T34 Foto scattata all'inizio dell'offensiva sovietica che portò all'accerchiamento del Corpo d'Armata Alpino |
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- Cos' li ho visti arrivare
dalla strada di Taly - erano lunghi circa 8 metri, con la torretta spostata in avanti e sul dietro un'ampia piattaforma di carico sulla quale trasportavano pattuglie di fanteria d'assalto. |
18 dicembre.
Esco dall'isba all'alba, chiamato dai compagni:
siamo euforici perché possiamo sgranchirci le ossa e respirare
un po' d'aria pura ma ben presto il freddo intenso si porta via
tutto il tepore che avevamo accumulato nella notte. Ci siamo
tutti ma manca proprio il tenente:
per la verità è da dopo l'incendio che non lo
vediamo; Brambilla dice di aspettare e va nelle isbe attorno a
cercarlo ma non lo trova e decidiamo così di partire anche senza
di lui.
C'è poi il mio amico Privitera che ha commesso
una grossa imprudenza: stanotte si è tolto le scarpe e
stamattina non le ha più trovate: è uscito in strada con i
piedi avvolti in pezzi di coperta. Allora gli regalo le mie
scarpe nuove: gli vanno grandi di tre numeri ma vedo che cammina
lo stesso anche se all'inizio va via ciabattando.
Camminiamo sul bordo della strada che un vento
gelido spazza di continuo sollevando un turbinio di nevischio
ghiacciato: il freddo è insopportabile. Cominciamo a
imbacuccarci come meglio si può: sotto il passamontagna mi
avvolgo intorno alla testa una panciera di lana, altri si coprono
testa e spalle con la coperta e così conciati sembriamo una
colonna di straccioni.
A Taly, che attraversiamo, c'è la stessa
confusione che avevamo visto a Ivanovka.
Il Comando del nostro 2° Corpo d'Armata non c'è
più: da ieri a mezzogiorno ha fatto fagotto. Qualche
autocarretta ritardataria sia caricando le ultime suppellettili,
ma i Capi sono già ben al sicuro chissà dove.
Fuori dal paese, davanti a noi in fondo a un
rettilineo, una lunga colonna di soldati marcia verso sud sulla
strada per Kantemirovka; sono da poco passate le 9.
Riusciamo ad allontanarci dalla città forse di
due chilometri quando delle forti esplosioni dietro a noi ci
fanno voltare. Alte colonne di fumo si alzano dal centro di Taly
sottoposta a un furioso cannoneggiamento. Acceleriamo il passo
per allontanarci mentre una fila di automezzi esce dalla città e
si immette sulla nostra stessa strada. Dopo pochi minuti ci
sorpassano a forte velocità. Sono carichi di soldati, alcuni
aggrappati ai cassoni. Mentre passano tentiamo di fermarli
perché ci facciano salire, ma nessuno ci ascolta: gli autisti
hanno gli occhi sbarrati dalla paura, forse non ci hanno nemmeno
visti.
Anche noi però abbiamo paura e ci mettiamo a
correre: siamo un centinaio, compresi alcuni tedeschi. Un po'
più avanti è in postazione una linea di sbarramento; nei fossi
laterali della strada, in buche scavate nella neve, sono piazzate
delle mitragliatrici, dei "panzerfaust" e, di traverso
ai campi, allo scoperto, altri nidi di mitragliatrici e
lanciarazzi multipli: sembrano tubi da stufa, sono cinque o sei
legati assieme su un affusto a treppiede. Il solito soldato che
sa tutto ci informa che sono dette "Vanjushe" e che
sono la prima risposta dei tedeschi alle Katiushe dei russi. I
tedeschi che costituiscono questo sbarramento sono circa 200:
sono quasi tutti allo scoperto e dietro a loro sono fermi alcuni
autocarri, slitte e una cucina da campo ippotrainata. Mentre li
sorpassiamo un ordine rabbioso fa fermare i tedeschi che sono con
noi: si impalano sull'attenti e poi vanno a schierarsi con gli
altri. Intanto dalla strada di Taly arrivano degli enormi T34 che
cominciano a sparare: corriamo per un certo tratto e poi ci
buttiamo nei fossi laterali per evitare le raffiche di mitraglia
e di parabellum che stanno arrivando.
Da dove mi trovo vedo partire e arrivare le
cannonate dei T34 sulla linea tedesca e le esplosioni che
sollevano enormi sbuffi di terra: vedo che un colpo prende in
pieno la cucina da campo e negli occhi mi resta l'immagine di una
enorme vampata di fuoco e pentole, tubi della stufa e pezzi di
cavallo che volano per aria, neri, in mezzo a una grande fiamma
rossa.
I carri armati avanzano e lo scontro diventa
impetuoso. Le "vanjushe" riescono a bloccarne due,
mentre si fa più violenta la sparatoria tra le mitragliatrici
tedesche e le raffiche dei parabellum che i russi dalle torrette
sventagliano su armi e soldati nella neve.
