Bruno Tognolini
LUNAMOONDA
Romanzo
Milano, Salani, marzo 2008

Vincitore del PREMIO ELSA MORANTE GIOVANI 2008




Tognolini, B., LUNAMOONDA, romanzo, Milano, Salani marzo 2008
pagine 267, prezzo Euro 14,80


Il libro può essere acquistato online presso



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  • PRESENTAZIONE
  • STORIA DEL LIBRO
  • PAESAGGI E FIGURE
  • RECENSIONI E COMMENTI
  • CAPITOLO PRIMO



  • Questo libro

    A T T E N Z I O N E !
    In queste pagine si presenta il libro. Con parole di riflessioni e giudizi e racconti, miei e altrui, e stavolta anche con una settantina di immagini, fotografie di luoghi e cose che hanno a che fare con la vicenda di Lunamoonda. Sotto ciascuna di queste fotografie è scritta una frase, un piccolo brano letterale del romanzo che la colloca in quella storia.
    I giudizi, le recensioni, le immagini e le parole che le commentano lasciano indovinare lo sviluppo della storia.
    Consiglio quindi a quei lettori che, a buona ragione, preferiscono che sia la storia col suo proprio passo a raccontare il suo proprio cammino, di esplorare queste pagine dopo aver letto il libro.
    Io almeno farei così.

    Questo è un libro per ragazzi e per tutti
    LUNAMOONDA è un romanzo per tutti, ragazzi e adulti. Questi almeno sono i lettori a cui ha pensato l'autore scrivendo.
    Parla di una banda di "ski-lellè", ragazzi randagi ai margini di una tecno-metropoli. Narra la loro vita quotidiana che si snoda nella tana sul mare, al tempo stesso seria e scatenata, dolce e sbruffona, feroce e serena fra pesca, scherzi, traffici hi-tech, pranzi e cene e assemblee, viaggi e raduni di bande, strane preghiere a uno strano Santo, training marziali di musica, danza, poesia, amori e spedizioni di razzia nella città.
    Narra la loro lunga guerra con la NAS, la Nuova Architettura Sociale, detta Nassa, che è rete globale di informazioni e sistema di vita al tempo stesso, e che tutto e tutti sorveglia e accarezza; e parla del loro incontro con Marianna, una ragazzina molto speciale che cambierà le loro sorti.
    Narra la vita umana ai tempi del connubio totale fra uomini e macchine, fra uomini e animali, fra uomini e uomini, o doppi di uomini, cloni. Potenziamento umano, biotocnologie, nanotecnologie, intelligenza artificiale, longevismo. Cosa faranno, come vivranno una ventina di ragazzi che hanno deciso di interpretare a modo loro questo fiume potente di futuro?
    Parla di formazione. Di Maestri e Allievi che si allenano a trovare e donare forma alle cose, agli affetti e l'un l'altro. "Il mondo è magnifica forma - dice Alfio, il Formatore - e ogni sua cosa ci forma. E se solo troviamo la via del ritorno, del cerchio benigno e possente, noi possiamo formare ogni cosa. In passato la chiamavano Magia". E in futuro come la chiameranno?
    LUNAMOONDA narra in fondo di questo: che cosa si potrà chiamare umano, e come fare a chiamarci l'un l'altro in un mondo così.
    Parla semplicemente di amicizia, di amori, di scenari infotecno, biotecno, nanotecno, ma anche di paesaggi marini e rupestri d'incanto. Di guerra, di offese e d'infamia, di umano, disumano e postumano, di rispetto e d'affetto, e in fondo di fiducia nel futuro, per quanto "biotecnomagico" sarà.

    Questo è un libro che parla del futuro
    Il "futuro promessa" e il "futuro minaccia", come li chiama Umberto Galimberti, sono due termini tremendamente presenti nelle visioni del mondo dei ragazzi, e tremendamente assenti nelle narrazioni del mondo che i loro adulti gli offrono.
    Soprattutto sono assenti nei libri, i quali pullulano invece di passato forse troppo lontano (fantasy o piaghe di ieri da non dimenticare), e di presente fin troppo vicino (amori e piaghe di oggi da cui salvarsi).
    Se di futuro ai ragazzi si parla - ma mai si narra - è solo in termini ossessivamente catastrofici.
    E che senso ha mostrare loro in corsa verso la rovina quel mondo in cui noi li abbiamo messi?
    Questo libro si prende la responsabilità di narrare; di narrare, se ci riesce, in forme avventurose, emozionanti e con la miglior lingua possibile; di narrare in queste forme un possibile futuro; di narrare un futuro in cui vi sia posto per qualcosa da fare per loro, cioè per tutti noi.


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    Storia del libro

    Qui si racconta non la vicenda del romanzo ma quella della sua scrittura, dalle lontane origini del 1993 alla pubblicazione nel 2008.

    Come capita spesso alle storie, Lunamoonda è rimasta in sonno nel cassetto per molti anni: quindici per l'esattezza. Nel 1993 è nata, sotto forma di canovaccio di schemi e note, la vicenda (la Banda la sua vita di lieta guerriglia, l'incontro con Alfianna), l'ambientazione (Sella Dimòniu), i personaggi (tutti), parte del contesto tecnologico (la sola parte "info", la Nassa). Mancavano le parti "bio" e "nano" dello sfondo tecnologico, che in quegli anni non potevo conoscere, e – importantissimo – il finale: non sapevo come finiva la storia.
    Sette anni dopo, nel 2000, dopo l'uscita di "Lilim del tramonto", Luigi Spagnol da buon editore mi invitò a pranzo e mi chiese cosa avevo in mente per il prossimo libro. Io ne fui lusingato e gli raccontai ciò che sapevo di Lunamoonda. I racconti precoci, a voce e a pranzo, spesso non fanno un buon servizio alle loro storie; o forse altre fra le imperscrutabili concomitanze astrali che generano le edizioni non si allinearono: fatto sta che Spagnol non parve colpito da quella storia fantastica ambientata nel futuro e in Sardegna. Lodando la mia capacità, a suo dire dimostrata in "Lilim", di dare forza viva e scalciante alle narrazioni mitiche del passato, mi consigliò una rinarrazione del mito degli Argonauti, che era in effetti idea scintillante e astuta.
    Non scrissi né l'una storia né l'altra cosa. Lunamoonda tornò a dormire nel cassetto.
    Altri sei anni dopo ero immerso nel lavoro di ricerca per un romanzo sui Mostri, che a sua volta da ancora più tempo dormiva e tentava allora di uscire dal cassetto. La ricerca è forse la parte più bella della scrittura: "la vigilia di un'opera", come diceva Gabriele Vacis in un bel laboratorio teatrale di tanti anni fa. Leggevo e schedavo libri sull'ingegneria genetica, sul "secolo biotech", sui rutilanti scenari del futuro dove gli uomini giocano alla Creazione; leggevo Rifkin, Habermas, Lewontin; saccheggiavo i tesori inestinguibili contenuti nel sito dei transumanisti, dal bellissimo nome di "Estropico". E stivavo tutto sotto forma di note e spunti in un Quaderno di lavoro intitolato Mostri.doc.
    Ma nell'aprile del 2006, pranzando con mia figlia sedicenne in un ristorante deserto sulle alte cime della Maiella, e chiedendomi lei, forse per l'ultima volta nella sua vita, di raccontarle una storia, le raccontai la storia di Lunamoonda, così come la sapevo e come giaceva da anni. Lei l'ascoltò con attenzione e poi mi disse: papà devi scrivere questa. Forse un anno prima un'amica giornalista sarda, Daniela Pinna, che molto aveva amato e nove anni fa presentato a Cagliari "Lilim del tramonto", dopo aver controllato le "novità" sul mio sito, mi aveva detto pressapoco così: venno benissimo articoli e libri e riflessioni sulla lettura di storie ai bambini, sulle virtù delle rime, sulla forza guaritrice della voce, ma... quando ci scrivi una nuova storia grande?
    Gli scrittori talvolta vacillano incerti su crinali di storie, in attesa d'una spinta, d'un soffio di vento: la notifica di un'attesa, il comando di una voce autorevole.

