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LA VOCE DEGLI ALTRI

Un'altra persona ha seguito e ricordato con noi questo pellegrinaggio. 
Rammento che il nostro è stato il primo gruppo, giunto in rappresentanza di una Associazione Reduci e Familiari di Caduti e Dispersi in Russia che è stato invitato a un incontro ufficiale con il Sindaco di Rossosh e il Comitato dei Veterani di guerra Russi. 
La nostra presenza, l'ufficialità di questo avvenimento e la successiva e suggestiva cerimonia sulla riva del Don, hanno destato l'attenzione del corrispondente per Rossosh del giornale "KOMMUNA" il quale ha riportato, in un articolo del 13 dicembre 1989, assieme alla cronaca della cerimonia, le brevi interviste fatte ad alcuni di noi, i ricordi suoi personali e anche quelli di un giovane russo arrivato nel bel mezzo della commemorazione, su una rombante motocicletta a colpi di acceleratore che ci avevano un po' disturbato. 
Riporto l'articolo perché mi sembra che anche quel giornalista abbia vissuto con noi, quel giorno, lo spirito e i sentimenti che ci avevano spinto a ritornare sulle sponde del Don. 
Nell'articolo alcune cose sono inesatte e alcuni nomi sono errati a causa della difficoltà di farci capire in russo, ma ho corretto solo i nomi: per il resto ho preferito riportare la traduzione letterale perché comunque si tratta di inesattezze che non modificano la realtà e la sostanza dei fatti. 

PIANGE LA MADRE IN ITALIA...

... Lontani - Vicini


dal giornale sovietico "KOMMUNA" del 13 dicembre 1989 
 (traduzione del dott. Pier Francesco Munari). 

I turisti italiani sono diventati degli ospiti d'onore a Rossosh. 
"Non sono pochi quelli di noi che vorrebbero visitare il vostro paese" dice il rappresentante della Società Rondine Viaggi che ha organizzato uno di questi viaggi da una piccola cittadina italiana, Alba. A formare il gruppo dei turisti ci sono imprenditori, quelli che noi chiamiamo capitalisti, ci sono operai e contadini, uomini e donne, giovani e pensionati. Tutti loro sono legati, in questo viaggio attraverso Kiev, Charkov e Rossosh, dai tragici avvenirnenti della seconda guerra mondiale, quando nell'ansa del Don ai soldati sovietici si opponevano, nelle trincee innevate, gli italiani. 
Poco tempo fa, nella sede del Comitato Esecutivo del Soviet Urbano è avvenuto un incontro fra Veterani di guerra, russi e ucraini da una parte e italiani dall'altra. Così è loro scappato di dire: "da giovani ci guardavamo l'un l'altro attraverso il mirino". 
Difendeva la sua terra natale Vladimir Kraznoruzkij, figlio di contadini. "Non sono capitato al fronte per precettazione. Non avevo l'età di leva. Ero forte a vedersi, aveva detto il Commissario Politico. Mi misero nella ricognizione e così ho fatto tutta la guerra nell'avanscoperta". 
Nelle colline del Don, di fronte a lui, stava con il fucile in mano Luigi Scarpel. Figlio di lavoratori, di Treviso. Il giovane italiano era stato mandato quaggiù assieme ad altri 230 mila suoi conterranei per conquistare una terra straniera. Assieme a Luigi vi erano anche dei volontari. Ma il risveglio, dopo i focosi discorsi del grande duce Mussolini, era già arrivato, già nelle lunghe marce attraverso gli spazi ucraini occupati dai fascisti. 
"Noi sapevamo di andare incontro alla rovina. Noi ricordavamo come era finito Napoleone e sapevamo che ci aspettava la stessa sorte". 
La resistenza nell'ansa del Don non durò a lungo. 
"In ottobre e in novembre sentivamo di notte, al di là del fiume, un gran rumore di motori - ricorda Scarpel - e ci dicevamo: i russi stanno radunando un'armata. Tutto cominciò il 12 dicembre, bombardamenti aerei, fuoco d'artiglieria, bombe di mortaio, Katiushe". 
Luigi si copre strettamente le orecchie con le mani, tira giù la testa fra le spalle, dondola incurvandosi. Proprio ora in questo minuto, 48 anni fa, l'artigliere russo sta scaricando su di lui, fante, un diluvio di fuoco. 
Di acqua nel Don da quei tempi ne è passata molta ma l'italiano, siamo con lui sulla Mirovaja e a Nova Kalitva, con meraviglia e anche con piacere riconosce i luoghi impressigli nella memoria per tutta la vita. Da laggiù, da allora, riappaiono e vengono ricordate delle parole russe, di difficile pronuncia per lo straniero. 
"Laggiù, a 5 chilometri, il podere Kosharnij, c'era la mia trincea: là, oltre il Don, c'è Gorokovka". 
Luigi ricorda date e luoghi: "Tikaj 16 dicembre, Ivanovka 17 dicembre, Taly, Kantemirovka, i carri russi". 
Luigi conta sulle dita le perdite del battaglione. Solo pochi dei suoi compagni riuscirono ad arrivare a Voroscilovgrad.  

