Racconti
Incontro al sole - Quel giorno sul ponte
Il risveglio  - Lampare



IL PENSIONATO
Si era alzato di buon mattino, Alessio e si era messo a canticchiare, mentre prendeva dall’armadio il suo abito migliore. Per la verità lo possedeva da molto tempo, ma lo teneva con cura e sembrava quasi nuovo. Era un po’ fuori moda, ormai, ma sempre in buono stato e, quel che più contava, pulito. Dopo aver spazzolato l’abito, Alessio lo distese con precauzione sul letto e si recò nella sua piccola cucina per far colazione. La colazione consisteva semplicemente in una tazzina di caffè e un biscotto, un solo biscotto all’anice che l’uomo prendeva da uno scatolo, la sua provvista, che puntualmente rinnovava. Una colazione un po’ modesta, ma Alessio non poteva permettersi di più, con la pensione che prendeva. Era un pensionato, viveva come poteva, senza sprechi inutili. Non aveva famiglia, era rimasto solo, solo in un mondo che non badava a lui. Aveva fatto in modo da bastare a se stesso, senza avere bisogno di altri. Aveva organizzato la sua vita così da sopperire ad ogni sua necessità: era contento di quel poco che aveva, dal momento che non poteva sperare di avere di più. Era soddisfatto, mentre assaporava il suo caffè, perché era il giorno che aspettava ogni mese con la stessa ansiosa gioia. Era arrivato il 12 del mese e doveva andare a riscuotere la sua pensione. Non si trattava di una cifra enorme, era una modesta pensione di 630 mila lire e, con il caro-vita che c’era, gli permetteva a stento di non morire di fame. Quei soldi gli erano sufficienti Per pagare l’affitto delle due modeste stanzette in cui abitava, fare la spesa ai mercati generali dove si illudeva di risparmiare, saldare il conto in lavanderia, comprare il giornale ogni mattina, rinnovare la provvista di biscotti. Appena terminò di fare colazione ritornò nella camera da letto e indossò l’abito delle grandi occasioni. Si guardò allo specchio: era sempre un distinto signore. Da un cassetto nel quale usava riporlo, tirò fuori il libretto della pensione. Pettinò scrupolosamente i suoi capelli bianchi, prese il cappotto seminuovo, il cappello e uscì. Per le scale indossò il cappotto, appena fuori dal portone un’ondata di aria gelida lo investì, si alzò così il bavero e affrontò il freddo dell’inverno, felice in cuor suo per la bella giornata che lo aspettava. L’ufficio postale nel quale doveva riscuotere la pensione era un po’ lontano, ma egli preferì non prendere l’autobus e andare a piedi. Si sentiva giovane e desiderava fare una passeggiata. Era la strada che percorreva abitualmente, quando andava a comprare il giornale, ogni mattina, ma oggi gli sembrava diversa. Era una giornata speciale, che ricorreva ogni mese, ma che egli accoglieva con lo stesso entusiasmo ogni volta. Non sentiva quasi più il freddo, aveva una prepotente voglia di canterellare per la strada, di salutare ogni persona che incontrava. “Buona giornata a lei” voleva dire a quel signore che camminava frettoloso a testa bassa “ e a lei” a quell’altro signore tutto rinchiuso nel suo cappotto. Come avrebbe desiderato incontrare un amico al quale annunciare: “Oggi sono felice” Ma molti di quelli che conosceva se ne erano andati da tempo da questa vita e gli altri…gli altri… chissà dove erano! Con quanto piacere avrebbe fatto la strada insieme a qualcuno con cui chiacchierare, a cui confidare i suoi progetti! Alessio era solo, sì c’era tanta gente che camminava accanto a lui o che gli veniva incontro, ma era solo, solo in mezzo a tanti sconosciuti che non s’accorgevano di lui. Ebbe un momento di sconforto, sentì tutto a un tratto, la sua immensa solitudine ed ebbe paura. Ma si riprese subito, pensò alla pensione che doveva riscuotere, a ciò che avrebbe potuto fare e la gioia ritornò nel suo cuore. . Era solo, ma era contento. Continuò il suo cammino di buon animo: anche così la vita poteva essere bella. Arrivò finalmente all’ufficio postale ed entrò. Era uno spettacolo abituale quello che si offrì ai suoi occhi. C’erano tanti vecchietti come lui, più o meno distinti, più o meno tremanti. Erano tutti pensionati. Ve ne erano alcuni che sembravano ancora giovani, nel pieno delle loro forze. ”Saranno in pensione da poco” pensò Alessio nel vederli. Qualche signora anziana, stanca di fare la fila, si era seduta su una sedia rimediata chissà come. Ognuno aspettava pazientemente il proprio turno. Alessio si mise in fila. Sebbene si fosse alzato presto non era riuscito ad essere tra i primi. Sospirò ed incominciò ad aspettare.Ogni passo avanti che faceva era una conquista. “Ecco ancora altri tre e tocca a me, altri due, uno solo” e così pensando gli batteva forte il cuore. Sembrerà strano, ma Alessio si emozionava ogni volta che veniva il suo turno. Non lo sapeva egli stesso perché, ma provava una profonda emozione. Ecco era arrivato il suo turno! Consegnò il libretto, l’impiegato controllò, lo fece firmare, poi prese un mazzetto di soldi e contò. Dieci, venti trenta, con un’abilità straordinario l’impiegato consegnò in pochi secondi la somma esatta ad Alessio che si soffermò per controllare mentre quello dietro di lui lo spingeva per farlo allontanare .Alessio estrasse dalla Tasca interna il portafogli, lo aprì vi mise in ordine il denaro, lo rinchiuse, lo rimise a posto, si sistemò il cappello, salutò qualcuno dei pensionati che facevano la fila e che ormai conosceva e ritornò nella strada. Lo accolse nuovamente il freddo, il tempo era peggiorato, era una brutta giornata di febbraio. Alessio camminava più piano che nell’andata, faceva i progetti sul come spendere il suo denaro. “Vediamo” pensava-“ 300 mila per l’affitto, 20 mila per la lavanderia, 30 mila per il macellaio, 100 mila da mettere da parte per la spesa quotidiana e per i biscotti; posso anche fare un regalo al figlio del portiere che è tanto buono con me. Viene sempre a chiedermi se ho bisogno di qualcosa. Sì, gli farò un bel regalo che non costi troppo, ma bello.E poi…vorrei comprarmi un cappello, questo è ormai vecchio. E poi…no, basta…se continuo così spenderò tutto in un sol giorno e non mi resterà niente. No, no, giudizio, vecchio, giudizio.” Alessio pensava così mentre percorreva la strada che lo conduceva a casa. Non vi era quasi più nessuno sul marciapiedi, aveva ritardato troppo all’ufficio postale e l’ora di pranzo era passata da un pezzo.Gli piaceva guardare le vetrine e si fermava ad ogni passo per questo. Quante cose avrebbe voluto comprare! Tutto immerso nei suoi pensieri, nei suoi progetti, non si accorse di due giovani su una motocicletta che l’osservavano mentre procedevano nella sua stessa direzione, accostandosi al marciapiedi. L’anziano signore era fermo davanti alla vetrina di un’oreficeria e guardava gli orologi esposti. Da tempo desiderava cambiare il suo vecchio orologio con uno di marca, di precisione, anche subacqueo.Ma che prezzi! Ogni sogno del pensionato si infrangeva contro il cartellino del prezzo. E proprio