Non si va a difendere nessun villaggio ma la
nostra destinazione è la città di Dniepropetrovsk, a oltre 400
chilometri verso casa. Viene distribuita a tutti una razione
viveri di 4 gallette e due scatolette. Siamo un centinalo di
soldati e una decina di ufficiali, tutti appartenenti all'89°.
Si parte in una fredda giornata di sole, il
tenente che ci comanda ci dà l'ordine di marcia: "Prossimo
raduno a Rykovo. a 100 chilometri; e per dormire bísogna trovare
ospitalità nelle isbe". Evidentemente gli Alti Comandi
hanno adottato il sistema organizzativo della naia, l'unico che
funziona: arrangiarsi.
Si cammina fino all'una e mezza del pomeriggio e
attraversiamo un paesetto: Belaje. Nel frattempo la colonna si è
rarefatta, ogni tanto un gruppetto si stacca, si ferma e resta
indietro. Anche ufficiali mi sembra che non ce ne siano più
tanti e l'impressione è che ciascuno vada come e dove gli pare.
Oltre Belaje ci rendiamo conto che fra un'ora
sarà notte. Su un lato della strada ci sono due isbe e, con
Borsa e Buratto, decidiamo di chiedere ospitalità. Bussiamo alla
prima casa e ci apre una donna anziana, vestita di nero come le
nostre nonne, che ci fa entrare. Dentro ci sono un uomo sui
sessant'anni e un bambino che ci guardano seri ma senza
dimostrare paura o apprensione.
Con le poche parole che abbiamo imparato durante
la sosta a Voroshilovgrad, cerchiamo di spiegare che desideriamo
fermarci solo per riposare un po' e mangiare. Per far capire le
nostre buone intenzioni lasciamo i fucili in un angolo vicino
alla porta d'ingresso. L'uomo ci fa accomodare, noi tiriamo fuori
dal nostri zainetti i viveri che ci hanno dato, apriamo la prima
scatoletta e incominciamo a rosicchiare una galletta. La donna
toglie dal forno una pentola fumante e ci da una scodella di
minestra calda per ciascuno: "Kùshaite - mangiate" ci
dice: è una minestra di cavoli, la chiamano bursh, calda e
troppo invitante per rifiutarla.
Dopo aver mangiato vorremmo partire per
raggiungere gli altri ma l'uomo ci ferma: "Stòite" ci
dice e ci indica di guardare fuori dalla finestra. Sulla strada
sta passando una lunga colonna di persone scortate da tedeschi:
sono uomini, sono civili, vestiti con lunghi pastrani, qualcuno
ne indossa due o tre uno sopra l'altro, con coperte sulle spalle
e larghi cappelli neri sulla testa, che si trascinano sulla pista
ghiacciata portando fagotti e valigie. La colonna pare una sola
massa grigio-nera in movimento. Molti sono stanchi o malati e
camminano sorretti dai vicini mentre giungono anche a noi le
grida dei soldati tedeschi che li incitano con rabbia ad andare
avanti:
"Schnell...!! ...Davài !!"
E' la prima volta che vedo una cosa simile:
"Juden..." ci dice l'uomo: l'avevamo capito, sono
ebrei. La colonna passa, noi restiamo a guardare le ombre della
sera che calano lentamente sul campii coperti di neve mentre, in
lontananza, alcuni colpi isolati di fucile fanno ritornare alla
mente quelli che accompagnavano i prigionieri russi il giorno del
nostro arrivo a Nova Gorlovka. Non sappiamo cosa dire: l'uomo
china il capo, stringe a sé il bambino e gli accarezza il capo,
la donna piange, prega in silenzio davanti all'icona sacra e si
fa più volte il segno della Croce.
A noi è passata la voglia di partire: ormai si fa
sera e chiediamo di poterci fermare per la notte: dormiremo per
terra in un angolo. Cosi abbiamo il tempo di pensare alla nostra
situazione. Comprendiamo che il viaggio per Dniepropetrovk sarà
lungo e che dai nostri Comandi è meglio non aspettarci gran che:
non certo l'alloggio e forse nemmeno il vitto. Su queste strade
ghiacciate, con questo freddo si possono fare forse 20 o 25
chilometri in sei-sette ore di cammino (dalle sette fin verso le
due del pomeriggio), ma non di più. Ce ne andremo per conto
nostro, senza seguire gli altri, io ho con me la carta geografica
dell'Ucraina mandatami da mia sorella: andrà benissimo. Facciamo
un piano di viaggio e ci proponiamo di ferracci ogni giorno ben
prima del tramonto. Le isbe, ce lo fa capire l'uomo, non si
aprono di notte perché la gente ha paura dei tedeschi; inoltre
sappiamo che in giro ci sono i partigiani.