    Tornato a casa aprii un Quaderno di lavoro intitolato Luna.doc, dove presto confluì, come tra due fiumi aprendo la chiusa, un'inondazione di materiali "biotecno" dalla ricerca sui Mostri. Li integrai con altri scorci "infotecno" e "nanotecno", altre note di lettura e di ricerca. In agosto, in vacanza in Sardegna, feci due escursioni di documentazione nelle "locations" che avevo scelto per la storia, la Sella del Diavolo di Cagliari, scattando una miriade di foto (se ne può vedere una ristretta scelta nella sezione Paesaggi e figure di questa pagina). E finalmente chiusi la ricerca. Trovai (inventai, appresi) il finale, scalettai l'intera opera (i passi per arrivarci) e cominciai finalmente a scrivere.
    Alla fine del 2006, il 29 dicembre, spedii a Mariagrazia Mazzitelli, direttrice della Salani, i primi 9 capitoli finiti e una sinossi dettagliata dei restanti 15. La Salani era sotto pressione col l'utimo (?) Harry Potter, e poterono dirmi una parola definitiva solo alla fine di marzo: il romanzo, se finivo di scrivere per tempo, sarebbe stato inserito fra i libri in uscita per la Fiera di Bologna, nell'aprile 2008.

    A primavera inoltrata del 2007 cominciò la parte più bella del lavoro (so d'averlo già detto, ma che bel lavoro sarà uno in cui si trovano due o tre "parti più belle"?). Esaurite l'inventio e la dispositio, la nuova parte più bella che ora giungeva era la elocutio, il fuire calmo e operoso del racconto, che parte da tavolette di sintesi e le espande, e le stende, e le incarna. Scrivevo a casa con orari regolari; sacrivevo in vacanza nella Maiella con la mia compagna, sotto begli alberi; scrivevo da solo sui colli intorno a casa mia, a Rastignano poco fuori Bologna. A fine estate, con una seggiola pieghevole sottobraccio e il fedele Vaio chiamato "Viator" in spalla, alle sei del mattino salivo un breve cammino sui colli vicini, sedevo nell'alba fresca, e quando sorgeva il sole mi spostavo nell'ombra di un canneto fino alle 10; ora in cui finiva la batteria del Viator e il sole ruggente mi ricacciava in casa. A fine agosto, come promesso alla Salani, avevo finito e spedii il manoscritto.
    In ottobre 2007 Mariagrazia Mazzitelli mi scrisse: "il romanzo è bello, poetico, armonioso e coinvolgente, antico e moderno al tempo stesso". Io - ogni artista, come dice Mela Cecchi, "cresce nella lode" - ne fui molto felice.
    Nel febbraio 2008 sostenni, per la prima volta in vita mia, quello che Mariagrazia chiamava "un editing serio". L'ottima e pazientissima Monica Romanò, della redazione Salani, mi propose mezzo migliaio di varianti. Le restituii un documento corredato da 380 commenti di Word, che aprivano le loro finestrine gialle spiegando, in certi casi diffusamente, le motivazioni per cui ripristinavo in tutto o in parte le mie versioni originali, o accoglievo riadattandole le sue proposte. Per eventuali curiosi e filologi, questi materiali con le varianti proposte dall'editor e le risposte commentate dell'autore sono ben conservati e accessibili.

    Il libro esce per la Fiera Internazionale del Libro per Ragazzi di Bologna, i primi di aprile del 2008.



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    Paesaggi e figure

    Seguendo questo link si ragginge la PAGINA DELLE IMMAGINI, dove sono ordinate in funzione di indice le miniature cliccabili di 67 fotografie, ristretta scelta della documentazione visiva (alla radice di ogni visione c'è la vista) che ho raccolto per la stesura del romanzo. I libri per loro natura e ostinazione tentano di mostrare luoghi e cose con le parole scritte; queste immagini, che hanno prestato la loro opera all'autore a monte della scrittura, forse potranno dare qualche suggestione anche al lettore a valle.

    Ripeto il monito. Sotto ciascuna di queste fotografie è scritta una frase, un piccolo brano letterale del romanzo che ne illustra il rapporto con la storia. Parole e immagini inevitabilmente lasciano indovinare lo sviluppo della storia. Consiglio quindi a quei lettori che, a buona ragione, preferiscono che sia la storia col suo proprio passo a raccontare il suo proprio cammino, di esplorare queste pagine di immagini solo dopo aver letto il libro.
    Io, almeno, farei così.




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    Recensioni e commenti

    Qui saranno raccolti, man mano che giungano, testi diversi e eterogenei di commento, pubblico o privato, che paiono utili alla presentazione e alla valutazione del romanzo. Per ora questi:


  • Recensione su "L'UNIONE SARDA" del 16/05/2008, di Daniela Pinna (PDF 159 KB)

  • Recensione su "LA NUOVA SARDEGNA" del 28/05/2008, di Alessandro Cadoni (PDF 688 KB)

  • Recensione su "IL CORRIERE DELLA SERA" del 27/09/2008, di Severino Colombo (PDF 125 KB)

  • Recensione su "ANDERSEN" n. 252 ottobre 2008, di Walter Fochesato (PDF 365 KB)

  • Recensione su "HAMELIN" n. 21 ottobre 2008, di Federica Rampazzo (PDF 890 KB)


  • Una storia di guarigione, di Francesco Cavalli-Sforza

  • Un angelo nel cielo di Schio, di Bruno Tognolini

  • Sette risposte a sette domande su Lunamoonda, di Bruno Tognolini (PDF 35 KB)

  • Ragionamenti con Eros Miari sulla "lingua difficile" di Lunamoonda (PDF 28 KB)

  • Ragionamento con Alessandra Serra sul libro a due marce e sul sardo come "lingua di falda"





  • Una storia di guarigione
    di Francesco Cavalli-Sforza

    Ecco cosa mi ha scritto Francesco Cavalli-Sforza, studioso dell'evoluzione umana e autore di libri di divulgazione scientifica, dopo aver letto in manoscritto il romanzo. La frase "È una storia bella e incoraggiante. Soprattutto è un racconto di guarigione. E non ci sono parole per dire quanto abbiamo bisogno oggi di guarigione" è stata scelta dalla Salani come fascetta da apporre alla prima edizione del libro.

