La Roma nuova e la prima pietra del nuovo San Pietro

Ma a Roma e in Italia Giulio II non era stato soltanto un politico infido e machiavellico, o un papa spadaccino (che, per altro verso, come guerriero, incuteva tutto il rispetto di un audace e geniale uomo d'armi): era anche stato un grandissimo mecenate e l'entusiasta rinvenitore del Laocoonte, del torso d'Ercole, del Tevere (oggi ai Musei Vaticani), dell'Arianna coricata e di altri molti preziosi reperti archeologici. Il trinomio di artisti che maggiormente illustra il suo pontificato è costituito, come tutti sanno, da Raffaello Sanzio, Michelangelo Buonarroti e Donato Bramante. Giulio II non aveva nessuna idiosincrasia per gli umanisti e tantomeno si era prefisso di dar loro l'ostracismo. Anzi, ne onorò alcuni—il Sadoleto e il Bembo in particolare—impegnandoli nel servizio della Curia e dell'università romana. Semplicemente, non era uomo di formazione umanistica, tanto meno da scrittoio o, peggio, da biblioteca. Naturalmente irrequieto, si placava solo con l'azione. E per lui era azione anche sommuovere la topografia di una città, abbattere vecchi monumenti ed erigerne nuovi, o anche solo restaurarli e affrescarli. A patto che tutto ciò non comportasse indugi e attese che gli erano incomprensibili; a patto, anzi, che egli potesse intervenire di continuo con cambiamenti e integrazioni di progetti o, almeno, con vigilanti controlli. Ed è interessante notare come in questi settori dell'arte recuperasse quella sicurezza istintiva di giudizio e di gusto che lo caratterizzava nell'azione politica.

 

Il Tevere

 

Il Laoconte

Perciò sotto di lui Roma assunse più che mai l'aspetto di un cantiere. Non nuovo—date le non poche opere intraprese simultaneamente da qualche suo predecessore—ma certo febbrile. Solo Sisto V, verso la fine del secolo, avrebbe portato a un limite frenetico questo attivismo urbanistico-architettonico. Ma, fatalmente, con papa Giulio ciò presentò anche lati negativi, dovuti in parte alla frenesia degli interventi, in parte alla smania di dare vita al nuovo per il nuovo, senza il dovuto rispetto per quanto preesisteva e, magari, contrastava in qualche modo con le nuove realizzazioni. In materia, s'intende, la responsabilità maggiore non fu di Giulio II, ma degli artisti a cui aveva affidato l'esecuzione di particolari progetti.

Tuttavia, non si può negare né sottovalutare la sua corresponsabilità. Il rullo compressore numero uno di tanti monumenti, vetusti o recenti, fu Donato Bramante, tanto come urbanista quanto, e soprattutto, come progettatore della nuova basilica sampietrina ed esecutore del riassetto del complesso dei Palazzi apostolici del Vaticano. Quanto alla necessità di abbattere la vecchia basilica, era una convinzione che si tramandava dai tempi di Niccolò V. L'edificio costantiniano aveva da tempo superato il millennio e, ovviamente, accusava l'età; inoltre, sembrava che il crollo della parte a sud fosse, per progressivo cedimento del terreno, ormai solo questione di tempo. Spendere in restauri sembrava una prodigalità folle. Occorreva il coraggio d'imbracciare il piccone e di costruire dalle fondamenta un edificio adeguato alla grandezza della Chiesa e, soprattutto, alle speranze per il suo avvenire.

Per quanto cadente, però, il vecchio tempio era pur sempre estremamente affascinante: in un certo senso, proprio la fatiscenza ne accresceva suggestione e venerabilità. Niente, soprattutto, poteva sostituire quella stratificazione di ricordi che, uno dopo l'altro, i secoli avevano depositato sulle cinque navate e sul suo imponente transetto, specie sull'arco trionfale con l'iscrizione di Costantino " Quod duce te mundus surrexit in astra triumphans", dov'era custodita la leggendaria fossa sepolcrale dell'apostolo Pietro. Centinaia di migliaia, anzi milioni di pellegrini avevano riportato nei loro paesi il fascino di quella sacra penombra dorata nell'interno del grande tempio; ma soprattutto nella fantasia di quanti non avevano mai potuto raggiungere Roma si era impressa l'immagine, decantata dai pellegrini, del "paradiso": e cioè l'ampio quadriportico convergente verso il cantaro, formato dalla pigna dantesca e dai pavoni, sormontato dai mosaici sfolgoranti ai primi raggi del sole e arricchito dalle tarsie marmoree, dagli affreschi, dalle tombe d'illustri papi e imperatori (come il sarcofago di porfido rosso di Ottone), dalle cinque grandi porte d'ingresso alla basilica, fra le quali dominava quella centrale, l'"argentea". Abbattere un simile monumento storico sembrava rompere una continuità, osare un sacrilegio, infrangere il simbolo di una delle più rassicuranti eternità terrene. Più che muri fatiscenti, il piccone sembrava dovesse colpire un ideale imponderabile condiviso dalla cristianità di ieri, di oggi e, perché no?, anche di domani.