Più tardi il bambino si siede vicino al nonno e
gli chiede con insistenza qualcosa: quello va a prendere una
chitarra e canta alcune canzoni per il nipotino. Ascoltiamo anche
noi quei canti che non comprendiamo ma i nostri occhi devono
essere pieni di nostalgia perché, quando il canto si tace,
l'uomo ci guarda e ci chiede: "Pocimù vainá?" Perché
la guerra?
Il mattino dopo, mentre ci prepariamo per uscire,
da una stanza chiusa da una tenda esce la donna che ci porge una
scodella di latte caldo: avevo letto qualcosa, su "Guerra e
Pace" della ospitalità russa ma questa scodella, offerta
con semplicità a un nemico, riscalda anche il cuore.
Riprendiamo il cammino e non tardiamo a trovarci
di nuovo sconvolti dalla realtà: ogni tanto incontriamo, riversi
al bordi della strada, i corpi di quel poveri ebrei che ieri non
hanno più avuto la forza di continuare il loro calvario. Ma
questa è guerra o pazzia?
Del viaggio fino a Rykovo non ho altri ricordi. Ma
le isbe per noi si sono sempre aperte e vi abbiamo ricevuto,
sempre, cibo e calore umano. E non solo fino a Rykovo ma fino
alla fine del nostro lungo viaggio.
Credo che di quanti italiani siamo tornati a casa,
quasi tutti dobbiamo ringraziare tante isbe, tante
"mame" e tante "babuske" -nonnine - che con
grande pietà ci hanno accolto e rifocillato.
A Rykovo, all'entrata del paese, una pattuglia
militare ci indirizza verso una piazza dove sono radunati circa
2.000 soldati, ci distribuiscono un minestrone, una pagnotta e
formaggio (l'unico tipo di formaggio distribuito dalla naia era
il provolone: in cinque anni non ho mai visto altro e non ho mai
capito il perché) e ci ordinano di trovarci qui l'indomani
mattina alle sei.
Si partirà per Jassinovataja, a 20 chilometri di
distanza, dove si stanno predisponendo delle tradotte che ci
porteranno a Dniepropetrovsk.
Perla notte troviamo da dormire in un'isba dove
una "mama" ci accoglie con un sorriso: c'è anche una
ragazza che ci saluta in italiano. Lavora in un magazzino del
nostro esercito.
Passiamo la sera parlando di tutto un po': del
lavoro che svolge, del loro odio per i tedeschi. dei partigiani
che ormai ci sono in tutta la Russia occupata, di noi di cui
conosce la nostra destinazione prossima e futura: "Presto -
ci dice - andrete tutti a casa".
Parliamo anche di Jassinovataja che, a suo dire,
è lontana non 20 chilometri, ma 42 verste. Una versta è più di
un chilometro, è perciò impossibile farcela in una sola tappa
con 20 gradi sotto zero di giorno e 30-35 di notte:
decidiamo perciò di farla in due tappe.
Quando partiamo, il giorno dopo, comincia a
nevicare e la neve va dentro per il collo, in bocca, sotto il
passamontagna col vento che viene da ovest con violente folate
gelide e ti spinge indietro quasi volesse ostacolare il cammino.
Verso l'una del pomeriggio incontriamo un'isba isolata in mezzo
alla campagna: non sappiamo a che distanza è il prossimo paese e
ci fermiamo.
Più tardi, prima di metterci a dormire, guardiamo
fuori nella notte. Nevica ancora.
Anche il secondo giorno è brutto, nevoso, nuvole
basse coprono l'orizzonte e il camminare diventa faticoso. Verso
mezzogiorno cominciamo a trovare, abbandonati ai lati della
strada e ormai semicoperti dalla neve, zainetti, giberne,
caricatori e qualche fucile.