    Caro Bruno

    Ho molto amato questo tuo racconto, come puoi anche capire dal fatto che ho finito di leggerlo e te ne scrivo molto prima di quando avrei pensato. Forse perché mi ricorda la vita che ho fatto per anni dopo le scuole (ma avevo qualche anno di più dei tuoi protagonisti), nelle varie tribù 'alternative' che andavamo via via formando e riformando per strada, organizzandoci ai margini della società e alquanto al di fuori della legge. Non eravamo disciplinati come i tuoi ski-lellè. Del resto, non eravamo geneticamente modificati, solo culturalmente modificati.
    Questo sembra un libro per ragazzi, e certo lo è, ma io ci vedo anche un libro che può permettere a un adulto di comprendere il mondo dei ragazzi, così lontano da molti di loro, che sembrano essersi dimenticati di quando erano ancora vivi. Spero che saranno in tanti a leggerlo.
    Mi è molto piaciuta sia la descrizione della vita della banda e dei rapporti fra loro, sia l'intento che li muove, il loro progetto di uscire dallo zoo dell'emarginazione. Ci sono alcuni spunti, alcune frasi che ho trovato memorabili:
    "Con la spada levata sempre un po' più in alto delle vostre difese!"
    La frase che mi è piaciuta di più?
    "Fàula faccia di gomma per cancellare, Fàula faccia di nulla."
    Bello anche lo sviluppo che trova il racconto nel finale, con il superamento di un'ipotesi violenta, di distruzione, e la riconciliazione fra il mondo degli uomini e quello delle macchine (che in tutto il libro comunque camminano passo a passo, o addirittura in simbiosi). Esemplare.
    È una storia bella e incoraggiante. Soprattutto, è un racconto di guarigione. E non ci sono parole per dire quanto ne abbiamo bisogno oggi, di guarigione. Ai ragazzi sarà utile.
    Trovo la scrittura pulita e precisa, ricca di suggestioni e di emozione. Se hai una tendenza alla prolissità, l'hai messa a buon uso! Mi piace sentire il sapore di qualche parola e desinenza in dialetto: conosco ben poco la Sardegna, ma ho amici sardi e mi gusto la loro parlata, come ogni altra delle centinaia che abbiamo in Italia.
    Io non conosco i luoghi che tu descrivi in tanto dettaglio perché li hai davanti agli occhi (Sella Dimòniu), però amo le isole (ne ho visitate una settantina in Grecia, e altre altrove negli ultimi quarant'anni, esplorandone qualcuna palmo a palmo. Spero che anche i ragazzi cresciuti solo in città, fra cemento e fretta, fumo e asfalto, riescano a respirare il profumo del timo e del mare - e della libertà! - leggendo questo racconto.

    Mi è rimasto solo un dubbio:
    cosa è poi stato della loufa pazza?

    Usa pure quello che vuoi di quanto ti scrivo, se può esserti utile. Se ti può servire un qualche mio contributo, vuoi scritto per una recensione, vuoi di persona per una presentazione, lo faccio volentieri, se mi è possibile. Hai scritto un libro che merita di essere promosso.

    Ancora un paio di osservazioni, che c'entrano solo indirettamente con il libro. Mi colpisce che tutti, quando pensano al futuro, si prefigurino un mondo ultratecnologico. È molto più probabile che, una volta esaurito il cuscinetto di petrolio e gas naturale su cui è stata costruita la civiltà industriale, delle società che abbiamo conosciuto negli ultimi due secoli, e in particolare negli ultimi sessant'anni, rimanga solo (per qualche tempo) il ricordo. Non sarà necessariamente un nuovo medioevo, magari qualcosa di molto meglio, se resteranno attive le reti informatiche, oppure di molto peggio, se collasserà la rete di distribuzione energetica. Dipende dalle iniziative che si prenderanno nei prossimi anni (che da noi in Italia per ora sono tanti zeri, senza numeri davanti).

    Poi, mi veniva da pensare ad Harry Potter (nessun paragone col tuo libro): racconti appassionanti e fantasiosi, con un lato un po' agghiacciante: il senso di onnipotenza che non può mancare di ispirare nei ragazzi che lo leggono, ma che non corrisponde ad alcuna realtà della vita, per cui da un punto di vista diciamo 'pedagogico' sono racconti vuoti. Ti piaceva Peter Pan quando eri piccolo? a me moltissimo. Fin verso i sette anni ho sognato di potere volare come lui. Poi un giorno mi sono detto: ma questo è impossibile, ai ragazzi non spuntano le ali. Ed è affondato nei sogni della seconda infanzia.
    Non spuntano ali fisiche, ma è possibile costruirsi ali metafisiche ("con cui volare fino agli altri mondi"), e in effetti ti portano in posti dove con le ali di Peter Pan non arriveresti mai. Nel tuo racconto ho trovato un certo smisurato ottimismo: la realtà è che non siamo in grado di costruire ibridi uomo/animale, né uomo/macchina, anche se hanno già un nome: chimere e cyborg, rispettivamente, ma anche unicorni e draghi hanno un nome e una robustissima tradizione, letteraria, figurativa e simbolica. Sono entità che non appartengono alla scienza ma alla fantascienza. Non so nemmeno se in futuro saremo in grado di costruirne: magari non perché ce ne mancherà la tecnica, ma perché ce ne manca la saggezza, e la natura, per così dire, si difende. (Ricordi Eraclito? "La natura ama nascondersi.")
    Non prendere queste come critiche al tuo lavoro. Bisogna lasciare libera la fantasia. Pensare che ci siano soluzioni è incoraggiante, anche quando non se ne vedono. Quando non ci sono soluzioni nei fatti, si cercano con l'immaginazione. Disegnando soluzioni con l'immaginazione, poi magari si trovano nei fatti.

    Altra piccola osservazione: a un certo punto dici che il 5% del pianeta è occupato dagli uomini. Mi è sembrato un po' impreciso. Credo che l'area occupata dall'uomo sia più vicina all'8%, ma non sono in grado di citarti fonti sicure. Le terre emerse sono circa il 29% del pianeta, e benché montagne, deserti e foreste siano ben poco abitati, pure l'uomo ne utilizza (o saccheggia) gran parte, come del resto sfrutta praticamente ogni angolo degli oceani.
    Non mi pronuncio sul fatto che vi sia una sorta di intelligenza molecolare (o premolecolare) nelle fibre nervose dei calamari o in qualsiasi altro organo vivente. In base a ciò che sappiamo oggi del mondo, è un'affermazione che non ha senso. Tutto dipende, forse, da come definiamo l'intelligenza. Della vita sappiamo che ha un'organizzazione rigorosissima, che è stata indagata e descritta, ma che conosciamo solo fino a un certo punto, se no saremmo già in grado di crearla in laboratorio. Ci riusciremo, probabilmente, in questo secolo, ma per ora non siamo in grado di farlo. Ciò che ignoriamo è comunque molto di più di ciò che sappiamo, e la fantasia è una bellissima cosa.

    Spero che le mie riflessioni in qualche modo ti siano utili. Auguro al tuo libro la migliore fortuna, e ti assicuro che i tuoi personaggi, ora che li ho conosciuti, mi terranno compagnia, che forse è la sorte migliore che può capitare a un libro.


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    Un angelo nel cielo di Schio
    di Bruno Tognolini