"Sul fronte russo"   Ottavio Pes teneva la difesa un po' più a nord presso il villaggio in collina di Saprino. Anche lui ricorda la ritirata. Con i piedi gelati dovette buttar via gli scarponi, calzature degli alpini con suole rigide e chiodate. Con i piedi tumefatti si trascinò nella neve per una settimana, di villaggio in villaggio, verso occidente. Quando le forze lo lasciarono cadde, ma il suo compagno gli piantò la canna della pistola alla tempia e lo costrinse ad andare avanti. La guerra per Ottavio fini all'ospedale militare di Belgorod. "Qui sono sano - si accarezza con il palmo delle mani attorno alla vita solo i piedi sono malati". 


Giuseppe Sist era un conducente: si prendeva cura dei muli. Questi animali, senza protestare, portavano verso il fronte gli equipaggiamenti delle divisioni alpine. Giuseppe, sono sue le parole, non prese parte ai combattimenti. Era acquartierato nel villaggio di Drozdovo. Gli sarebbe piaciuto visitarlo ma era fuori dell'itinerario turistico. Ricorda bene gli abitanti del luogo. "Essi sicuramente mi ricordano, dite di Giuseppe, per i russi Pjotr" e racconta come si dividevano amichevolmente un pezzo di pane in quei periodi di fame. "Dite che Giuseppe li saluta. Grazie". 

"Sappiamo che siamo arrivati a casa vostra come ospiti non invitati, come nemici. Il destino ci ha aperto gli occhi, ci ha castigati" dice un altro Giuseppe. Una figura scarna, stranamente agile per un uomo anziano, il discorso secco e intermittente, la voce impostata al comando, tradiscono in lui il soldato di carriera. Sì, Giuseppe Bortoluzzi, colonnello della riserva, guida l'Associazione dei Veterani di fanteria alpina. Egli ha portato ai veterani di Rossosh un quadro su cui è rappresentato il Memoriale a ricordo delle vittime della campagna orientale. "Non dimenticheremo mai la generosità dei vostri conterranei, nei nostri confronti di ospiti non invitati - dice Bortoluzzi - per questo il posto d'onore nel Memoriale è dedicato alla donna russa la quale, nel momento più difficile riuscì a trattenere il suo sdegno e si gettò in aiuto non del nemico, ma di esseri umani votati alla rovina da una guerra maledetta. 
Anche noi chiamiamo maledetta quella guerra. Io non l'ho vista, sono nato dopo. Ma ho sentito parlare molto dei fascisti, tedeschi o italiani, rumeni o finlandesi, ungheresi. Non tutti sono arrivati nelle vicinanze del mio piccolo villaggio dalla terra nera. Non pochi dolori furono causati dagli occupanti. Ma ecco, mia madre degli italiani racconta sempre bene, ecco, non sono cattivi. Per la verità mio fratello maggiore ce l'aveva con loro, un attendente di un ufficiale gli aveva portato via la sua unica gioia, un gattino rosso. E la mamma invece gli ricordava sempre quell'autista che faceva sedere Aljoscia in cabina e gli prometteva di portarlo fino in Italia. 
Nel tremendo sfacelo del dopo guerra, abbiamo fatto sonni tranquilli sotto una calda e pungente coperta di lana, preda di guerra, tessuta da mani italiane. Ma ricordo anche quanti del villaggio sono saltati in aria, giovani o vecchi, a causa delle bombe a mano italiane (era un gioco per noi dissotterrarle gentilmente facendo loro scorrere attorno dei rivoli d'acqua).(*) 

(*) Le bombe a mano italiane erano a percussione non a tempo. Scoppiavano perciò per il colpo dovuto all’impatto contro il terreno o l'ostacolo. Ma se cadevano sulla neve, che taceva da ammortizzatore, non scoppiavano. Era pericoloso toccarle, dopo. 