Risaliamo una lieve collina e, dalla sommità, la
pista discende dolcemente dentro un'ampia balka in fondo al la
quale c'è un grosso paese. Oltre l'abitato una linea ferroviaria
taglia il paesaggio: siamo arrivati. Attraversiamo il centro e
cerchiamo di trovare una casa per dormire possibilmente vicino
alla stazione da dove dovrebbe partire, se non se n'è già
andato, il treno promesso. Ma le isbe sono tutte occupate e
dobbiamo camminare per un bel po': finalmente una ci accoglie:
dentro, assieme a due donne a e due bambini, c'è solo un
caporale della fanteria.
Ci racconta cose raccapriccianti della marcia
dell'altro giorno: soprattutto gli ultimi venti chilometri fatti
di notte con la neve il vento e un freddo glaciale. Erano esausti
e arrivati a Jassinovataja dopo le nove di sera hanno dato
l'assalto alle case anche sfondando porte che non si volevano
aprire. Molti, specie i ritardatari, hanno dovuto dormire
all'aperto riparandosi come meglio potevano. Qualcuno, dice, è
morto assiderato.
"E il treno?" chiediamo.
"Non c'è: lo abbiamo aspettato tutto il
giorno alla stazione, ma niente".
Il giorno dopo ci assicuriamo con le donne di
poter tornare la sera e applichiamo, sulla porta di casa, una
striscia di carta con scritto:
"Italiani dell'89° - caposaldo L". E'
un richiamo nostalgico alla nostra postazione sul Don ma è anche
un segnale, se qualcuno del nostri dovesse passare.
Andiamo alla stazione. All'interno, in una sala,
un generale di Brigata, dicono che sia Robertiello comandante la
fanteria della "Cosseria", discute concitatamente con
tre ufficiali ri. Fuori all 'aperto, tentano di scaldarsi
battendo i piedi, un migliaio di soldati in attesa: le notizie
arrivano confuse, sembra che il treno sia in allestimento, ma
passa tutto il giorno inutilmente e anche il giorno dopo. Il
terzo giorno, verso le dieci, arriva un convoglio merci vuoto.
Sembra il nostro ma un paio di sottotenenti si sbracciano per
allontanare dal marciapiede ed evitare che saliamo a bordo.
Intanto nella solita stanza, assieme al generale, gli ufficiali
superiori sono diventati sette-otto e continuano a confabulare
come se la cosa non fosse di loro competenza.
Ad un tratto la locomotiva si mette in moto. I due
sottotenenti saltano su e noi restiamo a terra mentre il treno se
ne va. Quelli che credevamo fossero i nostri capi, dentro la
stazion, continuano a confabulare.
Torniamo all'isba e faccio la proposta di andare a
Dniepropetrovsk a piedi: siamo alla metà di gennaio, di poco ma
le giornate tendono ad allungarsi e potremmo farcela in una
decina di giorni. Il problema è quello dei viveri ma dovremmo
pur trovare qualche comando tappa o posto di ristoro.
Cosí decidiamo di partire.
Fino a Dniepropetrovsk non abbiamo trovato né
posti di ristoro né comandi tappa italiani. Forse erano tutti
spostati più a est perché pensavano che saremmo andati solo in
avanti. Per fortuna c'erano posti di ristoro tedeschi che ci
hanno regolarmente distribuito abbondanti razioni viveri.
Mandavamo il caporalmaggiore Borsa il quale, per noi tre, si
faceva dare sei razioni. Le tre in più erano per coloro che ci
ospitavano, la sera, nelle isbe.
Di quei giorni ho dei ricordi, ma non legati a
date precise. Di giorno il freddo era sempre intenso e si
alternavano, a periodi di neve e tormenta, limpide giornate di
sole. Ora le marce non ci facevano più paura: i viveri
abbondanti e le notti al caldo ci permettevano di recuperare in
fretta la stanchezza dei viaggi.
Una sera. in un isba più grande delle solite, ci
accoglie un uomo sui 50 anni, distinto, che ci saluta in
francese. In casa ci sono la moglie e tre figliolette, dagli 8 ai
13 anni penso. Lui è violinista, anche lei è concertista e
hanno girato l'Europa con una orchestra di Stato. Ora insegnano
musica in una scuola locale. La sera le bambine si ritirano in
una stanza, ma dopo un po' ritornano vestite con lunghe camice da
notte: salutano i genitori e poi, dalla soglia della camera da
letto si voltano: "bonne nuit" ci augurano facendo un
inchino.
