Con la triade Bramante, Mlchelangelo e Raffaello

Bramante non fu impegnato da Giulio II soltanto per la fabbricazione di San Pietro. Nel 1505, aveva edificato sul Gianicolo—là dove allora si credeva che fosse stato crocifisso San Pietro — un tempietto circolare. Incaricato di vari lavori di riassetto in Vaticano, intervenne nel Belvedere, nel cortile di San Damaso, nel chiostro di Santa Maria della Pace e in altri monumenti come la tribuna di Santa Maria del Popolo, il palazzo dei tribunali, la casa di Raffaello ecc. In particolare Giulio II gli commissionò il riassetto urbanistico di alcune zone della città, dove parecchie strade vennero rettificate e allargate. Le più famose sono via della Lungara e quella che ancora oggi si chiama via Giulia.

Il Bramante fu certamente l'artista che meglio seppe convivere (lo seguì, nella morte, un anno dopo) con un papa dal difficile carattere come Giulio II, tanto da esercitare su Roma, con lui, una specie di dittatura artistica. E ciò non può meravigliare, a prescindere dal fatto che a sua volta egli era scostante e antipatico, oltre che moralmente sospetto. In realtà, Bramante univa un'estrema arrendevolezza nell'adeguarsi alle richieste dei suoi committenti a una straordinaria genialità e fertilità di idee; inoltre, era estremamente sollecito nell'esecuzione dei lavori: ciò era tutto (o quasi tutto) quello che un uomo impaziente e dispotico come Giulio II poteva desiderare. Certo, egli non poteva rendersi conto che, sul piano dell'arte, il Bramante era un artista di crisi nel quale, com'è stato giustamente detto, "classicismo, manierismo e barocco sono compresenti" in una forma di evasione e di deviazione che costituisce "una rinuncia a portare avanti il messaggio di Brunelleschi e dell'Alberti". Ma più confusamente intuì che il Bramante, con le sue realizzazioni artistiche, personificava come nessun altro il suo tempo perché la sua opera era uno spettacolo, un allestimento "che voleva esibire un'illusoria stabilità, una sicurezza apparente ma che esplicitava, insieme, una realtà minata da travagli interni, minacciata da imminenti catastrofi; e, pur impegnata in un impulso di espansione, fatto di bluff e di colpi di mano, di viltà e di feste, di celebrazioni trionfali, di interessi culturali, di operazioni politico-finanziarie e di astuzie diplomatiche. Un mondo nel quale la finzione era fondamentale elemento costitutivo della realtà". Quello che soprattutto attirò Giulio II verso il Bramante fu la sua tensione verso "il tempo nuovo", lo spasimo di voler ricostruire tutto con "nuova proporzione", tagliando corto con ogni compromesso col passato, "modellando nello spazio" la Roma dei secoli futuri: immense cupole sospese, simili agli archi dell'iride nel cielo, colonne e capitelli possenti ecc.

 

Tempietto del Bramante

 

Via Giulia

Fatalmente diversi, e cioè esplosivi, burrascosi, dovevano invece essere (e lo furono) i rapporti di Giulio con Michelangelo, incontrato per la prima volta nel 1505 in occasione dell'insediamento della Pietà nella cappella di Santa Petronilla nella basilica vaticana. Quella Pietà, Michelangelo l'aveva realizzata sei anni addietro (e cioè verso la fine del suo primo soggiorno romano: giugno 1496-inizio del 1500), tra i 23 e i 24 anni, per il cardinale Giovanni de Bilhères di Lagraulas; ma allora il Della Rovere era assente dalla città per la sua opposizione ad Alessandro Borgia. Un filo, questo dell'opposizione al Borgia, che legava già due grandi e che per Michelangelo era stato tessuto addirittura dallo stesso Savonarola, di cui il fiorentino era stato per anni, dai 16 in poi, un ascoltatore fedele, tanto da non dimenticarne più il timbro della voce." Non fu, comunque, questa comune ostilità a legare il grande papa ligure al gigantesco artista fiorentino, ma qualcosa di molto più profondo e importante. Infatti, Giulio fu colpito dal modo con cui il giovane autore della Pietà aveva scolpito la morte: un modo sereno e vittorioso nello stesso tempo, pacato e trionfale, il modo ideale, a suo giudizio, per celebrare il trionfo imperituro di un papa. Fatto è che commissionò subito al Buonarroti il progetto del proprio sepolcro, da realizzarsi entro 5 anni.

