La feconda "ambiguita" di un pensiero aperto Fausto Bertinotti |
Liberazione 28 aprile 1998
Il 27 aprile del 1937, a causa del duro regime carcerario a cui lo costrinse il fascismo, moriva a Roma Antonio Gramsci. A sessantuno anni dalla scomparsa del pensatore comunista pubblichiamo ampi stralci della relazione che il segretario di Rifondazione Fausto Bertinotti ha tenuto al convegno organizzato dal Prc, "Gramsci e la rivoluzione in occidente", che si è svolto a Torino dal 4 al 6 dicembre 1997. Gli atti di quell'incontro verranno presto pubblicati, a cura di Alberto Burgio e Antonio A. Santucci, dagli Editori Riuniti. |
Sento l'utilità anche politica, oltre che culturale,
di riflettere oggi su Gramsci. (...) L'operazione è
stimolante e difficile insieme, perché Gramsci è
davvero un pensatore difficile, cioè non si presta, ad
una interpretazione semplice e semplificante e forse la
chiave della sua difficoltà va ulteriormente indagata. Io propongo una lettura, probabilmente parzialissima, questa stessa suscettibile di essere buttata, ma che a me sembra invece molto pertinente nel parlare di questa difficoltà. Gramsci è un pensatore, un dirigente del movimento operaio, del movimento comunista, quindi è un pensatore di parte, partigiano, decisamente partigiano, tutto interno, diciamo, alla costruzione teorica marxiana e però prossimo, contiguo, spintosi sempre nei territori limite dell'organizzazione dell'avversario, dell'avversario sociale e politico, pensatore, diciamo, di parte ed esploratore di terreni che per essere così prossimi all'avversario sono proprio scivolosi. Adesso veniva ricordata l'organizzazione della produzione e il produttore, la modernità e la modernizzazione, insomma, un terreno su cui l'egemonia, per usare una categoria forte gramsciana, è dell'avversario di classe e di cui ci si propone però - mi pare che questo Gramsci si proponga - di cogliere la verità interna. (...) È questo approccio, secondo me, che lo rende un pensatore difficile: l'essere decisamente partigiano, pensatore della rivoluzione e, insieme, esploratore dei terreni della razionalizzazione e della modernizzazione, cioè delle categorie antinomiche rispetto a quelle della rivoluzione. Perché difficile? Difficile perché per noi che ne vogliamo cogliere un'eredità (poi vediamo quale eredità e se ne siamo capaci) il rischio dello spaesamento di fronte a questa ricerca è molto forte e duplice: è il rischio di scivolare, sulla base della temperie dei tempi, nella dimensione apologetica, cioè di passare dalla capacità di cogliere la verità interna all'essere prigionieri della falsità dell'operazione ideologica dell'avversario; ed è il rischio, per rimanerne fuori, di essere partigiani di una battaglia opposta e oppositiva, ma inerte. Mi riferisco al terreno della fabbrica che è quello che mi è più congeniale. Io continuo a pensare che c'è anche nell'elaborazione di Americanismo e fordismo unambiguità. Naturalmente è lucida la consapevolezza della miseria della mia esperienza personale, politica e culturale, rispetto alla costruzione gramsciana, non è che adesso ci mettiamo a dare i voti. Ma, con questa avvertenza metodologica, prendendoci una libertà culturale, di cui pure sappiamo la sproporzione, io sento che lì c'è un'ambiguità. Lo assumo come elemento generale perché sento che la risposta a quella ambiguità, tuttavia, è molto difficile da darsi. Perché se si sceglie il lato dell'ambiguità, che secondo me è fortemente compreso nella interpretazione delle macchine e della fabbrica da parte di Gramsci, è molto forte il rischio di essere in qualche misura accompagnatori adattativi del processo di modernizzazione. Ma, d'altra parte, se ci si limita semplicemente alla critica esterna a questi processi, si rischia di non poter attivare i movimenti di lotta di quei soggetti che sono compresi in quell'elemento di dominio, di egemonia, ma anche di contrasto. In ragione anche di interessi immediati, oltre che di brandelli di comprensione dell'operazione generale di dominio che l'avversario costruisce. Questa è, mi pare, la difficoltà di oggi, ed è una difficoltà connessa anche alla lettura, all'interpretazione. Io penso che per potere proporci l'operazione dell'eredità, noi dobbiamo riflettere sull'interezza della figura del pensatore, del rivoluzionario Gramsci e provare a comprenderlo, però, dal punto di vista in cui siamo collocati oggi, nella lotta politico-sociale. Oggi come? E