Un altro giorno, un'altra isba. Accolti come
sempre con ospitalità da una babuska, il marito e un nipote sul
10-12 anni. Il nostro arrivo provoca, dopo qualche minuto,
un'animata discussione fra la donna e il marito, discussione che
non comprendiamo ma che ha certamente noi come argomento
principale perché la donna continua a parlare indicandoci con
insistenza.
Finalmente l'uomo si decide e "Banja,
banja" ci dice facendo cenno di lavarsi. Di lavarci ne
abbiamo proprio bisogno: da metá novembre non ne abbiamo mai
avuto il tempo, qualche volta ci si lavava il viso e si riusciva
a farsi la barba, ma nulla di diverso. Prendiamo dai nostri
zainetti un cambio di biancheria e una camicia pulite e seguiamo
l'uomo e il bambino. Usciti dall'isba ci avviamo verso una
capanna vicina dal cui camino esce del fumo. L'uomo e il ragazzo
si spogliano sotto un portichetto che copre la porta d'ingresso
e, nudi, entrano nella capanna invitandoci a imitarli. Li
seguiamo e così faccio la mia prima sauna.
Un grande braciere riscalda un mucchio di sassi di fiume posti
sopra una grata. Sui sassi roventi l'uomo comincia a versare
grossi mestoli d'acqua che raccoglie da una vicina tinozza,
sollevando nuvole di vapore. Ci invita a sederci sulle panche e
continua a versare acqua finché il vapore riempie tutta la
stanza. Quando cominciamo a sudare abbondantemente ci dà del
sapone: ci laviamo e ci grattiamo con tutte le nostre forze e ci
risciacquiamo con l'acqua della tinozza e restiamo a sudare
ancora per una decina di minuti. Poi ci fa distendere su un altra
panca e comincia a massaggiare i nostri corpi picchiettandoci con
rami di betulla dalle foglie ancora fresche come se fossero state
appena strappate dall'albero. I muscoli sí rilassano e mi sento
pulito perfino di dentro.
Al rientro la babuska ci prende la biancheria sporca e ci fa
cenno di raderci. Mezz'ora dopo, puliti e quasi rinati, stiamo
mangiando enormi quantità di patate lesse che ci ha preparato in
un grande paiolo. Sulla tavola abbiamo messo anche i nostri
viveri, ma io mangio solo patate: da un sacco di tempo non ne
assaggiavo di così buone.
La sera, la babuska fa bollire tutta la nostra biancheria sporca
e la mattina dopo la troviamo sulla tavola pulita e stirata. Per
colazione "mamaleka", polenta e latte.
È come il dolce per l'addio.
Senza ulteriori fatiche arriviamo a Dniepropetrovsk dove
troviamo, finalmente, un comando tappa che ci dà un buon rancio
e ci indirizza al "Teatro".
Il teatro, enorme e brutta costruzione moderna, deve essere un
Centro culturale. Oltre alla grande sala del teatro, sul cui
palcoscenico sono ammucchiati alcuni pianoforti a coda sventrati,
ci sono molte grandi sale su tre piani, forse sale per riunioni,
biblioteche (al primo piano ci sono molte scaffalature vuote);
per il momento ci sono i resti della "Cosseria",
qualche migliaio di soldati, che la sera si stendono sui freddi
pavimenti per dormire al freddo (le grandissime finestre sono
tutte senza vetri) e di giorno bighellonano avanti e indietro in
attesa che venga l'ora del rancio. Non passa nemmeno un'ora da
quando sono arrivato che, mentre appoggiato a un tavolo parlo con
qualcuno, mi "soffiano" la coperta. Ne parlo a Borsa e
dopo mezz'ora, mentre lui fa chiacchierare un fesso come me, io
ho già "recuperato" la coperta.
Per fortuna, mentre esco per andare al rancio, una babuska mi si
avvicina e mi chiede se cerco un posto per dormire. Nelle isbe si
sta troppo bene: dico di sì e la seguo. È una casetta alla
periferia, cucina e tre stanze, molto pulita. Appena arriviamo va
ad appendere fuori della porta un biglietto:
"Italianski" e mi dice: "Nemiezki ni
karashò" - Tedeschi non buoni. I tedeschi non vanno
volentieri nelle case occupate da noi e questa antipatia è
ampiamente ricambiata.