mentre Alessio si stava rassegnando a restare con il suo vecchio orologio, che in fondo non gli dava soverchi fastidi, uno dei due giovani della motocicletta scese, si avvicinò rapidamente al pensionato, lo afferrò per il cappotto, gli prese il portafogli e, a un debole tentativo di resistenza dell’uomo, lo mandò per terra con un pugno. La scena si era svolta con una tale rapidità che passarono solo pochi secondi. Il giovane risalì sulla motocicletta che si allontanò rombando, lasciando per terra il vecchio che ancora non si era reso esattamente conto di ciò che era successo. Che cosa gli era accaduto? Il suo portafogli, la sua pensione! “Al ladro, al ladro” voleva gridare, ma era come se avesse perso la voce. Se ne stava lì, per terra, appoggiandosi su un gomito, tentando di rialzarsi e nessuno l’aiutava. dove era la gente! Possibile che non ci fosse nessuno? Si trascinò fino al muro, tentò ancora di sollevarsi, non ce la faceva. Passò in quel momento un uomo, ma non gli badò. “Signore” riuscì il vecchio a dire con voce soffocata, stendendo la mano, “Signore”. L’uomo lo guardò con indifferenza e non si fermò, proseguì la sua strada: lo aveva preso per un mendicante? Il pensionato provò ancora Ad alzarsi e stavolta stava per farcela quando si sentì sollevare da due robuste braccia. Appena in piedi si voltò e vide il suo soccorritore: era un giovane che, sorridendo, gli disse: “Andiamo male eh, nonnino” Il vecchio, invece di rispondere, si mise a piangere. “E ora che ti prende?” e il giovane continuava a sorridere. “ La mia pensione, la mia pensione” ripeteva il povero vecchio singhiozzando. “ Che, te l’hanno fregata?” chiese il giovane. “Mi hanno rubato la pensione. Proprio adesso stavo tornando dall’ufficio postale. Al ladro, al ladro” “Ormai che vuoi farci, è inutile, tanto quelli non li puoi prendere. Vuoi che ti accompagni a casa?” Il vecchio non volle. Tornare a casa, così, senza denaro .No, non poteva tornare, ora. “Come vuoi” disse il giovane, lo salutò e andò via. Il pensionato fece qualche passo barcollando, incominciava a piovere. Nella caduta il suo cappotto si era sporcato e lo faceva sembrare uno straccione. Si sentiva male e si pentiva di avere rifiutato l’aiuto del giovane.Il colpo subito era troppo forte per lui. I suoi progetti andavano tutti in fumo. “Non è giusto, non è giusto!” mormorava mentre cercava di non cadere. Camminava appoggiandosi al muro, come un ebete. Ancora non riusciva a crederci. La sua pensone! La pioggia era sottile, le gocce cadevano silenziosamente sul suo viso confondendosi con le lacrime. Alessio vide l’insegna di un bar, si avvicinò sorretto dalle sue deboli forze ed entrò nel locale. C’era poca gente. La cassiera quando vide il vecchio, lo prese certo per un demente e fece una smorfia di disgusto: che cosa voleva quell’individuo dall’aria stralunata? Il pensionato si accostò alla cassa, ordinò un caffè e poi, soltanto allora si accorse che non aveva un soldo in tasca. Teneva tutto il suo denaro nel portafogli e questo gli era stato rubato.. Frugò nelle tasche, niente non trovò una lira. La cassiera capì che l’uomo non aveva denaro e ciò confermò la sua opinione su di lui: era un vagabondo. Lo guardò meglio e notò il cappotto sporco, logoro in più punti, il viso sempre pi Strano. Lo mandò via. “Sto male, sto male” disse debolmente il vecchio. “Ci sono gli ospedali” fu la risposta della donna. Ad Alessio non restò che andare via. La vergogna lo faceva tremare, i clienti del locale già si volgevano verso di lui. Non sopportava i loro sguardi curiosi e per nulla benevoli. Se ne uscì, malfermo sulle gambe, a bagnarsi sotto la pioggia uguale, silenziosa. Offriva il volto rugoso alle gocce quasi volesse trovare ristoro. Gli era amica, la pioggia. Non disdegnava di posarsi su di lui, ma lo bagnava come bagnava le strade ,i muri, le case. Camminò così per un po’ di tempo, chiuso nel suo dolore.L’idea di denunciare il furto non lo sfiorò nemmeno. Si sentiva così debole, così indifeso. Non si accorse di essersi allontanato dalla strada che portava a casa sua. Imboccò senza avvedersene una via stretta, poi un’altra. La pioggia era la stessa, non aumentava a cessare. C’era un muretto a un lato della via e Alessio vi si sedette. Rimase così, guardando fisso davanti a sé. Per quanto tempo? Non se ne rendeva conto, forse era seduto lì da sempre, chissà. Rivide tutta la sua vita. Gli episodi della sua infanzia, della sua giovinezza gli passavano davanti; egli cercava di afferrarli, di trattenerli, ma si allontanavano, sparivano nel nulla dal quale erano venuti. Rivedeva sua madre, giovane e bella così come l’aveva vista l’ultima volta, quando le aveva detto addio. Gli sembrava di essere ancora un bambino e che la mamma lo consolasse per la brutta avventura. E gli prendeva le mani,. Gliele accarezzava e lui si sentiva felice. L’immagine della madre scomparve, come le altre, invano egli cercò di fermarla. Se ne andava lasciandogli un senso di grande rimpianto. Ma sentiva ancora qualcuno toccargli le mani. Si riscosse e ai suoi occhi riapparve la realtà. Era in una strada stretta, seduto su un muretto e qualcuno gli toccava le mani. Guardò in basso, ai suoi piedi si era accucciato un cane. Era un bastardo come se ne incontrano tanti per le strade. Aveva il pelo corto, scuro e gli occhi erano buoni. Era il cane che gli leccava le mani e attendeva in quella sua posa un po’ buffa, attendeva… che cosa? Il pensionato sorrise e accarezzò a sua volta quell’amico venuto chissà da dove a consolare il suo dolore. Il cane mugolava pietosamente e lo guardava con insistenza, quasi a chiedere qualcosa. “Sei solo anche tu, povero amico?” chiese Alessio a bassa voce. Forse per rispondergli, il cane guaì teneramente. “Povero amico” ripetè il pensionato. La vita ci tratta male, tutti e due, a quanto pare. Vedi io sono qua; non so nemmeno come ci sia arrivato, ma sono qua e sto piangendo. Mi hanno rubato la pensione. Mi riempirò di debiti. Dio solo sa come farò. Sono solo, nessuno mi aiuta. Mi hanno cacciato da un bar. Che differenza ci può essere tra me e te? Sono anch’io un randagio. Ma adesso non sarò più solo, tu mi farai compagnia, vieni, amico. Alessio si alzò, accarezzando la testa del cane. “Vieni” gli diceva e il randagio lo seguì. E se ne andarono insieme, il vecchio e il cane. Il cane saltellava felice, ora precedendo, ora seguendo il nuovo padrone, Il vecchio canterellava e toccava il muso umido del suo nuovo amico. La pioggia li bagnava tutti e due, cadeva sul cappotto logoro del vecchio, sul pelo del cane. Alessio si sentiva consolato. Aveva perduto il suo denaro, ma ora era forte, non era più solo, aveva qualcuno che lo avrebbe seguito sempre, ovunque, qualcuno al quale avrebbe potuto parlare, sicuro di essere capito. Per quella strada stretta si dileguavano quelle due strane figure, quei due poveri esseri che il caso aveva fatto incontrare per unire la solitudine dell’uno al dolore dell’altro.