    LUNAMOONDA è il mio secondo romanzo lungo (il terzo se si considera il più succinto "Salto nell'Ultramondo" di Giunti), pubblicato nuovamente con Salani quasi otto anni dopo "Lilim del tramonto". Ed è stata una bella sorpresa per me, una doppia vittoria, un incanto, l'imprimatur dell'editore. Lo attendevo con un'ansia speranzosa che mi ha fatto quasi tornare esordiente. Perché questo è un romanzo diverso dagli altri libri e piccoli libri che sto pubblicando. È un rischio, una ricerca, una scommessa: come di certo anche "Lilim" era stato, ma qui su altri fronti.
    È onorevolissima cosa scrivere fantasy rutilanti di spade e draghi e orchi, e forse lo farò; o gialli affollati di assassini e vittime e detective, però non lo farò; o romanzi d'amore fra adolescenti e genitori separati e mafia e olocausto e stranieri fra noi, e non credo che lo farò. Ma io ero attratto, stregato dall'idea dell'incrocio, della coniunctio fra il millenario sonno nuragico della mia isola e la sua recente vocazione e febbre di futuro digitale. Il silicio è pietra, lo dice il nome, è figlio di pietre, e in Sardegna (c'è un paese che si chiama Siliqua, mia mamma ci insegnava) quelle Dure Madri non mancano certo. Forse partoriranno.
    Insomma, era un sogno antico. Che era apparso in altre forme già tanti anni fa. Quando facevo teatro nel 1990 mi aveva rapito, vedendo Marco Paolini e Mirko Artuso far vivere in scena meravigliosamente "Libera nos", tratto con la solita regia geniale di Gabriele Vacis dal romanzo "Libera nos a Malo" di Luigi Meneghello. E io ho veduto Marco Paolini in una scena trasformarsi in un Angelo che volava sul cielo... di Schio.
    DI SCHIO!
    Geniale! - mi son detto, emozionatissimo. Potente! Vitale! Ecco cosa io andavo cercando e non trovavo! In quegli anni il teatro che avevo intorno cercava la sue disperate locations a Tebe, a Berlino, nei gelidi Nord dell'Odin Teatret, in Latinoamerica o in inferni indistinti e simbolici, in qualunque altrove lontano da dove, lontano da qui. Ma... Schio?!?
    Dove lo trovano questi il coraggio?
    Anche la narrazione avventurosa, soprattuto la fantascienza, ha bisogno di "remotare" se stessa, ha bisogno di orizzonti lontanissimi: Vega, Beta Centauri, galassie perdute; o universi virtuali simulati da immani computer; o in luoghi reali, qui sulla terra, i soliti USA, al massimo Mosca, gli abissi dell'oceano, Machu Pichu. Ma... in Sardegna?!?
    Invece è andata. L'editore ha accolto Lunamoonda, e con molto entusiasmo.
    Mariagrazia Mazzitelli parlava convinta di "fantasy mediterraneo".
    Non mi dispiace la qualifica, con una riserva, anzi un rimpianto. Con Stefano Res, direttore di TEA, uomo colto e gentile, parlando della nuova edizione di "Lilim del tramonto" rimpiangevamo e deprecavamo insieme che oggi non si possa neanche pronunciare, il termine "fantascienza". Il fatto che il genere non sia stato ancora redento o addirittura santificato come è accaduto al giallo, con cui fino a non molto tempo fa condivideva i suburbi letterari, costringe in questo caso a chiamare "fantasy" anche ciò che sarebbe in realtà tecnicamente "fantascienza". Ma io son ben d'accordo nel farlo. Se i miei editori mi dicono che dire o scrivere "fantascienza" fa perdere lettori, non lo diremo né scriveremo. Magari solo agli amici.

    Per me, oltre ovviamente che una storia punto e basta, questo libro è stata l’occasione di una bella e spavalda sperimentazione linguistica e narrativa. Parliamo di quella linguistica. Il lettore, si dice, ha un suo romanzo speculare in testa, che procede di pari passo al testo stampato. Lo accompagna allontanandosene e tornandoci in continuazione, colpito come in un flipper da immagini, luoghi, nomi e suoni che incontra nel testo; ma meglio sarebbe dire colpito da come risuonano ed echeggiano questi stimoli nella cassa armonica del suo personale e irripetibile magazzino immaginario. E dunque mi chiedevo: in questo nostro viaggio di lettori in tempo reale "come ci suonano", che guizzi ci fanno fare, dove ci mandano i nomi elfici di Tolkien? Il grande Anduin, gli Ered Lindon, Minas Tirith e Minas Morgul, la torre di Cirith Ungol, i personaggi Luthien, Boromir, Galadriel?
    Come suonano questi nomi ai nostri orecchi? Appropriati e convincenti? Perché esotici, remoti, lontani da noi? Proiettati "laggiù", nelle terre dell’avventura e non qui nella piatta realtà? E fra i nomi remoti (anche quelli africani lo sono) ci suonano convincenti perché "celtici"?
    E allora come suoneranno a orecchi più vicini a questi nomi, per esempio ai lettori inglesi?
    E gli hobbit Bilbo, Frodo, Pipino, il cavallo Brego, che finiscono per vocali, per "o"?
    Gli scrittori italiani di fantasy che nomi danno ai loro cavalieri? Non potrebbero chiamarli Sandro, Marco, Giorgio? No, certo: i fantasy hanno nomi da fantasy.
    Ma anche i gialli una volta avevano nomi da gialli.
    Molti anni fa, quando ero ragazzino, c’era una serie televisiva di gialli italiani, scritti e interpretati da italiani, il cui protagonista era il tenente Ezzy Sheridan. Quanta strada avranno dovuto fare i nostri giallisti, da quei tempi, per chiamare i loro detective prima Ingravallo a Roma, poi Montalbano in Sicila, poi Sarti a Bologna, e ormai un'intera anagrafe di cognomi italiani? E addirittura non italiani ma sardi?
    E dunque, nel mio LUNAMOONDA, come suoneranno alle orecchie dei lettori "continentali" nomi di luoghi e personaggi sardi, e locuzioni e esclamazioni in sardo, proposti in una storia come questa? Non, cioè, in una cornice di ormai affermato giallo o romanzo "realistico" d'ambientazione sarda alla Fois, alla Niffoi, alla Soriga, alla Agus (pur con le immense differenze di sguardo e di canto fra questi e altri autori), ma in contesto inusitato di pura scatenata avventura fantasy/fantascienza? Là dove, così come una volta nel giallo i nomi anglosassoni, paiono ora più che mai obbligatori nomi e luoghi americani, o russi, o stellari, o virtuali e adimensionali, e comunque che suonino "remoti"?
    Questa irruzione del "qui" farà precipitare la tensione dell'avventura come un magnete la limatura di ferro? Farà cadere per terra (terra sarda pesante di pietra) il tono del discorso? Farà franare tutto?
    L'editore, evidentemente, ha pensato che no, non accadrà. Altrimenti mi avrebbe proposto di riambientare la storia, che trovava bella e avvincente, in un'altra cornice geografica, in un'altra terra. Ha voluto scommettere. Forse pensa che questi nomi sardi possano suonare "remoti", esotici, in qualche modo avventurosi a orecchie continentali. La Sardegna è forse la terra più esotica, più straniera d'Italia, il posto "qui" più simile ad "altrove", il "dove" più vicino al "nessun dove".
    Ma se nomi e luoghi e atmosfera possono suonare remoti ai continentali, ai cagliaritani, ai campidanesi, a tutti gli altri sardi come suoneranno? Vicini? Qui? Troppo qui?
    Che facce faranno i miei concittadini di Cagliari, e tutti i sardi, leggendo passaggi come questo:
    Un grido selvaggio a quel punto si levò nel bus-bus, seguito da una Pregadorìa che tre vecchie passeggere vestite di nero apprezzarono, e a cui addirittura una si unì.
    "Santa Rega!"
    "Sant'Antìne!"
    "Anghelu Ruju!"
    "Càmbara e macciòni!"
    "Lissa e murmungiòni!"
    "Amen!"

    Vorrei essere una mosca per vederli.


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    Ragionamento con Alessandra Serra sul libro a due marce e sul sardo come "lingua di falda"


    Ecco alcuni stralci da una lettera che mi ha scritto i primi di dicembre del 2008 Alessandra Serra, un'amica ricercatrice di lingua e traduzione inglese presso l'Università di Potenza.