dove? Viviamo in un'epoca caratterizzata dal dispiegarsi di una nuova fase dello sviluppo capitalistico (e su tutti questi elementi, naturalmente, è aperta la discussione: "nuova", "fase", "sviluppo capitalistico": su ognuno preso a se e su tutti insieme è necessaria una riflessione). Io penso, tuttavia, che lo sviluppo capitalistico entra, rispetto a quello precedente, in una condizione che lo connota diversamente; e, dall'altra parte, che si apre una fase della lotta per il superamento della società capitalistica che, oltre che trasmettere un'eredità, chiede una soluzione di continuità rispetto alla storia del secolo che abbiamo alle spalle. Anche questa seconda, anzi a maggior ragione, questa seconda definizione chiederebbe un approfondimento su ognuno e sull'insieme di questi elementi, ma anche qui penso che sia un buon punto di partenza. Se queste due formulazioni sono vere, la cosa che è assolutamente inutile e sbagliato fare è leggere Gramsci come un classico. Se non sono vere, allora sì, allora Gramsci è un classico. Si legge, si interpreta, ci si chiede cosa è per lui il mondo, come con un qualsiasi classico. Il punto è difatti che la scena cambia nel senso opposto a quello atteso da tutti i nuovismi; cambia perché ridefinisce le coordinate dello sfruttamento e dell'alienazione capitalistica del mondo e quindi propone alle forze anticapitaliste la ricostruzione di una strategia della trasformazione e la ridefinizione delle forze capaci di compiere questa impresa. Se questo è vero, allora Gramsci va letto diversamente. Non come un classico, ma come un pensatore che ha ancora delle cose da dire rispetto a questo processo di costruzione. Ci si propone, cioè il problema di un'eredità. Penso che il mutamento di scena sia rilevantissimo e questo è il secondo problema. Si tratta di applicare un'eredità difficile da decifrare in una situazione profondamente modificata. Profondamente, non completamente poiché, in realtà, resta di quella precedente l'essenziale, cioè l'essere una formazione economico-sociale capitalistica. Questo elemento che, anzi, subisce una dilatazione rispetto al ciclo precedente, si esprime per parte propria nelle forme di un processo di modernizzazione che siamo soliti definire globalizzazione, e sullo sfondo di un mutamento di scena - il crollo dei regimi dell'Est - su cui abbiamo sentito anche qui cose importanti questo pomeriggio. Del primo elemento, la globalizzazione capitalistica, io credo vada colto un elemento di diversità rispetto al ciclo precedente. Ed è un punto drammatico. Pur in mezzo a tragedie immani che non possono essere messe tra parentesi, (...) nella sua fase matura (segnata dalla duplice operazione politica, sociale, culturale della sconfitta del nazifascismo e della costruzione, sulla base di questa sconfitta, dei paesi che si definiscono socialisti) lo sviluppo fordista-taylorista-keynesiano prende un abbrivio che, in relazione alle lotte di classe, alle lotte democratiche, alla crescita della democrazia allargata, contiene anche un'ipotesi progressiva che viene dispiegata precisamente dalla lotta di classe. L'Europa che sta di fronte a noi, per quanto massacrata dalle politiche liberiste, porta i segni di questo processo di evoluzione. La mia opinione è che diversamente da quella ultima fase matura, il processo di modernizzazione attualmente in atto contiene invece una tendenza regressiva dal punto di vista della civiltà. Proprio per come si propone nella assolutizzazione della competitività delle merci e di ogni cosa e persona e natura ridotta a merce. Questa tendenza contiene dentro di sé una vocazione distruttiva, produce un'ipotesi di trasformazione regressiva della società. Quanto al secondo elemento - il crollo dei regimi dell'Est, fallimento che va indagato entro la sconfitta generale di questo secolo - esso in qualche modo segna una cesura nella storia della lotta di classe, anche perché il terreno nuovo della lotta di classe non può dispiegarsi con efficacia di alternativa senza fare i conti con questa sconfitta. Tanto più che la combinazione di questi elementi produce anche una mutazione delle soggettività, che a loro volta costituiscono un elemento di modificazione della scena. E questo è per l'appunto il terzo elemento che compone la scena nuova, insieme alla globalizzazione e al crollo dei regimi dell'Est. Ne derivano nuove contraddizioni in grado di segnare il nostro tempo. Secondo me, tutti