5-4.jpg (4351 byte)

home.gif (6776 byte)

Incontro al sole





Emilio camminava tirando calci ai sassi che incontrava nel parco. Il soprabito malandato non lo difendeva dal freddo e il berretto che teneva abbassato sugli occhi mostrava qualche buco da cui si intravedevano ciocche di capelli neri. Alla fine del viale si trovò davanti all’uscita che dava nel centro della città. Si inoltrò per le vie affollate, abbandonando la quiete del parco. Non voleva confessarlo a se stesso, ma odiava tutta la gente che si offriva alla sua vista. Persone ben coperte, signore in pelliccia, che egli non riteneva degne neanche del suo odio, ma solo del suo più grande disprezzo.

Lo disgustava quel senso di benessere che emanava dai passanti che riempivano l’elegante quartiere. I suoi passi l’avevano portato proprio nella zona più ricca, dove si fa sfarzo di agiatezza e si parla di miliardi. Ognuno di quelli che vedeva era certamente qualcuno o si illudeva di esserlo, mentre lui chi era? Lo diceva chiaramente il suo abbigliamento trascurato, il suo berretto, la sua aria supplice e malinconica, il volto che voleva apparire sprezzante e non ispirava che compassione. "Emarginato" lo avrebbero definito nei salotti "bene" le signore tra un pasticcino e un sorso di tè, in una delle tante conversazioni sui mali della nostra società. "Sfortunato" si considerava egli stesso. Uno di quegli sventurati che non hanno una casa dove rientrare, la sera, nè un amico con cui parlare delle cose più banali. La sua casa era la strada, i suoi amici le panchine dove si rannicchiava per dormire o i ponti sotto cui cercava rifugio nella notte, insieme ai cani, ai vagabondi come lui, Da poco aveva trovato un altro posto in cui riposare, l’aveva scoperto seguendo un essere della sua stessa specie. Così, ogni sera, si recava alla stazione dove vi sono tanti treni ad aspettare di essere adoperati il giorno dopo. Non aveva che da scegliere il vagone che più gli aggradava, uno scompartimento di prima classe, una vettura letto. Ouesto nuovo rifugio offriva diversi vantaggi, era confortevole, comodo, senza contare il fatto che vi si potevano trovare rifiuti da mangiare. Era proprio fortunato Emilio, ad avere scoperto un simile lusso! Sempre meglio che sotto i ponti ! « Certo quello lì avrà una stanza tutta per sè» pensava guardando un bellissimo giovane in giubotto di pelle che partiva su una potente moto. Ormai lui non ci pensava più ad avere una stanza, un letto vero con materasso e lenzuola pulite. Conduceva questa vita da qualche anno, da quando si era accorto di essere completamente inutile alla società, senza lavoro, senza futuro, solo con il suo desiderio di vivere. Ma desiderare di vivere non basta, se gli altri non te lo permettono. Ed Emilio capì di essere solo, ai margini di una società che lo respingeva. Quando aveva perduto il lavoro, in seguito alla chiusura di una fabbrica, non immaginava che sarebbe stato talmente difficile trovare un altro posto. Eppure non vi riuscì. Era forse stato un incapace? Se lo chiedeva spesso, quando entrava in un vagone letto per passarvi la notte. In che cosa aveva sbagliato? Non sapeva darsi una risposta. Aveva cercato, bussato a tante porte e non aveva ottenuto niente. Pensava ai giorni trascorsi nella tranquillità di un lavoro sicuro come a un periodo favoloso che non si sarebbe mai più ripetuto. Aveva imparato l’arte di «arrangiarsi», in tanti modi, scendendo uno ad uno i gradini della dignità umana fino a sprofondare nel fango. Non aveva più niente di umano il suo aspetto, era quello di un essere affamato, pronto ad ogni bassezza. Con lui accettavano di stare solo le pulci. Ed era così "per bene" prima! Ogni residuo di onestà era scomparso dal suo comportamento. Sarebbe stato anche capace di uccidere. Disprezzava i suoi simili, li avrebbe voluti morti, tutti, anche quelli che si accontentavano di dormire sotto un ponte. Doveva fare uno strano effetto il suo aspetto così poco raccomandabile, in mezzo a tanta ricchezza!Una signora elegantissima era ferma a pochi passi da lui e chiacchierava con un’amica. Emilio notò la sua borsa, doveva contenere abbastanza denaro, a giudicare dall’eleganza della proprietaria. Sulla destra c’era una stradetta che portava in un’altra zona dove sarebbe stato facile confondersi tra la folla. Emilio decise subito quello che doveva fare. Mentre la donna parlava tranquilla, si avvicinò, le strappò la borsa e si mise a correre per la stradetta e, giunto altrove, tra una folla diversa, rallentò l’andatura fino a nascondersi in un

androne. Qui prese il contenuto della borsa, c’era un portamonete con 1.000.000 di lire. Era stato un colpo fortunato! Mise i soldi in tasca e gettò la borsa. Ritornò nei quartieri che frequentava di solito e in cui si riteneva al sicuro. Entrò in un’osteria dove poche volte aveva messo piede e si sedette a un tavolo. Bevve vino delle migliori marche e uscì di lì con una bottiglia in mano e l’andatura incerta. Era sera, faceva freddo ed Emilio si sentiva allegro, caldo nella sua ubriachezza. Gli restavano ancora molti soldi in tasca, si riteneva ricco, padrone del mondo. Si ricordava che era ancora giovane e poteva "vivere". Vagò per le strade, barcollando, con la bottiglia stretta nella mano. Era un essere umano nuovamente, voleva gridarlo..

Gridò veramente: "Sono un essere umano, sono un essere umano"

Lo ascoltavano i lampioni, pazientemente, senza potergli rispondere. Lo udirono dei giovani che stavano tornando da una bravata che aveva fruttato loro un buon bottino. Si avvicinarono e lui li accolse ridendo e gridando di essere ricco. Lo frugarono e gli trovarono i soldi. Emilio capì che stava per perdere la sua fortuna e tentò di difendersi, ma gli altri ebbero la meglio e lo massacrarono con i loro pugni. La bottiglia cadde per terra, si ruppe e sui frantumi, sul liquido rosso si riverò il corpo di Emilio sotto un ultimo colpo. Sanguinava, stordito e ubriaco, guardava il vino che bagnava la strada e vi passava sopra la mano, per raccoglierlo. Svenne, quando riprese i sensi ebbe la forza di rialzarsi e di muovere qualche passo. Non molto lontano c’era una panchina, vi si diresse lentamente lasciandosi dietro una striscia di sangue. Si distese, coprendosi alla meglio con il cappotto. Era stanco di andare alla deriva, voleva finalmente dormire sereno, senza paura. E venne per lui il sonno che desiderava, quel sonno eterno che solo può dare la vera pace agli oppressi. Si addormentò augurando a se stesso "Buonanotte, Emilio!"

