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LA NEVE

È arrivato l'inverno
all'improvviso e ce ne siamo accorti stanotte perché le due coperte,
che abbiamo in dotazione, non sono bastate a scaldarci sotto la tenda.
È uno dei primi giorni
di novembre.
Nel bosco, al mattino, ci saluta
in ovattato silenzio la prima neve.
Durante la giornata fervono,
così, i lavori per attivare i ricoveri che sono già pronti:
ognuno vi porta il suo zainetto e le sue cose ma prima dobbiamo far sloggiare,
con delle grosse fumate di paglia, i topi che vi si sono intanati. E sono
tanti. Anche il freddo è arrivato: di notte la temperatura scende
a 15 gradi sotto zero e di giorno non sale che raramente sopra lo zero.
Il Don in pochi giorni è gelato. La neve avvolge ormai tutti in
un grande silenzio bianco e per noi cominciano i guai.
Le pattuglie russe si fanno
sempre più aggressive, attraversano il fiume con grande sicumera,
scorrazzano da padroni nella "terra di nessuno" sorprendendo
e catturando diverse nostre pattuglie. Il servizio di conseguenza viene
rinforzato, di vedetta sul Don si deve andare ogni 4 notti e i turni, a
causa del freddo, sono ridotti a 15 minuti: dobbiamo guardarci anche alle
spalle perché siamo troppo visibili nella neve senza tute mimetiche.
Dall'altra parte del fiume,
il bosco oltre Gorokovka sembra ribollire: di giorno e di notte il rumore
che sale fino a noi diventa sempre più forte e più cupo.
Pare che tutto l'esercito sovietico abbia deciso di venir a svernare da
queste parti. Guardiamo la larga striscia bianca e piatta che e diventato
il Don: prima lo scorrere lento delle sue acque ci dava una sicurezza,
anche se fragile, perché era sempre un qualcosa che ci separava
dal nemico. Ora invece sentiamo che il fiume è loro alleato e nemmeno
l'alta e scoscesa riva, dal cui costone siamo in osservazione, ci rassicura.
Di giorno la vita è nei
"bunker", al lume di candela, con troppo rumore e poco spazio,
con i topi che te li trovi nelle tasche del cappotto, dove cercano briciole
di pane, e con i pidocchi che al caldo iniziano le loro sarabande.
Perché il problema al
quale nessuno ha pensato è quello della pulizia personale. Non c'è
un locale riscaldato dove ci si possa lavare con un po' di comodità:
fuori, ormai, non è più possibile. La promiscuità,
la mancanza di spazio, il fatto che si dorme su un unico pancone, uno vicino
all'altro, ci rende tutti, in poco tempo, vittime dei pidocchi. Quando
cambio la biancheria, quella sporca la faccio bollire ogni volta, ma non
basta.
Al di là del Don, di
fronte a un nostro caposaldo, c'è una postazione di mitragliatrice
che ha individuato piuttosto bene le nostre posizioni e le tiene sempre
sotto tiro. È necessario, dicono al comando di battaglione, andare
a distruggerla anche per far capire ai russi che anche noi sappiamo fare
le scorrerie nel territorio del nemico.
Viene formata una pattuglia
di una decina di uomini, tutti volontari, fra i quali c'è anche
Privitera, giovane siciliano della mia squadra, classe 1922. Al nostro
plotone viene affidato il compito di scortarli fino al Don e attenderli
per il ritorno.
Una notte, verso la fine di
novembre, si parte. Sono tutti vestiti con tute mimetiche bianche. Col
tenente dei guastatori che li comanda ci sono due graduati armati di lanciafiamme
e quattro soldati con pistole mitragliatrici; gli altri sono divisi in
due gruppi di fuoco con fucili mitragliatori. Le due squadre del mie plotone
si appostano sul bordo della scarpata ai lati di un canalone. Mentre piazziamo
i nostri mitragliatori, la pattuglia scende sulla sponda del Don.
La postazione nemica sembra
che sia di fronte a noi ma non si vede niente, all'infuori della piatta
superficie innevata del fiume. Gli uomini della pattuglia si allontanano
e ben presto spariscono alla nostra vista, confusi nel grigio della nette.