quelli che hanno pensato a queste contraddizioni come prevalenti rispetto al conflitto di classe, hanno avuto una smentita clamorosa per il fatto che si è affermata su scala mondiale la più dura delle lotte di classe in questi ultimi anni per opera delle borghesie imprenditoriali che hanno fatto dell'inseguimento della forza-lavoro al più basso prezzo la direzione centrale di riorganizzazione dell'intero pianeta. Ma la questione del genere, la questione dell'ambiente, la contraddizione tra Nord e Sud entrano sulla scena come elementi che ne modificano i connotati, pure segnati, secondo me, dal perdurare e persino dall'accentuarsi del conflitto di classe. Insomma, per dirla proprio brutalmente, noi siamo di fronte, per l'insieme di questi elementi, al riaffermarsi delle ragioni che hanno visto la nascita dei marxismi, del movimento operaio, della Rivoluzione d'Ottobre, delle lotte di classe e delle riforme che si sono dispiegate. E però tutti questi elementi insieme ci propongono la raggiunta maturità di questa storia, ragion per cui il problema, per usare adesso un termine a noi caro, di una rifondazione, indispensabile per l'efficacia dell'azione politica, non è, per così dire, un lusso: no, se queste cose hanno un senso, il tema della rifondazione, di una teoria e di una pratica rivoluzionaria - per usare una formula troppo ellittica - è il problema del nostro tempo. Io penso che il problema dell'eredità di Gramsci si pone qui e perciò che se una chiave può essere proposta per la lettura unitaria di Gramsci questa parla di un pensatore della rivoluzione in Occidente, della rivoluzione in Occidente dentro una dimensione planetaria dell'analisi, ormai davvero imprescindibile. Credo che quando qualcuno di noi parla del ritorno a Marx, siccome non pensa di cancellare il secolo, pensa invece di riutilizzare le categorie critiche di Marx per rileggere anche il secolo e anche la nostra storia. Lo stesso vale anche per Gramsci. Da questo punto di vista penso che Gramsci costituisca un punto assai importante proprio per quel tratto che, non riuscendo a dare una definizione migliore, chiamo di ambiguità per il suo carattere non ortodosso e tuttavia non eclettico. Cioè di pensiero aperto alla ricerca. D'altra parte io credo sia un dovere misurarsi con l'unità di un pensiero tra le cose che trovo più fastidiose, sono le letture apologetiche di un autore, fondate su alcuni elementi del suo pensiero estratti arbitrariamente e contrapposti ad altri. Per ciò che riguarda Gramsci, anche una parte importante del dibattito del dopoguerra in Italia è stato fatto così. Pensiamo a un convegno importantissimo, quello di Cagliari del 1967, con la relazione di Bobbio. Non si è trattato della lettura di Gramsci contro Marx? Della lettura della società civile di Gramsci contro la lettura della società civile in Marx e dell'idea, sostanzialmente, di proporre, attraverso Gramsci, un pensatore situato altrove; e questo anche successivamente e pure in proposizioni di grandissimo interesse, come quella famosa, di Alessandro Pizzorno, di un Gramsci "scienziato sociale". Appunto: estrapolazione di un lato e assolutizzazione del medesimo. Per non parlare delle grottesche interpretazioni di Gramsci come pensatore della rivoluzione liberale. La rottura di queste unilateralità ci ripropone appunto il pensatore della rivoluzione, in Occidente e nel mondo. Io penso che concorra a questa unitarietà un'altra unitarietà che va da noi pensata, quella della persona Antonio Gramsci, del militante comunista, del dirigente comunista, dell'uomo in carcere, dell'uomo con quegli affetti, con quella moglie, con quei rapporti familiari, in quella temperie. La questione del vissuto, della percezione del vissuto, non è separabile dal pensatore che concepisce le categorie dell'egemonia e della società civile. Questa questione è un punto essenziale, tra l'altro, perché siamo di fronte a figure di pensatori oggi scomparse: non intellettuali che sono dirigenti di partito, perché questa, anzi, nella storia del movimento comunista e del movimento operaio, in particolare in Italia, è una costante; no, Gramsci non è questo, è un grande teorico della rivoluzione che si applica alla direzione di un partito politico rivoluzionario. Questo è il punto. Un teorico della rivoluzione che dirige un partito rivoluzionario e lo fa in una condizione in cui tutti i drammi e le tragedie precipitano in forme assolute: sia il dramma