Sognava di essere in un prato verde, in piena primavera, libero e con un vestito pulito. Il sogno finì presto e l’anima abbandonò quel corpo inutile di sventurato, mentre Emilio, ritornato alla dignità di uomo correva sorridente, incontro al sole.
 

Inizio

5-4.jpg (4351 byte)
 
 
 
 
 
 
 

QUEL GIORNO, SUL PONTE

L’acqua del fiume scorreva rapida e limacciosa, il livello era salito di molto, dopo i recenti temporali. Sergio la guardava, dal ponte, seguendone i mulinelli che formava numerosi. L’aria fredda gli sfiorava le guance e gli cingeva la fronte, costringendolo a rabbrividire. Stringeva al petto un fagottino bianco in cui un piccolo essere dormiva sereno.

Aveva riflettuto a lungo, Sergio, prima di avventurarsi su quel ponte ed ora era là e non se ne poteva dare una cagione. Il freddo si faceva più intenso, non passava nessuno, dal ponte. Gli alberi spogli formavano un mesto corteo, lungo il viale che costeggiava il fiume e con i loro rami protesi verso il cielo grigio sembravano raccontare una secolare disperazione.

L’anima di Sergio era diventata fredda, come il suo corpo ,come l’aria d’inverno, desolata come quegli alberi in attesa di una primavera troppo lontana.

Era in una giornata come questa, due anni prima, che il giovane si era sposato. Ma ,quella mattina, mentre usciva dalla chiesa con la sposa che si teneva dal suo braccio, non si ricordava più che era inverno e non s’avvedeva nemmeno che gli alberi erano privi di foglie.

Ora li guardava, quegli alberi , li odiava, per la loro sofferenza.

E si chiedeva perché. Perché la sofferenza di quei rami nudi, di quelle strade abbandonate, di quel cane randagio che frugava tra i rifiuti, di quell’acqua sporcata dal fango, di quell’esserino che dormiva nella copertina bianca. Era il suo primogenito. L’avevano atteso con impazienza e adesso era lì, tra le sue braccia e lui, lui aveva deciso di…

Avrebbe gridato, se non avesse avuto paura di svegliarlo.

L’urlo represso gli straziava l’anima, gliela faceva in brandelli, gli faceva sentire la sua estrema impotenza..Guardò il piccolo e gli sussurrò piano, per non interromperne il sonno."Tu non dovrai soffrire,nessuno ti farà soffrire. Mi perdonerai? Sì, mi perdonerai, ne sono certo".

.

"Focomelico" gli tornò in mente la parola che definiva così, brutalmente, la condizione del suo piccolo."Focomelico" ‘ e la sua anima si ribellava, "focomelico"e il suo cuore si spezzava. Era questa la sventura riservata al bimbo che aveva aspettato per due anni, con ansia, con gioia.

E dormiva, nel caldo della bianca copertina e non sapeva ancora di essere diverso dagli altri. Lo sapeva Sergio e non voleva, non poteva permettere che suo figlio fosse diverso, che soffrisse.

Già se lo immaginava, più grande, guardato con disprezzo dalla gente, dai bambini della sua età che erano normali e potevano correre, giocare, divertirsi con la spensieratezza infantile. Mentre lui, il suo povero piccolo, non avrebbe mai potuto correre, non avrebbe mai giocato con gli altri, sarebbe stato deriso, oltraggiato, offeso. «No, no» gridava Sergio dentro di sé"mio figlio no, non sarà la vittima del mondo, nessuno gli farà del male" ».

Le gioie della vita sarebbero state negate per sempre a quello sfortunato bimbo che la natura aveva trattato così male. Non avrebbe conosciuto che umiliazioni e sofferenze. Forse qualcuno avrebbe provato pietà per lui, ma la pietà degli altri non può essere un bell’avvenire per chi si affaccia alla vita. Un padre avrebbe potuto sopportare questo? Sergio non lo sopportava, era un dolore troppo grande, perciò aveva deciso di… ucciderlo.
 
 

Era stato lui a dargli la vita e gli avrebbe dato la morte perché ... perché gli voleva bene. L’avrebbe sottratto alla sua infelicità. Ecco, adesso l’avrebbe preso, dolcemente, per non svegliarlo, l’avrebbe buttato in acqua, in quell’acqua sporca e tutto sarebbe finito.
 
 

Ma, l’avrebbe lasciato morire solo? Come poteva lasciarlo solo? Si sarebbero gettati insieme nel fiume, l’avrebbe tenuto stretto a sé, l’acqua avrebbe fatto il resto. Con il bimbo tra le braccia si sporse un po’ di più e guardò in basso. Pensò alla moglie che non sapeva niente, che lo aspettava a casa. Che cosa avrebbe detto quando l’avrebbe saputo? Avrebbe capito? Sì, non poteva non capire. Non c’era altro da fare. Essere testimone dell’infelicità del proprio figlio? No, meglio la morte. A che serve una vita votata al dolore, a chi serve? Perché continuare a vivere con la certezza di essere infelici? « Il mondo ha tante vittime da far soffrire, perché anche mio figlio deve essere tra queste? Non lo avranno, no ». Sergio si sentiva forte, l’unica cosa che lo spingeva a compiere quella azione era l’amore e non poteva sbagliare. Si aggrappò alla ringhiera con un braccio, mentre con l’altro teneva il piccolo infelice.

Stava per compiere l’ultimo sforzo, l’ultima lotta con la propria coscienza, l’acqua era giù che aspettava, la sua mente ripeteva quelle parole:"Diverso dagli altri, diverso dagli altri", gli alberi morti imploravano lungo il viale,

una voce lo esortava: « Ora, ora, fallo, fallo> quando…il bimbo aprì gli occhi e lo guardò. Il suo sguardo era bello troppo bello. Sergio si fermò. Sul viso del piccolo nacque un sorriso. Un dolore acuto pervase il corpo, l’anima del giovane: il rimorso. Lo sventurato, il deforme, il « diverso » sorrideva come se chiedesse il suo diritto alla vita. « Sarai infelice » gli disse Sergio. Lo sguardo del bimbo pareva rassicurarlo: « Non importa ».

E a Sergio venne meno il coraggio di dargli la morte ma ne trovò un altro, forse più grande, quello di vederlo soffrire.L’avrebbe visto piangere mentre gli altri gli avrebbero fatto notare la sua condizione, tenendolo lontano. Gli sarebbe stato accanto e l’avrebbe visto morire,lentamente, giorno per giorno, mentre gli altri avrebbero vissuto. Avrebbe pagato il suo tributo alla vita, il suo diritto di vivere, quel piccolo essere ancora ignaro di ciò che l’aspettava. Sergio gli accomodò meglio la copertina bianca, il freddo dell’inverno avrebbe potuto fargli male.

Lasciò quel ponte mentre gli alberi restavano immobili nella loro sofferenza e il fiume borbottava, scorrendo veloce.

Tornò a casa e alla moglie che lo guardava esterefatta intuendo quello che non era accaduto, disse, mostrandole il piccolo: "Soffriremo tutti e tre , insieme".
 