 

Fontana in Via Giulia

 

L'arco Settimiano in Via della Lungara

 

Stemma di Giulio Della Rovere

sul Palazzo della Cancelleria

Giulio II era, allora (marzo del 1505), papa da appena un anno e mezzo e che già pensasse a immortalarsi nella sepoltura può stupire soltanto chi ignora l'importanza che gli uomini del Rinascimento davano non solo a una "bella" morte, ma anche alla glorificazione personale attraverso i monumenti funebri (del resto, si è visto come il Della Rovere si sia preoccupato di proteggere la propria fine dagli sciacalli che si erano accaniti su tanti suoi predecessori). E, se per le sue gesta da vivo aveva cercato l'immortalità di statue che le ricordassero e tramandassero alla storia, niente di più logico che pensasse alla glorificazione globale della sua opera e della sua persona. Che poi nel papa, di fronte alla morte, ci fosse soprattutto un'esaltazione naturalistica, se non pagana, e nel giovane artista, invece, soprattutto un dramma spirituale ("Non nasce in me pensiero che non vi sia dentro sculpita la morte"), costituisce una cruda ironia per l'inversione dei valori nelle due personalità. Ma il contrasto non elimina il punto di convergenza, l'importanza e la fecondità dell'incontro. Basti dire che nella fantasia di Michelangelo il monumento richiestogli divenne qualcosa di favoloso: l'inizio di quella " tragedia della sepoltura" che doveva durare all'incirca 40 anni, fino al 1543. Subito egli pensò a qualcosa che avrebbe dovuto far sbiadire la memoria delle sepolture faraoniche e dei mausolei cesarei; e, da parte sua, il papa si esaltò fino al punto da decidere che, per un monumento come quello, destinato inizialmente a sorgere nel costruendo presbiterio del San Pietro rosselliniano, l'antica basilica vaticana era inadeguata, incapace di contenerlo e di intonarvisi: pertanto doveva necessariamente venire abbattuta e sostituita con una nuova, capace di ospitarlo degnamente (sembra in una delle absidi dei suoi capicroce).

S. Maria di Loreto

Ma era destino che proprio con Giulio si aprisse il primo atto di quella "tragedia". Infatti, appena avuto l'incarico, Michelangelo si era recato nelle cave di Carrara a commissionare marmo per 2 mila quintali: aveva finito per restarvi circa 8 mesi percorrendone ogni meandro per assicurarsi il materiale più adatto, il migliore, e per sovraintendere al suo taglio. Una volta tornato a Roma, però, trovò che il pattuito anticipo mensile di 100 ducati gli era stato sospeso e che le sue ripetute rimostranze non avevano eco. Pertanto, chiese udienza a Giulio qualche giorno precedente la posa della prima pietra del nuovo San Pietro (aprile 1506). Vistasela negare, esplose in uno dei suoi proverbiali scatti d'ira e di punto in bianco partì per Firenze. Invano vari messi pontifici cercarono di convincerlo a ritornare a Roma. Soltanto nel novembre successivo, e per interposizione della Signoria, accettò di incontrarsi col papa a Bologna: e fu uno degli incontri più originali, stupefacenti e imprevedibili che si possano immaginare. Il cardinale Soderini, infatti, volendo fungere da pacificatore e, soprattutto, propiziarsi il papa di cui ben conosceva il carattere, spiegò il comportamento di Michelangelo come quello di uno zotico che non sa nulla al di fuori della propria arte. Zotico e ignorante, sbottò Giulio II, era invece lui, il Soderini; e lo licenziò bruscamente, dimostrandosi poi di una insospettata affabilità verso Michelangelo, cui commissionò la famosa statua in bronzo da collocare sulla facciata di San Petronio.

