Ma il capitano, che ha seguito la tragica
scena, non ha esitazioni: "E' inutile farci prendere come
topi nella trappola - dice - meglio ritirarci nelle postazioni
dell'artiglieria divisionale". Mentre la squadra mitraglieri
copre la ritirata sparando sui reparti russi attestati davanti a
noi oltre il crinale, tutti gli uomini, dalle postazioni,
raggiungono il comando e ci avviamo verso il canalone. Il
caporalmaggiore Borsa e io dobbiamo trasportare le munizioni
rimaste, mezza cassetta di bombe a mano. Per ultimo esce il
capitano.
Nel bunker del comando ho sempre visto, appeso a
una parete, un cappotto di astrakan forse trovato in qualche
isba. Non so di chi sia, nessuno l'ha mai usato, e ora penso che
mi potrà servire. Dico a Borsa di aspettarmi e corro a
prenderlo; torno di corsa dal bunker e incomincio a slacciarmi le
giberne per indossarlo ma il mio compagno mi ferma e mi fa cenno
di stare fermo e zitto. Le Breda non sparano più, anche loro si
saranno ritirati, ma nel silenzio sento, oltre il camminamento, i
passi dei russi smorzati dalla neve, brevi ordini secchi e il
loro ansare mentre salgono verso la postazione. Abbandono il
cappotto e, portandoci dietro le munizioni, io e Borsa ci
infiliamo di corsa nel canalone e lo risaliamo chini fino al
costone più alto che ci defila e, oltre il quale, sono già
riuniti i resti del caposaldo.
Uno sguardo rapido in basso a quel pendio sul Don
dove ho vissuto gli ultimi sette brutti giorni; un centinaio di
russi sono già arrivati e stanno circondando bunker e
postazioni.
Ci avviamo svelti sulla pista verso sud mentre
calano le prime ombre della sera.
Camminiamo in fila e in silenzio salendo
faticosamente il pendio. In cuor mio ringrazio il cielo che
stamattina ci ha mandato questo capitano: forse il tenente non
avrebbe avuto il coraggio di disubbidire all'ordine del
comandante del battaglione e forse, a quest'ora, saremmo tutti
morti o sulla pista verso Gorokovka.
Alla postazione dell'artiglieria ci arriviamo che
è già buio; il tenente ci raduna in una grande baracca e ci
raccomanda di rimanere uniti.
Quassù sono ripiegati i tanti rimasti di molti
capisaldi e postazioni dell'89° e del 90° Rgt.
della "Cosseria", inoltre ci sono artiglieri, genieri,
mortaisti, soldati dei reparti comando, insomma un po' di tutto.
Verso le sei di sera comincia la prima confusione.
Un maggiore gira per le baracche e ci dice di
metterci agli ordini di un capitano; mentre il nostro tenente
viene mandato non so dove, noi veniamo portati in un camminamento
che corre parallelo al crinale di un colle che ci sovrasta a una
decina di metri. Il capitano ci dice che dobbiamo difendere la
linea e poi se ne va. Mi guardo attorno; nel camminamento, che ci
arriva fino al petto, siamo disposti a circa un metro uno
dall'altro e, alto davanti a noi oltre il crinale, solo il cielo
oscuro. In questa posizione, se i russi arriveranno ce ne
accorgeremo solo quando si presenteranno sulla cresta, a dieci
metri dal naso. Mi trovo assieme a soldati che non conosco, parlo
un po' con quello che mi sta vicino ma ho freddo e soprattutto
sonno. Mi rannicchio contro un angolo del camminamento per
defilarmi dal forte vento che viene dalle spalle sollevando
nuvole di neve, ma ogni tanto bisogna muoversi per tentare di
scaldarsi in qualche maniera.
Non so quanto tempo sia passato ma a un certo
punto mi ritrovo quasi solo. Se ne sono andati tutti. C'è solo
un altro soldato infreddolito come me ma anche quello, dopo un
po', se ne va senza dir niente. Allora mi domando perché devo
essere proprio io il più cretino della "Cosseria",
salto fuori dal camminamento e mi infilo in una baracca. È piena
di soldati che russano e imprecano sdraiati sui castelli o stesi
sul pavimento; il buio e la confusione non mi consentono di
riconoscere i miei compagni; "li cercherò domattina",
penso. Mi trovo un angolino libero, mi sdraio e mi addormento
quasi subito.
17 dicembre.
Mi sveglia il rumore, un vociare concitato: nella
baracca c'è un grande trambusto mentre tutti stanno uscendo di
corsa. Esco anch'io nella luce incerta del nuovo giorno: dal
colle dove siamo scende verso sud una lunga colonna di soldati. I
primi sono già in fondo alla baia e stanno risalendo il pendio
dall'altra parte; più che una colonna è una processione
disordinata dove i ritardatari arrancano nella neve per
raggiungere il grosso.
Corro giù per la pista mentre alcuni soldati
vengono da un camminamento gridando: "I russi! Arrivano i
russi!.." Riusciamo ad allontanarci di un centinaio di
metri, poi forti raffiche di mitragliatori e parabellum ci
arrivano dalle spalle; si solleva qualche batuffolo di neve
davanti a me, pallottole traccianti mi passano sopra la testa
mentre corro cercando di zigzagare; la colonna davanti sbanda e
si sfascia allargandosi sui fianchi per sfuggire alla raffiche
che la prendono di infilata al centro. È una corsa affannosa
verso la collina che sovrasta la baia dall'altra parte. Per
fortuna i russi che hanno occupato il caposaldo non ci inseguono,
ma mentre raggiungo il crinale mi volto e sulla pista percorsa
vedo che sono rimasti in molti, macchie scure sulla neve
bianca.