    Perché ti scrivo? Intanto per dirti subito che Lunamoonda mi è piaciuto moltissimo.
    Quando l'ho iniziato sono precipitata subito nel suo universo e ho passato giorni (pochi, in verità perché lo leggevo di continuo) circondata di Skilellè e sardi postmoderni. Ne ho discusso anche con Manuela Fiori e siamo d'accordo sul fatto che sia un romanzo del tutto adeguato a debordare dalla letteratura per ragazzi per finire in quella più generale di adulti e non.
    L'ho trovato poetico e avventuroso, con un potere di suggestione di immagini straordinario. Se tu ne avessi la possibilità (e fossi interessato) penso che si potrebbe prestare benissimo a una trasposizione cinematografica o addirittura un serie TV. Ha il pregio di essere accessibile a diversi livelli di lettura, da quello più immediato a quello più complesso, ci si può perdere in un gioco di rimandi intertestuali e iconici, con personaggi che sono facce di un universo familiare e straniante allo stesso tempo.
    Familiare e straniante. La stessa cosa ho pensato dell'aspetto che a me ha suscitato molta curiosità e interesse, il linguaggio del romanzo. Che poi è il deposito di tutti i livelli comunicativi, sempre, no? In Lunamoonda si fondono almeno tre lingue diverse. L'italiano standard, l'inglese tecnologico e scientifico, il sardo, o neosardo come viene lì descritto. Ci sono nomi specifici per codici diversi, ma quello che mi sembra è che italiano e inglese si integrino senza grandi sorprese in un codice comune, così come prevedibilmente accadrà nel mondo che conosciamo noi. L'inaspettato, l'imprevedibile, viene dal sardo, che è specchio fedele di quella realtà ibrida, a un tempo violata e rinata, della terra isolana, riconoscibile e ignota allo stesso tempo, tornata a oscurità antiche e assurta a nuovi fulgori (post)moderni. E' una lingua che interpreta efficacemente un mondo di sabbie arcaiche e neociottoli di silicio e microchip. Anche quella lingua neosarda è così, è ibrida, suona nuova e antichissima insieme, la trovo una delle invenzioni più felici del testo. È la lingua del passato nobile e del futuro di speranza, del presente ribelle e non normalizzato. Alle altre due lingue ‘canoniche' il ruolo incolore della comunicazione della contemporaneità, che è – anche qui – specchio di una società culturalmente corrosa e priva di identità.

    Ed ecco un paio di stralci da ciò che le ho risposto. > Perché ti scrivo? Intanto per dirti subito che Lunamoonda mi è piaciuto moltissimo.

    E io di questo ti ringrazio subito. Perché, come diceva sempre la mia grande amica romana Mela Cecchi (compagna di scrittura di anni di TV per bambini e nipote del grande Emilio Cecchi), "l'artista cresce nella lode"; la lode, assunta con senno e misura di sé, non è anabolizzante per ego muscolosi ma vitamina per piccole consapevoli maestrie (maestranze).

    > Familiare e straniante. La stessa cosa ho pensato dell'aspetto che a me ha suscitato molta curiosità e interesse, il linguaggio del romanzo. Che poi è il deposito di tutti i livelli comunicativi, sempre, no?


    Sì, anche io sono in fondo convinto di questo. Il Senso più profondo è nella Voce, non nella Parola. È nella Lingua, non nel Discorso.
    Una mia filastrocchina di quelle oracolari - che faceva da epigramma alla trattazione della voce "Narrazione orale" per un primo volume di una fantasmatica (e forse ora sparita) "Treccani Ragazzi" - diceva così:

    Voce scultrice della realtà
    La lingua dice, la voce fa


    > ... ma quello che mi sembra è che italiano e inglese si integrino senza grandi sorprese in un codice comune, così come prevedibilmente accadrà nel mondo che conosciamo noi. L'inaspettato, l'imprevedibile, viene dal sardo...

    (...)
    > Alle altre due lingue ‘canoniche' il ruolo incolore della comunicazione della contemporaneità...


    Ecco, qui però le nostre due impressioni di discostano un po'.
    Dato per scontato che l'interpretazione dell'autore non è né quella autentica né quella più autorevole, come lascia bene intendere l'aria un po' autistica dei tre termini "autore", "autentico", "autorevole". Dato per assodato dunque che le mie idee su quel romanzo sono opinabili e forse peregrine, io invece credo e amo e ho lavorato e cesellato sopra tutte quelle tre lingue che tu cogli (io ne colgo forse solo due) l'italiano, come in ogni mia opera, più che il sardo o il neosardo.
    Per motivi molto concreti.
    Perché l'italiano è la mia lingua amata, la mia madrelingua amorosa, il bell'accento che nel cuor mi sta, come in un sirventese del trecento, pieno di forza e di soavità. Forza e dolcezza, davvero, si sentono pulsare in quella lingua come sistole e diastole di un cuore ben vivo e scalciante e danzante: troppo bene è stata cantata da tanti rapsodi, lombardi, piemontesi, toscani e siciliani - come scrivono in italiano i siciliani è un mistero gaudioso - troppo profondo è in lei il periodare di Cicerone, di Seneca, troppe ottave ariostesche e terzine dantesche e canzoni petrarchesche e tanto fiume di discorso, di bene-dizioni, di eulalìe, dolce elegante e forte, perdutamente bello... Mi sono perso, ma l'ho fatto apposta. Perché poco c'è da dire: quella è la Mammalingua e la Lingua Maestra, la Lingua Nazionale del Mestiere.
    Il sardo - come forse diremo con Flavio Soriga, che presenterà "Ciò che non lava l'acqua" questa domenica 7 dicembre, a Roma - il sardo per me è forse una vena carsica, un sale minerale forse (non ne son certo) profondo e celato miglia di terra sotto quella lingua italiana. Quando quella lingua sgorga e fa ruscello e fiume può ben aver attraversato nelle sue vie di scaturigine profonda falde e marne oscure di sali e pigmenti, e può ben portarne i sapori, ma quella che fluisce all'aria e poi si beve è acqua, non vino o petrolio: è lingua italiana, non neo-sarda.
    Questo almeno è ciò che ci ho messo io, in quel libro, o ciò che mi pare di averci messo. Poi ciò che in realtà c'è dentro... chi lo sa, è opera di Ermes e Apollo e di chissà quali altri Orixà.

    > Anche quella lingua neosarda è così, è ibrida, suona nuova e antichissima insieme, la trovo una delle invenzioni più felici del testo.


    Sì, forse il sardo è questa lingua dell'eden, questa "archelingua" profonda: ma tanto profonda da non essere in me neanche madrelingua (ho imparato un po' di cagliaritano in strada, con gli "schillellè" veri, a dieci anni, ma i miei a casa parlavano un rigoroso e scolastico italiano), ma tutt'al più mezza "nonnalingua" (due nonni erano nuoresi e gavoesi, due valtellinesi).
    Ed è vero, forse stavolta, invece che tenerla laggiù a salare e speziare l'italiano mentre filtra verso la sua fonte, ho fatto il contrario: l'ho fatta sgorgare tagliandola e speziandola di italiano e spagnolo e inglese e lingue e lessici "tecno". Sì, forse questo è successo e ne ha fatto un sardo vivido e mutante, come tu dici: nuovo e antichissimo insieme.
    Però attenzione, Alessandra: lo dici tu, che sei una cagliaritana che vive a Roma.
    Questa lingua neosarda, che in molti sardi effettivamente genera fascino e incanto, coi "continentali" mi sta procurando un po' di guai. Molti mi dicono che se ne sentono in qualche modo "tagliati fuori". Intuiscono un fondo ulteriore di significati che immaginano siano colti appieno da "noi sardi" ma che a loro paiono preclusi (se proprio hai tempo da perdere, leggi sul mio sito i Ragionamenti con Eros Miari sulla "lingua difficile" di Lunamoonda).
    E questo non va bene per me, che ho proposto questo romanzo alla Salani come libro bello e forte "per tutti". O se non per tutti, almeno per i soliti pochi, la mia solita nicchia, che però - attenzione - non è mai stata nicchia linguistica, ma culturale: pochi ma buoni lettori e dappertutto, dal Trentino alla Sicilia.
    Sì, forse è un libro con due marce, con due modalità di lettura: due libri che insistono in uno, uno per sardi e uno per continentali. Ma entrambi son progettati per essere completi ed esaustivi, di piena e appagante lettura per i loro lettori, di buona mangiata e bevuta. Se uno dei due commensali ha l'impressione di alzarsi a mezza pancia, o che il vicino abbia mangiato meglio di lui, la cena non mi è venuta così bene, ho sbagliato qualcosa.
    E tu, che sei una letterata e linguista, questo lo puoi capire? Puoi staccarti dalla tua modalità di lettura sarda per intuire come può leggere quel libro un emiliano come Eros Miari, mio amico promotore ed espertissimo di letteratura per ragazzi e giovani?