"Fin da giovane io sono stato uno calmo di carattere, da piccolo non mi accapigliavo mai - dice Vladimir Kraznoruzkij - ma la guerra mi ha costretto alla più terribile delle professioni, uccidere la gente. 
Il mio primo incontro con un italiano vivo è avvenuto a Stalingrado. L'avevano preso prigioniero durante una incursione notturna. Mia stessa età e nome Mario. Mezzo morto nel suo povero pastrano, le gambe parevano manici di paglia intrecciata. Gli diedero da mangiare, rinacque. Capiva un po' di russo. Lo aggregarono alla cucina e seguiva l'interprete. Gli chiedevi: "Mario, come finire presto la guerra?" "Hitler, Mussolini Stalin in una fossa, una bomba e bum!" 
Tutti ridevano, ma sarebbe stato meglio incontrarsi con Mario come amici, darsi la mano, come adesso. 

Mentre la collaboratrice dell'Inturist, la leningradese Natascia Rykova traduceva gli interventi da una lingua all'altra, nella sala del Comitato Esecutivo del Soviet Urbano scoppiavano gli applausi degli italiani. Ci furono anche lacrime. 
"A Nova Kalirtva sono caduti mio marito e mio fratello" dice Mirka Venzon. 

"Laggiù non ci sei mai stato 
ma come sparso nei campi di neve  
l'azzurro cielo italiano 
si riflette nei tuoi occhi morenti...". 

La compagna della signora, una donna giovane ma ammalata, zoppica, ha la gamba strettamente fasciata. Sono difficili per lei questi trasferimenti a piedi per i pendii del Don. 
"Papà giace nella vostra terra, mamma piangeva sempre: in punto di morte mi ha fatto promettere di venire quaggiù sul Don per ricordarlo". 

Hanno poi commemorato i Caduti su una balza del Don, in una radura. Hanno issato la bandiera della loro repubblica, quella che rovesciò l'ordine fascista. 
Il colonnello Bortoluzzi ha pronunciato parole di ringraziamento al governo sovietico e ha espresso la speranza che i poteri locali gli permettano di porre un segno di ricordo alle vittime del fascismo, ai soldati italiani caduti su questa terra. 
Il sacerdote ha ricordato nel sermone che un uomo è vivo fintanto che è vivo il suo ricordo. 
Sulla riva del fiume si sono mescolati agli abitanti del villaggio. Un ragazzo fissava in viso i nuovi venuti, in silenzio, per non disturbare il sermone. Hanno poi fatto conoscenza: "Ecco, io sono al mondo non senza l'aiuto di un medico italiano. Mio padre, ancora ragazzo, non lontano da qui, a Golubaja Krinza fu investito da un autocarro tedesco. Sangue dappertutto. Nonna pensava che non sarebbe sopravvissuto. Ma un italiano lo ha curato, ce l'ha fatta". 
Con una cassetta magnetica viene revocata una tromba militare. Suona una malinconica melodia militare serale italiana, canto d'addio per Coloro per i quali è già arrivato il Riposo Eterno. 
Il soldato russo Ivan Devjatko e l'italiano Luigi De Pasqual, che forse una volta si erano scrutati attraverso il mirino del fucile, da una barca da pesca hanno gettato nel Don una corona. Galleggiava allargandosi nella corrente in un lungo nastro. 
Il colonnello Bortoluzzi, portando la mano alla visiera gridò qualcosa nella sua lingua. Mi chinai verso l'interprete Natascia, lei capì e mi disse: "Eterno ricordo ai Combattenti russi e italiani".


P.  Cialyj 
corrispondente da Rossosh 
di "Kommuna" 



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