Riprendo il cammino e a passo svelto mi inoltro
verso il centro della colonna dove finalmente ritrovo i miei
compagni e il tenente Canessa, ma siamo solo in dodici: degli
altri nessuno sa nulla.
La marcia continua nel freddo mentre torna a
nevicare. Verso le nove arriviamo a Ivanovka. Nel paese c'è una
grande confusione: autocarrette in moto che caricano casse e
scatoloni, soldati di tutte le armi che arrivano dal fronte e non
sanno dove andare; chi cerca, chi chiama, chi corre. Solo i
tedeschi, nel disordine generale, marciano inquadrati e passano
senza guardarsi attorno come se la cosa non li interessasse
minimamente; loro dal fronte si sono riportati indietro tutto,
armi, artiglierie, cucine da campo, effetti personali su slitte e
autocarri; evidentemente erano già pronti da giorni ad
abbandonare la linea sul Don e sapevano dove andare, mentre noi
dovevamo star lì a fare da "ultimo uomo e ultima
cartuccia" per loro.
A Ivanovka non c'è più il comando del nostro
reggimento: da qualche giorno il colonnello Maggio, per assistere
meglio i suoi reparti in linea, si è trasferito, con lo Stato
Maggiore e un piccolo gruppo di soldati, nel bosco di Kosharnji
mentre qui sono rimaste le scartoffie.
L'ultima autocarretta dell'89° al
comando di un capitano sta partendo verso Taly.
Ci avvieremo anche noi verso Taly. Il tenente ci
raccoglie intorno a sé e ci raccomanda di restare uniti senza
lasciarci immischiare nella confusione che regna intorno.
All'uscita del paese, sulla strada verso Taly, i
magazzini dell'Intendenza Divisionale sono stati presi d'assalto.
I soldati si accalcano all'entrata dove un maggiore urlante tenta
di fermarli finché, preso a spintoni e finito per terra, assiste
impotente all'invasione.
Dal magazzino comincia a uscire di tutto: divise e
pellicce, generi alimentari e cognac francese; due soldati
corrono con fatica portando a spalle, appeso su una stanga di
legno, un grosso sacco di pane che dondola ostacolando la loro
fuga finché cadono e il pane diviene facile preda di altri;
alcuni hanno in mano grandi pezzi rossastri di ghiaccio che
cercano di mettere nelle gavette, uno tiene fra le braccia una
scatola da 10 chili di marmellata.
Noi guardiamo in silenzio da lontano questo
spettacolo finché Brambilla chiama i cucinieri e dice;
"Fieu. andém a fà la spesa viveri".
Io gli vado dietro. All'interno del magazzino è
stato operato un vero e proprio saccheggio: forme dl formaggio
spaccate, sacchi di pasta sventrati, botti di vino sfasciate -
ecco da dove viene il ghiaccio rosso -salumi, bottiglie rotte,
tutto sottosopra e soldati che frugano, raccolgono, rompono o
buttano via senza quasi sapere cosa e perché.
Cerchiamo di fare una scelta con calma: formaggio,
salumi, carne in scatola, gallette, latte condensato, tavolette
di cioccolata e 4 bottiglie di cognac viveri di conforto che in
linea non arrivavano quasi mai; io cerco una pelliccia per me ma
il reparto indumenti è nel caos; prendo da terra un paio di
scarpe nuove, sono del n0 44 ma con due paia di
calze mi possono andare bene lo stesso. Torniamo dai compagni e
carichiamo i viveri sulla slitta dei cucinieri, il tenente di
certo ci disapprova perché ci sta guardando in silenzio con aria
scura.
Brambilla allora gli dice: "Sior tenente,
vuole che lasciamo tutto ai russi?".
Riprendiamo il cammino. Termina di nevicare, la
pista diventa un po' alla volta più scorrevole ma presto cala
una fitta nebbia. Ci accompagna il tramestio e il mormorio di
quelli che ci stanno intorno ma non ci si vede a dieci metri di
distanza.
Durante una pausa, mentre mangiamo qualcosa, il
tenente dice che, per evitare la confusione che ci sarà in paese
stasera, è meglio portarsi in testa alla colonna. Così facciamo
riprendendo la marcia. All'imbrunire raggiungiamo la periferia di
Taly.
Una pattuglia di carabinieri sta smistando questa
ondata di sbandati e ci indica, sulla destra, un grosso
fabbricato a due piani lungo una cinquantina di metri dove ci
sistemiamo in una stanza al primo piano; c'è anche una stufa.
Qualcuno trova della legna e cominciamo a rilassarci ai
calduccio; da qualche parte salta fuori un lumino a olio e anche
un mazzo di carte da gioco, ma presto la stanchezza ci mette
tutti a nanna.
Improvvisa la sveglia che arriva a spintoni: la
casa sta bruciando. Scendiamo di corsa e usciamo nel cuore della
notte. Alte lingue di fuoco stanno distruggendo una metà del
fabbricato in un furioso crepitio di tegole e tavole che ardono e
qualche isolato scoppio di cartucce e bombe a mano. Si grida di
formare una catena fino al pozzo, alcune donne arrivano correndo
con dei secchi, e io mi ritrovo davanti a un buco su uno spesso
lastrone di ghiaccio a tirar su secchi d'acqua che passo agli
altri; ma i secchi sono solo cinque o sei, la distanza dal
fabbricato è troppa e il fuoco risulta molto più veloce: dopo
neanche mezz'ora il crollo di tutto dichiara la fine della
casa.
Con i miei compagni dobbiamo cercare un altro
ricovero per dormire. Riusciamo a infilarci in un'isba già piena
di soldati e, aiutandoci a spintoni, a sederci con le spalle al
muro; è quello che ci basta per addormentarci di botto.
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