 

Inizio

ANNA MARIA SGRO’

 
 
 
 

5-4.jpg (4351 byte)

IL RISVEGLIO








Che cos’è quel muro bianco e quella porta chiusa, questa mano che penzola su di me, quel corpo disteso sul fianco .... ricordo, ora ricordo dove sono. Riconosco il muro e la porta che non si aprirà per farmi uscire quando ne ho voglia, la mano, il corpo di altri due come me che dividono queste ore inumane:sono nella cella. La stessa cella di ieri, di sempre, dove mi hanno rinchiuso in un tempo lontano da perdersene la memoria o forse soltanto ieri, non lo saprei dire perchè non so più che cosa sia il tempo, da quando sono qua dentro ... E’ questo il mio risveglio di tutte le mattine! Togli quella mano, non ricordarmi la tua presenza nella branda di sopra, voglio dimenticare te, quell’altro, la cella e questa lampada accesa che non dà luce alla mia vita. Ho sbagliato, ma ho sbagliato di più quando sono caduto in trappola e mi sono fatto prendere. E togli quella mano che penzola o te la mordo. Sei un miserabile come me, tu che dormi e stai sognando di essere libero, insieme a qualcuno. Te ne accorgerai dopo, di che cosa è fatta la tua libertà, è illusione, pura illusione perchè anche tu dovrai svegliarti e sai che cosa sia il risveglio, qua dentro, quando apri gli occhi interrompendo il tuo sonno e ti ritrovi prigioniero come me, come quell’altro che russa. E’ colpa mia se sono qua dentro, perchè non ho mai capito che cosa si dovesse fare nella vita per riuscire ad ottenere qualcosa che appartenga solo a te, che non sia dovuto ad altri, qualcosa che ti fa dire: « Tutto questo l’ho costruito io, è mio, è per questo che ho lottato, è per questo che vivo ». Ho preso la strada sbagliata, ho gettato la mia vita alle ortiche! Sono colpevole, ma solo per non aver compreso che bastava poco per non cadere nei tranelli di lusinghe che la vita ci offre. Ho voluto tutto, ora non ho niente, ho perso quel poco che avevo e non posso tornare indietro. Quando uscirò di qui, ... no, quando uscirò di qui sarò ancora più disperato, un fallito al quale nessuno dà retta. Quando uscirò di qui? Tra un anno, due o ... che importa quando, ho tutto il tempo per rendermi conto della mia disperazione. Sono un buono a niente, capace solo di perdere la propria libertà. E quella porta è sempre chiusa, la spezzerei con le mie urla. E questi due continuano a dormire, non capiscono che ogni attimo che passa è la nostra vita che se ne va, sprecata così, tra queste mura e non tornerà per noi che abbiamo perduto la partita.
Ammazzatemi, almeno non ci saranno altri risvegli a tormentarmi! Che ora sarà? Fuori deve essere ancora buio, l’alba è lontana, forse non è neanche passato molto tempo da quando mi sono addormentato. Non credevo che non avrei saputo più distinguere il giorno dalla notte, l’inverno dalla primavera! Quando ho sonno per me è notte, se mi sveglio è giorno, se ho freddo è inverno altrimenti è primavera, conto così il tempo che passa. Che siano i primi segni della follia? Se fossi pazzo non mi porrei tanti perchè. Fuori gli altri vivono, camminano, a me è stato tolto tutto questo, sono caduto in una lunghissima, interminabile notte. Non so quanto tempo sia trascorso dal mio risveglio, mi sembra di essere qui a guardare quella parete da un secolo, ci devo essere sempre stato qui! Mi sto girando nel letto per sfuggire a questi pensieri, ma non posso evitarmi di esistere.

Sono io questo ammasso di carne che si tormenta. Ho dei brividi, sarà il freddo o la febbre o la sofferenza inutile di essere qui a chiedermi perchè non si apre quella porta per farmi andare via per sempre. Non mi accetto io, come potrebbero accettarmi gli altri, il relitto di me stesso sono diventato! E mi odio perchè, nonostante tutto, io vivo! Anche questa mano che pende, è viva, con la sua sporcizia, con il luridume di questa cella, con la vergogna della mia anima. Se penso alla mia vita di prima!

Mi sembra tutto bello, ora, anche quando non avevo niente e mi credevo un disperato. Ma dove sta scritto che un uomo debba soffrire così? Mi acceca quel bianco del muro, lo vedo anche se chiudo gli occhi, è dentro di me, non me ne posso liberare. Fossi lontano da qui! Che sia la mia immaginazione? Sarà così, certo, io non sono qui dove credo di essere, è il mio pensiero che mi inganna, sono a casa mia, nella mia vera casa di quando ero bambino e avevo qualcuno che si curava di me. Ma sono proprio io quest’uomo disteso nella branda di una cella? Ed è veramente questa, una cella? Di chi sono questi pensieri, questo cuore che batte da sprofondare il petto, questo corpo trasfigurato dal rancore, quest’uomo, chi è quest’uomo? Non ti conosco, miserabile rifiuto, scheletro nascosto sotto un lenzuolo, avanzo di uomoin rovina, carne decomposta, macerata dallo sforzo di sopravvivere. Alzati, urla, fallo sapere a tutti che sei qui e vuoi uscire, apri quella porta. Ma ... che sta succedendo, la mano si muove, no ... non togliere quella mano di là, amico, non te ne andare anche tu, lasciami il segno di un’altra presenza. Non c’è più la mano a penzolare su di me, a ricordarmi che io sono vivo e posso maledirla. Maledico me stesso, la mia debolezza, l’incapacità di essere un altro, diverso dal fallito che sono. Avete fatto bene a rinchiudermi, meritavo tale condizione, torturatemi, toglietemi la libertà, anche la vita se volete, è giusto farmi del male. Resterò prigioniero, che se la godano gli altri la libertà! Vivete, vivete, non pensate a me che mi strazio in pochi metri quadrati, sono uno sbaglio dell’esistenza. La mia vita è nata per caso, io sono niente, valgo meno di un soffio d’aria, di un granello di polvere, dell’angoscia di un attimo.
Non sono mancato a nessuno quando sono stato sottratto ai giorni di sempre, non ci si è accorti della mia presenza nella vita come di un cane randagio che vaga per le strade annusando per terra e quando me ne sono andato, non l’ha capito nessuno, come se non fossi mai stato tra loro, le persone che respirano, parlano, vivono in un mondo normale. Se piango, urlo, mi dibatto, è lo stesso, un destino non si cambia con le lacrime, potrei contorcermi all’infinito in questo letto, gridare la mia angoscia con la forza del condannato, battere la testa contro il muro, ma la porta resterebbe sempre chiusa, ho perduto la mia libertà, la dignità di essere uomo, l’anima, sono come il bianco di quella parete, uniforme, uguale, faccio parte io stesso di questa cella, io sono la mia prigione e non c’è differenza tra me, quello che dorme di fianco, la mano di sopra che sì è ritirata, la porta chiusa, è tutto un unico incommensurabile dolore in cui le cose si confondono e perdono i loro contorni. Dormirò, sento che il sonno ritorna, dormirò e sarò libero, non soffrirò, si apriranno tutte le barriere fino a quando non ci sarà un altro terribile risveglio.
 IL RISVEGLIO
 

