Alcune immagini:
Nova Kalitva. Vista sulla piana del Don
dal "Caposaldo Pisello" mentre lo sguardo spazia
verso Nova Melniza e Bortoluzzi indica l'ultima linea di
caposaldi della Divisione "Cosseria"
La cerimonia, sulla sponda del Don,
a ricordo di tutti i Fratelli Caduti e Dispersi.
Nova Kalitva. Veterani di Guerra
sovietici e nostri Reduci di Russia rendono omaggio ai Caduti dopo
aver lanciato una corona sulle acque del Don.
7 ottobre 1989.
Mi sveglio presto. Potrei dormire ancora un paio
di ore ma non ci riesco. Oggi è la giornata. Così mi metto a
scrivere. Ho accettato di buon grado di tenere un diario di
questo viaggio per conto dell'Associazione Reduci di Russia di
Belluno, di cui è Presidente l'amico Bortoluzzi.
Rivedo gli appunti che ho preso nei giorni scorsi
da quando siamo partiti assonnati da Belluno li riordino e li
completo.
Alle 9.45, in una sala del Municipio di Rossosh,
ci ricevono il Sindaco e una delegazione di veterani di guerra
russi con a capo il loro presidente. Sono in sei, con i risvolti
delle giacche carichi di nastrini e di medaglie, che ci guardano
impassibili e muti, il primo approccio è piuttosto formale con
le parole di benvenuto e l'augurio di pace del Sindaco e del
presidente dei veterani. Risponde il nostro presidente con
l'offerta ai veterani della riproduzione del Memoriale in bronzo
che ricorda, nella Chiesa di Belluno dedicata ai Caduti in
guerra, la tragedia della nostra ritirata di Russia. Parlano
quindi vari membri della delegazione dei veterani: ciascuno
ricorda vicende della sua personale partecipazione alla guerra
per liberare la loro terra dagli invasori (e fra questi eravamo
anche noi). Tutto scorre sui binari della cortesia e della
cordialità ma l'atmosfera dell'incontro è piuttosto fredda.
Si alza per ultimo a parlare un medico. Era poco
più di un ragazzo a quei tempi ma i suoi ricordi sono ancora
vivi; forse perché meno coinvolto data la giovane età ha potuto
conoscere e capire meglio la realtà della nostra presenza in
terra di Russia. Parla e ricorda i nomi di alcuni ufficiali
medici e di soldati del nostro ospedale da campo di Rossosh, ma
ricorda solo i nomi come si ricordano più facilmente i nomi che
non i cognomi degli amici più cari.
Ricordando alcuni episodi vissuti, ricordando la
generosità e la bontà d'animo degli italiani, la loro
comprensione e l'assistenza data alle donne, ai bambini, agli
anziani che non avevano voluto o potuto abbandonare la loro
città invasa, la voce gli trema un po' e gli occhi gli si
arrossano. Parla degli alpini arrivati dopo i tedeschi, dice
esplicitamente che, dopo i primi momenti di naturale diffidenza,
avevano capito quanto diversi fossero dai tedeschi, per animo e
per comportamento, quei soldati che avevano in testa uno strano
cappello con una penna di gallina.
Dice che il familiarizzare era stato spontaneo e
reciproco con quei soldati che non dicevano mai di no a richieste
di aiuto o di assistenza e ricorda che rimanevano imbarazzati
solo quando gli si rivolgeva una particolare domanda: "Cosa
siete venuti a fare qui in Russia?".
È la domanda che ci siamo spesso chiesti anche
noi, caro dottore, ma la risposta va ricercata nella mente di
coloro che con tanta faciloneria hanno detto che si poteva fare e
che con altrettanta faciloneria ci hanno abbandonato al nostro
destino.
La cerimonia finisce in un clima molto caloroso di
abbracci e di saluti. Allora abbiamo lasciato, sconfitti e
umiliati, una terra che ci respingeva come nemici e ora ci sembra
di ritrovare degli amici. La mia commozione è grande. Abbraccio
tutti, in particolare il medico:
in fondo ci ha detto che avevano già da allora
capito che eravamo stati mandati a invadere la loro terra ma che
non c'era odio nei nostri cuori, Questo ci fa sentire meno
lontani, meno estranei.
Il sindaco e un ex colonnello carrista posano
sorridendo per una foto con in testa un cappello con quella
strana penna di gallina.