Quando questa fu pronta e inaugurata (1508), Giulio II ebbe una commissione ben più eccitante e grandiosa per l'artista fiorentino: l'incarico di dipingere l'intero soffitto della Cappella Sistina. Le pareti erano già state istoriate dai grandi maestri del Quattrocento che vi avevano rappresentato, a riscontro, le storie di Mosè e di Cristo. Michelangelo, perciò, pensò di rappresentarvi, da una parte, tutti i grandi preludi cosmici dalla creazione al peccato e al diluvio e, dall'altra, le promesse della futura redenzione personificate dai profeti e dalle sibille oltre che dalle vicende dell'intera stirpe di Davide. Un poema eccezionale in cui riunì ben 340 figure e che realizzò quasi completamente da solo perché scontento degli aiuti fatti venire da Firenze. Un lavoro insonne che— si può dire—non conobbe tregua se non in occasione delle frequenti e impazienti visite del papa, il quale soleva raggiungerlo sulle altissime impalcature volanti attraverso le normali scale a pioli fino sul ponte terminale. Secondo l'umore, Giulio II era entusiasta del lavoro, oppure aggrediva l'artista sollecitandolo a terminare l'opera: in questo caso, quasi sempre la visita si trasformava in uno scontro e terminava nei più fieri e pittoreschi diverbi. Una delle ultime date previste per la fine dell'impresa fu la festa dell'Assunta del 1512, ma il soffitto fu cosa compiuta solo per la successiva festa d'Ognissanti.

 

Cappella Sistina: Giudizio Universale

Nonostante— anzi proprio per quei fieri e pittoreschi diverbi—la volta della Sistina fu creata all'unisono (si può ben dire) da due spiriti titanici che si erano inaspettatamente scambiate le parti: Michelangelo, con un rovello interiore che lo incalzava come un aculeo nell'immaginazione e nell'esecuzione dei suoi grandi temi, e Giulio II che, sfiorando appena la potente drammaticità di quegli enigmi soprannaturali, non vedeva nella loro realizzazione che una trasposizione delle lotte politiche e religiose in cui gli era così caro lasciarsi travolgere (vincitore o vinto, poco importava). Naturale e soprannaturale, umano e divino, i due poli di quelle creazioni artistiche erano così, ancor prima, i poli dei rispettivi ispiratori che si attiravano e respingevano con la fatalità di due forze cosmiche sentendosi sempre vicini e necessari l'uno all'altro quanto più dovevano allontanarsi e contraddirsi per meglio riconciliarsi.

 