Che cos’è quel muro bianco e quella porta chiusa, questa mano che penzola su di me, quel corpo disteso sul fianco .... ricordo, ora ricordo dove sono. Riconosco il muro e la porta che non si aprirà per farmi uscire quando ne ho voglia, la mano, il corpo di altri due come me che dividono queste ore inumane:sono nella cella. La stessa cella di ieri, di sempre, dove mi hanno rinchiuso in un tempo lontano da perdersene la memoria o forse soltanto ieri, non lo saprei dire perchè non so più che cosa sia il tempo, da quando sono qua dentro ... E’ questo il mio risveglio di tutte le mattine! Togli quella mano, non ricordarmi la tua presenza nella branda di sopra, voglio dimenticare te, quell’altro, la cella e questa lampada accesa che non dà luce alla mia vita. Ho sbagliato, ma ho sbagliato di più quando sono caduto in trappola e mi sono fatto prendere. E togli quella mano che penzola o te la mordo. Sei un miserabile come me, tu che dormi e stai sognando di essere libero, insieme a qualcuno. Te ne accorgerai dopo, di che cosa è fatta la tua libertà, è illusione, pura illusione perchè anche tu dovrai svegliarti e sai che cosa sia il risveglio, qua dentro, quando apri gli occhi interrompendo il tuo sonno e ti ritrovi prigioniero come me, come quell’altro che russa. E’ colpa mia se sono qua dentro, perchè non ho mai capito che cosa si dovesse fare nella vita per riuscire ad ottenere qualcosa che appartenga solo a te, che non sia dovuto ad altri, qualcosa che ti fa dire: « Tutto questo l’ho costruito io, è mio, è per questo che ho lottato, è per questo che vivo ». Ho preso la strada sbagliata, ho gettato la mia vita alle ortiche! Sono colpevole, ma solo per non aver compreso che bastava poco per non cadere nei tranelli di lusinghe che la vita ci offre. Ho voluto tutto, ora non ho niente, ho perso quel poco che avevo e non posso tornare indietro. Quando uscirò di qui, ... no, quando uscirò di qui sarò ancora più disperato, un fallito al quale nessuno dà retta. Quando uscirò di qui? Tra un anno, due o ... che importa quando, ho tutto il tempo per rendermi conto della mia disperazione. Sono un buono a niente, capace solo di perdere la propria libertà. E quella porta è sempre chiusa, la spezzerei con le mie urla. E questi due continuano a dormire, non capiscono che ogni attimo che passa è la nostra vita che se ne va, sprecata così, tra queste mura e non tornerà per noi che abbiamo perduto la partita.
Ammazzatemi, almeno non ci saranno altri risvegli a tormentarmi! Che ora sarà? Fuori deve essere ancora buio, l’alba è lontana, forse non è neanche passato molto tempo da quando mi sono addormentato. Non credevo che non avrei saputo più distinguere il giorno dalla notte, l’inverno dalla primavera! Quando ho sonno per me è notte, se mi sveglio è giorno, se ho freddo è inverno altrimenti è primavera, conto così il tempo che passa. Che siano i primi segni della follia? Se fossi pazzo non mi porrei tanti perchè. Fuori gli altri vivono, camminano, a me è stato tolto tutto questo, sono caduto in una lunghissima, interminabile notte. Non so quanto tempo sia trascorso dal mio risveglio, mi sembra di essere qui a guardare quella parete da un secolo, ci devo essere sempre stato qui! Mi sto girando nel letto per sfuggire a questi pensieri, ma non posso evitarmi di esistere.

Sono io questo ammasso di carne che si tormenta. Ho dei brividi, sarà il freddo o la febbre o la sofferenza inutile di essere qui a chiedermi perchè non si apre quella porta per farmi andare via per sempre. Non mi accetto io, come potrebbero accettarmi gli altri, il relitto di me stesso sono diventato! E mi odio perchè, nonostante tutto, io vivo! Anche questa mano che pende, è viva, con la sua sporcizia, con il luridume di questa cella, con la vergogna della mia anima. Se penso alla mia vita di prima!

Mi sembra tutto bello, ora, anche quando non avevo niente e mi credevo un disperato. Ma dove sta scritto che un uomo debba soffrire così? Mi acceca quel bianco del muro, lo vedo anche se chiudo gli occhi, è dentro di me, non me ne posso liberare. Fossi lontano da qui! Che sia la mia immaginazione? Sarà così, certo, io non sono qui dove credo di essere, è il mio pensiero che mi inganna, sono a casa mia, nella mia vera casa di quando ero bambino e avevo qualcuno che si curava di me. Ma sono proprio io quest’uomo disteso nella branda di una cella? Ed è veramente questa, una cella? Di chi sono questi pensieri, questo cuore che batte da sprofondare il petto, questo corpo trasfigurato dal rancore, quest’uomo, chi è quest’uomo? Non ti conosco, miserabile rifiuto, scheletro nascosto sotto un lenzuolo, avanzo di uomoin rovina, carne decomposta, macerata dallo sforzo di sopravvivere. Alzati, urla, fallo sapere a tutti che sei qui e vuoi uscire, apri quella porta. Ma ... che sta succedendo, la mano si muove, no ... non togliere quella mano di là, amico, non te ne andare anche tu, lasciami il segno di un’altra presenza. Non c’è più la mano a penzolare su di me, a ricordarmi che io sono vivo e posso maledirla. Maledico me stesso, la mia debolezza, l’incapacità di essere un altro, diverso dal fallito che sono. Avete fatto bene a rinchiudermi, meritavo tale condizione, torturatemi, toglietemi la libertà, anche la vita se volete, è giusto farmi del male. Resterò prigioniero, che se la godano gli altri la libertà! Vivete, vivete, non pensate a me che mi strazio in pochi metri quadrati, sono uno sbaglio dell’esistenza. La mia vita è nata per caso, io sono niente, valgo meno di un soffio d’aria, di un granello di polvere, dell’angoscia di un attimo.
Non sono mancato a nessuno quando sono stato sottratto ai giorni di sempre, non ci si è accorti della mia presenza nella vita come di un cane randagio che vaga per le strade annusando per terra e quando me ne sono andato, non l’ha capito nessuno, come se non fossi mai stato tra loro, le persone che respirano, parlano, vivono in un mondo normale. Se piango, urlo, mi dibatto, è lo stesso, un destino non si cambia con le lacrime, potrei contorcermi all’infinito in questo letto, gridare la mia angoscia con la forza del condannato, battere la testa contro il muro, ma la porta resterebbe sempre chiusa, ho perduto la mia libertà, la dignità di essere uomo, l’anima, sono come il bianco di quella parete, uniforme, uguale, faccio parte io stesso di questa cella, io sono la mia prigione e non c’è differenza tra me, quello che dorme di fianco, la mano di sopra che sì è ritirata, la porta chiusa, è tutto un unico incommensurabile dolore in cui le cose si confondono e perdono i loro contorni. Dormirò, sento che il sonno ritorna, dormirò e sarò libero, non soffrirò, si apriranno tutte le barriere fino a quando non ci sarà un altro terribile risveglio.

