Vedetta in equipaggiamento invernale: ai piedi,
soprascarpe con suole di legno e gambali di tela con legacci
Ai primi di dicembre dobbiamo
dare il cambio ad altri reparti in linea. La compagnia va a prendere posizione
nei capisaldi verso Nova-Kalitva, A sinistra ci sono gli ultimi avamposti
del nostro reggimento; più oltre inizia, verso Starj-Kalitva, la
linea presidiata dal Corpo d'Armata Alpino.
Il comando di compagnia si installa
in un paio di isbe disabitate a poco più di un chilometro dietro
i capisaldi e il capitano mi tiene con sé come portaordini.
In teoria il compito sembra
facile: tenere i collegamenti con i capisaldi in caso di necessità.
Ma i mortai russi ci tengono sempre sotto tiro e, molto spesso, saltano
le linee telefoniche.
Così il lavoro diventa
pesante: bisogna andare giorno e notte, di giorno seguendo le piste, peraltro
sempre battute da mortai, di notte, se non si conosce la strada, seguendo
le linee telefoniche dove, in certi avvallamenti, si affonda nella neve
fino alla cintola. Di solito, assieme agli ordini, ci fanno portare un
paio di cassette di munizioni che ci trasciniamo dietro come slittini,
legate con i lacci reggi-giberne. E si va soli, mai in coppia.
Quando si può riposare
si dorme in una specie di corridoio, sdraiati sul pavimento, fuori dell'ufficio
del comando di compagnia.
10 dicembre 1942.
Così dice la data sull'ordine
che devo portare al caposaldo "L". E' il caposaldo del mio plotone.
Sono partito che era ancora notte e arrivo con le prime luci dell'alba.
Il ricovero del comando è quasi vuoto. Il tenente è al telefono
e due feriti si lamentano in attesa che la "vasellina" - portantini
della Sanità - vengano a portarli via. Il tenente Canessa riceve
l'ordine e mi dice di aspettare.
Io intanto faccio bere un po'
d'acqua ai due feriti che me la chiedono e cerco di confortarli assicurandoli
che la Sanità non tarderà ad arrivare. "Fino a questa
sera non vengono - mi dice uno di loro - non possono farlo di giorno perché
per un lungo tratto la pista è scoperta e sotto tiro dei mortai
russi".
Il tenente mi chiama e mi dice:
"Ho chiesto al capitano di lasciarti con me perché il sergente
è stato ferito ieri, appena arrivato. Ho bisogno di qualcuno che
stia al telefono e che mi dia una mano per gli altri servizi necessari;
ma dovrai fare anche i turni di guardia in postazione con la tua squadra.
Se sei d'accordo...". Non occorre che me lo chieda: al comando di
compagnia mi sentivo solo, come fuori del guscio: qui invece, con i miei
compagni, sono a casa mia.
Più tardi vado nella
prima postazione. Il camminamento è in parte scoperto e molto pericoloso:
c'è sempre un fucile mitragliatore pronto a spararci. Trovo Brambilla
che ora è anche vicecomandante di plotone. Nella tana scavata per
il riposo alcuni uomini russano a bocca aperta.
Brambilla crede che sia venuto
solo per salutarli, ma quando gli dico che resto al caposaldo, si batte
un dito sulla fronte come per dirmi che sono un po' matto.
Guardo dalla feritoia che si
apre su un declivio che scende verso il Don: per quasi duecento metri davanti
a noi non ci sono ostacoli. In fondo, sul manto di neve, sono sparse alcune
macchie irregolari: non occorre che mi spieghi che si tratta di morti.
"Sono di questa notte" mi dice.
Mentre guardo, lontano, il nero
bosco che si intravede oltre il fiume e questa distesa bianca di neve che
sale verso di me, mi ritorna in mente un altro dicembre di tanti anni fa
a Borgo Piave. Avevo nove o dieci anni e l'inverno, molto freddo, era già
arrivato. Mi ero svegliato presto perché era il giorno in cui S.
Nicolò porta i regali ai bambini: la sera avevo messo sul piatto
per il santo un bicchiere di vino e un pezzo di pane: al mattino avevo
trovato uno scimmiottino di pelo con l'elastico e due mandarini. Ma durante
la notte era caduta una abbondante nevicata e, uscito di casa per andare
alla S. Messa dove facevo da chierichetto, avevo trovato la strada che
porta alla chiesa tutta bianca di una soffice e spessa coltre di neve ancora
intatta: ricordo il grande silenzio di quel mattino e la grande felicità
che provavo nel distendermi supino su quella neve a braccia aperte per
poi guardare l'impronta che avevo lasciato.