Volta della Cappella Sistina

Niente di simile nei rapporti di Giulio II con Raffaello, venuto a Roma a soli 25 anni e già famoso nel settembre del 1508. Era stato presentato dal Bramante —che gli era un po' parente e, soprattutto, era molto amico del suo maestro, il Perugino —come colui che meglio d'ogni altro avrebbe potuto affrescare la sala della Segnatura e quella adiacente e aveva, quindi, ottenuto l'incarico senza difficoltà. I temi degli affreschi erano stati programmati da alcuni umanisti, tra cui Baldassarre Castiglione, che avevano scelto i più ardui e astratti: gli aspetti naturali e soprannaturali del Vero, del Buono e del Bello; in altre parole teologia e filosofia, virtù e giustizia, musica e poesia. Le rispettive figure allegoriche furono situate nel soffitto sotto forma di medaglioni: sulle pareti corrispondenti Raffaello dipinse le grandi scene della Disputa del S. Sacramento e della Scuola d'Atene, di Gregorio IX che consegna le Decretali e di Giustiniano imperatore che consegna le pandette, nonché il Parnaso, seguite, nella stanza attigua, dalla Cacciata di Eliodoro dal tempio e dalla Messa di Bolsena. L'opera superò ogni aspettativa e il papa fu il primo ad apprezzarla, anche se la bellezza olimpica dell'esecuzione era, per così dire, fissata in una staticità fuori dal tempo, come si addiceva del resto alla tradizione e all'illustrazione di concetti astratti e di simboli. Raffaello aveva toccato senz'altro il limite nel dare corpo a un nominalismo seducente quanto inafferrabile, riuscendo per di più a storicizzare, nel rapporto dialettico tra naturale e soprannaturale, il superamento decantato della fede fra i tempi precristiani e quelli successivi alla redenzione. Ma per questo i temi non avevano perduto nulla della loro fondamentale astrazione e quella placidità contemplativa, quella sicurezza trionfante e definitiva era decisamente lontana tanto dalla drammaticità della storia in azione di Michelangelo quanto da quella di Giulio. Pertanto, col giovane urbinate il papa scopriva un'arte di valore certamente eccezionale, di una indiscutibile bellezza ma, tutto sommato, fredda e siderea, troppo lontana dalla sua natura in continua ebollizione e movimento. Di qui la sua più naturale convivenza con Bramante, dalla genialità dispersiva e inesauribile, ma autentico nella sua meschinità di uomo pronto a ogni compromesso pur di carpire ordinazioni, di essere onnipossente, di cacciare nell'ombra ogni rivale, di trasformarsi nell'arbitro di ogni iniziativa artistica in Roma e nello Stato della Chiesa; e soprattutto con Michelangelo, il suo grande opposto, l'unico capace di dargli il brivido dei grandi misteri e dei grandi conforti dell'umano e del divino. L'unico, anche, da cui si sentisse realmente compreso.

Stanza di Eliodoro: Giulio II durante la messa di Bolsena

 

Stanza della Segnatura: La scuola d'Atene

 

Stanza dell'incendio di Borgo

Giulio II che non vide il mausoleo destinatogli dal Buonarroti—idea che probabilmente finse di accantonare dietro il paravento di prevalenti ragioni concrete, come la precedenza da dare ai lavori per la nuova basilica e le necessità finanziarie della guerra, perché convintosi che la sua vera realizzazione non poteva aver luogo se non dopo la sua morte—non vide neppure il poderoso Mosè in cui praticamente l'artista lo ha effigiato e immortalato, anche se nello spirito e nel carattere più che nel fisico. Il Mosè michelangiolesco ha certamente, più che il suo modello, un'aureola soprannaturale che ricorda il profeta e, in particolare, l'uomo privilegiato che nel roveto ardente ha visto e, per così dire, toccato il mistero di Dio. Ma ha quel "più" solo per il minimo indispensabile, come del resto l'autorità pontificale doveva in qualche modo trasparire anche dal volto e dal comportamento di papa Della Rovere. Il Mosè è, soprattutto, l'immagine del condottiero, l'uomo che per l'autorità ricoperta viene effigiato seduto, ma con un ginocchio già proteso, pronto ad alzarsi in tutta la sua maestà per impartire ordini e a dare il via all'azione. Un condottiero sicuro di se e ancora calmo, ma pronto a trasformarsi in un'energia frustrante ed eccitante, entusiasta e collerica insieme, per trascinare tutti nell'impeto della conquista. Anche la scelta della personificazione simbolica non è casuale: è l'esaltazione ma, insieme, il giusto ridimensionamento dell'uomo ammirato ma non idolatrato. Per un seguace del Savonarola come Michelangelo, per un inguaribile " piagnone " come il creatore del Giudizio universale, Giulio II non poteva costituire l'ideale come pontefice. Egli non era certo l'ignominioso Alessandro Borgia, ma la sua scarsa sensibilità spirituale lo poneva in un limbo quasi precristiano e la sua azione essenzialmente temporalistica lo tratteneva al di qua dell'autentica terra promessa dei veri seguaci di Cristo. Di qui la scelta del condottiero Mosè per illustrarlo, ma anche per giudicarlo.