Prima di pranzo c'è il tempo per un giro in
pullman della cittadina. Qualcuno della comitiva riconosce
l'edificio dove era sistemato il Comando del Corpo d'Armata
Alpino, ci sono alcuni palazzi recenti, una vecchia chiesa
ridipinta da poco e il mercato.
Lo visitiamo: nei negozi le vendite sono fatte con
prezzi imposti ma manca quasi tutto: davanti ai
"gastronom" c'è la coda: dentro, gli scaffali sono
quasi vuoti e alcuni viveri di prima necessità sono tesserati.
Fuori, sulle bancarelle, c'è più abbondanza specie di ortaggi,
frutta, polli e conigli: è un mercato libero dove tutti possono
mettere in vendita quello che producono, i prezzi però sono
molto più alti e sicuramente non alla portata di tutti.
Prima di ripartire verso l'albergo dobbiamo
aspettare nel pullman perché manca ancora una donna della
comitiva. È una vedova di guerra. La vediamo avviarsi verso un
prato, dietro a un monumento:
c'era un cimitero di guerra degli alpini in quel
prato; ora non c'è un segno, non c'è una croce, non c'è niente
che lo ricordi ma il prof. Morosov ci assicura che i nostri
alpini sono ancora sepolti là. La donna, con un mazzo di fiori
in mano, cammina un po su quel prato quasi a cercare
qualcuno, esita, si sposta, si guarda intorno, poi si inginocchia
e depone con delicatezza i fiori sull'erba ormai ingiallita
dall'autunno.
Come si fa a non piangere? Non temere, non
esitare sposa, il tuo alpino, dovunque sia, ha certamente sentito
il tuo gesto d'amore e finalmente riposerà in pace.
Si parte presto, nel pomeriggio.
Nel pullman ascolto il prof. Morosov che parla dei
molti morti trovati nei campi e ai lati delle piste dopo il
disgelo nella primavera del 1943 e di come siano stati sepolti
nei luoghi stessi del loro ritrovamento in grandi fosse comuni
che nessuno ormai sa dove sono.
Ascolto ma la mia mente è assente. Gli occhi sono
sempre al dì là dell'ultimo dosso della strada che porta verso
Nova Kalitva. Finalmente, dall'alto di un colle i prati digradano
dolcemente: davanti a noi, nella piana, i tetti di Nova Kalitva
riparano le case dal vento che scuote i rami degli alberi e più
in là, sulla sinistra, in ampi meandri in parte nascosti dalla
vegetazione, azzurro e calmo, scorre il Don.
Non conosco questo luogo, non l'ho mai visto ma so
che il posto dove c'era il mio caposaldo, dove sono stato
rintanato col freddo e con i compagni, vivi e morti, è là
davanti a me, oltre quella curva del fiume, oltre il lungo
crinale di quella altura che mi chiude l'orizzonte.
Poi Bortoluzzi mi mostra, alto sul paese, verso la
nostra destra un colle che domina la vasta pianura sottostante e
sul quale svetta un monumento: "Quello - mi dice - è il
caposaldo «Pisello»". Forse l'emozione del momento, il
rivedere un posto già noto, gli fa dimenticare che sono
trascorsi 47 anni. Lì, c'era una volta, caro Beppino, il
caposaldo Pisello.
Il pullman si ferma proprio ai piedi di quel colle
che ora si chiama "Monte della Pacificazione" e sulla
cui cima i russi hanno eretto un monumento ai Caduti. Ci viene
incontro una signora, che evidentemente ci aspettava, e che ci
racconta un episodio di umana solidarietà di cui lei, allora
bambina di due anni, fu la beneficiaria. Era gravemente ammalata
e senza l'aiuto di un nostro ufficiale medico che la curò
amorevolmente fino alla guarigione, sarebbe certamente morta.
Adesso quella signora è Segretario politico del P.C.U.S. di Nova
Kalitva.
Saliamo sulla cima del colle dove lunghe liste di
nomi testimoniano il contributo di sangue che i russi hanno
pagato per liberare questa zona. Non mi sento estraneo in questo
luogo. Non credo di aver mai odiato i russi, non li ho mai
considerati nemici nemmeno quando sparavo per tentare di tenerli
lontani, sparavo per salvarmi, non per uccidere. E dal profondo
del cuore elevo a Dio una prece anche per loro, fratelli nel
dolore e nel sacrificio.