    > Il prossimo che leggerò sarà ovviamente "Ciò che non lava l'acqua"...


    E in quel libro questi impasti profondi di materia e forma italiana e sarda si misurano di nuovo fieramente. Forse ancora più fieramente, perché sento e ho definito "Ciò che non lava l'acqua" il mio primo libro "per grandi" non per il tenore e il contenuto delle storie, che un ragazzino di undici anni può benissimo leggere e digerire, ma per il livello di artificio della lingua, il grado di manifattura e finitura, insomma per la purezza del canto, che non è cosa che possano governare i ragazzi, perché esige più anzianità di letture. Di letture italiane.


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    Scrivi scriba...


    Capitolo primo

    Questo è, in versione integrale, il primo capitolo del libro.
    Capitolo Primo. Profumo di alba, di timo, di cozze


    Sono le ultime ore di una notte d'aprile, larghissima e fresca. Il cielo, ancora nero e incrostato di stelle a occidente verso l'interno dell'isola, a oriente verso il mare comincia a impallidire: sta per nascere il giorno.
    La sentinella, seduta sulla sommità del promontorio, guarda il chiarore con aria assente, sbadigliando. Poi si srotola via dalla testa il turbante di loufa-tela grezza, scioglie in un'onda i lunghi capelli castani, si sfila i musikète dalle orecchie, li mette in tasca, si stropiccia gli occhi con meticolosa soddisfazione, si volta: è una ragazzina di tredici anni, bellissima e stracciona.
    Dà un'occhiata all'orologio: le sei e mezzo. Tra mezz'ora giù alla Tana il cuoco, mugolando preghiere in arabo, metterà su il caffè e l'odore sveglierà tutti. Ma ora tutti dormono nelle cucce, acciambellati nei sacchi di loufa imbottiti di piume.
    La Tana della banda ski-lellè, nota col nome di Lunamoonda, è nascosta nel corno ovest di Cala Figuera, sul versante a mare del promontorio Sella Dimòniu. È un grumo di anfratti e costruzioni militari, sfondato per metà dai cannoni e per metà formato di stanzine, sale, corridoi, nicchie e vani tappezzati di stuoie, murales, gigli blu, collane di fichi, ghirlande di cozze, icone di santi, strumenti, computer e rottami di computer.
    Lontano da lì, sulla Plaza Alta, la sentinella si rimette nelle orecchie i musikète, gli auricolari sonori perpetui, si alza in piedi, si sgranchisce le gambe scalciando a ritmo col dillou degli Eno Torràu che suona in testa. Poi siede di nuovo sulla Pietra Guardia e torna al dovere, roteando lo sguardo sul suo mondo.
    Davanti a lei la Sella sprofonda in basso e al suo fianco precipita nella falesia verticale, con la risacca delle onde che respira cento metri più in basso; alle sue spalle il promontorio roccioso degrada fino al muro alto sei metri che taglia fuori dal mondo Sella Dimòniu: zona contaminata, maledetta e deserta, ma cosparsa di gigli blu e timo in fiore, dal profumo incantato a quell'ora.
    Oltre il muro la città di Neonora è come un gigante luminoso sdraiato che abbraccia il mare: col braccio destro del golfo fino a Poola, col sinistro fino a Sìmius, col corpo sterminato che si allunga nella pianura verso nord e il promontorio di Sella Dimòniu che si protende a sud nel golfo come una testa dormiente folta di buio.
    Intorno a quell'unica conca di nero, la città è un immenso teatro di luci colorate: lampi gialli, fumo blu, scie smaglianti di cavi fosforo e fucsia, sciabolate di quarzi nel cielo. A contenere tutto, come una densa pasta luminosa, un'esplosione di lumini di finestre. Le finestre di milioni di case dove brilla l'interfaccia sempre accesa della Nassa, di milioni di cucine dove la gente di Neonora si sveglia e prepara il caffè. ‘E magari' pensa la sentinella con un sospiro, ‘scalda ciambelle dolci e profumate per i suoi bambini puliti, prima di portarli – e qui il sospiro diventa una smorfietta – alle Casine Scolari'.
    Sotto tutte quelle luci raggrumate, sotto le strade colorate brulicanti di auto e bus-bus che portano i bambini buoni a scuola e i grandi buoni al lavoro, vibra il rombo leggero e profondo dei reattori nucleari, come un lento respiro di draghi dormienti.
    Tra le lacrime degli sbadigli che sfrangiano di raggi quelle luci, la sentinella guarda ancora più lontano, oltre il bordo della notte, laggiù a nord, dove le periferie inesplorate di Neonora sfumano negli immensi campi di loufa del Plano Campitàno, solcati alla fine del giorno dalle carovane dei contadini, che tornano coi loro carichi ai depositi e, oltre quei campi, ancora più a nord, verso chissà quali altre lande sconosciute dell'Isola di Shardenya.
    C'è un profumo potente di alba, di timo e di cozze.


    Helpo finestra 1


    Eccomi qua, ti saluto, nonno che leggi.
    Questa è la prima volta che il nipotino ficca dentro la sua interfaccia tosta.
    Come va?
    Hai visto che bell'aria sul promontorio? Che bella luce, che bel mare? E che bella sentinella?
    Ma stop, prima di tutto la premessa.
    Queste finestre di Helpo NON SONO ESSENZIALI AL RACCONTO.
    Se non hai pazienza, se ti viene il nervoso alle gambe, se ti coglie un sonno da nonno, puoi chiuderle quando vuoi: basta toccare… No, pardon, vedo che mi ricevi su uno dei vostri vecchi libri, mi correggo: basta saltare le righe fino alla parola ‘Exit', la storia vera e propria riattacca da lì.
    Ma se non hai troppa fretta, ti consiglio di leggere tutto. Ti servirà a capire meglio molte cose e ti farà compagnia: questa storia, te lo assicuro, non è semplice. Non solo da capire, per tutte le diavolerie biotecnomagiche che ti spiegherò, ma anche proprio da seguire passo passo. Comincia dolce, ma poi diventa dura. E credi pure al nipote lontano: a te povero nonno viaggiatore alla fine farà piacere la mia mano che ti guida. Quando mi sentirai sarai contento, e quando più avanti per lunghi tratti ti lascerò solo, forse perfino ti mancherò.
    Ti va bene se ti chiamo nonno? Tu puoi essere un ragazzino, un adulto o un anziano, è lo stesso: per me sei un antenato centenario, dato che io vivo… cioè, dire che vivo non è del tutto corretto, ma… sia come sia: io vengo molti anni dopo di te. Quindi stai allegro, nonno, tieni stretta la mia mano, che si va.
    Siamo in Shardenya, come hai visto. La conosci? Se sei italiano dovresti averla sentita nominare come Sardegna.
    L'anno esatto non te lo dico, ma è lontano: tanto che tu potresti essermi nonno.
    Neonora è il nome nuovo che hanno dato a una vecchia città, che si chiamava Cagliari ai tuoi tempi. Adesso è una tecnopoli tremenda, anche se vista dalla Tana a quest'ora ha una sua stremata dolcezza. Peccato che starci dentro sia un inferno: tre milioni di abitanti, un iperporto pieno di fetentissime ipernavi, infotecno, biotecno, nanotecno, nodo primario di Nassa, minestrone di tutte le razze e anche di altre.
    La sentinella si chiama Maristella, ha tredici anni, è una ski-lellè.
    Gli ski-lellè sono bambini randagi di Neonora organizzati in bande. I neonorani li chiamano così, ‘bambini-schifo' (‘lellè' vuol dire bambino, ragazzino), perché dicono che sono scorie viventi della città, contaminati e sudici: ma come vedrai fra poco non è vero.
    La banda di cui ti racconto si fa chiamare ‘Lunamoonda', dal nome del gioco in cui si corre scavalcandosi l'un l'altro che hanno preso come rito, bandiera, tecnica di sopravvivenza della banda.
    La loufa è una specie di zucca, l'unica cosa che si coltivi ancora nel mondo biotecnocivile, da cui si ricava praticamente tutto, ma te lo spiegeherò meglio un'altra volta. I tuoi occhi annoiati mi dicono che è ora di riprendere la storia: eccola.