Al mattino vado al teatro in attesa di ordini e del rancio, mi
incontro con i miei compagni di viaggio, che anche loro hanno
trovato una sistemazione, e prima dell'imbrunire torno dalla mia
babuska: mi fa dormire in una stanzetta dove tiene sempre la
stufa accesa: io le lascio parte della mia razione viveri, per la
verità sempre abbondante, e lei mi fa trovare ogni sera una
minestra calda di cavoli o di miglio o di qualche altra cosa.
Quando già annotta arriva la figila, Raja; parlando con lei
riesco a imparare qualche nuova parola di russo.
Un giorno, piove, ritorno alla casetta un'ora prima del solito.
Stranamente la babuska è agitata e negli occhi le leggo la
paura. Le chiedo cosa c'è: "niet, niet" mi dice con
fare nervoso. Mi avvio verso la mia stanza, sembra quasi che mi
voglia fermare: mi insospettisco, mi sposto di fianco alla porta
e l'apro con molta cautela: nella stanza c'è un giovane di circa
20 anni. Ci guardiamo un po' in silenzio.
Indossa un giubbotto imbottito e forse sotto nasconde un'arma, ma
il suo aspetto non è né minaccioso né spaurito.
"Partisan?" gli chiedo.
"Da".
"Karashò" e non so cos'altro dire. La babuska, con un
effluvio di parole, vuol dirmi chissà che cosa ma io non
capisco: sento solo che la sua è una supplica lacrimevole.
"Karashò, karashò" continuo a dirle cercando di
rassicurarla. Si tratta, credo, del fratello o del fidanzato di
Raja e intuisco che non ha nessuna cattiva intenzione perché
metterebbe nei guai non solo quelle due donne ma anche le
famiglie che abitano nei dintorni.
Cosi da quella sera, ogni tanto, c'è un ospite in più. Parliamo
poco, anche perché non lo capisco, e non affronto mai il tema
della guerra. Una sera, prima di andarsene, mi dà la mano
dicendomi:
"Zautra tu na dom, addio". - domani vai a casa.
Non so come faccia a essere più informato di "Radio
Scarpa" ma il mattino dopo al teatro c'è un gran movimento.
Si parte per Kiev. Dovrebbero arrivare degli autocarri, che però
non arrivano: si partirà domani con il treno.
Il giorno seguente, invece, c'è una lunga colonna di autocarri
che ci aspetta. Quando finalmente si parte sono già le 11. Siamo
nella seconda metà di febbraio ed è cominciato il disgelo: la
neve se ne sta andando e con lei anche il freddo e l'autocolonna
si avvia verso Kiev. Fuori della città imbocchiamo una larga
pista fangosa e avanziamo lentamente: dopo poco tempo tutto è
bloccato. Dobbiamo scendere e affondiamo letteralmente nel fango
fino alle caviglie. Davanti a noi la colonna è ferma sulla pista
che sale perché sotto il fango la strada è ancora ghiacciata,
le ruote slittano e così ci tocca spingere. Quando finalmente
riusciamo a superare il culmine della collina siamo sporchi di
fango come se ci fossimo rotolati dentro. La cosa si ripete ogni
volta che dobbiamo superare la benché minima salita e quando ci
fermano verso le tre, non ne possiamo più, inoltre, come sempre,
per dormire ci dobbiamo arrangiare.
Con i soliti compagni Borsa e Buratto troviamo da alloggiare e,
con l'aiuto di una buona babuska, riusciamo a ripulirci dal
fango: ma è logíco che riprendiamo il vecchio discorso: come
proseguire? Con gli altri o per conto nostro?
Prendo la mia carta geografica, la donna ci dice che siamo a
Dnieprodzerzinsk. È su una strada secondaria che porta a Kiev,
ma ci sono circa 500 chilometri da percorrere. Andar via da soli
ci fa una certa impressione: è una zona controllata dal
tedeschi, forse gli italiani non sono tanto conosciuti e, visti i
precedenti, pensiamo che non ci siano comandi tappa italiani; per
di più, a causa del disgelo, abbiamo constatato che le strade
sono quasi impraticabili. Siamo dubbiosi e non sappiamo
deciderci. L'indomani mattina ci avviamo verso i luogo di
radunata quando, passando davanti alla stazione ferroviaria,
Borsa ci dice: "E perché non in treno?".