Inizio


 
 

LAMPARE






Quando la vide per la prima volta, Giulio la credette una visione, era bionda, aveva dei capelli lunghissimi, gli occhi azzurri: pensò di avere incontrato una dea.
Lei lo guardò e sorrise, chinando leggermente la testa verso il lato sini-stro, con un movimento pieno di grazia e rimase così, per un po’, ad osser-varlo appoggiandosi alla ringhiera del meraviglioso lungomare. Anche Giulio si fermò e sorrise. Si guardarono, fermi, l’uno di fronte all’altra, mentre un leggero vento malizioso andava a frugare fra i suoi capelli e sollevava, a tratti, la lunga gonna di lei. Dopo un po’ Giulio le si avvicinò, la guardò ancora, at-tentamente. E’ una straniera, senza dubbio  pensò.
“Are you english” le chiese.
Sapeva un po’ d’inglese, l’aveva studiato a scuola. Con sua grande sorpresa lei gli rispose in italiano: “ Oh, sì, sono inglese”
Si misero a ridere, tutti e due, fissandosi negli occhi. Era così che si erano conosciuti, Giulio e Jane.
Si chiamava Jane e aveva vent’anni. Parlava bene l’italiano perché veniva spesso in Italia, aveva degli amici che l’ospitavano ogni estate. Amava l’Italia, “wonderful” diceva ogni volta che ne parlava. Per Giulio era una meteora che aveva investito la sua vita travolgendola, trasformandola in sogno.
“Mia splendida dea” la chiamava e le accarezzava i capelli, le stringeva le mani. Si vedevano sempre, ogni giorno, facevano lunghe passeggiate sul lungomare, andavano sulla spiaggia, finché il sole non tramontava. Solo quando il cielo si oscurava e il mare assumeva un aspetto misterioso, quasi minaccioso, andavano via: lei aveva paura del mare di notte e non sapeva dirne il perché. Parlavano a lungo, in italiano, di tanto in tanto lei gli insegnava delle parole in inglese. Una volta, mentre passeggiavano e il sole incominciava a scompa-rire dietro i monti, oltre il mare, nello Stretto, lei gli disse: “The sun sets” e aggiunse sorridendo“ The sun rises, the sun sets”.
“ Il sole sorge, il sole tramonta”  ripeté lui stringendola forte. “The sun rises, the sun sets”  ripeté la sua anima.
Quelle parole gli risuonavano nella mente, senza abbandonarlo, assumevano quasi un significato magico. Parole semplici ma che suscitarono in Giulio una sensazione strana, indicibile. E le ripeteva, sussurrando, all’orecchio di Jane:
“The sun rises, the sun sets” e la vita gli appariva bella, ma tanto lontana. Sorgeva in lui un desiderio folle di felicità che gli sembrava vicina ma al tem-po stesso irraggiungibile e gli veniva voglia di ridere, di piangere, di gridare. Provava un’ebbrezza terribile, stringeva Jane come avesse paura di perderla, in-sieme alla giovinezza. Aveva ventidue anni ma si sentiva ora un vecchio, ora un bambino.
“ The sun rises, the sun sets” diceva Jane sorridendo mentre lui moriva provando un’indefinibile gioia. E scompariva il mare, scomparivano le strade, gli alberi, i passanti, davanti agli occhi di Giulio c’erano solo dei capelli biondi che avvicinava alla sua bocca e delle parole che aleggiavano nell’aria, entravano nella sua anima, s’impadronivano di lui.
Voleva sentire Jane parlare di se stessa, delle sue giornate in Inghilterra e, se era lei a chiedergli di parlarle della sua vita, diceva di no.
“ Parlami di te”  le chiedeva “ Parlami di te”.
Non v’era niente di cui Giulio dovesse vergognarsi, niente da nascondere. La sua vita era come quella di tanti altri ragazzi della sua età. Frequentava l’Università, la sua famiglia non era agiata e il padre, che lavorava in una piccola industria di bevande gassate, faceva dei sacrifici per mantenerlo agli studi. Aveva una sorella della stessa età di Jane, vent’anni.
Che cosa poteva dire della sua vita alla bella straniera? Era una vita sem-plice, troppo semplice, di gente modesta di una piccola città, tanto lontana dalla vita movimentata e piena d’avventure della cara Jane. Che cosa le doveva raccontare?
Un giorno Giulio rincasò alla solita ora, per il pranzo, ma non trovò la tavola apparecchiata, come di consueto. La sorella era seduta davanti al tavolo con la testa tra le mani.
“ Che cosa c’è?” le chiese.
«Siamo poveri. » gli rispose.
“Non siamo mai stati ricchi”.
“ Si, ma almeno papà lavorava”.
“Vuoi dire che ...”
“ Si, è stato licenziato.”
Giulio sentiva la testa scoppiargli, un ronzio acuto, continuo lo tormentava. Si sedette di fronte alla sorella, senza parlare. Entrò la madre, lo abbracciò e tra i singhiozzi gli raccontò tutto. C’era stato un furto, nella fabbrica, ne era stato incolpato il padre di Giulio. Il padrone stesso lo aveva accusato e de-nunciato ai carabinieri, licenziandolo senza risparmiargli parole offensive e dure. Così il poveretto si era venuto a trovare senza lavoro, con il marchio di ladro. Era innocente, ma come provarlo? Chi gli avrebbe creduto, senza prove? E dove avrebbe trovato lavoro dal momento che la notizia si sarebbe sparsa inevitabilmente per la piccola città? Nessuno avrebbe assunto un uomo su cui gravava il sospetto del furto.
Giulio non vide il padre per quel giorno perché questi si era chiuso in ca-mera e non voleva parlare con nessuno.
La sera vide Jane, non le disse niente, le sorrise ,come sempre. Jane si mise a raccontare la sua giornata, di tanto in tanto inseriva nel discorso qual-che parola in inglese, Giulio l’ascoltava, sorrideva e pensava “ Vorrei morire, Jane, Jane.” La chiamava col suo pensiero, voleva raccontarle della miseria in cui era caduto, ma non osava. Era vicina a lui ma la sentiva lontana, troppo lontana, la toccava, ma non avvertiva i fremiti della sua pelle mentre la sfio-rava con la mano. L’ascoltava senza capire le sue parole. “ Jane, jane”  la chia-mava con tutta la forza della sua anima, “Jane,Jane” e sorrideva, sorrideva mentre si sentiva infelice. A un tratto la ragazza lo scosse e gli indicò qualco-sa nel mare.
“Che cosa sono?” chiese.
Giulio si voltò nella direzione indicata e vide tante luci sospese nell’acqua. “Lampare, sono lampare”  rispose.
La strinse a sé e guardarono insieme le numerose lampare che all’improv-viso avevano popolato con la loro misteriosa luce il mare.
“E’ bello, sono felice”  disse Jane.
Non distaccarono più gli occhi da quelle luci che li attiravano irresistibil-mente, le seguivano inebriandosi a quel mistero.
«Lam-pa-re, lampare ripeteva Jane ed anche Giulio si sentì veramente felice. Dimenticò tatto, la realtà, il padre senza lavoro, la famiglia caduta nella miseria, i singhiozzi della madre, le parole della sorella, tutto. Vi era un se-greto nella luce delle lampare e Giulio se ne era impadronito, era diventato suo ed era felice.
Jane,Jane e stavolta la chiamava realmente, sussurrando e la ragazza gli si stringeva sempre di più.
“Vorrei morire, ma di gioia, qui, con te” le disse “morire, morire.” Jane non capì ma continuò a sorridere.