Passano in silenzio venti o
trenta minuti, poi, lontano, si alza nel cielo un razzo rosso e subito
dalle nostre artiglierie partono numerose salve di sbarramento che scoppiano
ai di là del fiume; nello stesso tempo lunghe lingue di fuoco dei
lanciafiamme spazzano il terreno dove ci deve essere la postazione russa.
Si sente qualche raffica di mitra, ma non si riesce a vedere niente altro.
L'azione è presto conclusa perché, dopo un paio di minuti,
un razzo rosso, seguito da uno verde, fanno cessare il cannoneggiamento
e tutto torna silenzio e buio.
Ora dobbiamo solo aspettare
che torni la pattuglia e vigilare ne non sia inseguita dai russi. Ma passa
un'ora e non c'è alcun segno di vita sulla bianca distesa del fiume:
dovrebbe essere già qui da un pezzo. Il tenente, con un soldato,
si porta indietro fino al caposaldo per sapere qualcosa. Torna dopo un
paio d'ore: nessuna novità, della pattuglia non si sa niente: forse
è stata fatta prigioniera, comunque per noi c'è l'ordine
di rientrare.
Nel "bunker", mentre
ci apprestiamo a dormire, nessuno parla ma tutti pensano a Privitera, esuberante
e simpatico soldato siciliano.
Ma è proprio Privitera
che ci sveglia all'alba. Lo soffochiamo di domande e, ancora tutto eccitato,
ci racconta la storia: tutto è andate bene nella prima parte, lo
sbarramento dell'artiglieria, i lanciafiamme per stanare i russi dalla
postazione, l'irruzione dei nostri, la cattura di tre soldati spaventati
e coi vestiti mezzo bruciacchiati e l'inizio del ritorno. Ma, forse l'eccitazione,
forse il frastuono delle cannonate, forse una eccessiva fretta di allontanarsi
dal luogo dell'azione, fatto sta che il tenente perde l'orientamento e
la pattuglia, dopo di aver camminato a lungo, vede ergersi alta davanti
a sé la chiesa di Gorokovka. Allora torna indietro sempre trascinandosi
i tre prigionieri e riesce dopo un po' a ritrovare il Don.
Però il putiferio, scatenato
soprattutto con le cannonate, ha svegliato i russi i quali, resisi conto
dell'accaduto, hanno sguinzagliato numerose pattuglie che perlustrano in
lungo e in largo il paese, il bosco e soprattutto la sponda del Don. I
nostri devono così aspettare alcune ore, acquattati dentro un fosso
e nascosti da alcuni provvidenziali cespugli, tenendo costantemente puntate
le armi sui prigionieri perché non fiatino. Quando sembra che sia
tornata la calma il tenente decide di attraversare il fiume nel punto dove
si trova; ma, a una cinquantina di metri dalla nostra sponda, sono avvistati
dalle nostre vedette, scambiati per russi e presi a fucilate. Per fortuna
tutto si chiarisce, i nostri tornano senza perdite e Privitera può
raccontarci la sua storia.
Ma gli rimangono gli incubi:
mentre dorme, qualche volta, mormora: "no, i lanciafiamme no...".
Nella postazione c'erano altri due soldati russi, oltre a quelli fatti
prigionieri.
Anche di queste parliamo, nelle
lunghe sere di fine novembre,. nel "bunker". Ci chiediamo se
era proprio necessario scatenare un casino così grande, tale da
svegliare tutto il fronte, specialmente il loro, per andare ad assaltare
una normale postazione di vedette.
Le pattuglie russe arrivano
in silenzio, si portano via le nostre vedette, ritornano dall'altra parte
e non svegliano nessuno. Noi ci accorgiamo di quanto è successo
solo al mattino dopo.
Una mattina, di ritorno da una
notte di vedetta, mi sento addosso la febbre e chiedo di marcare visita.
Devo perciò andare, a piedi, a Orobinski deve c'è l'infermeria:
sono cinque chilometri nella neve, 8 gradi sotto zero e un vento che gela
il cervello. Alle dieci passo la visita e il dottore mi dà un'aspirina
e un giorno di riposo. Ritorno all'accampamento a mezzogiorno, trovo il
rancio tutto freddo, alle tre comincia a far notte e il mio giorno di riposo
è già finito.
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