    Exit


    Dopo neanche mezz'ora erano tutti svegli, giù alla Tana, e scendevano in fila indiana la Scalera, la fila di antichi gradini sbreccati che portavano verso il mare, per i soliti lavacri del mattino. Su un piccolo spiazzo, chiamato Plaza Bassa, l'acqua dolce sgorgava in un getto gioioso dalle fauci di leone di un bel dissalatore Grifone a energia solare, rubato al porto da Murena e Guaster Blaster. Preparare il cestino dei saponi con le scaglie di loufa-schiuma, lo zenzero e le foglie di menta per i denti, era compito mattutino della sentinella, e Maristella aveva aggiunto il suo tocco: una manciata di gigli azzurri profumati.
    Ora le gocce diamantine schizzavano in alto nel sole fresco di prima mattina, e quei profumi e quei colori e l'ora bella, tutto faceva sorridere il cuore e pensare: ce la faremo anche oggi.
    Gli ski-lellè attendevano in coda ordinata, chi ridendo, chi sbadigliando, chi grattandosi il collo e altre parti. Tataèa, il pulcino della banda, un microbo di cinque anni scarsi, non smetteva di cinguettare senza fiato nella sua lingua inconcludente, fatta quasi di sole vocali. Cosa dice lo capiscono ben pochi, anzi due: Guaster Blaster e Giaime Serca. Il Blaster infatti, dalla torre dei suoi due metri e venti, lo sta a sentire con un sorriso tenero e tonto nell'unico occhio buono, e annuisce ciondolando la testina.
    Mama Yada e i suoi tre ballerini, due femmine e un maschio, stanno ritti svegli e tesi come antilopi, con le membra sottili tremanti per la forza della danza che c'è dentro e chiede di uscire negli esercizi del mattino. Eno Torràu e i suoi tre musicisti, due maschi e una femmina, invece vengono avanti ciondoloni, assonnati e pesanti, canticchiando pianissimo un ritmo a soffi di gola, che già così, senza strumenti, fa muovere i piedi a mezza fila.
    Ed eccoli, uno per uno, tutti quanti: Arasulè, Fàula, Maristella, Momòti, Yaya, Murena, Maureddìn, Pibitzìri, Fiore Sbocciato. Arrivano davanti al Grifo, si liberano con rapidi gesti di panni e cinghie e, nudi fino alla cinta in ogni stagione, accolgono nelle mani a coppa l'acqua dolce che il Grifo ruba al grande mare amaro, fanno schiuma con le scaglie di loufa, si lavano, spruzzano, gridano, ridono e via.
    Chiude la fila come sempre Giaime Serca, il capo della banda ski-lellè.
    Il nome intero era Giaime Sercaluna, e ‘serca' in neonorano vuol dire sputo: dicono infatti le storie dei bivacchi che un giorno, in una mitica gara di sputi alla luna, aveva vinto. Ma a parte le belle leggende, lo chiamavano Serca per un altro e preciso motivo: il suo sputo era un'arma micidiale. Una nuova malattia continentale, da cui in genere nessuno mai guariva, lo aveva stranamente risparmiato, lasciandogli però questo sputo profumato e velenoso, letale per tutti tranne che per lui e capace di squagliare una moneta d'acciaio in diciotto secondi. Con quello sputo centrava i chemiosensori della Nassa da sei metri, mandandola in Scimpru. Per questo alcuni credevano che fosse il capo.
    Ma neanche questo era vero: Giaime Serca era un capo nel cuore, non nello sputo. Non era arrogante, non era crudele, non era spaccone; non puniva senza un motivo, non dava ordini invano, ma nessuno reggeva il suo sguardo, nessuno trovava mai niente di meglio da opporre alla forza e al senno delle sue opinioni. E la banda gli obbediva quietamente.
    Era lui, per esempio, che aveva istituito le abluzioni comuni obbligatorie ogni santo mattino; fino a qualche anno prima ciascuno si lavava a suo estro, con tristi conseguenze per la salute e l'odore dell'aria lì intorno. Ora anche lui si lavava, mentre Yaya, che gli era forse un po' troppo devota, provvedeva a un altro rito mattutino: rinnovare la collana di piccoli granchi vivi, legati con filo sottile di rame, che Giaime portava al collo.
    La ragazza saltava leggera su scogli e pietroni, sull'altro versante di Cala Figuera, stringendo in mano una bustina di loufa-nylon, guardando intorno con sguardi a scatti, cercando il guizzo del granchietto in fuga. Li catturava con le mani nude, pizzicando con un gesto da esperta la pancia e il dorso, in un punto in cui le chele non potessero arrivare a pizzicarla.
    E fu proprio inseguendo un granchietto, quella mattina, che infilò mano e braccio sott'acqua in una fessura buia tra due scogli, e subito la ritrasse spaventata: aveva toccato qualcosa di freddo e di liscio che non era né roccia né granchio né cozza. Si fece coraggio, cercò di sbirciare in fondo alla crepa buia e sommersa, ma invano. Allora immerse di nuovo la mano e stringendo occhi e denti frugò, piano piano a tentoni, toccò, cercò…
    E infine si impietrì di nuovo, impallidì e sgranò gli occhi di spavento, ma insieme sorrise. Tenendo affondata nell'acqua la mano esploratrice, si portò in bocca pollice e indice dell'altra mano congiunti ad anello ed emise una serie di fischi brevi e acuti.
    Sull'altro braccio della Cala, al Grifone nella Plaza Bassa, tutti gli ski-lellè in un gesto solo volsero assieme il capo da quella parte. Giaime fece brevi cenni con la mano, a dire ‘tu, tu e tu', poi si mosse silenzioso sugli scogli in direzione del fischio. I tre che aveva indicato, com'era nei piani, senza scambiare una parola si spogliarono fino al perizoma e si immersero in mare, per arrivare a nuoto dal largo e chiudere il cerchio.
    Il sorriso sulle labbra di Yaya si era già irrigidito in una smorfia di tensione e paura, quando Giaime la raggiunse. Si guardarono in perfetto silenzio: poi la ragazza alzò la mano libera, e cominciò una serie rapida di gesti, in un loro alfabeto segreto. Giaime levò lo sguardo, vide che i tre nuotatori arrivavano e si disponevano a raggiera per sorvegliare la scena da lontano. Guardò accigliato il gesticolare della compagna e, quando lei ebbe finito, fece un cenno d'assenso col capo e fece per andarsene. Poi parve cambiare idea, si fermò, si rivolse verso di lei, sorrise e strizzò entrambi gli occhi. Yaya sorrise da un orecchio all'altro e gli strizzò gli occhi in risposta; Giaime si voltò e andò via.
    "Lellè, c'è un Murmungione. Yaya gli ha inforcato le narici, è prigioniero" disse, quando tornò nella Plaza Media, agli altri che lo attendevano accucciati sui talloni.
    "Cosa si fa?" chiese Eno.
    "Chi va?" chiese Arasulè.
    Murmungione era il nome che davano gli ski-lellè ai semisimul subacquei della Nassa, uno dei tanti tipi di terminali mobili che volano, nuotano o strisciano in forma di animali biotecno, per metà finti e per metà vivi, a ficcanasare e riferire tutto.
    "Fra pochissimo finirà di analizzare le cose che ha nei fori sensori frontali" disse Giaime, "e si accorgerà che sono dita umane. Sempre che non se ne sia già accorto, e non l'abbia già detto alla mamma".
    "Preghiamo di no!"