dello scontro con un avversario mortale, letteralmente mortale, come il fascismo; sia la tragedia del conflitto interno il cui punto drammatico, per Gramsci, non riguarda tanto il conflitto aperto tra i bolscevichi in se e per sé, ma il modo con cui quel conflitto viene esercitato. Questo modo Gramsci lo percepisce come distruttivo. Ricorderete la frase famosa: «distruggete la vostra causa». Come dire, una tragedia gigantesca, e io non so come noi possiamo pensare di intendere i Quaderni del carcere senza tener presente che quell'uomo, quello delle Note sullo studio della grammatica, mentre scriveva stava pensando che forse i suoi compagni di partito lo tenevano artatamente in carcere. Non so se riusciamo a percepire la sconvolgente tragedia di un dirigente rivoluzionario impegnato in una guerra contro l'avversario mortale e, al tempo stesso, indotto a pensare di essere addirittura trattenuto in quelle carceri mortali non già semplicemente dal carattere distruttivo dell'avversario, ma da una contesa interna alla propria parte, cosa che non può non rinviarlo al problema di chi sta dirigendo la causa. A quel punto, come non immaginare che questa accelerazione drammatica del tempo e della vicenda umana ponga una lente di ingrandimento su alcuni punti della sua ricerca? L'altro rischio da cui cercherei di tenermi lontano è quello della partizione di Gramsci, questa volta, invece che per sensibilità o attitudini, per periodi o tipologie d'intervento: il Gramsci dell'Ordine Nuovo, il Gramsci ordinovista, consiliare-ordinovista, un po' estremista, che si scontra con Tasca sui Consigli (scontro che non casualmente tornerà nel sindacato dei Consigli agli inizi degli anni '70 esattamente negli stessi termini, perché ancora la questione sarà se i delegati debbano essere struttura di base del sindacato oppure strutture rappresentanti dei lavoratori dialetticamente in relazione con il sindacato, soggetto prevalentemente politico, soggetto prevalentemente consiliare). Insomma da un lato il Gramsci delle furibonde tirate contro i bonzi sindacali, dall'altro il Gramsci sofferente, tragicamente sofferente, ma composto della riflessione matura dei Quaderni. E poi, ancora un terzo Gramsci; il dirigente politico del tempo dei bolscevichi del Partito comunista Italiano. Naturalmente, nella storia di ognuno, tanto più se grande, è possibile cogliere elementi di differenza. Ma lo ripeto, io credo che a noi serva assai di più cercare di capire una personalità della rivoluzione, un pensiero unitario. Dove vedere l'unità è tanto più importante, considerato il suo modo di avvicinare i fatti, la grande attenzione al particolare, allo specifico, al contingente: un'attenzione tuttavia finalizzata a costruire un sistema interpretativo generale. Del resto, questa è una prima eredità. (...) Bisogna cercare un pensiero forte, poi se non ce la si fa, peggio per tutti, ma l'unica cosa che non si può fare è cercare un elemento consolatorio nel pensiero debole. (...) Anche qui, su questo elemento della società civile in Gramsci, bisognerà, credo, tornare, perché è un punto assai importante anche per il nostro lavoro di oggi. In ogni caso, questa tensione di ricerca organica e di critica della società e, insieme, della sua evoluzione, fa di Gramsci un pensatore da cui possiamo trarre elementi importanti. In questo contesto ci son quegli elementi che io ho chiamato di ambiguità, e sul cui carattere fecondo insisto. Naturalmente se poi uno dovesse guardare a Gramsci rispetto al tempo suo, non può non vedere il carattere innovatore del suo pensiero, perché ogni volta il suo elemento di ambiguità è una correzione di un dominus che invece parlava il linguaggio dell'autoritarismo della centralizzazione o dell'imposizione dall'alto. E ogni volta lui usa invece un correttivo che parla dell'autogoverno della società civile, dell'articolazione, della rivoluzione come processo. È evidente che siamo nel tempo, è evidente e sarebbe del tutto sbagliato non pensare a Gramsci come a un pensatore che propone il Partito comunista come leva fondamentale del processo rivoluzionario. Non c'è dubbio: in questo egli è totalmente sintonico con i bolscevichi. Non c'è dubbio alcuno, e perciò, è una pura stupidaggine cercare di leggervi invece un caso, un'anomalia italiana. Gramsci fa propria la concezione del partito come guida, come direzione, come educazione dall'alto del proletariato e delle masse, la concezione