 

Medaglia Raffigurante il progetto bramantesco per la nuova basilica di S. Pietro

Forse fu anche per questo che papa Giulio, una volta addossatasi la responsabilità dell'impopolare decisione, volle che si procedesse il più rapidamente possibile, senza perdere tempo in inventari e nella scelta delle memorie da salvare. Temeva che, se si fosse accettato un criterio opposto, si sarebbe finito per rimandare all'infinito l'esecuzione. Ciascuno avrebbe avuto la sua pietra da raccomandare, il suo oggetto da difendere: ciò che significava, in un tempio zeppo fino all'inverosimile di ricordi, finire col salvare tutto. Naturalmente qualcosa fu risparmiato, ma più per caso che per proposito: e i frammenti di altari, di cibori ecc., ancora conservati nelle grotte vaticane, sono soltanto briciole a confronto di quanto in ogni caso si sarebbe dovuto tentare di salvare. Persino le tombe degli antichi papi non furono risparmiate, e neppure quelle più recenti, dovute per esempio a un Mino da Fiesole. Anche quella di Niccolò V venne fatta a pezzi. Inoltre, secondo Egidio da Viterbo, più volte il Bramante avrebbe tentato (inutilmente) di ottenere da Giulio II il consenso a spostare la presunta tomba dell'apostolo San Pietro. Ciononostante, bisogna riconoscere che i romani del tempo non ebbero del tutto torto nel bollare il Bramante col soprannome di "Ruinante".

Per suprema ironia tutto ciò fu fatto invano: almeno per quanto riguarda l'ambizioso progetto dell'architetto urbinate che prevedeva un tempio a croce greca dominato al centro da una cupola più imponente di quella del Pantheon e sorretta da una corona di colonne, fiancheggiata da quattro cupole minori, mentre ai quattro angoli esterni dell'edificio dovevano svettare quattro campanili. Un sincretismo che voleva simbolizzate l'incontro delle architetture di tutti i popoli della cristianità. E non doveva limitarsi a essere un prodigio estetico, doveva anche costituire un prodigio d' imponenza: infatti, il nuovo tempio avrebbe dovuto occupare una superficie di ben 24.000 metri quadrati. Questo, almeno, fu il primo progetto bramantesco—il famoso "piano di pergamena" del 1505—seguito poi da altri. Per Giulio II il nuovo tempio avrebbe dovuto essere tale da cancellare il passato, da scoraggiare ogni tentativo futuro. Non possediamo di lui alcuno scritto in proposito, ma sono abbastanza eloquenti le affermazioni sulla cappella Giulia contenute nella bolla del 19 febbraio 1513:

"Noi reputiamo esser nostro dovere di promuovere il culto divino non solo con statuti, ma altresì col buon esempio. Fin da quando eravamo semplice cardinale abbiamo in molti luoghi e specialmente a Roma in parte restaurato e in parte costruito nuove chiese e nuovi conventi. Dopo la nostra elevazione alla Santa Sede abbiamo intrapreso simili opere con tanto maggiore zelo e liberalità, quanto più estesa è la cura a noi affidata per la cristianità. Il saggio Salomone, sebbene non illuminato dalla luce del cristianesimo, non risparmiò alcun sacrificio onde edificare al Signore Iddio una casa degna di lui. Anche i nostri predecessori e innanzi tutto nostro zio Sisto IV si adoperarono a tale intento". E' evidente che papa Giulio si era imposto il compito di superare, ricostruendo la basilica sampietrino non solo l'antico Salomone ma anche Costantino e successori. Ce lo conferma il Vasari in un passo famoso: "Risoluto il papa di dar principio alla grandissima e terribilissima fabbrica di San Pietro, ne fece rovinare la metà e postovi mano con animo che di bellezza, arte, invenzione et ordine, così di grandezza come di ricchezza et ornamento, avesse a passare tutte le fabbriche che erano state fatte in quella città dalla potenza di quella repubblica e dall'arte et ingegno di tanti valorosi maestri".