Gli storici si sono sbizzarriti nel qualificare un uomo e un pontificato come quelli di Giulio II, ma in genere, proprio perché dominati dall'indiscutibile e prepotente fascino della sua figura, hanno teso a giustificarlo. In fondo, non si può discordare dal Gregorovius quando dice che, sulla cattedra di San Pietro, Giulio II "fu uno dei più profani e antisacerdotali tra i pontefici, appunto perché fu uno dei principi più eminenti del suo tempo". Certo, quell' "antisacerdotale " è eccessivo. Semmai, Giulio II fu "asacerdotale": e proprio per la ragione da lui addotta, che, tuttavia, non può trasformarsi in giustificazione. Ci sono spiegazioni che giustificano; altre che condannano, sia pure in modi e in misure diversi. Certo, come ha scritto Pastor, papa Della Rovere "ci sta innanzi come uno dei più poderosi pontefici dopo Innocenzo III, per quanto non fosse un ideale di papa" per le sue tendenze esclusivamente politiche e per la sua passionalità e intemperanza. Ma non è lecito aggiungere subito dopo che "forse richiedevasi appunto un tale personaggio per diventare il salvatore del papato in un'epoca di prepotenza, quale era il principio del secolo XVI", giacché, in definitiva, Giulio II salvò il papato dallo "scendere ancora una volta nelle catacombe" e Roma, secondo Rohrbacher, dal "convertirsi in un'Avignone con tutte le tristi conseguenze che quest'ultima ha portato alla Chiesa". Un non-cattolico potrebbe rispondere che proprio nella fine del papato si sarebbe verificata la salvezza della Chiesa, ma anche un cattolico potrebbe dissentire da così facili giudizi, come ne ha dissentito Duhr: "Non è questa un'apologia eccessiva? L'indipendenza del papa e il consolidamento dello Stato pontificio non sono due cose diverse? Non sarebbe stato onorevole per il papato e salutare per la Chiesa un rinnovato periodo delle catacombe, anziché il secolo della vergogna dei papi del rinascimento, le molte considerazioni politiche, gli alterchi nei conclavi e i tristi nepotismi?". Ci sarebbe, semmai, da chiedersi se—una volta posto il principio dell'autorità pontificia e giustificato per giunta il suo sdoppiamento in suprema autorità religiosa e civile (sia pure nell'orbita di un modesto Stato)—si possano evitare interpretazioni del papato come quelle deplorate del periodo del Rinascimento (e non solo di esso).

Lo storico, comunque, non deve guardare soltanto al "dover essere" delle istituzioni di cui scrive, ma anche al loro essere state in concreto, soprattutto per rendersi conto degli sviluppi successivi. Ora, dopo quanto si è ammesso sui limiti religiosi e spirituali di papa Giulio II—al quale, d'altra parte, si deve, sia pure per necessità polemica, la riunione di uno dei più notevoli concili ecumenici della Chiesa occidentale—, non si può non rilevare che da lui il papato è stato rafforzato in modo notevole (anzi, decisivo) sia all'interno che all'esterno della Chiesa e nel suo duplice aspetto di istituto ecclesiastico e di istituto statale. Basterebbe ricordare il rinnovo della scomunica ai violatori del libero esercizio del potere papale e a chi avesse osato fare appello al concilio contro il papa: due decisioni non soltanto autorevolmente "bollate", ma tradotte in vittoriosa attuazione contro il concilio pisano e i suoi ispiratori conciliaristi; basterebbe ricordare la bolla stessa contro la simonia nelle elezioni papali, dichiarate nel caso nulle, insieme al decadere da ogni dignità e beneficio di tutti i responsabili.