Passarono due giorni, il padre sempre chiuso in camera, la madre senza sapersi rassegnare. Giulio doveva interrompere gli studi, almeno per il momento e trovare un lavoro. Anche la sorella voleva aiutare la famiglia ma non sapeva a chi rivolgersi per un impiego. Non aveva mai lavorato fuori, era sempre stata in casa. I primi tentativi andarono male, tutte le porte sembra-vano chiuse per loro due, i figli di un ladro.
Mentre ritornava dalla casa di un amico al quale si era rivolto per chiedere aiuto, Giulio notò, all’angolo di una strada, vicino alla fabbrica in cui lavorava prima il padre, un gruppetto di persone. Si avvicinò.
“ Poveretta!” sentì dire ad un vecchio.
Sbigottito vide al centro del “gruppo sua madre. Aveva il volto rosso, gli occhi gonfi di pianto e singhiozzava.
“ Trattarla così”  disse un signore “Una donna”
“ Mamma”  gridò Giulio, “ Mamma” e si slanciò verso di lei.
La madre pianse piò forte, quando se ne accorse.
“ Mamma, che cosa ti hanno fatto?” chiese Giulio.
La madre non volle dirgli niente.
“ Andiamo a casa, andiamo a casa”ripeteva.
Lo seppe dagli altri, quello che era accaduto.
La madre aveva atteso il padrone della fabbrica e lo aveva supplicato di ritirare la denuncia. L’uomo le aveva risposto bruscamente, duramente, mi-nacciandola, offendendola, nella strada, davanti alla gente che, incuriosita, si era avvicinata. La povera donna non resse alla vergogna e si sentì male. Cad-de per terra, l’uomo bestemmiò, sputò e andò via non senza avere infierito contro la poveretta con insulti orribili. Qualcuno, pietosamente, aiutò la donna ad alzarsi, si formò un gruppo sempre più folto e fu allora che passò Giulio, di lì.
Non pensava che a vendicarsi, il ragazzo, ora. Quell’uomo aveva accusato ingiustamente il padre, gli aveva tolto il lavoro e la possibilità di trovarne un altro, aveva insultato gravemente la madre, aveva rovinato la sua famiglia. Lo odiava come si può odiare il peggiore nemico. Decise di andare a trovarlo a casa, per dirgli tutto quello che pensava di lui, per costringerlo a chiedere scusa, almeno per la madre. Non sapeva nemmeno lui che cosa voleva da uomo voleva vederlo e dirgli che era un miserabile.
Lo incontrò per la strada, mentre era appena uscito di casa, con l’aria sicura di chi sa di essere ricco e potente.
“Eccolo qua”  pensò Giulio “ lui se ne sta tranquillo mentre mio padre è chiuso in una stanza e mia madre piange. Come lo odio!”
Lo fermò. L’uomo non lo conosceva e fece per allontanarsi ma Giulio lo trattenne per un braccio. Gli disse di chi era figlio.
“ Di quel ladro!” esclamò l’altro.
“Mio padre non ha rubato, è stato accusato ingiustamente. Ora è sul lastrico ,siamo rovinali. Ma a lei non importa niente di noi, vero? A lei im-porta solo avere il portafogli pieno e che gli altri si arrangino come possono. Miserabile!”
L’uomo non era vecchio ed era piuttosto forte, non si tenne gli insulti ma reagì, dando un pugno ragazzo e mandandolo per terra. Giulio, disteso sul marciapiedi, rimase qualche attimo a guardare il suo nemico. Quella figura imponente sembrava sovrastarlo, ma era lui il più forte. Si rialzò come una belva, gli saltò addosso e incominciò a picchiare, a stringergli il collo. La di-sperazione accrebbe la sua forza fisica. Stringeva quel collo, stringeva senza pietà, anche quando l’uomo cadde non lasciò la presa, cadde con lui, con rab-bia. Quei due corpi avvinghiati facevano paura, i gemiti dell’uomo che moriva, contorcendosi, facevano orrore. Una donna assistette alla scena e si mise ad urlare. Giulio sentì che l’uomo non si muoveva più: era morto. Allontanò le mani da quel collo che aveva stretto con tutto il suo odio e capì di essere diventato un assassino. Il furore aveva preso il sopravvento e aveva fatto di lui un criminale. Gridò anche lui, si staccò dal corpo ormai inerte e fuggì stravolto. La gente incominciava ad accorrere. Nessuno inseguì il ragazzo, tutti si davano da fare attorno al cadavere.
Era sera, mentre Giulio fuggiva il sole era appena tramontato. Si ritrovò sulla spiaggia, vicino alla scogliera, nel posto in cui era solito aspettare Jane.Ed era anche l’ora dell’appuntamento. Infatti la ragazza arrivò, ignara del dramma avvenuto pochi minuti prima. Non si accorse dello sguardo atterrito di Giulio e gli parlò sorridendo, come ogni volta.
“Domani parto”  gli disse “ma tornerò, non so quando, ma tornerò”
“Forse fra qualche giorno” aggiunse “Aspettami”
Giulio non le chiese dove sarebbe andata, se nella città vicina, dalla sua amica o addirittura in Inghilterra. Capiva solo che Jane andava via e lo abbandonava proprio quando aveva bisogno di qualcuno che gli stesse accanto.Lei non disse altro sulla sua partenza, lo accarezzò, passandogli la mano sui capelli, sulla fronte, sulle ciglia. Quella mano che passava sul suo volto dolcemente, come un soffio leggero era per Giulio l’addio della vita. La vita felice che aveva tanto sognato lo lasciava insieme alla bionda ragazza che gli mormorava, come in un rito, quelle magiche parole: “The sun rises, the son sets.” Jane lo lasciava senza sospettare nulla del suo dolore, senza sapere nulla della sua vita. “Sono un assassino”  egli ripeteva nella mente.  Non sono più degno di te, della vita. Ho ucciso.” Jane lo baciò e gli disse: “Devo andare, ritornerò.”
Si allontanò, dopo pochi passi si giro e gridò: “Aspettami. Remember Giulio, remember.”
Se ne andò così, voltandosi di tanto in tanto per gridare: “Remember, remember.”
“Non mi troverai più”  disse Giulio ad alta voce, quando rimase solo.
“Mi staranno già cercando, mi prenderanno, appena sarò tornato a casa.”
“Jane, non mi lasciare”  supplicò guardando nel buio dove era scomparsa la ragazza “Jane, Jane” gridò, correndo verso la scogliera. Jane, non mi  lasciare!”
Jane non poteva più ascoltarlo, era già andata via da un pezzo e Giulio sembrava se ne fosse accorto solo ora.  “Remember” , credeva di sentire, “Remember”.Ma era il rumore delle onde che si infrangevano sugli scogli.
Giulio era solo con l’illusione di una voce che non poteva sentire. Era  un assassino che lottava con l’odio ed il rimorso. Una lacrima incominciò a scendere  per il suo volto, altre la seguirono ma egli non le asciugò, restando fermo  sullo scoglio, con la mano stretta in un pugno, guardava il mare e si accorse che già si erano accese le lampare. Lo invitavano con il mistero delle loro luci a seguirlo, ad unirsi ai riflessi che lasciavano nelle acque profonde. Giulio stava per slanciarsi giù  dallo scoglio ma si trattenne, voltò le spalle al mare e si avviò verso casa, mentre dietro di lui continuavano a brillare le lampare.

.
 

Inizio
 
 
 


 
 

LINKS

LOGIC PUZZLE  free download di giochi logici e matematici


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

<
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Il mio indirizzo: AMsgro@yahoo.it
 
 
 
 

webmaster: Ezio Sgrò
Esgroii@yahoo.com