Proprio per questo non può essere dimenticata la data della posa della prima pietra del monumento: 18 aprile 1506. Una data storica nel senso più vero dell'espressione perché ricorda—oltre all'inizio di quanto per tutta l'età moderna è rimasto per antonomasia simbolo del cattolicesimo romano e del primato papale—anche le conseguenze, fatali per la storia religiosa dell'Occidente; connesse alla concessione della famosa indulgenza ai sostenitori della sua edificazione. Ed è il caso di ricordarla con un testo scarsamente noto, dovuto al maestro delle cerimonie pontificie di Giulio II e di Leone X, ma che in quell'occasione, e naturalmente con suo grande disappunto, si vide sostituito nello stabilire le rubriche per lo svolgimento del rito da un rivale, il vescovo d'Orte. L'ordine, naturalmente, era stato dato dallo stesso Giulio; ma, al momento opportuno, lo svolgimento della funzione, fissata per le nove di sera (almeno secondo Giacomo Grimaldi), risultò troppo lungo ed elaborato. Giulio II, tutt'altro che paziente per natura, non tardò a innervosirsi e, a un certo punto, cominciò ad accorciare tutto, oremus, benedizioni, litanie: anzi, giunse a ridurre i salmi a un solo versetto. Ciò avrebbe dovuto dar piena soddisfazione al De Grassis, che, invece, non se ne accontentò e nel suo diario si fece portavoce della diceria secondo la quale il suo rivale, "uomo rapace", avrebbe sottratto una delle dodici medaglie durante il rito.

Ma ecco il testo del documento: "Sabato in Albis MDVI il papa ha detto di voler mettere la prima pietra, proprio oggi, a una delle quattro colonne che dovranno sostenere il coro, ossia il ciborio della basilica del principe degli Apostoli. Terminata la Messa, col solito ordine, tutti andarono dall'altare verso l'Egitto (la chiesa degli Abissini), attraverso la cappella di Santa Petronilla ch'era dove oggi è l'oratorio dei SS. Simone e Giuda. Era stata approntata una strada con tavole e palanche per permettere la discesa fino alla base della colonna. Ma, attesa la larghezza e la profondità, molti, specialmente il papa, temevano di far un capitombolo. Perciò il papa a quelli che stavano sull'orlo della fabbrica gridava che si togliessero di Iì... Nessun cardinale scese con il papa all'infuori dei due cardinali diaconi assistenti. E con noi si calarono giù alcuni muratori e un orefice che recava dodici monete nuove ovverosia medaglie larghe come un'ostia da messa e di spessore come la lama di un temperino comune. Da una parte della medaglia c'era la immagine di papa Giulio con su la scritta: 'Julius Lig. Pont. Max. Anno sui pont. II MDVI' e dall'altra c'era il disegno del tempio o edificio ch'egli voleva fabbricare con questa scritta: 'Instauratio Bas. Apost. Petri et Pauli per Julium II Pont. Max.' e sotto si leggeva questa parola 'Vaticanus'. Due di queste monete erano d'oro... e le altre di similoro e si misero in una scodella di vile terracotta. La pietra che fu posta era di. marmo bianco larga due palmi comuni e lunga quattro e spessa quasi 25 dita. Da una parte l'epigrafe: 'Aedem Apost. in Vaticano vetustate et situ squalentem e fundamentis restituit Julius Lig. Pont.Max. Anno MDVI'. Dall'altra non c'era niente, e questa pietra non fu posta coricata ma diritta aderente alla parete...''.

A cerimonia finita, e risalito nella parte restante della vecchia basilica, Giulio II proclamò la tristemente famosa indulgenza. Quel mattino vi aveva ascoltato, circondato da 33 cardinali, l'ultima messa, celebrata nel vecchio tempio dal cardinal Soderini. Gli scavi erano avviati da tempo quando cominciarono le prime difficoltà, data la friabilità del terreno. Comunque, ben presto, attorno alla vecchia basilica, che veniva abbattuta un poco alla volta per assicurare la continuazione dell'ufficiatura, cominciò ad accumularsi il materiale destinato al nuovo edificio: calce che proveniva da Monte Celio, pozzolana dall'agro romano, travertino dai dintorni di Tivoli, marmo da Carrara e altri materiali da molto più lontano, come lo stagno per le coperture che veniva fatto venire dall'Inghilterra .

 

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