Giulio II ribaldì anche il carattere internazionale del papato in quanto legislatore della cristianità, stabilendo sanzioni contro il presunto diritto di spoglio dei naufraghi e tentando di rilanciare la crociata antiturca. Ma è fuori di dubbio che il suo impegno primario fu volto alla restaurazione della potenza politico-territoriale del papato, e cioè al consolidamento, sia bellico che amministrativo, dello Stato della Chiesa. "Questa restaurazione dello Stato pontificio Giulio II la concepì—come è stato ben scritto—secondo l'esempio delle grandi monarchie d'Occidente: all'interno come reintegrazione dell'autorità del principe sui sudditi, ceti e magistratura, e sui territori abusivamente occupati da altri; all'esterno come inserzione attiva nelle rivalità dei potenti per salvaguardare lo Stato pontificio e gli interessi superiori del papato. I potenti baroni di Roma e della Campania furono ridotti alla disciplina sia con parentadi sia con manifestazioni di forza; la difesa personale del papa, ed indirettamente la tutela suprema dell'ordine pubblico in casi di emergenza, fu affidata alla Guardia svizzera (1506)—novità, questa, assoluta—; le magistrature della città e dello Stato furono sottoposte a controllo amministrativo; e pure riordinata venne l'amministrazione della giustizia. Alla stessa direttiva tipicamente moderna dello Stato forte, con amministrazione accentrata e pianificata, appaiono ispirati il riordino delle finanze con una più realistica ripartizione dei tributi ed una più efficiente esazione, la reintegrazione del tesoro papale spogliato dalle prodigalità di Alessandro VI, il rigido controllo di entrate e spese, la stessa riforma monetaria che introdusse le monete d'argento (i giulii!) sia pur attingendo largamente alle entrate straordinarie (le eredità dei cardinali e degli alti dignitari che fossero deceduti in Curia, i proventi delle confische, ma soprattutto la sconcertante vendita degli uffici in luogo del loro appalto e la pubblicazione di indulgenze e giubilei), per alimentare guerre e opere mecenatesche. Agricoltura ed industria (specie del l'allume) ebbero appoggio, come la distribuzione del grano fu assicurata dalla creazione di 114 presidenti dell'Annona". E si devono aggiungere i numerosi provvedimenti presi da Giulio II per garantire la sicurezza dello Stato e dei cittadini contro ladri e pirati, violatori della giustizia di ogni genere, assassini e perturbatori della quiete pubblica.

 

Monumento Funebre di Giulio II

Non tutti gli obbiettivi furono — come è logico—raggiunti. La morte sorprese Giulio II quando la sicurezza del suo Stato, la completezza dei suoi confini e, soprattutto, la situazione generale della penisola non erano ancora pienamente consolidate. Se Luigi XII si era deciso a venire a trattative con lui, restava, tuttavia, la rivalità tra veneziani e imperiali per Storia dei Papi e del Papato l'attribuzione dei territori del Friuli e l'occupazione da parte dei secondi di Vicenza; restava la richiesta degli svizzeri che approfittavano dell'evacuazione della Lombardia da parte dei francesi per compiervi estorsioni; restava, infine, la spina del duca di Ferrara che il papa non era riuscito a punire come avrebbe desiderato. Nel congresso di Mantova, tenuto dai partecipanti alla Lega santa nell'agosto 1512, si era concordata la restituzione di Firenze ai Medici (per punire la Signoria sia a causa dei suoi rapporti con la Francia sia per aver ospitato il concilio scismatico pisano) e quella di Milano a Massimiliano Sforza; si erano soddisfatte alcune richieste degli imperiali che avevano portato al riavvicinamento dei veneziani ai francesi; infine, il papa era stato costretto a rinunciare a punire gli estensi. Ma il meccanismo ormai messo in moto avrebbe potuto raggiungere le mete stabilite, tanto più dopo il successo del concilio Lateranense V, che aveva visto il netto vantaggio del pontefice sui francesi attraverso l'abolizione della prammatica sanzione di Bourges e il riconoscimento del papa da parte dell'imperatore Massimiliano. Ma tutto ormai dipendeva dal nuovo pontefice.

 

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