Noi italiani rimaniamo acquattati, senza sparare,
come paralizzati: sono convinto che questa, per me, è la fine: o
morto o prigioniero. Nel frattempo gli equipaggi dei due carri
bloccati riescono a saltar fuori e a ripararsi dietro agli
stessi. I tedeschi, ne vedo molti immobili nella neve, continuano
a reagire ma non c'è impeto nella loro azione. Due carri, dei
tre rimasti, si fermano e pian piano invertono la rotta sempre
tenendo sotto tiro i tedeschi mentre l'ultimo continua la sua
corsa attraversando la linea ormai inoffensiva e si dirige
sferragliando verso di noi, ma non spara più. Quando è a una
ventina di metri il carrista, dalla torretta, ci fa cenno col
parabellum di alzarci e ci leviamo in piedi con le mani in alto.
L'ufficiale, penso che sia il comandante del carro, ci chiede con
una buona pronuncia: "Siete tutti italiani?".
A un nostro cenno affermativo: "Di dove
siete?" ci chiede. Qualcuno risponde: "Di Milano, di
Como, di Genova...". Anch'io dico: "Di Treviso".
"Andatevene - replica - tornate a casa vostra
se ce la fate". Il carro armato si gira e torna verso Taly.
Sul momento non ci facciamo quasi caso, sembra una cosa naturale,
o forse la paura non ha permesso al cervello di analizzare quanto
accaduto, e riprendiamo il cammino verso Kantemirovka. Come al
solito, il vento solleva il nevischio e ce lo butta in faccia, la
fatica comincia a farsi sentire, ma il pensiero che a
Kantemirovka troveremo un comando e finalmente qualcuno che ci
dirà cosa fare, ci fa proseguire con ostinazione e rabbia.
Camminiamo tutti in silenzio, con gli occhi fissi
su questo lastrone di ghiaccio che è la strada e andiamo
avanti.
Verso le tre del pomeriggio, è
gia notte, si profilano ai lati della pista alcune isbe, ma sono
già piene di quelli arrivati prima di noi. Bisogna, in ogni
caso, trovare un posto al caldo per dormiree e non è facile.
Ognuno cerca come può, il gruppo si sfalda e si disperde verso
le isbe. Brambilla raduna quelli dei nostro plotone, siamo la
solita decina, e: "Fieu - ci dice in milanese - voglio
sapere dove andate a dormire perché domattina vi vengo a
svegliare io, altrimenti ci sperdiamo anche noi".
Camminiamo ancora ma il paese sta per finire:
finalmente vediamo, un po' lontane dalla strada, un gruppetto di
quattro isbe. Dalle prime due veniamo respinti brutalmente appena
cerchiamo di entrare: sono già zeppe di uomini disfatti,
ammucchiati come sacchi e comunque non ci starebbe in mezzo
neanche un piede. Per fortuna nella terza isba, seppure a stento,
entriamo in cinque o sei mentre Brambilla e gli altri proseguono
verso l'ultima. Noi intanto ci arrangiamo cercando, e trovando un
po' alla volta, a forza di spinte e gomiti, lo spazio sufficiente
per sederci. Vicino a me un ufficiale sonnecchia lamentandosi:
dal suo piede destro fasciato esce un tanfo di carne marcia.
Poveretto, penso, stai peggio di me.
La stanza è calda, presto anche i pidocchi se ne
accorgono e si svegliano. Per questo stento a prender sonno e per
il lezzo pesante di sudore, di sporco e di malattia, ma anche per
l'impotenza e l'ansia che sento in me e in questi corpi che
respirano russando e sbuffando come oppressi da un enorme peso.
Da dove verranno? Come saranno stati per loro questi ultimi
giorni?
L'aria viziata, il rumore di corpi che si voltano,
questo ansare faticoso, qualcuno che esce per un bisogno
corporale e che passando pesta in qualche parte, tra brontolii
incoscienti o maledizioni vigorose, non conciliano il sonno.
Nemmeno io riesco a dormire; non so togliermi dalla mente la
sagoma di quel carro armato e di quell'ufficiale. Perché non ci
ha fatti prigionieri è facile capirlo: si è trattato di una
puntata di mezzi corazzati fatta per rompere e scoordinare le
nostre linee di difesa e impedirne o ritardarne la
riorganizzazione. Inoltre è anche facile rendersi conto che, non
avendo quei carri truppe al seguito, avevano una sola cosa da
fare: ammazzarci come hanno ucciso quasi tutti i tedeschi che
difendevano quella linea sottile stesa in mezzo ai campi nella
neve e come hanno certamente ucciso anche molti nostri compagni:
ma quell'ufficiale non lo ha fatto. Parlava un buon italiano,
forse con un lieve accento romano.
Si sa che molti comunisti italiani sono fuggiti in
Russia per sottrarsi alle prigioni fasciste: se era italiano non
avrà avuto il coraggio di spararci a sangue freddo.
Ma perché in quel mattino dei 12 dicembre 1942,
sulla strada per Kantemirovka, doveva capitare a me proprio quel
carro armato con quell'ufficiale?
È stato un caso o sono state le preghiere di mia
madre? Io, anche a distanza di anni, sono convinto che comunque
sono state queste ultime a salvarmi. Perché anche se, per
ipotesi fossi stato fatto prigioniero non credo che avrei più
avuto la forza di ritrovare la strada di casa.
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