secondo cui il partito è un elemento fondativo dell'idea della rivoluzione. Impossibile a farsi senza il partito pesante, il partito levatrice del processo rivoluzionario e, persino, capace di forgiare il soggetto rivoluzionario con un intervento in qualche misura autoritativo come quello pedagogico (almeno quello pedagogico). E questo è un punto cruciale, che non si può dire solo banalmente "del suo tempo". È un cardine di una concezione della rivoluzione che Gramsci assume ed elabora in piena autonomia. Non c'è nessuna incertezza sul '17; nessuna sulla necessità della conquista del potere anche attraverso la conquista del potere statuale; nessuna sulla incertezza sulla necessità, anche, della rivoluzione contro Il Capitale. Tutto ciò è per Gramsci essenziale, nulla di indotto. Non vi è qui alcuna doppiezza. Si tratta di un punto essenziale del suo pensiero. Sennonché, diversamente da altri rivoluzionari e grandi teorici del suo tempo Gramsci non attribuiva un carattere esaustivo a questa leva. Al contrario, proponeva una correzione qualitativamente significativa, nell'autogoverno del processo produttivo e del produttore, in grado egli stesso di essere portatore persino di un'eticità che non lo metteva in partenza in un ruolo subordinato, neanche rispetto al partito: perché il produttore medesimo era portatore di un sistema di valori, seppure, diciamo così, di valori definibili anche in relazione alla leva di partito. Valori che affidavano a Gramsci - grande rivoluzionario e grande teorico - un compito che altre formazioni culturali non si proponevano neppure, cioè il contributo di analisi molecolare, l'analisi particolareggiata, il caso, lo studio, insieme all'operaio, della condizione operaia. Non semplicemente, quindi, il processo dallalto, ma anche il processo dal basso. Questo elemento è un elemento forte e i due elementi insieme fanno la filosofia della prassi. Non è semplicemente una sommatoria di aspetti diversi. È irrisolta questa combinazione? Si, è irrisolta. Ma perché, è forse risolta da noi? E qualcuno l'ha risolta dopo? A me sembra che sia straordinario tenere aperta questa prospettiva, non lasciarla chiudere sul terreno dell'autorità centrale, sul terreno del partito onnicomprensivo, aprirla invece direttamente al contributo diretto della classe, delle persone e al processo delle forme di autogoverno. In questo produttore, naturalmente, c'è un elemento, forse, prometeico. (...) Anche a questo riguardo, però, sarebbe stato molto difficile, persino per un uomo di grandi letture sorelliane, come Gramsci, non attribuire una razionalità interna a una grande rivoluzione come quella che investiva il processo di lavoro e l'organizzazione capitalistica del lavoro. Difficile, forse allo stato impossibile. In ogni caso anche quell'assoluta centralità del processo di lavoro, del lavoratore, del produttore, come dire, stabilisce una relazione con due altri elementi fondativi di quella ambiguità e di quello slargamento che sono la nozione di "blocco storico" e la nozione di "egemonia". Insomma, un'idea secondo cui la realizzazione del socialismo (e anche questo a me sembra una cosa enorme) viene pensata anche come "guerra di posizione", come occupazione-organizzazione delle "casematte", come trasformazione del territorio in cui avviene la rivoluzione. Insomma, io che pure ho enormi simpatie - confesso per i giacobini, devo dire che trovo qui un elemento proprio, come dire, di correzione forte dell'impianto giacobino, forse perché Gramsci già vede l'eredità che cade su di sé, e tenta un'operazione di riallargamento ricorrendo a questo fine alla "guerra di posizione": alle "casematte", alla nozione di "egemonia". Con ciò voglio forse suggerire che la nozione di "egemonia" è contro la tesi della dittatura del proletariato? Certo che no! Il punto è che costituisce un elemento di diversità rispetto alla nozione imperante, in quel momento, di dittatura del proletariato. Non è altro, non è un'alternativa. La dittatura del proletariato rimane un pensiero dominante, salvo che Gramsci vi innesta molteplici articolazioni, i temi della "società civile", delle "casematte", della "egemonia", quindi del rapporto con la cultura, con gli intellettuali. Si potrebbe dire, per usare il termine del filosofo, con la costruzione delle causazioni ideali del processo rivoluzionario. È la rottura con leconomicismo. È il trascendimento della causa meccanica della rivoluzione in una