
sull'antica, e sul medio evo, e sulla immobile ed impietrita
intelligenza del bramino indiano e del mandarino chinese, i quali
tengono fissa la mente solo negli oracoli del passato. Applicata
all'intiera vita sociale, essa diviene quella idea del progresso ch'è
la fede comune del mondo civile. No;
le fonti della scienza viva non sono nell'ambito logico, nella
precisione scolastica; non sono tampoco nel dubbio di Descartes, ma
in quella tenace coscienza del fatto che fa dire a Galileo: Eppur si
move. Leonardo
(1459-1519) fu il primo a scrivere che le scienze metafisiche
"le scienze che principiano e finiscono nella mente", non
hanno verità. Agli eruditi che rialzavano al suo tempo l'idolo di
Platone in faccia all'idolo d'Aristotele, egli additò unica maestra
l'esperienza: "Questa è dunque mestieri consultare mai sempre;
e ripeterla e variarla per mille guise, finchè ne abbiamo tratte
fuori le leggi universali". E un secolo dopo di lui, la scuola
toscana ripeteva con Galileo la stessa condanna dell'arbitrio
speculativo: "Alla manifesta esperienza si debbono posporre
tutti gli umani discorsi!... La logica è incapace affatto di trovar
nulla di nuovo!". La scuola esperimentale si annuncia divisa
dall'opera, e astratta in Telesio, ma dopo Leonardo; in Bacone, ma
dopo Telesio; in Campanella, ma dopo Bacone, e tardi; e inutilmente;
e con aspetto piuttosto di capriccio che di ragione. Nè
la scuola nata ed allevata con lungo amore nelle città toscane si
circoscrive ai fatti della natura; ma in Macchiavello s'interna
entro i fatti della società umana. Macchiavello è il mezzo termine
che guida il pensiero dai fatti di Tito Livio agli universali di
Vico. Gli universali di Vico scaturiscono dall'esperienza: "il
vero è il fatto". Vogliano
gli studiosi compiere questa ricerca delle fonti della scienza
esperimentale nel seno delle nostre città. Ma prima di finir questo
saggio torniamo onde si mosse, rammentando di nuovo come pur dalle
città nostre uscì quel nuovo circolo di scienza agraria che
promette alle nazioni un'indefinita prosperità. La
nuova giurisprudenza municipale nata dall'applicazione delle acque
all'agricoltura, è sancita nei nostri statuti, si associò nelle
nostre università collo studio delle scienze idrauliche, ch'erano
anche già invocate a frenar di nuovo i fiumi, e svenar le paludi, e
sviare gli interrimenti dalle lagune. Intanto nelle università
transalpine, tiranneggiate dalla scolastica, queste scienze e le
matematiche stesse non avevano sede propria. E fino ai nostri giorni
ebbero quivi a viver come di contrabbando sotto il nome e l'ombra
della facoltà filosofica. La grande agricoltura, posta per tal modo
in perpetua cura d'un corpo scienziato, si trasmutò in una assidua
e gigantesca esperienza. E dal seno medesimo delle città vennero in
sussidio alla nuova agricoltura i guadagni dell'industria e del
commercio, il quale eziandio trasportò fra le rudi tèssere del
contado le sue consuetudini di conteggio, di registri, di bilanci.
La cieca pratica agraria si educò in calcolata e variabile
industria. La quale sul cader dello scorso secolo passò il mare con
Arturo Young e cominciò un nuovo circolo sul suolo britannico,
d'onde si propagherà per tutta la terra.
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