Ora quelle macchie scure laggiù,
immobili davanti a me, non sono soltanto impronte: qui non si fa per gioco.
Torno al ricovero - comando,
che noi chiamiamo bunker, dove mi trovo impegnato nei miei nuovi compiti
e dove non tutto procede come si vorrebbe. I soldati, dalle postazioni,
richiedono munizioni ma ce ne sono poche: "Non sparate per niente"
dico.
"Spariamo per tenere calde
le armi" rispondono. Hanno ragione. I fucili mitragliatori si inceppano
spesso perché il lubrificante si congela per il freddo e così
si spara qualche colpo ogni tanto per tenerli caldi. Qualcuno li unge col
grasso anticongelante che distribuiscono per massaggiarci i piedi.
Se si chiedono munizioni alla
compagnia ne arrivano sì e no la metà, mi chiarisce il tenente:
dicono che in magazzino ce ne sono poche; inoltre la pista che porta a
Orobinski, dove c'è un deposito di munizioni, è continuamente
sconvolta dalle Katiushe e dai caccia russi che passano spesso a volo radente
spezzonando e mitragliando le poche autocarrette che vi si avventurano.
Poche.
Ce n'erano molte di più
che correvano avanti e indietro, nell'estate e nel primo autunno finché
il fronte era calmo, anche solo per portare qualche ordine. Tutta l'efficienza
dell'organizzazione sembrava concentrata nell'andirivieni, tante volte
inutile, di queste vecchie camionette, piccole e ridicole, coperte da un
telone a capanna. Ora, che servirebbero davvero, sono ferme; ce ne sono
di rotte ma l'officina è a Taly, a oltre 20 Km e le squadre di meccanici
forse non vengono volentieri a ridosso del fronte per ripararle; quelle
che funzionano bisogna fargli fuoco sotto la pancia per qualche ora prima
di scongelarle. Ma soprattutto manca la benzina.
Le scorte sono esaurite, i tedeschi
non ne danno un gran che e quella che c'è è a disposizione
delle Grandi Unità. Forse perché gli S.M. sanno già
che presto comincerà la buriana e stanno prendendo le loro precauzioni.
È notte.
La mia prima notte di guardia
nel caposaldo.
Mentre guardo dalla feritoia
questa neve bianca che all'orizzonte si fonde col grigio cupo del cielo
e, oltre il Don, lontano e nero il bosco dal quale continua a salire sempre
più intenso il rumore ininterrotto di mezzi in movimento, mi tornano
alla mente con nostalgia le notti tranquille di pattuglia dell'estate quando,
nella "terra di nessuno", potevo sostare incantato a guardare
miriadi di stelle girare lentamente nel cielo.
Ora la veglia è tesa
e nervosa.
Verso le due del martino, brevi
e rapide scoppiano le raffiche dei parabellum e tutta la linea del fronte
si risveglia; da qualche parte i russi sono al di qua del Don, lo passano
ormai a piedi in assoluta tranquillità e stanno certamente attaccando
qualche punto di vedetta o qualche postazione avanzata. Spari e raffiche
si susseguono intensi per circa un'ora mentre dalla postazione anche noi
reagiamo a ogni sospetto di movimento; poi, un po' alla volta, le armi
si calmano, si sente ancora qualche colpo isolato di fucile, infine tutto
finisce. Domattina, in qualche caposaldo, l'ufficiale scriverà sul
ruolino: "tot morti, tot dispersi" e noi restiamo sempre più
soli perché nessuno viene a rimpiazzare quelli che se ne sono andati.
11 dicembre.
L'alba si presenta grigia e
una nebbia diffusa copre il fiume. Alle cinque, finiti i miei turni di
guardia, sto tornando al bunker-comando quando improvvisamente un lontano
rumore cupo e continuo interrompe il silenzio. È un grosso attacco
di artiglierie. Il tenente sta telefonando e, da quanto capisco, è
soprattutto sull'ansa di Werch-Mamon, tenuta dalla divisione "Ravenna",
che si concentra un torte cannoneggiamento. L'ansa, quasi una penisola
incuneata fra due ampie volute del fiume, è in pratica una testa
di ponte russa al di qua del Don. È una continua fonte di attacchi
e contrattacchi e su quelle balke, dall'estate e fino ad ora, si sono dissanguati
molti nostri reparti. Ora i russi sono tornati alla carica e questa volta
anche con ingenti forze corazzate; verso sera sapremo che l'attacco e stato
arrestato ma non respinto.