Troviamo così un mezzo di trasporto che non si infanga e che non
dobbiamo spingere. Il primo giorno non va troppo bene perché
parte solo una locomotiva e facciamo il viaggio sul tender, sopra
il carbone che un macchinista tedesco ogni tanto ci spala da
sotto i piedi, mentre noi caliamo sempre più giù e un'aria
fredda ci punge il viso e ci gela il corpo. Ma negli altri giorni
va meglio, sistemati nelle cabine di manovra che ci sono in molti
vagoni merci.
Agli operai russi che lavorano negli scali delle stazioni
chiediamo dove sono diretti i convogli e, trovato quello che va
bene, aspettiamo che si metta in moto e saliamo. Nessuno si cura
di noi e nessuno ci chiede niente. In certi giorni riusciamo a
percorrere buone distanze ma in altri i treni non ci sono e
dobbiamo andare a piedi.
Giunti a Kiev veniamo inviati a un comando di raccolta dove
stanno arrivando "sbandati" da tutti i settori del
fronte. Ci sono i fanti della "Torino" e della
"Pasubio" con i bersaglieri della "Celere" al
loro secondo inverno nella steppa. Ci sono i fanti della
"Sforzesca", la sfortunata, che ora vengono
dall'estremo fronte sud dell'8a Armata. Tutti raccontano di
interminabili marce nella neve e di continue azioni di guerra con
i partigiani e con reparti regolari che tentavano di ostacolare
il loro cammino, di una ritirata per buona sorte coordinata dal
loro comandi, che erano rimasti coinvolti con le unità in linea,
ma a momenti caotica ed estremamente gravosa per i tanti morti
lasciati per la strada e per il gran numero di feriti e
congelati.
Dopo pochi giorni di sosta a Kiev durante i quali ho modo di
vedere in vendita, nelle bancarelle dei mercatini, assieme a
caffè caldo e semi di girasole, il vestiario dei nostri
magazzini come guanti, scarpe, panciere, maglie di lana e anche i
pellicciotti che io non ho mai avuto, si parte per una nuova
destinazione: Gomel.
Anche questo viaggio, sono circa 250 chilometri, lo dobbiamo
fare, stando alla terminologia militare, per via ordinaria che
vuol dire a piedi. Cosi riprendiamo il cammino io, Borsa e
Buratto un po' in treno e un po' a piedi, fino al centro di
raccolta di Gomel.
Qui sono arrivati anche gli alpini. Li vado a trovare perché
può darsi che ci sia qualcuno di Cornuda. Non ne trovo, ma
quello che sento raccontare sembra uscito dalla mente di un
pazzo. Non riesco a credere che sia vero.
Per la prima volta sento parlare della tragedia del Corpo
d'Armata Alpino, di due settimane nella neve, nella tormenta,
senza cibo, dormendo dove potevano e spesso all'aperto,
camminando senza sosta, combattendo ogni giorno per sfondare e
superare i continui sbarramenti che forti colonne motorizzate
russe riuscivano a frapporre sulla loro strada.
Per la prima volta sento parlare di Postojaly; e Sceljakino dove
quanto rimaneva della "Julia" dovette soccombere, di
Varvarovka e di Valujki dove anche i resti della
"Cuneense" e della "Vicenza" furono fatti
prigionieri, e di Nikolajevka dove il sacrificio e il coraggio
degli ultimi reparti efficienti della "Tridentina" e
una massa disperata di 20-25.000 straccioni "sbandatí"
e quasi morti di fame e di freddo che li seguivano riuscirono,
con la forza della disperazione, a rompere l'ultimo
accerchiamento russo e ad aprirsi un varco verso la salvezza.
Ho sentito parlare di migliaia e migliaia di soldati che non ce
l'hanno fatta, morti combattendo, morti di inedia e di fame,
morti assiderati ai bordi delle piste dove si fermavano "per
riposare un po'".