    "Santa Restitùta!"
    "Sant'Èphys!"
    "Anghelu Ruju!"
    "Pruppu Giudìu!"
    "Amen!"
    "Amen, d'accordo, ma attenzione!" tagliò corto Giaime, perché quello non era il momento di Pregadorìe: "Se Yaya lo molla, quello pianta l'analisi e le dita son salve, però se ne schizza via a riferire alla Nassa, ed è la volta che ci localizza".
    "Allora chi va?" ripeté Arasulè.
    "Adao oi e Uaste suascia" disse Tataèa, già pronto sul collo del Blaster, che sorrise.
    "No. Mama, vai tu!" disse Giaime. "Fagli vedere un po' di numeri sott'acqua come quelli dello scorso anno al raduno di Masùa. Anzi, meglio, se puoi".
    "Yèhia!" disse Mama Yada alzandosi con un salto esagerato e ricadendo in posizione Matra. I suoi tre ballerini si alzarono a scatti anche loro, ma lei li bloccò con un gesto che parve schiacciarli per terra di nuovo.
    "No, vado sola. Non la beve se vede un branco di roba grossa in acqua bassa".
    "Ha ragione" confermò Giaime. "Presto, Mama, ci basta un piccolo Scimpru da zero trenta. Murena, prendi un polpo dal pozzo, valle dietro e tieniti pronta".
    "Yèhia!" disse Murena, si alzò e corse via.
    Mama Yada si spogliò fino al perizoma, del tutto incurante degli sguardi sospirosi dei maschietti, salì leggera su uno scoglio a picco sul mare, fece quattro mosse di concentrazione, lentissime e strane, che misero un brivido nella schiena a tutti e spensero il sorrisetto degli ammiratori, e si tuffò.
    Dopo un paio di minuti, doppiati due scogli, apparve nuotando sott'acqua davanti al Murmungione, il cui muso nero opaco pareva ornato assurdamente dalla bella mano di Yaya, bianca e diafana nel vetro del mare. Un piccolo scatto d'aggiustamento confermò a Mama Yada che il semisimul l'aveva vista e la stava studiando. La ragazzina cominciò a danzare sott'acqua. Le sue gambe, che di colpo parevano senz'ossa, ondeggiavano attorcigliandosi sinuose come tentacoli di polpo; il suo bacino tondeggiava e pulsava lento come una medusa, le braccia parevano lunghe alghe fluttuanti verso il sole, le mani pesci d'argento che viravano a scatti simultanei. Murena intanto s'avvicinava a nuoto cautamente, con un polpo vivo in mano. Yaya, il braccio immerso nel mare, l'altra mano aggrappata allo scoglio, attendeva stringendo le labbra.
    Non durò molto. Nel cervellino processore del semisimul i processi cominciarono ad arruffarsi: confrontava freneticamente dati, contesti, mappe, immagini, definizioni. La creatura davanti a lui che cosa era? Si muoveva come un polpo, come le alghe, come una medusa, come un branco di mormore… Ma non può essere tutte queste cose assieme… Non può… Non può… non…
    "SCIMPRU!"
    Yaya lo avvertì subito dalla cessazione di ogni ronzio sotto la sua mano, e dal rilascio dei morsetti che le tenevano strette le dita. Le tirò fuori dall'acqua in uno spruzzo e ripeté il grido:
    "Scimpru!"
    Mama Yada, senza interrompere la danza, si dileguò indietreggiando nell'azzurro.
    Murena invece fece un guizzo avanti e fu addosso al Murmungione in stallo. Nei fori sensori lasciati vuoti dalle dita di Yaya ficcò a fondo due tentacoli del polpo vivo che aveva portato con sé e, tenendoceli ben fermi, attese immobile.
    Il blocco dell'apparecchio durò ancora una dozzina di secondi. L'apnea di Murena, che Giaime Serca non aveva scelto a caso, ne avrebbe sopportati altri duecento Poi un lieve tremito, un minuscolo led che si accendeva e i morsetti che bloccavano i tentacoli del polpo nei fori avvisarono Murena che il finto pesce stava ricaricando il suo sistema. La piccola nuotatrice gli lasciò il polpo e guizzò via, sinuosa e invisibile come la bestia di cui portava il nome.
    Dopo un minuto gli ski-lellè erano riuniti in una Setziàda di emergenza, seduti in cerchio nella Plaza Media, quella davanti all'entrata della Tana, riservata ai momenti importanti.
    Fàula e Fiore, di turno a rifare le stanze, finirono svelti di stendere al sole lì intorno le ultime stuoie di loufa-piuma e sedettero ai loro posti.
    Giaime parlò serio e calmo come sempre, nel silenzio assoluto.
    Quel Murmungione non era un buon segno. Poteva darsi che fosse finito lì per caso, per qualche routine di scansione delle coste predisposta dalla Nassa. Ma poteva anche darsi che fosse lì a cercare qualcosa o qualcuno: magari loro.
    "Preghiamo di no!"
    "Sant'Avendràce!"
    "Sant'Alenixèdda!"
    "Anghelu Ruju!"
    "Pìsciu Re!"
    "Amen!"
    Stavolta Giaime lasciò finire la piccola Pregadorìa, poi proseguì. Per la settimana dopo era in programma una Bardàna, una razzia di approvvigionamento in qualche macromarket in città. Giaime propose di anticiparla all'indomani… Attese di nuovo, stavolta che il vocìo e le battute di soddisfazione si spegnessero, e proseguì: voleva anticiparla al giorno successivo, usandola come occasione e copertura per una missione di iscòbia. Fàula si voltò di colpo, guardò il capo con occhi più grandi, narici tremanti e un ambiguo sorriso di gioia e apprensione.
    "Lo so, Fàula, è pericoloso. Io stesso ti avevo detto che oramai bisogna ricorrere all'iscòbia solo nei casi davvero urgenti. E questo è uno di quelli. Te la senti?"
    Fàula era una bambina di dieci anni minuta e delicata, con lineamenti regolari e un po' scialbi, occhi e capelli castani, pelle né chiara né scura, insomma quei tratti che si dicono comuni, che si vedono e dopo un istante si sono scordati. Ma ora gli occhi le scintillavano come due madreperle sotto il sole. Respirò forte, spalancò il sorriso e scuotendo la testa su e giù rispose:
    "Yèhia!"
    "Bene. Allora via, ognuno alla sua giornata, la Setziàda è finita. Tu Fàula vieni con me".
    Gli ski-lellè si alzarono vociando e si sparsero in diverse direzioni, soli o a gruppetti.
    Mama Yada e i suoi ballerini si affrettarono verso lo spiazzo per gli esercizi, che quella mattina iniziavano in ritardo. Murena, Momòti e Pibitziri, di turno per la spedizione di pesca del giorno, si avviarono alla Plaza Bassa e alle barche. Il cuoco Maureddìn e il suo aiutante Fiore Sbocciato partirono verso il promontorio per la cerca delle erbe. Gli Eno Torràu si avviarono con gli strumenti al sito di prova, che per disposizioni di Giaime doveva essere almeno a trecento passi dalla Tana e ben protetto da cespugli. Arasulè si imbucò nella biblioteca a leggere mormorando i suoi libri di poesie. Giaime si ritirò con Fàula nel Castiglio per studiare l'iscòbia dell'indomani. Guaster Blaster e Tataèa, l'uno più di due metri e l'altro meno di uno, scesero giù a giocare fra gli scogli.
    Dal suo recinto sulla Plaza Alta, a un chilometro da lì, il cane Incubo scrutava tutto e tutti con quel suo sguardo neutro e vuoto che spaventava più di mille ringhi.



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