Mi guardo attorno e vedo Bortoluzzi che dal colle
osserva in silenzio la pianura sottostante: chissà quali
pensieri inonderanno ora la sua mente. Mi avvicino mentre scende
pian piano il declivio verso nord e ritrova ancora camminamenti e
trincee. Sono ancora lì, semisepolti dagli smottamenti del tempo
e dall'erba dei pascoli, ma si vedono chiaramente. Mi guarda e me
li mostra poi mi indica la curva del fiume e il lungo crinale
verso est con il ciglio che sovrasta la scarpata che discende sul
Don: "Lì
dietro - mi dice - c'era il nostro
caposaldo".
L'avevo già intuito. Vorrei andarci ma capisco
che non è possibile. La distanza da Nova Kalitva non supera il
chilometro e mezzo, la potrei fare a piedi, ma devo seguire la
comitiva: me ne dispiace ma non più di tanto, già appagato dal
trovarmi qui.
Scendiamo verso il fiume. Non si smentisce il
"Placido Don", che scorre calmo e azzurro in mezzo al
verde autunnale di questa steppa.
Era ben più largo ai primi di agosto del '42
quando l'ho visto quella prima notte, o forse era la luna che
dilatava gli spazi, o forse il pensiero o il sonno: ma ricordo
che anche allora, nell'autunno, il suo alveo si era ridotto di
molto e dicevano che di notte i pattuglioni russi lo traversavano
a guado.
Lo guardo alla ricerca delle sensazioni di un
tempo ma ora mi tornano in mente solo i fatti: le pattuglie di
notte lungo il suo corso, il silenzio rotto solo dal tonfo di
quei grossi pesci che ricadevano in acqua. E poi l'inverno e il
Don che era diventato una lunga pista bianca e ghiacciata che
congiungeva le due sponde e che ci preoccupava.
Su uno spiazzo ci raduniamo attorno al nostro Tricolore, il presidente Bortoluzzi ci invita al raccoglimento e
le sue parole riaprono dolori e ricordi negli animi di tutti.
Siamo venuti qui per questo momento, credevamo di esservi
preparati dopo tanti giorni di viaggio, ma ora che ci siamo il
turbamento, le memorie, gli affetti che pensavamo ormai sopiti e
che invece ritroviamo intatti, ci commuovono: molti piangono e
anch'io non mi so trattenere; anche la voce di Beppino si incrina
più volte mentre saluta gli Amici perduti.
Don Egidio Dal Magro, un sacerdote che ha voluto
essere con noi in questo pellegrinaggio, recita una prece in
suffragio di tutti i Caduti e Dispersi in Russia e domanda a Dio
pace per Loro e conforto per i parenti che qui sono convenuti.
Poi, mentre sull'Attenti salutiamo tutti i
soldati, italiani e russi, che su queste sponde insanguinate
hanno lasciato la giovinezza e la vita, le note solenni del
"Silenzio" si elevano nell'aria e il vento le porta
lontano nella steppa e lungo i meandri del placido Don.
Dal greto del fiume un Veterano russo e un
Reduce italiano lanciano in acqua una
corona di alloro che abbiamo portato con noi dall'Italia.
E tanti mazzi di fiori vanno ad accompagnare
quella corona nel suo lungo viaggio. Anch'io abbandono su quelle
acque dei fiori a ricordo di un Amico che non ho mai conosciuto.
Cammino lungo il greto del Don in cerca di
ricordi. Mi fermo e guardo al di là del fiume quella sponda che
non abbiamo mai raggiunto ma che non era mai stata una meta: mi
sembra di sentire ancora quel rumore sordo e continuo che saliva
dal bosco di Gorokovka e che riempiva l'aria e lo spazio delle
nostre notti d'autunno.
Raccolgo un sasso: è gesso, quel gesso nel quale
ho scavato anch'io tanti camminamenti, tanti buchi per vedette.
Seguo con lo sguardo il lento cammino della corona
e dei fiori che dondolano mollemente su quest'acqua appena
increspata, guardo di fronte a me, laggiù, lo sperone di terra
oltre il quale, con un'ampia curva, il Don sparisce ai miei
occhi.
Oltre quello sperone c'era il caposaldo
"L", il mio caposaldo, e Poi l"H1" e
poi l"H"e poi il "G" e po
l"Effe" e poi... e poi... quanti altri capisaldi,
quanti altri morti, quante altre tragedie al di qua e al di là
di questo fiume pur così bello...
La corona e i fiori
continuano il loro lento andare e
salutano per noi i poggi e i canaloni e i boschi e i declivi... e
i Morti...
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