A Gomel il centro di raccolta è posto in angolo fra il campo
d'aviazione tedesco e lo scalo merci e tutte le notti i russi
vengono a bombardare. Per fortuna ci spostano dopo pochi giorni e
veniamo smistati in zone diverse per la riorganizzazione.
Noi della "Cosseria" partiamo in treno per una
località a un centinalo di chilometri verso nord-est. La zona è
molto bella, con piccoli paesi ai bordi di grandi foreste di
bianche betulle: dicono però che sia piena di partigiani e che i
tedeschi ne subiscano spesso gli attacchi improvvisi. Tutti i
loro comandi e le stazioni ferroviarie sono sistemati a
fortilizio, con alte mura in doppia palizzata di tronchi riempita
di terra, feritole e torrette di vedetta. Ne rimaniamo molto
impressionati e temiamo per noi una permanenza poco tranquilla ma
invece, per tutto il tempo che sono rimasto nella zona, non è
mai capitato niente.
Del viaggio da Dniepropetrovsk fin quassù mi rimangono solo due
ricordi particolari.
Una sera, arrivati sul tardi in una stazione, chiediamo
ospitalità in una casetta vicina posta al margine della linea
ferroviaria. Bussiamo ma ci risponde "niet" una voce
spaventata di donna. Da una finestra vediamo una cucina dove ci
sono due donne e quattro bambini. Battiamo sui vetri, chiediamo
che ci aprano ma fanno solo grandi cenni di diniego.
Insistiamo e bussiamo forte alla porta anche con dei calci: è
notte, abbiamo paura di non trovare chi ci accolga data l'ora
tarda e, soprattutto, non ci fidiamo a girare di notte in un
paese sconosciuto. Finalmente una delle donne, con un bambino in
braccio, ci viene ad aprire; dentro, l'altra donna e tre bambini
ci guardano con occhi pieni di paura.
"Noi italianski, noi karashó" diciamo e per fortuna in
breve la loro paura e anche il nostro senso di vergogna sono
svaniti. La sera finisce con tutti intorno alla tavola davanti a
una buona minestra di miglio, con i bambini che mangiano le
nostre razioni di marmellata, le donne che ci fanno vedere le
foto dei loro uomini al fronte e noi che mostriamo quelle dei
nostri cari.
Un'altra sera in un'isba troviamo solo un vecchio, la casa è in
cattive condizioni. Il pavimento di legno è pieno di fessure
dalle quali entrano spifferi di freddo, una piccola cucina
economica non è sufficiente per riscaldare tutto l'ambiente e
legna ne vediamo poca. Siamo capitati male ma poteva andare anche
peggio. Come al solito mettiamo sulla tavola i nostri viveri
tedeschi, carne in scatola, margarina e pane bianco. La carne in
scatola noi l'abbiamo sempre mangiata spalmata sul pane e
assomiglia a un insaccato o a un macinato di carne e grasso. Ma
questa sera Borsa dice che vuole offrire a quel poveraccio una
buona bistecca e così si fa dare una padella, prepara col
macinato quattro svizzere e con della margarina mette tutto in
padella.
Dopo un po' comincia a friggere ma friggi, friggi e friggi, le
bistecche diventano sempre più piccole finché nella padella non
rimane niente di niente: si è sciolto tutto. Per fortuna abbiamo
un'altra scatoletta di carne, il vecchio mangia con noi ma ogni
tanto guarda con occhio incredulo la padella dove è rimasto solo
un po' di unto.
Nella zona di riorganizzazione io sono alloggiato in un'isba dove
di giorno, con il sergente Vio e il ritrovato tenente Canessa,
cerchiamo di ricostruire i ruolini della nostra compagnia. Io di
notte ci dormo, nell'isba, perché devo badare alle carte. La
famiglia che vi abita è composta dai genitori sui cinquanta
anni, da due ragazze sui venti e da un giovane sui quindici anni:
sono molto ospitali e spesso la sera mi offrono della vodka che
pescano, con un bicchiere di rame, da un grande secchio. Come ho
detto, partigiani non se ne vedono, a meno che non lo siano quei
giovanotti che qualche sera vengono a trovare le ragazze e che
sono tanto gentili anche con me. Uno di loro porta sempre una
piccola fisarmonica, un bandonion, e qualche volta fanno anche
quattro salti.
Le giornate passano così tranquille, in attesa del rimpatrio.
sommario
indietro
avanti