Stanotte al comando sono arrivate
due cassette di munizioni e due di bombe a mano ma è arrivata anche
la telefonata di portarne una per tipo al caposaldo sulla nostra sinistra.
Ci vado io perché non c'è nessun altro da poter mandare;
mentre cammino sulla pista trascinandomi dietro le due casse, arrivano,
sibilando e molto vicini, alcuni colpi di mortaio: l'unica difesa possibile
è quella di buttarsi a terra ogni volta che si sente il sibilo,
poi ripartire di corsa appena scoppiata la granata e ributtarsi a terra
al nuovo sibilo. Il fatto è che le casse di munizioni che mi trascino
dietro sono di intralcio. Arrivato al caposaldo "M" chiedo al
soldato che mi sta aspettando: "Ma con chi ce l'hanno quei russi per
sparare in quel modo?".
"Con te" mi risponde.
Non mi sono accorto che la pista, per un lungo tratto, è allo scoperto
e mentre passavo i russi mi hanno usato come bersaglio. Per fortuna mi
è andata bene. Al ritorno, con una volata da centometrista, riesco
a superare il tratto scoperto prima che comincino a sparare.
Nel pomeriggio, da non sappiamo
dove, una mitragliatrice comincia a spararci addosso: sono quattro o cinque
soldati infiltratisi alle nostre spalle, oppure un gruppo di partigiani.
Quando vengono individuati le nostre armi pesanti tentano di colpirli ma
quelli si spostano di continuo trovando sempre nuovi anfratti da dove controllare
e battere le nostre posizioni.
Anche una nostra pattuglia si
muove per cercarli ma l'azione resta infruttuosa e intanto si fa sera.
La linea col comando di compagnia
si è interrotta e il tenente mi manda con un messaggio dal capitano.
Ritorno così, di notte, verso quelle due isbe dove ho passato alcuni
giorni come portaordini.
Conosco la strada e vado con
passo spedito, lo sguardo fisso in avanti per non perdere la pista. Penso
alla pattuglia russa che oggi ci sparava dalle spalle e che forse non è
tanto lontana. Vestito di grigioverde, sulla distesa di neve bianca, mi
sembra di avere mille occhi puntati su di me: sento quasi sulla pelle le
fitte di quegli sguardi. Cammino con i nervi in tensione e cerco di leggermi
dentro: quello che sento non è paura del pericolo in sé è
il fatto di non sapere da dove può arrivare e non essere in grado
di prevenirlo e difendermi. Se fosse paura, forse mi sarei rifiutato di
camminare da solo in questa notte piena di insidie. O forse anche la paura,
come l'insensibilità verso il dolore dei feriti, come l'indifferenza
che subentra al primo attimo di sgomento e di pietà per gli amici
che muoiono, anche la paura è entrata a far parte del nostro quotidiano
e la viviamo senza impressionarci più di tanto. Forse è già
rassegnazione.
Arrivo al comando di compagnia.
Ieri sera una salva di Katiusha ha colpito le isbe facendo saltare i collegamenti
telefonici: pochi i danni ma il capitano è stato ferito. Consegnato
il messaggio mi vien voglia di riposarmi un po' al caldo e mi siedo per
terra in un angolo dell'isba: mi addormento in un attimo. Mi sveglio che
è quasi l'alba e mi avvio in fretta al mio caposaldo.
12 dicembre.
Il giorno sale grigio e freddo
come ogni altro di questi tempi. Quando entro nel bunker del comando c'è
già movimento: qualcuno arriva dalle postazioni a prendere ordini
e munizioni, a segnalare le novità, a richiedere qualche cosa.
Improvvisamente, poco dopo le
sei, dai posti di vedetta scatta l'allarme. Un grosso contingente di fanteria
russa sta attraversando il Don al di qua di Kosharnji e punta sui capisaldi
del nostro battaglione. Tutti ci buttiamo nelle postazioni. Le salve della
nostra artiglieria, questa volta entrate subito in azione, passano sibilando
sopra le nostre teste e vanno a esplodere sul fiume e sul costone dal quale
i russi stanno salendo: salgono in ordine sparso, a plotoni successivi,
sparando brevi raffiche di parabellum, ma sono ostacolati dalla neve alta.
Spariamo anche noi, appena vengono a tiro davanti alla nostra postazione.
Siamo in posizione dominante e riusciamo a fermarli: soprattutto i nostri
mitragliatori pesanti Breda creano scompiglio e vuoto nelle loro file.