operazione in cui, insieme all'elemento del conflitto di classe e dell'autogoverno, c'è l'elemento della costruzione della città futura, della critica alla società capitalistica, nella sua formazione e nel suo divenire. (...) Credo che proprio per questo motivo quest'uomo ha segnato tanta parte della storia del movimento operaio italiano. La nostra storia è curiosa. Gramsci è morto; non ne parla più nessuno, almeno stando alle apparenze. Senonché tutte le grandi fasi di lotta e di crescita in questo paese sono state attraversate da una riscoperta di Gramsci. Tutte. Io ricordo quella della fine degli anni '60 e anche il processo degli anni '60, perché parole come "società civile", "egemonia", "blocco storico", "classi subalterne" - le parole qui sono pietra, davvero - per quale ragione parole come queste si depositano perché l'esperienza concreta della lotta ha a che fare con quelle nozioni e con quei concetti. L'esperienza consiliare, della nascita del sindacato dei consigli, porta alla rilettura di Gramsci. Qui, a Torino, quanti giovani, in parte presenti stasera, magari un po' invecchiati, sono andati a rileggersi lo scontro tra Gramsci e Tasca, sulla base del fatto che bisognava fare i consigli? Non è forse vero che, in questa lettura e nella comprensione di quella storia, erano guidati dal fatto che stavano facendo un'esperienza che rinviava al grande dibattito teorico consiliare? Adesso, non dico "ben scavato, vecchia talpa! ". Resta che Gramsci è dentro il processo, che ha vissuto nel profondo, perché ha incontrato grandi questioni della vicenda italiana: questione meridionale, questione nazionale, autogoverno dei proletari. Le ha incontrate sulla sua strada. Il punto che adesso vorrei affrontare è se le incontra ancora e come le incontra. Ma che le abbia incontrate su questo non c'è dubbio alcuno. Perché pongo qui l'interrogativo? Perché penso che ci sarebbe bisogno oggi di qualcuno che scrivesse un nuovo Americanismo e fordismo. (...) In quelle pagine c'è un'indagine di una grande fase di costruzione di un nuovo ciclo capitalistico di sviluppo in tutte le sue articolazioni: dalla produzione al consumo; dalla produzione alla riproduzione sociale, all'organizzazione della produzione, alla produzione delle culture di appoggio; quasi a una nuova antropologia. È un'operazione teorica straordinaria quella che Gramsci compie in Americanismo e fordismo. Straordinaria dal punto di vista metodologico, nella misura in cui Gramsci mette a frutto quella feconda ambiguità di cui parlavo. La mette a frutto perché indaga nel profondo e per questo si sente il bisogno di un suo aggiornamento. (...) La grandezza di Gramsci è tale che anche quando il suo pensiero appare maggiormente segnato dall'ideologia del suo tempo, egli recupera comunque la capacità di fuoriuscirne per un'altra via. Grazie all'istanza di emancipazione, di liberazione dei produttori. E questa istanza gli deriva non soltanto dalla sua interpretazione di classe, cioè dall'essere interno alle teorie marxiane della liberazione, ma anche dall'analisi puntuale del processo lavorativo del suo tempo e degli elementi di alienazione, di subordinazione in esso contenuti. E allora Gramsci si rivela uno dei pochi pensatori in grado di coniugare, per dir così, la classe e la persona. Questo motivo fa del pensiero di Gramsci, un pensiero liberatorio. Ed è poi per questo che, malgrado questa mia proposizione critica, ritengo indispensabile studiare la sua opera. Nella sua interezza, come dicevo prima. Tutto ciò non vale soltanto per i Quaderni del carcere, ma più complessivamente. E così concludo, ritornando esattamente al punto di partenza. Io penso che la grande eredità di Gramsci consista proprio in questo essere studioso, dirigente politico, filosofo, pensatore di parte, del movimento operaio delle classe operaia; consista nell'essere alla ricerca dei confini del territorio dell'avversario, a contatto con l'avversario per poterglielo sottrarre, anche attraverso la capacità di interpretarne la verità interna In questo senso, forse, aveva ragione Balibar a dire che Gramsci in-compie il marxismo: nel senso che gli dona una possibilità di sviluppo. A me pare che questa sia la lezione più importante che dobbiamo imparare: in-compiere il marxismo per dargli una possibilità di quegli sviluppi di cui hanno bisogno tutte le donne e gli uomini che, sfruttati e alienati, vivono nel mondo il dominio del capitalismo. |